I giochi e il vino tra
estasi dionisiaca e passione popolare
di Cecilia Gatto Trocchi
Il seguente saggio della compianta antropologa, Prof. ssa Cecila Gatto Trocchi, fu inserito nel catalogo della mostra "La vite e il vino, giochi di carte", promossa dalla Fondazione Longarotti di Torgiano e allestita dall'Associazione Le Tarot.
Dioniso donava l’ebbrezza ai
suoi fedeli con il vino che reca gioia: il vino, sangue della vigna, si
prestava a rappresentare l’elemento divino della vita indistruttibile. Il vino
unisce insieme la saggezza e la passione, è bevanda inebriante e ambivalente
come il sapere degli dei: si dice “in vino veritas” ma anche “il vino fa uscire
di senno”, come ricorda Euripide. Dioniso è il “Signore del gioco”, del ritmo,
del suono e dell’incantesimo rituale. Nei miti orfici, Dioniso gioca con la
trottola, con lo specchio, con dadi di osso pregiato. Se il gioco ri-crea un
tempo e uno spazio particolare, che annulla la tirannia della dura realtà, la
sua connessione con il rituale appare evidente. La vite e il vino sono simboli
di immortalità: l’arte funeraria mette in scena i motivi del vino, della vigna
e della vendemmia.
Nella tradizione biblica il
vino è segno di gioia e di riconciliazione: Noè, che guida l’inizio di una
nuova era dopo il diluvio, è indicato come il primo ad aver piantato una vite e
aver prodotto il vino. Nel Cantico
dei Cantici l’amante porta l’amata nella cella del vino: i loro
baci sono inebrianti, il profumo dell’amore è come quello di un grappolo
fecondo, nato nella vigna più fertile. I testi evangelici fanno della vite un
simbolo del Regno dei Cieli, il cui frutto è il vino della salvezza, consacrato
da Cristo e trasformato nel Suo sangue, segno della nuova alleanza tra Dio e
gli uomini. Il simbolismo della vigna si estende ad ogni anima umana, ma
mantiene intatto il suo potenziale complesso e polivalente: nell’Apocalisse di
Giovanni l’Angelo del fuoco esorta a “vendemmiare i grappoli della vigna della
terra, perché l’uva è matura”. E l’uva fu gettata “nel gran tino dell’ira del
Signore”. Il vino unisce i segni della salvezza e della perdizione: consacrato
nell’Eucaristia è il mezzo (in greco metaxù) dell’unione più intima con Dio, ma nella sregolatezza
della taverna è segno del demonio. L’elemento etico della “misura” e della
“temperanza” provengono dal mondo del vino e della sua elargizione.
Abbiamo così una taverna
“mistica” che può designare il luogo di riunione di amici che condividono gli
stessi segreti spirituali come nella poesia dei Sufi, maestri della mistica
islamica. Rumi canta che all’origine dei tempi vi era un giardino, una vite,
dell’uva, e l’anima era inebriata del vino immortale. Liquore maschile per
eccellenza, espressione del desiderio impetuoso e fecondante, il vino bevuto in
taverna è molto apprezzato anche dalle donne. Nel mondo romano letabernae vinariae erano luogo di
incontro di una moltitudine di mercanti, artisti improvvisati, donne di vario
rango, attori, poeti e accattoni. Nelle pagine della letteratura classica da
Lucrezio a Virgilio e a Plinio, oltre a Petronio e Apuleio, si trovano vivaci
descrizioni dell’abbondanza di vino dentro e fuori le taverne. La venerazione
che i Romani avevano per il vino, dato il suo rapporto religioso con la
sovranità e la vittoria si esprime in mille modi.
In taverna, ma anche nei
conviti illustri ,un gioco speciale connetteva la sovranità, il vino e la
vittoria in un modo illuminante e bizzarro. Il gioco si è tramandato quasi
inalterato fino ai giorni nostri, noto ai romani e agli stranieri innamorati
del folklore e della stravaganza. Oggi si chiama “passatella”, ma nella Roma
imperiale era noto come Regnum
vini, il Regno del vino. Si eleggeva un arbiter bibendi che diveniva il Rex, il quale concedeva o
negava le bevute a suo piacere, decidendo in base al valore magico del nome
dell’aspirante bevitore o in base al numero degli anni. Egli aveva un potere
assoluto sui convitati: stabiliva in favore di chi, quando e come si doveva
bere e le sue decisioni erano senza appello. L’arbiter faceva un discorso d’occasione in cui alludeva ai
suoi oscuri disegni di monarca del vino, non escluso quello di non far mai bere
qualche ospite, ovvero di imporre a qualcuno di bere tutto di un fiato il vino
del gioco L’antipatia del Romani per il concetto di rex (Giulio Cesare che ben lo
sapeva, optò per il termine imperator,
che vuol dire solo generale) si esprime in questo giuoco dove il monarca è un
vero tiranno. Questo sovrano del vino veniva eletto a sorte con una gettata di
dadi. Il tiro vincente era detto “tiro di Venere”, come ricorda il poeta Orazio
che allude al gioco nei suoi carmi. Dovendo invitare a pranzo l’amico Pompeo
Varo, gli anticipò in un biglietto in versi che il convito sarebbe stato
allietato da una “passatella”, chiedendosi esplicitamente “Quem Venus arbitrum/ dicet bibendi?”
(chi sarà l’arbitro del bere sorteggiato da Venere?). Anche Catone e Cicerone
parlano entusiasticamente del gioco, definendolo “un rispettabilissimo costume
dei maggiori”.
Che ne è oggi del
“rispettabilissimo costume”? La passatella era giocata sicuramente fino agli
anni Sessanta del nostro secolo e prevedeva regole precise e attori
compiacenti. Questo passatempo divertente e funesto, virile e pericoloso
esprime la passione popolare per la teatralità, il gioco, la sorte. Cinque sono
i personaggi del gioco: il primo, venerato fino alla rissa è il Vino, c’è poi
il Conta, il Padrone, il Sotto e l’Ormo. Il Conta è estratto a sorte, e ha due
privilegi: poter bere il primo bicchiere di vino e poter eleggere i regnanti
cioè il Padrone che è il vero arbiter
bibendi e il Sotto. Il Conta grida un nome e l’effimero reame della
passatella ha i suoi monarchi. Egli indica il Sotto e poi si mette da parte.
Eppure con la sua scelta egli condiziona l’intero gioco. Il Padrone, re per una
notte, realizza il suo imperio sul Vino appena il Conta e il Sotto hanno
usufruito delle rispettive bevute de
jure, di diritto. Come possibile atto di autorità il Padrone potrebbe
bersi tutto il vino in gioco, ma tale evento è molto raro. Il Sotto è
l’intermediario che dispone, per ordine del Padrone, della passatella, accorda
o nega le bevute, stimola, ironizza, intima, tergiversa e alla fine delibera.
Il gioco è il suo campo di azione. Eppure il Padrone può sempre intervenire,
dicendo “con riserva” e contestare le decisioni del Sotto. L’Ormo è quello che
non beve mai, a cui è sempre negata la bevuta. In ogni gioco ve ne possono
essere più di uno. Il nome, che fa riferimento all’albero, nasce da una
storiella secondo la quale alcuni bricconi matricolati, per spartirsi tutto il
vino dissero ad un oste ingenuo di “reggere l’olmo” che poteva cadere. Mentre
l’ingenuo reggeva, gli altri si scolavano le provviste.
Il gioco ha una forte
componente teatrale, è una vera e propria recita con un canovaccio prestabilito
come nella commedia dell’arte. Gli aspiranti bevitori devono fare la loro
richiesta a voce chiara e a lettere spiegate e attenersi al copione. Ad esempio
se uno chiede la bevuta al Sotto, che risponde “Chi ve la po’ negà?” deve
rispondere “Voi solo”, altrimenti rischia di diventare Ormo per tutta la notte.
È implicito che il gioco esploda in manifestazioni di collera, in contrasti
verbali e maneschi, in veri e propri duelli rusticani “a coltello”. Si racconta
che lo stesso papa Sisto V abbia voluto provare i deleteri effetti del gioco.
Il grande pontefice invitò i cardinali a fare qualche passatella con lui, dando
la stura a vini particolarmente pregiati. Iniziate le ostilità, il Conta si
guardò bene da eleggere il papa Padrone o Sotto, per non essere accusato di
piaggeria. Allora le cose si misero male per il papa, dato che alcuni porporati
a lui antagonisti lo fecero Ormo per quattro o cinque volte. Esasperato per la
tattica crudele messa in atto a suo danno, si sarebbe gettato con furia contro
alcuni cardinali. Tornato rapidamente in sé, diventò più comprensivo con
quanti, a causa della passatella, compivano risse o ferimenti.
Nell’universo del gioco tutto
si rimescola: esiste l’eventualità che un povero disgraziato diventi un
regnante, che un servo diventi il Padrone. Chi regna sa di aver acquisito, con
l’effimero scettro, il diritto di imporre il proprio arbitrio, anche se per
gioco e per poco. E tale situazione ci riporta alla figura del re del
carnevale, padrone della città solo per il martedì grasso, erede dell’adepto
dionisiaco che dirigeva il gioco ritualizzato nelle feste bacchiche.
Il gioco crea infatti un mondo
fittizio che è solo specchio deformato del mondo reale, illusione (da in lusio essere nel gioco) ma
illusione gratificante al punto di diventare una febbre irrefrenabile.
Nell’osteria i romani passavano gran parte del tempo libero: lì si incontravano
gli amici, si commentavano gli eventi sociali, si inventavano canzoni per
“canzonare” questo o quello, si ricordavano fatti del passato e si
trasformavano in fiabe, si praticavano i giochi di cui la passatella era solo
il più famoso e complicato. La morra era di gran moda al pari di tanti giochi
di carte. La morra, anch’essa di origine romana, era un gioco d’azzardo
violento, in cui le varie poste potevano portare alla rovina gli sfortunati
giocatori. Allo stesso modo il gioco da tavolo chiamato biribisse era
fortemente competitivo. Si realizzava chiamando a dadi i numeri scritti su un
tabellone insieme a figure propizie o infauste da cui ciascuno cercava di
indovinare la propria sorte. E se il gioco andava veramente male, qualche
popolana gentile era pronta a ricordare che “chi è fortunato in amor non giochi
a carte”.
Le complicate regole della
zecchinetta, del tresette, del caffo esigevano prontezza, capacità di calcolo,
attenzione, memoria e conoscenza del linguaggio convenzionale, un gergo segreto
fatto di segni e parole ermetiche. Le carte rappresentano un cosmo in miniatura,
un mondo di figure in cui si specchia la struttura sociale: le coppe sono i
sacerdoti che consacrano il calice, le spade sono i soldati, i denari si
riferiscono ai mercanti e i bastoni ai contadini. Il re, la regina, il
cavaliere e il fante rappresentano la monarchia e il suo esercito mentre il
matto, il jolly, è il buffone di corte al quale è consentito dire ciò che
vuole. L’osteria è il regno del gioco e del vino, due elementi di distrazione e
di velata eversione. Tali caratteristiche ci riportano nella sfera di Dioniso,
che veniva ancora invocato nel VII secolo durante la pigiatura per realizzare
il mosto. La divina mania che il dio elargiva ai suoi fedeli, l’inebriante
stato di estasi era culturalmente e socialmente delimitato nella sfera del sacro,
nei giorni delle feste, nel mondo chiuso del rituale. Perduta la dimensione
sacra della cerimonia, il vino e il gioco diventano sinonimi di sregolatezza.
Se il dio dall’ambiguo sorriso non è più il “Signore del gioco” e tutto è
lasciato all’iniziativa personale, i rischi di perdersi sono molteplici.
Da ciò nascono le proibizioni
ripetutamente emanate contro il gioco d’azzardo e contro il vino, ma
inutilmente. Il vino mantiene così l’ambivalenza dionisiaca di bevanda
inebriante e di liquore sacro. La coppa del Santo Graal, ricolma del vino
consacrato è ancora emblema misterico di salvezza. La ricerca della sacra coppa
e del liquido che rigenera è il simbolo dell’avventura spirituale che può
aprire le porte della Gerusalemme celeste dove risplende il divino calice.
Simbolo di sovranità sulle passioni e di perfezione spirituale, la coppa
esprime la pienezza interiore che gli umani hanno sempre ricercato.
Fonte: www.letarot.it
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