Champollion, i geroglifici e la Stele di Rosetta.
Champollion,
congedato come professore, proscritto come alto traditore, lavora instancabilmente fra Parigi e
Grenoble. Un processo per alto tradimento lo
minaccia. Nel luglio 1821 lascia
come fuggiasco la città dove è stato scolaro e accademico, e un anno
dopo pubblica un lavoro che contiene le basi della decifrazione.
I geroglifici erano
passati sotto gli occhi di tutto il mondo, erano
stati l’oggetto degli scritti di una lunga serie di autori antichi, il
medioevo occidentale ne aveva tentate sempre nuove interpretazioni e, infine,
dopo la spedizione di Napoleone, erano comparsi in numerose copie sulle
scrivanie di tanti scienziati. Eppure nessuno era riuscito a decifrarli, non
tanto per generale incapacità ed incompetenza, ma piuttosto perché tutti
furono sviati dalla falsa guida di un singolo.
Erodoto,
Strabone e Diodoro avevano compiuto viaggi in Egitto, e accennarono ai
geroglifici come ad un’incomprensibile
scrittura figurata. Ma solo Orapollo,
nel IV d. C., aveva lasciato una descrizione particolareggiata del loro
significato. È naturale che in mancanza di qualsiasi altro punto di
appoggio lo scritto di Orapollo venisse considerato il punto di partenza per
ogni esame in proposito. Orapollo parlava dei geroglifici come di una
scrittura figurata, e cosí, per vari secoli, ogni spiegazione cercò nelle figure un valore simbolico. La
fantasia dei profani si sbrigliava, ma gli scienziati erano ridotti alla
disperazione.
Quando Champollion
ebbe decifrato i geroglifici, si poté riconoscere quanto ci fosse di vero in
Orapollo e quale fosse stato lo sviluppo di
quella scrittura dal chiaro simbolismo primitivo, dove una linea
ondulata rappresentava l’acqua, una linea retta la casa, una bandiera la divinità. L’applicazione di questo simbolismo
anche alle iscrizioni piú tarde aveva sempre portato fuori strada.
E le strade
sbagliate erano ricche di avventure. Il gesuita Athanasius Kircher, uomo
ingegnoso (costruttore fra l’altro della lanterna magica), pubblicò dal 1650
al 1654 a Roma quattro volumi con le traduzioni dei geroglifici, di cui non una era giusta, neppure di lontano! Il
gruppo di segni «autocratore », appellativo del- l’imperatore romano, fu da lui cosí interpretato: «Osiride è il creatore della fecondità e di tutta la
vegetazione, la cui forza generante il sacro Mophta conduce nel suo
regno dal cielo!»
Se non altro, però, egli aveva riconosciuto il valore dello studio del copto, quale forma tardissima della
lingua egizia, valore che era negato da dozzine di altri studiosi.
Cento anni dopo, De
Guignes dichiarava all’Accademia parigina delle Iscrizioni, in base a un
confronto con i geroglifici, che i Cinesi
erano coloni egizi. Almeno (e bisogna usare per ogni studioso questa
pregiudiziale, poiché ciascuno di essi trovò almeno una traccia giusta), egli aveva letto bene il nome del re
egizio «Menes». Un avversario gli cambiò subito la lettura in «Manouph»,
e Voltaire, il piú velenoso glossatore del tempo, ne trasse spunto per il suo
attacco contro gli etimologisti, «per cui
le vocali non contano e le consonanti hanno
poca importanza». (D’altra parte, alcuni studiosi inglesi del medesimo
periodo, in opposizione all’ultima teoria
citata, facevano provenire gli Egizi dalla Cina).
La
scoperta della stele trilingue di Rosetta avrebbe dovuto porre fine a ipotesi
cosí strampalate. Ma avven‑
ne il contrario. La via della soluzione sembrava cosí piana che anche dei profani osarono avventurarvisi. Un
anonimo di Dresda compitò dal breve frammento geroglifico della rosettana
l’intero testo greco. Un arabo, Ahmed Bin Abubekr, «svelò» un testo, che Hammer-Purgstall,
altrimenti conosciuto come un serio orientalista, non esitò a tradurre; un
ignoto parigino riconobbe nell’iscrizione di un tempio di Dendera il centesimo
salmo, e a Ginevra apparve la versione delle iscrizioni
del cosiddetto «obelisco pamfilico », che sarebbero state una
«relazione della vittoria dei buoni sui cattivi scritta quattromila anni
avanti Cristo».
La fantasia si
sbrigliò e si accoppiò a una straordinaria arroganza e stupidità nel conte
Palin, che sosteneva di aver riconosciuto a prima vista il significato della
rosettana. Appoggiandosi a Orapollo, a dottrine pitagoriche e alla Cabala,
egli sciolse l’enigma con tale rapidità da giungere in una sola notte al
risultato che pubblicò otto giorni dopo. Egli affermava di essere esente,
proprio per la celerità del suo lavoro, «da errori sistematici che possono
derivare unicamente da una riflessione troppo prolungata!»
Champollion
restava impavido in mezzo al fuoco pirotecnico di tutte queste decifrazioni,
classificando, confrontando, sperimentando, e raggiungendo a poco a poco la
soluzione. E gli toccò anche sentire che l’abate Tandeau de St-Nicolas aveva dimostrato in una sua brochure che
i geroglifici non erano altro che un motivo decorativo! Senza lasciarsi
ingannare, Champollion scrive in una lettera del 1815 a proposito
di Orapollo: «Quest’opera viene chiamata Hiéroglyphica,
ma essa non fornisce per nulla l’interpretazione di quelli che noi
chiamiamo geroglifici, bensí delle sculture simboliche sacre, cioè dei simboli
egizi che sono qualcosa di ben diverso dai geroglifici. Questo ch’io dico va contro
l’opinione generale, ma la prova si può trovare sui monumenti egizi. Nelle
scene emblematiche si vedono le scul‑
ture
sacre di cui parla Orapollo, come il serpente che si morde la coda, l’avvoltoio
nella posizione da lui descritta, la
pioggia celeste, l’uomo senza testa, la colomba con la foglia di alloro…;
immagini tutte che non si ritrovano nei veri geroglifici!»
Si volle scorgere
in quegli anni nei geroglifici il sistema di un epicureismo mistico, dottrine
cabalistiche, astrologiche e gnostiche, editti agricoli, commerciali, tecnico-amministrativi per la vita pratica; vi si
leggevano passi della Bibbia, e perfino di letteratura prediluviana,
dissertazioni in caldeo, ebraico e cinese, come se, osserva Champollion, «gli
Egizi non avessero posseduto una lingua propria in cui esprimersi».
Tutti questi tentativi di interpretazione si fondavano piú o meno su Orapollo. C’era solo una via da seguire, che conduceva contro Orapollo; e fu quella che
seguí Champollion.
Difficilmente si
possono fissare cronologicamente le grandi scoperte dello spirito. Esse sono il
risultato di innumerevoli passi, di
allenamenti del pensiero che durano anni, su di un unico problema,
punto di incrocio del noto con l’ignoto, dell’applicazione e della fantasia. E
raramente la soluzione sopraggiunge con la rapidità del fulmine.
Le
grandi scoperte perdono qualcosa della loro grandezza, quando ci si occupa
della loro preistoria. All’ultimo arrivato
che già conosce la chiave, gli errori appaiono balordi, le false
interpretazioni evidenti, i problemi facili. È difficile immaginare oggi cosa
significasse per Champollion sostituire poco per volta la sua opinione
personale a quella di Orapollo, su cui giurava tutto il mondo dei dotti. Bisogna d’altronde ricordare che sia
gli eruditi che il pubblico non avevano di Orapollo la stessa opinione che i
loro colleghi medievali si erano fatta di Aristotele o i teologi dei padri
della Chiesa; essi cioè non tenevano fermo alla sua testimonianza perché gli attribuissero
un’assoluta autorità in materia; ma arrivavano ugualmente, dopo tutti i loro
studi, alla conclusione che i geroglifici non potevano essere altro che una
scrittura figurativa! E l’apparenza si alleava, a danno dell’indagine, con
un’affermazione autorevole; poiché non solo Orapollo era piú vicino ai geroglifici di un millennio e mezzo, ma affermava
altresí quello che tutti potevano vedere: che c’erano figure, figure e
ancora figure.
E nel momento in
cui venne d’un tratto in mente a Champollion che i geroglifici potessero essere «lettere» (o piú esattamente «segni
fonetici»; la sua prima formulazione suona «... senza essere strettamente
alfabetici, tuttavia fonetici»), allora
soltanto si compí quella svolta e quella diversione da Orapollo che
doveva condurre alla decifrazione definitiva. Si può ancora, dopo una vita come
la sua, dopo le fatiche che egli aveva sostenuto, parlare di un caso, o di un momento fortunato? Quando l’idea
venne a Champollion per la prima volta, egli la respinse. Un giorno egli
identificò il segno del serpente giacente con la
«f », ma escluse l’ipotesi come inammissibile. Quando molti altri, gli
scandinavi Zoëga e Akerblad, il francese De Sacy e primo fra tutti l’inglese
Thomas Young riconobbero che la parte
demotica della stele di Rosetta era «scrittura a base di lettere»,
riuscí loro di offrire soluzioni parziali. Ma essi non progredirono nella ricerca; si arrestarono o ritrattarono quanto avevano
detto, e De Sacy dichiarò la sua
completa capitolazione di fronte ai
geroglifici che rimanevano «intatti come l’arca santa».
Lo
stesso Thomas Young, che aveva ottenuto notevoli risultati nella decifrazione
della parte demotica, leggendola
«foneticamente», si ritrattò nel 1818, quando nel decifrare il nome di
Tolomeo scompose di nuovo arbitrariamente i
segni in lettere e valori monosillabici e bisillabici.
E appunto qui si rivelò la differenza fra i due metodi e i due risultati. Young, cultore di scienze naturali,
uomo indubbiamente geniale ma filologicamente impreparato, lavorava schematicamente valendosi di confronti e ingegnose interpolazioni, e riuscí a decifrare
solo poche parole; piú tardi
Champollion doveva confermare le sue intuizioni riconoscendo giusta
l’interpretazione di 76 dei 221
gruppi simbolici della sua lista. Champollion invece possedeva piú di
una dozzina di lingue antiche e piú di
chiunque altro era vicino alla lingua dell’antico Egitto per la sua
conoscenza del copto; egli non interpretò come
lo Young singole parole o lettere, ma riconobbe il sistema. Non si limitò a interpretare la scrittura, ma la rese leggibile e insegnabile. E solo dopo aver
individuato nelle sue linee principali questo sistema, Champollion
poté applicare con esito veramente fecondo il procedimento che già da tempo si
era affacciato come semplice congettura: quello cioè di cominciare la decifrazione
dai nomi dei re.
E perché dai nomi
dei re? Anche questo, oggi, sembra semplice
e ovvio. L’iscrizione di Rosetta, come già si è detto, conteneva la
menzione dei particolari onori che i sacerdoti avevano concesso al re Tolomeo
Epifane. Il testo greco, immediatamente leggibile, aveva gettato piena luce
sul suo significato. Ora, dove nell’iscrizione
geroglifica si poteva supporre che fosse il nome del re, si trovava un gruppo di segni chiusi in un
anello ovale, chiamato abitualmente cartouche, cartiglio.
Non era difficile
supporre che questo cartiglio fosse un segno particolare di preminenza e
indicasse il nome del re. E non sembra forse l’idea di uno scolaro intelligente
quella di ordinare le lettere del nome di Tolomeo sotto i corrispondenti geroglifici, in modo da identificare otto
segni con otto lettere?
Tutte le
grandi idee, considerate retrospettivamente, appaiono semplici. Con questa
Champollion doveva
rompere
con la tradizione di Orapollo, che per quattordici secoli aveva contribuito a confondere le menti degli studiosi.
Nulla può diminuire la gloria dello scopritore, che ottenne ben presto una brillante conferma. Nel 1815 era stato trovato il cosiddetto
«obelisco di File», che nel 1821 fu portato in Inghilterra
dall’archeologo Bankes. Anche qui c’era un’iscrizione geroglifica e una greca
(era una seconda stele di Rosetta). E di nuovo il nome di Tolomeo appariva
incorniciato in un cartiglio. Ma anche un altro gruppo di segni aveva la medesima
caratteristica. E Champollion, sulla scorta
dell’iscrizione greca ai piedi
dell’obelisco, suppose dovesse trattarsi del nome di Cleopatra.
L’ipotesi
appare molto semplice: eppure quando Champollion
fece corrispondere i due gruppi di segni ai nomi supposti e quando nel nome di Cleopatra il 2°, il 4 ° ed il 5
° segno concordarono con il 4 °, 3 ° e 1° del nome di Tolomeo (Ptolemaios)
la chiave per l’interpretazione dei geroglifici era trovata. Era solo la
chiave di una scrittura sconosciuta, o non era piuttosto la chiave di tutte le
porte chiuse dell’Egitto?
Oggi noi sappiamo come sia straordinariamente complicato il
sistema di scrittura geroglifica. Oggi lo studente impara come cosa ovvia ciò che per tanto
tempo rimase inaccessibile e che Champollion conquistò a fatica partendo da
questo primo passo. Oggi noi conosciamo tutte le trasformazioni della
scrittura geroglifica; sappiamo come i segni piú antichi si svilupparono nella
grafia «ieratica» e come poi, attraverso successive riduzioni e snellimenti, si pervenne alla scrittura
«demotica». Lo studioso del tempo di Champollion non era in grado di
avvertire questa evoluzione; di modo che una scoperta che lo aiutava nella
lettura di un’iscrizione non gli serviva piú
per un’altra. Quale europeo moderno è in
grado di leggere il manoscritto di un monaco del secolo xii, anche se
vi si trova impiegata una delle lingue moderne?
E le ornate iniziali dei documenti medievali conservano
forse agli occhi delle persone incolte l’aspetto di lettere? Eppure
questi scritti appartengono già all’ambito
della nostra cultura e distano dai nostri tempi meno di mille anni,
mentre lo studioso che rivolgeva il suo sguardo ai geroglifici si trovava di
fronte all’evoluzione – compiutasi nel corso di tre millenni – di una
scrittura appartenente a una civiltà estranea alla nostra.
Oggi non è piú difficile distinguere «segni fonetici» da «segni di parole» e «segni
determinativi», suddivisione che introduce un primo ordinamento nei diversi valori dei segni e
delle figure. Oggi non si avverte piú nessun disagio di fronte al fatto che
un’iscrizione deve essere letta da destra a
sinistra, un’altra da sinistra a destra
e un’altra ancora dall’alto in basso: si sa infatti che questo era l’uso in differenti e ben
determinati periodi. Rosellini in Italia, Leemans nei Paesi Bassi, de
Rougé in Francia, Lepsius e Brugsch in Germania, compirono sempre nuovi
progressi. Diecimila papiri furono portati in Europa, e un numero sempre
maggiore di iscrizioni di tombe, monumenti e templi fu letto correntemente. La Grammaire égyptienne (Parigi
1836-41) di Champollion uscí postuma; apparvero poi il primo tentativo
di dizionario della lingua egizia antica (la spiegazione della lingua
procedeva di pari passo con la decifrazione
della scrittura), le Notizie e i Monumenti. In base a
questi risultati e alle ricerche successive fu possibile alla scienza
pervenire dalla decifrazione alla scrittura dei geroglifici, un passo non
strettamente necessario, è vero, ma di cui poteva essere ben fiera. Nella «Egyptian Court» del Palazzo di Cristallo a
Sydenham i nomi della regina Vittoria e del principe Alberto sono
scritti in caratteri geroglifici. A Berlino, nel cortile del Museo Egizio, la
lapide commemorativa della fondazione è in
geroglifici. E già Lepsius aveva collocato sulla piramide di Cheope, a Gizeh, una lapide che eternava in
geroglifici il nome e gli attributi regali di Federico Guglielmo IV (il sovrano che
aveva sovvenzionato la spedizione).
Champollion non era destinato ad aggiungere alle sue grandi conquiste teoriche una
valida attività nel campo degli scavi. Ma poté vedere l’Egitto e confermare con una visione
diretta quanto aveva meditato nel suo ritiro. Fin da giovane aveva studiato la
cronologia e la topografia dell’antico Egitto, sconfinando dal campo delle ricerche per la decifrazione dei
geroglifici, e, di fronte alla
necessità di classificare cronologicamente e topograficamente una statua
o una iscrizione senza l’aiuto di punti esterni di appoggio, si era visto
costretto ad avanzare un’ipotesi dopo l’altra. Ora egli giungeva nella terra
delle sue ricerche e si trovava nella stessa situazione di uno zoologo, che
dopo aver modellato la sagoma del dinosauro da resti ossei e da fossili, fosse
riportato all’età della pietra e se lo trovasse improvvisamente di fronte in
carne e ossa.
La
spedizione di Champollion (dal luglio 1828 al dicembre 1829) fu una
marcia trionfale. È vero che i rappresentanti ufficiali del governo francese
non dimenticarono che una volta egli era stato considerato reo di tradimento (la procedura era stata sospesa in
seguito alle misure di clemenza di una «monarchia tollerante»); ma gli indigeni accorrevano per vedere colui che «sa
leggere la scrittura delle pietre antiche». Champollion deve applicare
una ferrea disciplina per fare rientrare ogni sera i
componenti della spedizione a bordo dell’Hathor e dell’Isis,
i due battelli del Nilo messi sotto la protezione «di due divinità benigne
dell’antico Egitto». L’entusiasmo degli
indigeni commosse gli esploratori al punto
che questi si misero a cantare per il governatore di Girge, Mohammed
Bey, la «Marsigliese» e le canzoni di
libertà della «Muta di Portici».
Fonte: Civiltà sepolte, di C.W.Ceram
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