domenica 31 agosto 2014

Considerazioni sulla Dea Madre

Considerazioni sulla Dea Madre
di Alberto Massazza

Immaginiamo che la nostra civiltà, fondata sulla centralità della religione cristiana, collassi e per alcuni secoli venga sepolta dall’oblio. L’archeologo del futuro che scavasse in un luogo di culto più o meno importante, si troverebbe di fronte due figure dominanti: una donna regale, serena, luminosa ed un uomo perlopiù raffigurato in situazioni penose, crocifisso, flagellato, deposto in un sepolcro. Cosa dovrebbe pensare quell’archeologo della civiltà che ha partorito una simile iconografia? Stando alle conclusioni che si vorrebbero trarre su determinati periodi del nostro passato, dovrebbe dedurre che quella civiltà scomparsa fosse rigorosamente matriarcale e che ai maschi fossero riservati i lavori più umili e faticosi e posizioni sociali di assoluta subalternità. Noi sappiamo benissimo che le cose non stanno affatto così; ciò nonostante, abbiamo la tendenza ad arrivare a frettolose conclusioni sulla base di ritrovamenti che, per quanto possano essere numerosi, rappresentano pur sempre un campione infinitesimale della cultura di appartenenza, specie se si tratta di reperti che affondano nel buio di una preistoria datata migliaia (se non decine di migliaia) di anni fa.
E’ il caso delle raffigurazioni della cosiddetta Dea Madre o Grande Madre, statue perlopiù di piccole dimensioni ritrovate in diverse zone europee, asiatiche e africane e ascrivibili a un lungo periodo della preistoria che va dal Paleolitico Superiore all’Eneolitico, con caratteristiche successivamente riproposte e diversificate in divinità femminili dei Pantheon delle civiltà monumentali e classiche, fino alla figura della stessa Madonna. Alla grande archeologa lituana Marija Gimbutas si deve il più imponente e dettagliato tentativo di ricostruzione dell’evoluzione del culto legato a queste raffigurazioni; ricostruzione evidentemente difficile e inevitabilmente aleatoria, vista l’ampiezza dei periodi di tempo e dei territori che sono stati interessati da questo culto. La Gimbutas, pur evitando di parlare di matriarcato, quanto piuttosto di matrifocalità e di maternalismo (evidentemente intuendo, da donna straordinariamente intelligente qual era, i pericoli di strumentalizzazione della sua ricostruzione in funzione di un estremismo femminista revanscista nei confronti del maschio), giunse comunque alla conclusione, a mio parere arbitraria e manichea, di una continuità culturale dal Paleolitico Superiore a tutto il Neolitico, fondata sulla centralità della Dea Madre; una civiltà pacifica e egualitaria, in cui la figura femminile era il punto di riferimento della comunità, destinata a durare fino alle invasioni dei bellicosi Indoeuropei che instaurarono il patriarcato, la società divisa in caste e il militarismo.
La rappresentazione della Dea Madre, com’è noto, inizialmente steatopigia (dai glutei abbondanti), con forte evidenziazione degli attributi sessuali e dell’essere fonte di vita e di nutrimento, rimase legata a questo modello fino al Neolitico antico, assumendo prerogative sempre più complesse, per subire successivamente una stilizzazione astratta e geometrica, fino alla frantumazione in divinità specializzate dalle quali deriverebbero numerose divinità femminili della storia antica e non solo. Il processo di stilizzazione è ben rappresentato in Sardegna, dove in un  arco di tempo relativamente breve si è passati dalla cosiddetta Venere di Macomer, di indubbia ascendenza paleolitica e di incerta attribuzione (tra la fine del Paleolitico e l’inizio del Neolitico, dal 10000 al 5000 ca. a.C.), alle diverse rappresentazioni della Dea ascrivibili alla Cultura di Bonu Ighinu (V-IV millennio a.C.), dalle forme ancora abbondanti, ma con una raffinata cura del dettaglio e un senso inedito dell’ordine (forse specchio di un’organizzazione del sacro e della società ben strutturata), fino alla stilizzata Venere della cultura di Ozieri, nella caratteristica forma a croce, con lineamenti e attributi sessuali appena accennati; echi della Dea Madre si possono ritrovare nella bronzistica nuragica, in particolare nella cosiddetta Madre dell’ucciso di Urzulei e quelle di Serri, interpretate come madri imploranti per i loro figli o come Dee Madri con figli divini.
A sostegno della tesi matriarcale si è avanzata l’ipotesi che l’uomo, non avendo ancora messo in relazione l’atto sessuale con la gravidanza e il parto, ritenesse la donna in grado di generare autonomamente. Questa tesi sottovaluta le capacità intuitive e analogiche dell’uomo preistorico che già da un buon milione di anni era capace di manipolare il fuoco e di utilizzarlo per cacciare le prede e per difendersi dai predatori. Si è anche sostenuto erroneamente, come chiarito dalla stessa Gimbutas, che la Dea Madre sia stata la prima e per lungo tempo unica divinità. In realtà, parallelamente alla Dea Madre (forse addirittura con qualche anticipo, stando alle datazioni più aggiornate), si sviluppò un’altra forma di religiosità legata alla rappresentazione parietale di scene di caccia, attività prettamente maschile e principale fonte di sostentamento per gli uomini del Paleolitico. In particolare, emerse una figura ibrida o comunque simulante l’ibridazione tra uomo e animale, attraverso l’utilizzo di maschere, pelli, corna ecc.; figura che suggerisce la pratica sciamanica. D’altronde, mi pare poco credibile che in comunità dove la caccia aveva un ruolo ancora preponderante, la figura femminile potesse rivestire un ruolo centrale.
Accanto alla caccia, piuttosto, come attività sussidiaria, c’era la raccolta. Mettiamola così: più o meno contemporaneamente, in zone fortunate per la caccia e/o per la raccolta, si manifestano due atteggiamenti ascrivibili alla sfera del sacro. Il primo è direttamente propiziatorio per l’attività umana, pratico, utilitaristico, maschile; il secondo è legato ai grandi interrogativi della vita, più concettuale e astratto, consolatorio, femminile. La crisi della caccia successiva alla fine dell’ultima glaciazione fece aquistare sempre più centralità alla Dea Madre, facilmente adattabile alle necessità spirituali dei primi agricoltori. Forse in questo frangente, una volta raffinate le tecniche agricole e dell’allevamento e messo a regime un ciclo produttivo in grado di sostenere la pressione demografica, si poté realizzare quella società armoniosa e prospera pensata da Marija Gimbutas (la mitica età dell’oro?), prima che criticità legate alla produzione agricola o alla pressione demografica (la stilzzazione e l’astrazione, in quanto trascendenti, potrebbero essere proprio il segno di una crisi), o le brame di conquista di nomadi militarizzati, o ancora i flussi oceanici indoeuropei, non la facessero crollare. Non un matriarcato, probabilmente, ma comunità che riconoscevano e valorizzavano le prerogative femminili.
O forse la mitica età dell’oro fu quando i paleolitici trovarono i luoghi ideali per le loro attività di caccia e di raccolta e, grazie all’aumento di tempo libero, poterono liberare la loro capacità immaginativa e crearsi delle divinità da ingraziarsi e ringraziare. Di sicuro, come rilevato da Jung, la figura della Dea Madre rappresenta un archetipo che attraversa tutta la storia dell’umanità, con caratteri che emergono in figure divine appartenenti alle più disparate culture del mondo.

Fonte: http://albertomassazza.wordpress.com/


sabato 30 agosto 2014

La misteriosa iscrizione di San Nicola di Trullas

La misteriosa iscrizione di San Nicola di Trullas
di Massimo Pittau

Nella mia opera La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi (Sassari 1981, pg. 118) ero stato io il primo a segnalare e a pubblicare una strana iscrizione che è incisa su un masso accuratamente levigato dell'abside esterna della chiesa medioevale di San Nicola di Trullas, in agro di Semestene (SS); centro religioso e culturale in cui è stato composto e scritto il famoso “Condaghe di San Nicola di Trullas”. L'iscrizione, in andamento destrorso, è in alfabeto greco, ma nessuno dei suoi vocaboli è greco. Eccone la trascrizione esatta.

ANKΩ · PAMAFAME
TANKΩ ː PAΠΩΔA ː
PHΠHNA
       ΣATIE

Risulta subito chiaro che l'incisore dell'iscrizione era in possesso di una cultura medio-superiore: conosceva infatti il greco e aveva una certa infarinatura di nozioni di epigrafia, come dimostra l'uso – parziale - che fece della punteggiatura. Inoltre – come vedremo più avanti – era un amante e cultore di poesia popolare in lingua sarda.
Dato che alcuni vocaboli mi sembravano corrispondere ad altrettanti etruschi, io ne avevo tratto l'opinione che si trattasse di una iscrizione in lingua nuragico-etrusca, ma scritta in alfabeto greco. Però non avevo neppure tentato di prospettare alcuna traduzione.
In seguito, soltanto in una mia opera immediatamente successiva (Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico, Sassari 1984, pg. 44) avevo fatto un breve cenno dell'iscrizione, ma poi l'ho trascurata del tutto, dato che alla lunga non mi ero più sentito di insistere sulla mia interpretazione iniziale.
Sull'argomento invece sono in seguito intervenuti Giulio Paulis, dell'Università di Cagliari, e Nello Bruno, del Liceo Azuni di Sassari, i quali hanno sostenuto che in realtà il testo è in sardo-logudorese e inoltre conterrebbe una “dichiarazione di amore”.
Di recente ha ripreso il problema di questa strana iscrizione Alberto Areddu, nell'ultimo fascicolo della rivista “Almanacco Gallurese – 2014-2015, pgg. 11-15), il quale ha messo le basi essenziali - a mio giudizio - per una esatta interpretazione dell'iscrizione e pure quelle di una sua verosimile traduzione. In effetti egli ha interpretato che siamo di fronte a una iscrizione semicriptata, con la quale «chi ha scritto voleva esser letto e capito fino a un certo punto». E infatti l'incisore ha adoperato il sardo-logudorese, ma scrivendolo in alfabeto greco e inoltre operando finti tagli e finte connessioni di vocaboli, di sillabe e di lettere.
Anche l'Areddu ha fissato la sua attenzione sugli ultimi tre vocaboli, che ha ricomposto e interpretato come po dare penas a tie «per dare pene a te». Si tratta di una formula che l'Areddu ha ritrovato, tale e quale, nei numerosi frastimos «impropreri» che il bravo studioso Salvatore Patatu di Chiaramonti ha raccolto, studiato e pubblicato. Un esempio di frastimu è il seguente:

Ancora m'agatto ancora
ancora m'agatto ancora
pro dare penas a tie     

cioè
«Ancora mi trovo (in vita) ancora
Ancora mi trovo ancora
per dare pene a te»

L'Areddu ha avuto buon gioco nell'eliminare come insostenibili la interpretazione e le traduzioni di Giulio Paulis e di Nello Bruno, ma poi ha presentato una sua proposta di traduzione, che, a mio giudizio, è anch'essa insostenibile. Infatti in primo luogo egli ha forzato troppo la lettura della seconda sequenza grafica PAMAFAME dell'iscrizione, leggendola, in caratteri latini, come RAMAGA, con l'intento di interpretarla come m'agatto «mi trovo». In secondo luogo a lui in realtà è sfuggita una cosa molto importante: in un frastimu «improperio» unico ed unitario è assurdo che manchi il nome del destinatario, uomo o donna che sia.
Ebbene, a mio giudizio, il destinatario o meglio la destinataria del nostro frastimu è indicata nella sequenza MA FAME T. La quale appare come una sequenza criptata più delle altre, con l'intento del frastimadore di farsi capire dalla donna destinataria e da qualche altra persona e invece di restare lui e lei nascosti a tutti gli altri.
Probabilmente dunque l'autore della iscrizione semicriptata era un innamorato deluso, il quale era stato respinto oppure abbandonato o infine tradito, ed egli intendeva farla pagare cara alla donna superba o traditrice.

Alberto Areddu ha anche citato il dott. Giovanni Deriu di Semestene come colui che gli avrebbe fornito alcune indicazioni sull'autore della nostra iscrizione, innamorato deluso, ma il dott. Deriu – già mio allievo nell'Università di Sassari - si è lamentato di essere stato frainteso dall'Areddu e ha proceduto a darmi la sua seguente, testuale, precisazione:

«Ho visto per la prima volta l'epigrafe in oggetto, al mio rientro dal Belgio dove ero emigrato, durante la scampagnata di Pasquetta del 1971. Incuriosito, e allora del tutto a digiuno relativamente all'argomento, chiesi ai miei congiunti di Semestene di che cosa si trattava. Pietrina Bissiri, una delle mie zie materne (deceduta nel 2010), mi disse che tale "scrittura" era stata eseguita, per scherzo, da un bonorvese impiegato al comune di Semestene durante gli anni '50... Dopo la sua pubblicazione dell'epigrafe in un sua opera del 1981 ("La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi"), andai in "loco" col prof. Marco Tangheroni (allora docente al Magistero di Sassari) e con Salvatore Chessa di Semestene, ora coautore di alcuni miei libri (anche lui è stato suo allievo nel corso di linguistica sarda), il quale affermò che, quando era ragazzo, si divertiva con i suoi compagni a cercare di ritoccare l'epigrafe e ad aggiungere qualcosa. Ecco ciò che ho dichiarato ad Alberto Areddu, circa due anni orsono. Aggiunsi che, secondo Nello Bruno, un mio collega al liceo Azuni di Sassari, la scritta andava letta nel seguente modo: "Ancora m'affanno et ancora po dare penas a tie" (basandomi sulla memoria, visto che il mio collega me ne aveva parlato nel 2006 e non avevo preso appunti). Escludo del tutto che il prof. Michele Sanna (zio del linguista Antonio Sanna) e l'ins. Salvatore Marruncheddu possano aver contribuito a siffatta "mistificazione", diversamente da ciò che prospetta l'Areddu, seppure dubitativamente».
A questo punto io avevo affrontato il problema della sequenza MA FAME T con l'intento di tentarne almeno una interpretazione generica ed ero arrivato alla conclusione che erano possibili almeno cinque letture e altrettante interpretazioni verosimili.
Senonché qualche giorno dopo il dott. Giovanni Deriu mi ha mandato quest'altra importante precisazione, la quale ottiene l'effetto di risolvere del tutto il nostro rebus:

«Una persona anziana di Semestene, che non vuole essere nominata, mi ha riferito, di recente, che l'autore bonorvese dell'epigrafe, impiegato al comune di Semestene, sarebbe stato un innamorato non ricambiato di una certa Mafalda (classe 1932), mia cugina in secondo grado, ancora vivente, ma non più lucida (peraltro l'unica Mafalda di Semestene). Il significato della scritta sarebbe "ANCORA MAFA (E)T ANCORA PO DARE PENAS A TIE". Le due lettere "NN" o "ME" dopo MAFA corrisponderebbero, quindi, alle aggiunte dei ragazzi di Semestene...».
Bravo il dott. Deriu per la esatta soluzione prospettata del nostro rebus e molte grazie per la sua piena disponibilità.
Però intendo fare due mie precisazioni alla sua interpretazione. Il nome personale di Mafalda, del tutto isolato a Semestene e probabilmente anche nei villaggi vicini, è da attribuirsi alle usanze “patriottiche” dell'Italia degli anni Trenta, quando a molti neonati venivano assegnati i nomi del re Vittorio Emanuele III, della regina Elena o dei principi di Casa Savoia, Umberto, Maria Pia, Gabriella, ecc. E infatti Mafalda era il nome personale della secondogenita del re, nata nel 1902 e morta nel 1944 nel campo di sterminio nazista di Buchenwald.
In secondo luogo la lettera T isolata potrebbe essere la iniziale del cognome Tanchis oppure Tolu, due famiglie benestanti tuttora esistenti a Semestene.

venerdì 29 agosto 2014

Scoperta in Israele una cantina di vini dell’età del Bronzo Medio

Scoperta in Israele una cantina di vini dell’età del Bronzo Medio

Secondo uno studio pubblicato da Andrew Koh, della Brandeis University, lo scavo di un palazzo cananeo, in Israele, ha rivelato l'esistenza della più antica cantina finora nota.  La produzione, la distribuzione e il consumo di vino erano attività importanti nella vita degli abitanti del Mediterraneo e del Vicino Oriente nel corso del Bronzo Medio (1900-1600 a.C.), ma abbiamo poche evidenze archeologiche disponibili nell’arte e nei documenti di quel periodo.
Durante lo scavo del palazzo cananeo israeliano, i ricercatori hanno trovato 40 grandi serbatoi di stoccaggio in una stanza chiusa a ovest del cortile centrale.  
Le analisi dei rifiuti organici, mediante spettrometria di massa, hanno rivelato che tutti i contenitori contenevano prodotti chimici indicativi di vino. Gli autori hanno anche rilevato sottili differenze negli ingredienti, e in un gruppo di vasi dello stesso tipo c’erano additivi come miele, resina, olio di trementina, cedro, cipresso, ginepro, menta, mirto e cannella.

I ricercatori suggeriscono che l'individuazione di questi additivi indica che queste genti avevano una sofisticata conoscenza delle piante e le competenze per produrre una bevanda complessa che bilanciava la conservazione, l'appetibilità e le competenze psicoattive. Secondo gli autori, questi risultati possono contribuire a una maggiore comprensione dell’antica viticoltura  e dell’economia cananea di palazzo.

giovedì 28 agosto 2014

Archeologia. In Iraq a Nassiriya, spunta un insediamento intatto nei pressi dell'antica Ur

Archeologia. In Iraq a Nassiriya, spunta un insediamento intatto nei pressi dell'antica Ur

Un'equipe italiana dell'università La Sapienza sta conducendo gli scavi ad Abu Tbeirah, dove in un'ampio zona di 43 ettari sta tornando alla luce un sito praticamente intatto

Mentre più a nord si combatte, in Iraq c'è anche tempo per scavare e per importanti scoperte archeologiche. Una missione italiana dell'Università La Sapienza di Roma, sta riscoprendo i resti e la storia di un grande insediamento tributario a Ur, la più celebre città della bassa Mesopotamia. 
Gli esiti degli scavi di Abu Tbeirah sono raccontati sulla rivista "Archeologia Viva" dall'equipe composta da Francesca Alhaique, Franco D'Agostino, Licia Romano e Mary Anne Tafuri.
Abu Tbeirah è un grande tell (una collinetta) di 43 ettari, diviso a metà in direzione nord-ovest/sud-est dalla traccia di un antico canale, a sua volta intersecato trasversalmente da una pipe-line, in modo che risultano quattro settori ben definiti. Ma, a parte questo, il sito non presenta alcuna traccia del saccheggio selvaggio che ha caratterizzato il sud mesopotamico negli anni 2003-2007, durante la seconda Guerra del Golfo. Sotto il profilo scientifico Abu Tbeirah offre quindi la possibilità di indagare un sito praticamente intatto e di media grandezza nell'orbita di una città maggiore, Ur, a cui era collegato con un canale. 
La presenza di Ur, d'altronde, famosa nella tradizione biblica per essere la patria da cui prese le mosse Abramo nella sua peregrinazione verso Canaan, è avvertibile anche nel nome arabo della zona, che significa appunto Colline di Abramo.

L'ultima campagna ha aiutato a definire meglio l'ambito cronologico e culturale di Abu Tbeirah. La zona è databile al III Millennio a.C., più precisamente al passaggio tra il cosiddetto periodo Protodinastico III e l'epoca sargonica, ovvero tra il 2400 e il 2150 a.C. circa.
Si tratta di un momento di svolta fondamentale nella storia sumerica, quando un sovrano semitico del nord, Sargon (sul trono dal 2335 al 2279 a.C.), partendo dalla sua capitale Akkad (Media Mesopotamia) riesce a conquistare il Sud (Bassa Mesopotamia), dov'erano stanziati i Sumeri, creando il primo impero dinastico a vocazione universale, che durerà circa due secoli.
In queste prime indagini, nulla è stato rilevato che faccia pensare, per il periodo successivo, a una sopravvivenza del sito, che sembra concludere la sua parabola storica appunto attorno al XXII a.C. 

Fonte: www.repubblica.it

mercoledì 27 agosto 2014

Convegni e dibattiti di archeologia.

Convegni e dibattiti di archeologia.

Buongiorno a tutti gli amici lettori,
con preghiera di diffusione ai vostri amici, sono lieto di comunicare i prossimi appuntamenti culturali:

30 Agosto 2014 - Dolianova, I Giganti di Monte Prama
L’Associazione Culturale Parteolla organizza una conferenza-dibattito sulla storia delle statue dei “Giganti di Monte Prama”. L’appuntamento inizierà alle ore 20.00 presso il Museo dell’Olio, a Dolianova.
Relatore della serata sarà lo scrittore Pierluigi Montalbano che illustrerà, con l’ausilio di immagini e filmati, la storia degli scavi nel sito e le vicende che hanno accompagnato il restauro delle sculture, fino all’esposizione nei musei di Cagliari e Cabras. Saranno raccontate le varie interpretazioni degli studiosi, e ci sarà spazio per un dibattito con domande e risposte che chiuderà il convegno.
Al termine sarà possibile cenare al museo con prodotti locali e vino, al costo concordato di 10 Euro.
Ingresso libero.

6/7 Settembre 2014 -  Domus De Maria, Convegni di Archeologia
In occasione della 4° edizione della rassegna “Note di Settembre”, finanziata dal Comune di Domus de Maria e organizzata dall’Associazione “Ugo Tomasi”, si svolgeranno due serate dedicate alla storia e archeologia della Sardegna, con proiezione di immagini e filmati accompagnati dal racconto di relatori che descriveranno le vicende legate al territorio.
L’appuntamento è alle 19.30 nella piazza centrale di Domus De Maria, di fronte al Museo archeologico.
Sabato 6 si parlerà di navigazione antica e saranno proiettate le riprese subacquee relative a Capo Malfatano, con relatori Pierluigi Montalbano, Nicola Porcu e Manuela Sanna.
Domenica 7, stessa piazza e stessa ora, saranno presentate due relazioni: "L'origine dei Nuraghi" di Pierluigi Montalbano e "Le origini della lingua sarda" di Salvatore Dedola.
Dopo l’intervento dei relatori e l’eventuale dibattito, si terrà una degustazione di salumi tipici sardi prodotti da filiera sarda e una serata di musica etnica con la partecipazione dello storico duo Balia e Frongia denominato ARGIA che dopo anni di assenza dalla scena musicale sarda si esibiscono nuovamente dal vivo nella piazza museo sede anche del convegno.
Ingresso libero.

20  Settembre 2014 -  Lanusei, Bosco del Parco Selene, Archeologia Sperimentale.
5° edizione di “Fusioni sotto le stelle”
Nell’incantevole scenario naturalistico del Bosco Selene, a Lanusei, si svolgerà Sabato 20 Settembre, dalle ore 20.00, una serata dedicata all’archeologia sperimentale.  I maestri fonditori realizzeranno un bronzetto con il metodo della fusione a cera persa utilizzando attrezzature arcaiche (fornace, mantici, crogiolo…) della stessa tipologia di quelle utilizzate dagli antichi nuragici. La manifestazione ha riscosso successo nelle scorse edizioni (Talana, Jerzu, Santa Maria Navarrese, Cea- Tortolì) ed è stata oggetto di una trasmissione televisiva su Videolina.
Durante la dimostrazione saranno proiettate immagini sulla metallurgia antica, commentate da Pierluigi Montalbano.
Ingresso libero, fronte Tomba di Giganti, al tramonto.

A questo link il servizio al tg di  Videolina:
http://www.videolina.it/video/servizi/68552/tortoli-storia-e-turismo-in-spiaggia-rinascono-i-bronzetti-nuragici.html?fb_action_ids=605430586244995&fb_action_types=og.likes&fb_source=other_multiline&action_object_map=%5B688084041275899%5D&action_type_map=%5B%22og.likes%22%5D&action_ref_map=%5B%5D


martedì 26 agosto 2014

Monte Prama: distrutta dai cartaginesi? E dove sono gli indizi archeologici?

I Giganti distrutti con violenza”, gli archeologi certi sulla fine di Monti Prama
di Francesca Mulas

Ieri su Sardinia Post, è comparso questo articolo relativo allo scavo in corso a Monte Prama. Ho prodotto una serie di commenti ma oggi non ci sono più. Ho deciso, di conseguenza, di pubblicare l’articolo su questo quotidiano on line, e aggiungere, al termine, qualche riflessione personale per innescare un eventuale dibattito. Buona lettura

Qualcuno ha voluto distruggere le imponenti sculture in pietra che stavano a guardia dell’area sacra di Monti Prama, vicino a Cabras: una furia iconoclasta che ha buttato già le statue, ha colpito la pietra con brutalità, ha persino decollato le teste dal corpo e cancellato gli occhi severi dai volti. I misteri attorno ai Giganti e al sito del Sinis sono ancora tanti ma gli archeologi oggi hanno una certezza: le statue sono state distrutte intenzionalmente durante un episodio violento da un popolo ostile.
Le ultime novità su Monti Prama sono state illustrate questa mattina durante una conferenza stampa convocata a Cabras dai rappresentanti di Università di Sassari e Cagliari, Soprintendenza Archeologica di Cagliari e Oristano. Hanno voluto l’incontro con i giornalisti, il primo dall’avvio dello scavo, dopo una fuga di notizie incontrollata e confusa che ha lasciato parecchi malumori tra organi di stampa e comunità scientifica. “Una continua corsa alla notizia è deleteria – avvisa Alessandro Usai, archeologo della Soprintendenza cagliaritana – ecco perché abbiamo pensato a incontri periodici per parlare dello scavo”. Oggi dunque si illustra per la prima volta  il recente lavoro a Monti Prama: sono emerse nuove sculture dal terreno e il sito regalerà nei prossimi mesi ancora tante sorprese.
Il tesoro venuto alla luce nelle ultime settimane è custodito oggi nel deposito del Museo Civico di Cabras: ci sono tantissimi frammenti di pietra, lastrine di arenaria, ceramiche nuragiche e puniche da ricostruire.
Riflettori puntati, come è ovvio, sui nuovi Giganti ritrovati: ecco un volto di guerriero con i caratteristici occhi a cerchietti concentrici e l’elmo cornuto, e poi un grande busto di arciere con la faretra sulle spalle, il frammento di un piede, il modellino di un nuraghe quadrilobato con le sue torri, altre due teste molto rovinate, un grosso elemento in arenaria per ora di difficile interpretazione. E poi tante, tantissime pietre che saranno conservate in attesa del restauro: dalla campagna di scavo di fine anni Settanta, l’unica prima di oggi, vennero fuori cinquemila pezzetti di arenaria poi ricomposte in 26 statue esposte a Cabras e Cagliari. Grande emozione tra gli archeologi per la scoperta di una base che ha ancora attaccati due piedi di scultura con i sandali, si svela così il mistero su come queste sculture si reggevano in piedi ed emerge anche un particolare curioso: tutte le statue dei Giganti (tranne una) calzavano i sandali, mentre i tanti bronzetti ritrovati in Sardegna erano quasi tutti scalzi.
I materiali ritrovati saranno ora ripuliti, restaurati e studiati mentre nel frattempo prosegue lo scavo sull’area. A breve termineranno i finanziamenti per il progetto di ricerca “Archeologia di Monte Prama” sul bando regionale della legge 7/2007: “Contiamo di proseguire i lavori grazie al programma ministeriale “Arcus” che prevede anche un grande intervento di restauro sul vicino sito archeologico di Tharros – si augura Alessandro Usai - C’è ancora tanto da fare e, al di là dei grandi frammenti delle statue, il progresso dell’indagine su tutta l’area è fondamentale”. 
“Non sappiamo con certezza chi ha voluto distruggere le statue – conclude Raimondo Zucca, archeologo al lavoro sul campo per l’Università di Sassari – ma nel passato non mancano gli episodi di iconoclastia: la Bibbia racconta che Mosè chiese a Israele di distruggere gli idoli, e anche la storia recente ci dimostra tanti casi di accanimento contro le immagini religiose. Nel caso di Monti Prama tutto farebbe pensare che i responsabili possano essere stati i Cartaginesi: è vero, in tante parti dell’isola c’è stata una convivenza serena tra Punici e isolani ma non possiamo escludere conflitti e scontri anche violenti. Del resto i sardi di quell’epoca erano armati, e le armi che conosciamo non erano certo da parata”.

Riflessioni:
Sulle sculture in pietra di Monte Prama si è scritto molto e si continuerà a farlo in futuro, soprattutto alla luce delle dichiarazioni degli addetti allo scavo. Colpisce il loro malumore sulla "fuga di notizie" e, soprattutto, l'attribuzione ai cartaginesi della distruzione violenta delle statue.
Sul primo punto c'è da osservare che per gli archeologi, retribuiti con soldi pubblici per dirigere gli scavi e riferire sul materiale trovato, dovrebbe essere motivo di orgoglio lavorare in un sito così importante e, oggi, sotto i riflettori dell'opinione pubblica. Non si capisce il motivo del risentimento sulle notizie che trapelano, diffuse dai media e sempre rispondenti alla realtà dei ritrovamenti. I reperti, bisogna ricordarlo, non appartengono a chi li scava o alla soprintendenza che ne dispone secondo proprie idee. I beni archeologici appartengono allo stato italiano, cioè ai cittadini che con i tributi compongono la nostra grande comunità denominata, appunto, stato italiano. Già questo dovrebbe far riflettere gli archeologi sui toni e sulla tempistica (a semplice richiesta sono obbligati a riferire) che dovrebbero adottare. I cittadini potrebbero essere di grande aiuto per la tutela e valorizzazione dei siti archeologici, e la loro collaborazione attiva (non dentro lo scavo ma ai margini) costituisce un deterrente per i tombaroli.
Sul secondo punto, la presunta identità cartaginese dietro la distruzione, Zucca non mi trova d'accordo perché nel sito non c'è, al momento, alcun indizio archeologico riferibile a Cartagine. Se fossero loro i responsabili dovrebbero esserci tracce, anche alla luce delle oltre 10 tonnellate di materiali disintegrati. Il sito è nuragico, le sepolture sono nuragiche, il territorio circostante è nuragico. Cartagine è parecchio lontana, inoltre era alleata dei sardi e non avrebbe violato la loro religiosità. C'è da rilevare, invece, che Roma durante le guerre puniche, e successivamente, si macchiò di una violenza sistematica verso i nemici che non si arrendevano con le buone. C'è da rilevare, tuttavia, l'assenza totale di frequentazione del sito dal VI al III a.C., come se per oltre 300 anni nessuno si preoccupò di quelle sculture. Con il rasoio di Occam direi che ci sono due possibilità: 
1) ha visto bene Ugas che è convinto di una distruzione precedente il VI a.C. da parte di tribù nuragiche ostili.
2) ho visto bene io che parlo di azione militare dei romani durante le guerre puniche.
Un suggerimento che indirizzerei allo staff di archeologi che operano a Monte Prama è di continuare a scavare, riferire puntualmente sui ritrovamenti e astenersi da commenti interpretativi, soprattutto se si tratta di opinioni personali non suffragate da reperti. Certe idee, a volte, sono prese per buone senza verifiche e diventano letteratura, portando a clamorosi errori di valutazione e alla necessità di fare qualche passo indietro nella ricerca.
Detto ciò auguro buon lavoro agli esperti e auspico in una maggior collaborazione con gli organi di diffusione delle notizie, veri amplificatori delle possibilità di conoscenza del sito in ambito mondiale.



lunedì 25 agosto 2014

Scoperto un relitto fenicio a Malta, forse il più antico del Mare Mediterraneo.

Scoperto un relitto fenicio a Malta, forse il più antico del Mare Mediterraneo.
(ANSA)

Un relitto di un vascello fenicio è stato scoperto a circa 120 metri di profondità al largo del isola di Gozo. La notizia è stata data dal ministro maltese della Cultura, Owen Bonnici, che ha spiegato che si potrebbe trattare del più vecchio relitto fenicio mai scoperto nel Mediterraneo. Secondo il ministro, sommozzatori hanno già prelevato un numero considerevole di anfore ed altri oggetti di valore.

Clicca qui per vedere il video del ritrovamento


C'è da dire che fino a oggi, l’imbarcazione di Zambratija, scoperto nei fondali della Croazia nel 2008 è il più antico relitto che testimonia la navigazione marittima dell'età del bronzo nel Mediterraneo. Datato all’XI a.C., è conservato a Istria, a pochi chilometri dal confine italiano poco a sud del capo di Savudrija (a nord di Umag) in prossimità di un villaggio del Bronzo. Lo scafo, largo 2,5 m e lungo 7,5 m, mostra legature con fibre vegetali secondo la tecnica arcaica di cucitura di tavole in legno di olmo e ontano. Questo relitto mostra molte similarità costruttive con le imbarcazioni di Comacchio della provincia romano-padana. Nel 2011, in un convegno presso il Museo locale, sono stati illustrati i dettagli costruttivi dell'assemblaggio della chiglia e delle cuciture, ben conservate nel relitto.



Divers have discovered what could be the oldest shipwreck in the Mediterranean - a 700BC Phoenician boat found about a mile off Gozo.
Justice and Culture Minister Owen Bonnici said the wreck is in waters 120 metres deep. The divers found around 50 amphora of seven different types - indicating the vessel had been in different harbours.
They also found 20 lava grinding zones weighing some 35 kilos each. Samples have been raised to the surface for study. The whole operation is being supervised by the Superintendence of National Heritage.

Foto di www.archeologiasubacquea.com

Da un collezionista trovato un tesoro archeologico trafugato con il metal detector in una necropoli

A casa di un collezionista trovato un tesoro archeologico trafugato con un metal detector nella necropoli di Spina.

La guardia di finanza ha trovato a casa di un cittadino di Ferrara più di 300 monete di epoca romana fra le quali un denario del 90 a.C. raffigurante Lucio Pisone. Una collezione di monete da far impallidire Dionigi di Alicarnasso. Chissà come avrebbe descritto lo storico greco, che immaginava Spina fondata dagli Argonauti, le meraviglie che due millenni dopo le divise della guardia di Finanza hanno scoperto in un salotto privato di un ferrarese. Per le fiamme gialle di Ferrara la descrizione si appoggia semplicemente al dettato del codice penale: ricettazione di beni archeologici. Dove l’oggetto dell’ipotesi di reato sono oltre 300 monete di epoca romana.
È partito tutto da un semplice controllo in località Valle Pega, nelle vicinanze della necropoli di Spina, antico porto sull’Adriatico e oggi sito archeologico ricco di oltre 4.000 tombe etrusche e reperti successivi dei conquistatori romani. Qui una pattuglia della Finanza ha notato un uomo aggirarsi con un metal detector tra gli scavi. Un bastone da passeggio quantomeno inusuale, che non poteva non attirare le attenzioni dei militari. Questi lo hanno fermato per un controllo una volta che l’uomo, un ferrarese di 50 anni, era salito in auto. Con sé aveva una moneta antica. Un motivo sufficiente per estendere la perquisizione all’abitazione del cinquantenne, in provincia di Ferrara.

E qui davanti agli occhi attoniti dei finanzieri si è aperto un arsenale di preziosi reperti antichi. In tutto 311 pezzi, in gran parte monete e monili, di rilevante interesse archeologico. Il fiore all’occhiello di questo tomb raider post litteram era un denario d’argento datato 90 a.c. raffigurante Lucio Pisone, politico romano dell’età repubblicana, mentre altre due monete sempre d’argento risalgono all’87 e 76 a.c. Molte di più le monete di bronzo che, dal primo imperatore di Roma, tocca quasi tutta la storia dal 1 a.c. al 4 secolo d.c. Tutti potenzialmente appetibili sul mercato nero.
“Abbastanza per far catalogare quella collezione come un crimine contro la conoscenza”.
Sono le parole del comandante della Guardia di finanza di Ferrara Sergio Lancerin davanti al maxi sequestro operato dai suoi uomini. “L’indagato aveva la precisa volontà di andare a caccia di reperti archeologici – aggiunge l’archeologo Mario Cesarano, incaricato come consulente tecnico per la prima perizia degli oggetti rinvenuti – perché ha selezionato materiali autentici e antichi, dimostrando la conoscenza dei siti e una certa competenza nella ricerca e nella selezione a monte”.

Ora questa “scoperta sensazionale”, come la definisce Marco Edoardo Minoja, soprintendente per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, andrà ad arricchire, dopo l’iter burocratico per poter ricevere in custodia il materiale, il Museo Archeologico nazionale di Spina, a Ferrara.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, articolo di Marco Zavagli.

A margine di questo articolo, vorrei fare una mia personale considerazione. Premesso che vi è una sacrosanta legge che attribuisce allo Stato la proprietà di tutto ciò che sta sotto terra (e dunque il signore ha commesso un reato e va punito), c’è da osservare che i tombaroli generalmente agiscono per profitto, non tengono le monete e i monili dentro teche di cristallo ma ben nascosti in attesa di venderli. Inoltre il denario di Pisone non credo valga più di 100 euro. Riguardo alla monetazione romana di bronzo ha valori molto bassi (20/30 euro) a parte rare eccezioni. Tuttavia, le antichità non sono tali per la loro età o la loro bellezza intrinseca ma per il loro valore storico e culturale, atto a ricostruire la storia dei popoli.


domenica 24 agosto 2014

In Italia, nella costa ligure, l’ultimo rifugio dei Neanderthal?

In Italia, nella costa ligure, l’ultimo rifugio dei Neanderthal?

La Liguria è stata uno degli ultimi rifugi degli uomini di Neanderthal. La ricerca internazionale anticipata dalla rivista Nature, in cui si ipotizza con maggiore precisione la scomparsa definitiva di questi uomini per lasciare il campo agli homini sapiens, cioè gli uomini moderni, a 40.000 anni fa. E proprio a questo periodo, secondo le ricerche che tuttora si fanno nella Grotta dei Balzi Rossi, vicino a Ventimiglia, risalirebbero i reperti.
«Quello che emerge – spiega Elisabetta Starnini, direttrice del Museo nazionale preistorico dei Balzi Rossi – è che le due specie hanno convissuto per qualche migliaio di anni. Ancora non è chiaro quanto abbiano interagito né se, come suggeriscono alcune ricerche, fossero interfertili e abbiano messo al mondo degli ibridi».
Quello che si cerca di fissare con le ultime ricerche è proprio il momento del “passaggio del testimone” tra le due specie: i Neanderthal si sono estinti lasciando campo libero a quelli che scientificamente si definiscono “uomini anatomicamente moderni” o “proto – aurignaziani”.
«Dalle aree archeologiche del Riparo Bombrini e del Riparo Mochi sono arrivati dei campioni che sono entrati nella ricerca di Nature, ad opera di ricercatori di due equipe internazionali, in cui lavora anche Fabio Negrino dell’Università di Genova – continua Starnini – noi conserviamo stratigrafie che conservano elementi che dimostrano la frequentazione, negli stessi luoghi, di entrambe le specie».
Allo studio, proprio in questi giorni, un dente ritrovato nel sito archeologico dell’imperiese. «Stiamo cercando di capire se appartiene a uno degli ultimi neanderthaliani o a uno dei primi aurignaziani», spiega Starnini, che aggiunge come sia difficile compiere ricerche in assenza di scheletri completi, finora mai trovati.
In Portogallo, a Lagar Velho «è stato trovato lo scheletro di un bambino e secondo alcuni potrebbe appartenere a un ibrido, perché ha tratti neanderthaliani non del tutto sviluppati. Ma potrebbe invece trattarsi semplicemente del fatto che, proprio perché bambino, fosse ancora in fase di sviluppo». Quello che è certo, conclude Starnini, è che la Liguria (non solo i Balzi Rossi ma anche, per esempio, le grotte di Toirano nel savonese e altri siti ancora) è una delle aree più interessanti per questo tipo di ricerche.
Ricordiamo che l’uomo di Neanderthal si è estinto gradualmente dal continente europeo, a macchia di leopardo, dando così la possibilità di incontri ravvicinati con gli uomini moderni che avevano già fatto la loro comparsa in diverse zone, come nel sud Italia.
A rivelarlo è la datazione ultra precisa dei reperti archeologici raccolti in 40 siti sparsi dalla Russia fino alla Spagna. Lo studio, pubblicato su Nature, è stato condotto dagli archeologi dell’università di Oxford guidati da Tom Higham, in collaborazione con diversi ricercatori delle università di Genova, Trento, Ferrara e Siena.
Secondo la nuova ricostruzione, l’uomo moderno e il Neanderthal sono stati scomodi vicini di casa per periodi di tempo che variano da regione a regione, fino ad un massimo di quasi 5.400 anni nel sud dell’Europa: un tempo più che sufficiente per dare vita a scambi di tipo culturale e genetico. L’estremo rifugio degli ultimi Neanderthal prima dell’estinzione sarebbe stata la Francia circa 40.000 anni fa, mentre non ci sono prove che confermino la presenza di superstiti oltre questa epoca nella penisola iberica.
Per riscrivere questa pagina della preistoria, i ricercatori hanno accuratamente selezionato reperti (ossa e manufatti) provenienti da 40 siti sparsi tra le sponde dell’Atlantico fino a quelle del mar Nero. Per quanto riguarda l’Italia, in particolare, sono stati studiati reperti provenienti dalla Grotta del Cavallo e dal Riparo l’Oscurusciuto in Puglia, dal Riparo Bombrini in Liguria, dalla Grotta di Fumane in Veneto e da Castelcivita in Campania. I reperti sono stati sottoposti a una innovativa tecnica di datazione ad altissima precisione, messa a punto nei laboratori di Oxford, basata sulla spettrometria di massa con acceleratore.

Fonte: Il Secolo XIX
Immagine di: http://tylertretsven.files.wordpress.com/

sabato 23 agosto 2014

Archeologia in Sardegna. Un nuovo arciere viene alla luce nello scavo di Monte Prama.

Archeologia in Sardegna. Un nuovo arciere viene alla luce nello scavo di Monte Prama.

Il sito di Mont'e Prama, nei pressi di Cabras (OR) continua a stupire e a regalare nuovi pezzetti di una storia antichissima. Ecco cosa sta accadendo nel Sinis.
Adesso c'è anche un torso di un arciere, ma non solo. Dalla collina di Mont'e Prama ieri mattina è venuta alla luce la prima base con due piedi ben saldi alla pietra. Le teste invece non sono più due ma tre. L'ultima è stata ritrovata appena due giorni fa. Queste sono le ultimissime scoperte fatte dal gruppo di archeologi nel sito di scavo che si trova nella penisola del Sinis.
Venti giorni fa le mani degli esperti hanno trovato diversi piedi, mani, parte di uno scudo, un busto e due teste con orecchie e trecce in evidenza. Senza dimenticare due modellini di nuraghe e due grandi betili da due metri ciascuno.
Ricordiamo che i primi frammenti furono trovati verso la metà degli anni Settanta e il restauro è terminato recentemente a cura del centro di Li Punti.

Fonte: L'Unione Sarda 


venerdì 22 agosto 2014

Addio agli etruschi: prevista la cancellazione della Soprintendenza

Addio agli etruschi: prevista la cancellazione della Soprintendenza


Che fine faranno affreschi come questo nella foto, con nobili e musici che suonano e danzano allietando le giornate delle comunità etrusche di 3000 anni fa? 
La spending review cancellerà 75 anni di storia, scavi e ricerche. Questo è previsto dalla nuova organizzazione del Ministero ai Beni culturali. La Soprintendenza per i Beni archeologici dell'Etruria Meridionale, istituita nel 1939 in considerazione dello straordinario patrimonio del territorio dove per 1000 anni fiorì la civiltà etrusca, potrebbe presto sparire. Lo prevede la riforma del Mibact, voluta dal ministro Dario Franceschini e ora in attesa del via libera del Consiglio dei Ministri, che potrebbe arrivare il 29 agosto.
Una decisione che ha scatenato una rivolta, non solo del mondo accademico. La soprintendenza sarà accorpata a quella per i Beni archeologici del Lazio, in un'unica istituzione, senza tenere in considerazione la specificità del territorio e dei siti che oggi tutela e valorizza: un patrimonio archeologico diffuso fra 90 Comuni della provincia di Roma e di Viterbo, con punte di diamante riconosciute in tutto il mondo, iniziando dalle necropoli di Cerveteri e di Tarquinia, iscritte nella lista dell'Unesco come siti patrimonio dell'Umanità.
Ma anche un sistema integrato di una decina di musei, che proprio da quei siti archeologici e dagli quegli scavi trae linfa. Coordinato dalla prestigiosa sede del Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia,  riconosciuto come il più importante al mondo per le antichità etrusche e uno dei primi musei istituiti in Italia,  che da qualche anno si estende anche nella splendida Villa Poniatowski, realizzata nell'Ottocento dal Valadier e acquistata dallo Stato nel 1989.

Intanto è partita una petizione, sostenuta e portata avanti dalle maggiori personalità dell’etruscologia italiana e non solo, che conta ad oggi più di quattrocentocinquanta firme. Il testo sottolinea l’unicità di reperti presenti nell’area quali, ad esempio, quelli rinvenuti nelle necropoli di Tarquinia, Vulci, Veio, Cerveteri, per non parlare dei reperti mobili quali il “Sarcofago degli Sposi”, conservato al Museo di Villa Giulia. “L’accorpamento in un’unica Soprintendenza con quella del Lazio meridionale, di fatto un appiattimento, ne ridurrebbe la capacità operativa e la spinta al rinnovamento”; sarebbe inoltre un “regresso” a una situazione di inizi ‘900, che annullerebbe importanti riforme e istituzioni.

Ecco l’intervista a MarioTorelli apparsa su Repubblica:

Sono fra i non pochi archeologi che hanno solo notizie vaghe del progetto di legge di riordino delle soprintendenze studiato dal ministro Franceschini. Leggiamo sui giornali che ci sarà un accorpamento delle tre specialità su base regionale: dovranno sparire moltissime creature della riforma Bottai (1939) e delle parcellizzazioni degli anni Sessanta. Ed è proprio questa la soprintendenza dove ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera mezzo secolo fa. In sé scelte di questo genere non sono a priori né buone né cattive: diceva Bianchi Bandinelli che è il professore che fa la cattedra e non la cattedra che fa il professore. Ora, poiché non è pensabile che la nuova riforma affidi a non specialisti la vita di istituzioni museali antiche e consolidate, come il Museo di Villa Giulia, nato subito dopo l'Unità assieme al Museo nazionale romano, per mostrare al mondo il volto del nuovo stato italiano, capace di prevalere sui grandi Musei vaticani, occorrerà vedere di quale grado di autonomia disporranno quanti saranno preposti alla conservazione e alla valorizzazione del museo, e quale organismo sarà in grado di assicurare l'alto livello specialistico richiesto dagli interventi sull'immenso patrimonio etrusco, finora affidato alla soprintendenza per i Beni archeologici dell'Etruria meridionale.
Questo è ciò che preoccupa persone come me, che agli etruschi hanno dedicato una parte non secondaria della propria vita scientifica, esattamente come sono preoccupati anche gli storici dell'arte per i destini di gioielli unici, come ad esempio la Galleria Borghese, e più in generale, per i destini della conoscenza e della difesa di opere d'arte mobile, di cui l'Italia è ancora depositaria, malgrado i saccheggi e l'incuria di governanti che da sempre avrebbero dovuto provvedere alla salvaguardia dei nostri  tesori artistici e non lo hanno fatto. Ci dica il ministro Franceschini, lasciando per un momento da parte manager e bookshop, che cosa ha in mente per l'architettura di dettaglio dei futuri organismi di tutela, che tutto il mondo ci ha invidiato, e speriamo, dovrebbe continuare a invidiarci.

giovedì 21 agosto 2014

Archeologia. Infrastrutture portuali e un cimitero di animali di 2500 anni fa scoperti dagli archeologi a Berenice, sul Mar Rosso, in Egitto.

Archeologia. Infrastrutture portuali e un cimitero di animali di 2500 anni fa scoperti dagli archeologi a Berenice, sul Mar Rosso, in Egitto.

Questa volta, durante gli scavi, ci ha sorriso la fortuna perché abbiamo portato alla luce gli elementi di legno che formano lo scafo di una nave che ha navigato durante la prima età romana. Sono le parole di Iwona Zych del Centro di Archeologia del Mediterraneo, presso l’Università di Varsavia, che dirige la ricerca in collaborazione con il prof. Steven E. Sidebothamem dell'Università del Delaware negli Stati Uniti.
Si tratta del primo scafo di nave di questo periodo completamente conservato e documentato in Egitto. Il luogo di ritrovamento conduce i ricercatori a credere che la nave sia stata smantellata e le sue parti conservate in un magazzino della baia del porto. Oggi, gli archeologi esaminano i reperti per le misure dettagliate, così da riuscire a elaborare una ricostruzione delle dimensioni della nave.
"Questa sarà la prima volta che potremo stabilire con certezza le dimensioni reali e il metodo di costruzione delle navi che solcavano il Mar Rosso, perché fino ad oggi non erano sopravvissute unità antiche o relitti" dice Zych.
A nord-est del porto, gli archeologi hanno scoperto un grande cimitero di piccoli animali con 60 sepolture: gatti, cani e due piccoli cercopitechi e babbuini. La maggior parte degli animali sono stati sepolti all'interno dei contenitori danneggiati oppure ricoperti di frammenti di vasi di terracotta e anfore. Un fatto interessante è che uno dei cercopitechi indossava un girocollo metallico.
La missione Archeozoologica di Marta Osypińska, ritiene che un tale accumulo di sepolture può essere il risultato di una pestilenza nei pressi del porto, oppure lo sfruttamento di giovani animali in rituali magici, durante i quali l'oracolo suggeriva il sacrificio prima di un lungo viaggio in mare. Sono noti vari casi nella letteratura romana e si conoscono altri esempi di cimiteri di animali. Ulteriori ricerche potrebbero chiarire questo puzzle.
Dopo diverse stagioni di lavoro a Berenice finalmente si è riusciti a fare una mappa completa della posizione geografica utilizzando un metodo archeologico che si avvale di strumenti legati al magnetismo in grado di stabilire con precisione le zone in cui vi è una struttura.
"I risultati di quest'anno sono stati promettenti. Abbiamo registrato strutture completamente invisibili in superficie. Tra queste c’è un edificio con un cancello e quattro ingressi posto all'incrocio di due strade principali e un grande complesso legato al culto e alla pubblica amministrazione nelle città del nord", dice Zych, e aggiunge “con i risultati dell’indagine geofisica potremo pianificare i prossimi scavi e riuscire a scoprire altri siti e reperti interessanti”.
Berenice, fondata nel III a.C. dal faraone Tolomeo II (285-246 a.C), era munita di un porto che gestiva la spedizione di elefanti africani. Il sovrano utilizzava questi animali nelle battaglie contro i nemici che volevano sottrargli il controllo delle provincie orientali. Non riuscendo ad avere accesso agli elefanti indiani, utilizzati dai nemici, Tolomeo tentava di opporsi ai loro elefanti ottenendoli da fonti indipendenti: Sudan, Eritrea ed Etiopia. Gli animali giungevano con l'aiuto delle navi che attraversavano il Mar Rosso, e Berenice era uno snodo strategico per le operazioni navali. Successivamente gli animali arrivavano dal deserto orientale della valle del Nilo. Oltre agli elefanti, al porto sono stati trovati vasi con le merci provenienti da India, Ceylon e Sud Arabia.La città era un rifugio e un luogo di soggiorno temporaneo per marinai, commercianti e persone provenienti dagli angoli più remoti del mondo.


mercoledì 20 agosto 2014

Giganti di Monte Prama. Conferenza sotto le stelle nei pressi di Cagliari

Giganti di Monte Prama. Conferenza sotto le stelle a Costa degli Angeli, nei pressi di Cagliari 

Si svolgerà Venerdì 22 Agosto alle 20.30 in Via Liri, nel litorale di Quartu a Costa degli Angeli, il convegno sulle statue di Monte Prama.
La conferenza settimanale organizzata dall'Associazione ACSRD, in collaborazione con l'Istituto Sardo Universitario, è dedicata ai “giganti di pietra”, ritrovati nei pressi di Cabras e recentemente restaurati al centro di Li Punti. Saranno illustrati la storia e i risultati dell’importante ritrovamento archeologico di Mont’e Prama. Parlerà dell’argomento Pierluigi Montalbano.
Il relatore, con l'ausilio di immagini proiettate, evidenzierà il concetto che la scoperta cambia la storia della Sardegna e del Mediterraneo Occidentale. Il prezioso tesoro venuto alla luce nel Sinis, a quasi 40 anni dal ritrovamento, ha finalmente trovato una adeguata e definitiva collocazione museale a Cagliari e Cabras, pur suscitando alcune perplessità per la separazione in quanto alcuni studiosi avrebbero preferito un'esposizione unica di tutto il corpus scultoreo.

Il rinvenimento risale a marzo del 1974, nella località di Mont’e Prama, da un contadino che durante l’aratura del suo terreno, toccò con la lama dell’aratro la testa a grandezza reale di una statua. Chiese aiuto alle autorità che fecero intervenire due illustri archeologi sardi dell’epoca, Giovanni Lilliu e Enrico Atzeni, che diedero il via a una delle più importanti ed enigmatiche scoperte archeologiche sarde. Le statue furono ritrovate all’interno di un’area sacra sopra delle basi che delimitavano alcune tombe. Erano presenti anche alcuni nuraghi miniaturizzati e diversi betili. Anni dopo, lo stesso Lilliu, raccontò che al momento della scoperta il sole limpido e caldo che caratterizzava la giornata, fu improvvisamente oscurato da una tempesta tremenda che si era abbattuta mentre si portavano alla luce le statue, quasi che gli antichi eroi si fossero risvegliati insieme alle statue, una sensazione impossibile da descrivere ricordava con paura l’archeologo.
Gli scavi, diedero alla luce trenta gigantesche statue di guerrieri in pietra locale, alte oltre due metri, risalenti a 2800 anni fa. Riportano fattezze anomale, con occhi realizzati con due cerchi concentrici e con la bocca appena accennata, formata da una semplice fessura. Hanno una pettinatura a trecce e vestono abiti che riportano ad ambito siriano, ma ciò che li rende unici, sono le grandi dimensioni, un unicum in tutto l’Occidente. Sono realizzate in pietra arenaria delle cave oristanesi e sono in posizione eretta, con braccia piegate a tenere scudi o armi.
Ingresso libero.

Nelle immagini:
sopra, le statue al centro di restauro di Li Punti
sotto, rappresentazione di un guerriero (autore Beppe Cardone, foto di Antonella Carpentieri)

martedì 19 agosto 2014

Dov'erano le Colonne d'Ercole? E già che ci siamo…dov'era Atlantide?

Dov'erano le Colonne d'Ercole? E già che ci siamo…dov'era Atlantide?
di Alberto Majrani

In un precedente intervento http://pierluigimontalbano.blogspot.it/2014/05/iliade-e-odissea-omero-racconto-delle.html abbiamo visto come i racconti omerici e la stessa mitologia classica assumano un significato molto più logico e coerente una volta che si sposta la loro origine nelle terre nordiche, da dove proveniva l'ambra che ritroviamo in molti siti archeologici mediterranei. Passiamo ora a localizzare le Colonne d’Ercole, un altro degli enigmi che già appassionavano gli antichi: in effetti la tradizionale ubicazione nei pressi dello stretto di Gibilterra è, come al solito, una mera ipotesi senza alcun sicuro elemento di prova. Le Colonne d’Ercole dovevano affacciarsi sull’Oceano ed essere l’ultimo limite del mondo conosciuto, ma dopo Gibilterra la costa spagnola e quella africana continuano per parecchi chilometri, e inoltre non ci sono nemmeno delle formazioni naturali che possano ricordare delle vere e proprie colonne, se non un ripidissimo pinnacolo di roccia. Quindi i geografi antichi dovettero piazzarle lì perché non sapevano dove altrimenti collocarle. Sulla possibile reale collocazione delle mitiche Colonne d'Ercole si è detto e scritto di tutto negli ultimi tempi, anche sulle … colonne di questo blog; mi sembra ora di dire la mia.
Ma andiamo ad esaminare chi era questo eroe fortissimo, dai Romani chiamato Ercole (Hercules), e dai Greci Eracle. Era figlio del dio Giove e di una mortale, Alcmena, e fu divinizzato dopo la morte. Il suo culto, con vari nomi, era diffuso nell’antichità in tutta Europa. Alcuni storici antichi riportano che siano esistiti due (o forse addirittura tre) personaggi simili, con lo stesso nome, di epoche diverse.

Senza stare ad elencare tutte le sue famose 12 fatiche, possiamo notare come alcune di esse abbiano una decisa collocazione nordica: il gigantesco cinghiale di Erimanto affonda nella neve fresca; i buoi di Gerione ricordano la saga danese dei buoi di Gefione; i pomi delle Esperidi crescono nelle terre iperboree, cioè l’estremo nord. Inoltre, per raccoglierli, Ercole si fa aiutare da Atlante, il gigante che regge la volta stellata: ma il firmamento apparentemente gira intorno al polo nord celeste, quindi dove poteva stare Atlante per fare da perno e reggerlo, se non in prossimità del polo nord terrestre?
Infine, la vicenda della cerva di Cerinea, una cerva dalle corna d’oro, che stava aggiogata al carro della dea Artemide (Diana), e che fugge anch’essa fino alle terre iperboree prima di essere catturata da Ercole. Ora, l’unico cervide in cui la femmina abbia le corna è la renna, l’unico cervide che può essere aggiogato a un carro è ancora la renna (Babbo Natale insegna…), e infine il cervide tipico dell’estremo nord, dove compie lunghe migrazioni, è sempre lei, la renna! E le renne non vivono in Grecia, ed è certo che mai vi hanno vissuto nel passato, visto che non si sono mai trovati resti fossili e che la loro caratteristiche fisiologiche non sono adatte all’ambiente greco. Eppure c’è un bronzetto miceneo dell’VIII secolo avanti Cristo che rappresenta una cerva che allatta un piccolo, quindi indubbiamente una femmina, con un bel paio di corna… certo è una raffigurazione stilizzata e non assomiglia a una vera renna, ma può darsi benissimo che l’ignoto artista si sia basato sui racconti dei genitori o dei nonni senza averne mai vista realmente una.

Delle altre otto fatiche non si può dare con certezza una collocazione geografica, anche se spesso sono ambientate in territori ricchi d’acqua, quali fiumi e paludi, come del resto anche molti altri miti “greci”: i nomi dei luoghi, come al solito, possono essere frutto di una trasposizione. I miti nascono da avvenimenti reali poi trasfigurati dalle interpretazioni e dai continui passaparola successivi: il difficile è riuscire a risalire alle vicende e alle collocazioni originarie. A questo proposito, si può notare come la Selva Ercinia, cioè la selva di Ercole, corrispondesse alla foresta che ricopriva la Germania, e inoltre che il culto di Ercole, chiamato anche Ogmio (o Ogmios, o Ogma, o Ogham), era diffusissimo in tutto il Nord Europa, isole britanniche comprese, fin dalla più remota antichità. Quindi se Ercole era una divinità nordica, si capisce perché la collocazione delle Colonne d’Ercole nel Mediterraneo generi tanti dubbi... semplicemente, non erano nel Mediterraneo!
E allora dove potevano essere queste colonne gigantesche, situate all’estremo limite del mondo conosciuto, prima del pauroso salto nell’Oceano, il “fiume Oceano” che ricorda la corrente del Golfo? Felice Vinci, l'autore di "Omero nel Baltico", pensa che potessero corrispondere alle isole Fär Oer, mentre io ritengo che la localizzazione ideale sia la costa nord dell’Irlanda, dove sorge una straordinaria formazione naturale, oggi nota come il “Selciato del Gigante”, costituita proprio da decine di migliaia di enormi colonne di basalto!  Quindi non solo due misere colonne, come vengono spesso rappresentate, ma circa quarantamila!

Secondo le leggende irlandesi, le colonne furono edificate dal gigante Fionn Mac Cumhaill (pronunciato Fin Mec Cul), un nome che presenta una strana assonanza con Hercules. In realtà, tale meraviglia naturale risale a un'eruzione vulcanica verificatasi circa 60 milioni di anni fa, ben prima che l'uomo facesse la sua comparsa sulla faccia della terra.
E infine, non è che quei banchi di sabbia poco profondi che si trovano al largo delle Isole Britanniche siano proprio i resti di una certa isola affondata nell’Oceano al di là delle Colonne d’Ercole che in tanti stanno cercando?  Tra il 4000 e il 3000 a.C. c’è stato un picco di freddo che ha interrotto il lungo optimum climatico postglaciale. Per effetto di questa piccola era glaciale, il livello del mare è rimasto più basso per circa un millennio, portando allo scoperto una vasto territorio, che i geologi chiamano Doggerland, ma poi questo territorio è stata nuovamente ricoperta dall’Oceano. Qualcosa di analogo è avvenuto nel periodo tra il 2000 e il 1500 avanti Cristo. Premesso che (sto scherzando, è chiaro!) finché non si troverà uno zerbino con su scritto “Benvenuti in Atlantide” qualsiasi luogo per la localizzazione della mitica isola perduta è buono, magari sarà il caso di fare un giretto in sommergibile da quelle parti…

Si potrebbe obbiettare che, secondo il racconto tramandato da Platone, Atlantide sarebbe però scomparsa in modo improvviso, magari a causa di un catastrofico tsunami, un’onda gigantesca di maremoto, come quelli che nel 2006 hanno  portato morte e devastazione sulle coste dell’Oceano Indiano e nel 2011 in Giappone. Ebbene, se guardiamo verso nord, ad un migliaio di chilometri dalle coste irlandesi, troviamo l’Islanda, isola di ghiacciai e vulcani attivi. Nel 1996,  l’eruzione di un vulcano, situato sotto l'enorme  ghiacciaio del Vatnajökull,  ha sciolto circa 3 chilometri cubi di ghiaccio creando un enorme lago che, a distanza di un mese, ha fatto crollare una parte del ghiacciaio stesso. Una spaventosa massa di  acqua, ghiaccio e fango si è riversata a valle sommergendo una vasta regione, fortunatamente pressoché disabitata, distruggendo tutto quello che incontrava sul suo cammino. Non è difficile immaginare che qualcosa di simile, su scala ancora maggiore se verificatosi durante un periodo freddo, con la calotta glaciale ancora più spessa, possa aver provocato l’ondata gigantesca in grado di distruggere la  civiltà atlantidea.  Le grandi nubi di cenere potrebbero avere portato modifiche al clima e insoliti fenomeni ottici nell’atmosfera, interpretabili come conseguenza dell’ira divina. Qualcosa di molto simile all’evento di Santorini, per cui i due avvenimenti potrebbero aver finito con il fondersi e… confondersi nell’immaginario dei popoli primitivi. Il fatto stesso che il dio del mare, Poseidone, è detto Enosictono, cioè “scuotiterra” fa sospettare che già gli antichi avessero correttamente messo in relazione i maremoti con i terremoti. Recentemente, uno studio geologico condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha scoperto che qualcosa di analogo si verificò nel Mediterraneo circa 8000 anni fa, quando una gigantesca frana sull’Etna, di ben 35 km³, causò l’inondazione distruttiva di diversi villaggi neolitici fino sulle coste mediorientali. Nel 6200 a.C. una frana di un'enorme massa di ghiaccio sulle coste della Norvegia, conosciuta come Storegga Slide, provocò un catastrofico tsunami che devastò l'isola che emergeva in quel periodo al centro del Doggerland, ed ebbe un impatto enorme sulle popolazioni mesolitiche. In effetti, Platone parla di una catastrofe verificatasi 9000 anni prima di Solone, il che corrisponderebbe all’incirca con la fine dell’ultima era glaciale, però non esistono tracce di una civiltà evoluta, simile a quella da lui descritta, a quell’epoca. Certo, si può sempre sostenere che anche quello di Platone sia solo un racconto fantastico, creato appositamente per scopi didattici, e che non abbia nessuna attinenza con la realtà. Ma come ho già detto, molto spesso i miti nascono da eventi reali o da fenomeni naturali, di cui si perde il senso quando vengono trasportati al di fuori del loro originario contesto temporale e geografico. Si tratta di capire fino a che punto il racconto di Platone, che è il primo nella storia che parli esplicitamente di Atlantide, anche se molti miti simili si ritrovano un po’ ovunque, possa essere preso alla lettera. Altre frane di dimensioni colossali sono avvenute nelle regioni nordiche, a causa del rapido innalzamento di tutto il territorio, avvenuto con lo scioglimento della pesante coltre glaciale. Le ripide scogliere norvegesi sono il risultato di quello che i geologi chiamano sollevamento glacioeustatico; da esse si sono staccati pesantissimi blocchi di roccia, in grado di provocare ondate distruttive. Se ha ragione Vinci ad identificare la Scheria con la Norvegia, si potrebbe ipotizzare che il “gran monte”, con cui il vendicativo Poseidone copre la terra dei Feaci, sia il ricordo di una di queste disastrose frane.

E’ anche possibile che il maremoto sia stato causato dalla caduta nell’oceano di un grosso meteorite o di una cometa, ma che potrebbe non aver lasciato tracce geologiche visibili. Un evento di cui sarebbe rimasta testimonianza nel mito di Fetonte , il figlio di Elio, dio del Sole, che precipitò nel fiume Eridano per aver guidato maldestramente  il carro solare del padre troppo vicino alla Terra; le ninfe piangevano lacrime d’ambra, a conferma di una molto più logica collocazione nordica del mito: il termine Eridano indicava anticamente un fiume europeo (non si è mai capito se il Rodano o il Reno, o qualcun altro) e poi ha designato il Po, con il solito meccanismo di designare luoghi diversi con nomi simili. Nel febbraio 2013, la caduta in Russia di un meteorite di una decina di metri di diametro ha fornito uno spettacolare ed inquietante esempio di quale avrebbe potuto essere l’effetto di un simile avvenimento. Il bolide incandescente ha attraversato l'atmosfera alla velocità di 54.000 km/h, circa 44 volte la velocità del suono, lasciando una scia di fumo lunga centinaia di chilometri, e si è disintegrato sopra la città di Čeljabinsk con una esplosione paragonabile a quella di una  bomba atomica, mandandone in frantumi tutti i vetri, ferendo migliaia di persone e danneggiando sei città della regione, per poi concludere la sua corsa in un lago ghiacciato. (video https://www.youtube.com/watch?v=dpmXyJrs7iU )
Di sicuro, anche se si parla di Atlantide come di un “continente” perduto, non può essere scomparsa in pochi giorni un’isola con le dimensioni di un intero continente, senza che se ne trovino tracce evidenti; e inoltre non possiamo fare della fantageologia condensando in un tempo così breve dei processi geologici che richiederebbero comunque centinaia di milioni di anni! E’ possibile, invece, che sia esistita una civiltà marinara  che viveva sulle zone costiere o su una piccola isola, che sia stata in gran parte spazzata via da un evento catastrofico, e che alcuni suoi rappresentanti siano sopravvissuti, magari in altri luoghi, trasmettendo ai loro discendenti in forma di mito il ricordo dei bei tempi passati. I resti di questa civiltà potrebbero essere costituiti dal vasto insediamento neolitico presente nelle isole Orcadi, che per la sua importanza è stato inserito dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità. Di certo, in nessun luogo del mondo ci sono tracce di un’antica civiltà tecnologicamente avanzata paragonabile alla nostra attuale; anche se qualche scultura o graffito dal significato ambiguo  ha scatenato l’immaginazione di molti appassionati di misteri,  gli archeologi non hanno mai trovato degli oggetti che fossero più “moderni” degli archeologi stessi. Purtroppo in una tomba antica non è mai stato rinvenuto né un barattolo di plastica, né una racchetta di fibra di carbonio, né tantomeno una spada laser! Nessuno, nei tempi andati fino ai giorni nostri, ha mai trovato qualche oggetto o qualche strano materiale che non fosse stato già inventato: se qualcuno trovasse qualcosa di assolutamente nuovo diventerebbe immediatamente famosissimo e ricchissimo!
Ritornando al tema dei basalti colonnari, vale la pena di dare un’occhiata ad un altro luogo molto caratteristico: l’isola scozzese di Staffa, nelle Ebridi. In essa si apre una grotta (Fingal’s cave, grotta di Fingal, altro nome del medesimo Fionn) in cui la risacca produce una specie di ululato molto suggestivo, tanto da avere ispirato anche il musicista Felix Mendelssohn per un suo poema sinfonico https://www.youtube.com/watch?v=zcogD-hHEYs , e in tempi più recenti, anche il gruppo dei Pink Floyd per un brano psichedelico, mai però pubblicato nei dischi ufficiali, e ripreso in parte nella lunga suite intitolata Echoes https://www.youtube.com/watch?v=Y9BQhmIShrg .  Ma quello che è più degno di nota è il confronto tra il suo aspetto e la descrizione che Omero fa del mostro di Scilla:
Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando:
la voce è come quella di cagna neonata,
 ma essa è mostro pauroso, nessuno
potrebbe aver gioia a vederla, nemmeno un dio, se l'incontra.
I piedi son dodici, tutti invisibili:
e sei colli ha, lunghissimi: e su ciascuno una testa
 da fare spavento; in bocca su tre file i denti,
 fitti e serrati, pieni di nera morte.
Per metà nella grotta profonda è nascosta,
ma spinge le teste fuori dal baratro orribile,
e lì pesca, e lo scoglio intorno intorno frugando
 delfini e cani di mare e a volte anche mostri più grandi
 afferra, di quelli che a mille nutre l'urlante Anfitrìte. (Od. XII, 85-97)

Singolare poi che più a sud, al largo della Cornovaglia, si trovi l’arcipelago delle isole Scilly…