giovedì 31 ottobre 2013

Archeologia. La dolce vita degli achei di Sibari

La dolce vita dei sibariti
di Daniela Ferraro


Era di gran lunga la più popolosa, la più potente, la più ricca tra le colonie achee la bella Sibari fondata in Calabria, secondo la cronologia di Eusebio, nel 708 a.Cr. tra il corso dei due fiumi Crati e Sibari (oggi Coscile) dall'ecista Ois…d'Elice. I due fiumi avevano reso molto fertile il territorio che offriva in abbondanza frumento, olio, vino, frutta e in quantità di molto superiore alle esigenze locali, le sue ricche miniere trasudavano rame e argento, la sua cavalleria era famosa quanto quella di Taranto e quella messapica. Le sue navi solcavano il Mediterraneo per raggiungere Mileto, l'Etruria, la Sardegna commerciando i propri prodotti e ritornando ricolme di tessuti finissimi, tappeti, avori, profumi, incensi, oggetti d'argento finemente lavorati e d'ogni altro articolo di lusso da offrire ad una popolazione mai sazia del superfluo. “I Sibariti sono schiavi del loro ventre e amanti del lusso” scriveva Diodoro Siculo riportando su di loro diversi aneddoti. Narrava, ad esempio, di un Sibarita che, dopo una visita a Sparta, aveva affermato che era solito stupirsi del coraggio degli Spartani ma che, dopo aver visto la vita frugale e miserabile che essi conducevano, poteva di conseguenza ben affermare quanto essi fossero pari ai più miseri degli uomini e che sarebbe stato di certo meglio per loro morire piuttosto che vivere in tali condizioni perché “ anche il Sibarita più codardo preferirebbe di certo la morte piuttosto che vivere una simile vita!” Per quanto sia inevitabile il pensare che sia gli altri Greci come pure i Romani esagerassero senz'altro nel raccontare di lei sia per catturare l'interesse degli ascoltatori attratti dalla visione di questa città da “Mille e una notte” sia per invidia o astio politico, è innegabile che la vita, a Sibari, si svolgesse all'insegna del lusso e dello sfarzo. E si narrava così della “triphè”, la dolce vita di Sibari che lasciava incantato l'auditorio: i facili costumi sessuali e gli splendidi vestiti dei suoi abitanti intessuti di fili d'oro e impreziositi da spille dorate, le strade coperte per passeggiare anche d'estate al fresco e perché, la mattina, il sole non entrasse nelle case a turbare il sonno mentre una musica, ovunque, accompagnava il passo dei cavalli. Le grandi sale dei banchetti erano riccamente decorate ed adorne di bende e corone e recavano al centro un grande mosaico pavimentale. A Sibari si banchettava ad ogni ora tanto che era un vanto per i suoi abitanti l'affermare di non vedere mai sorgere né tramontare il sole. E l'aria era profumata da incensieri e il pasto accompagnato da musiche e danze. Per ordine del governo sibarita, i galli non potevano stare dentro le mura della città per non turbare, all'alba, il sonno dei suoi abitanti che doveva, invece, protrarsi fino a tarda ora. Tale molle vita non impedì comunque ai Sibariti di fondare subcolonie quali Laos, Scidro e Poseidonia né, alleati con Metaponto e Crotone, di radere al suolo la città di Siris (metà del VI sec.a.Cr.). Sibari era retta a quel tempo da un governo oligarchico, espressione delle grandi famiglie proprietarie terriere e mercantili che venne, però, ben presto in dissidio con il partito democratico che reclamava il potere chiedendo anche una più equa distribuzione delle ricchezze. Il capo di quest'ultimo, Telys, riuscì ad impadronirsi del governo esiliando cinquecento cittadini tra i più facoltosi che si rifugiarono a Crotone chiedendo il suo aiuto. Sul fiume Traente, i Sibariti vennero sconfitti con conseguente caduta della dittatura di Telys e l'assedio alla città. Scrive Strabone” I Sibariti furono vittime del loro orgoglio e del loro lusso. Tutta la loro prosperità fu distrutta in 70 giorni dai Crotoniati che, dopo aver preso la città, deviarono su di essa il corso del fiume Crati sommergendola sotto acqua e fango.” Mi viene alla mente il canto VI dell'Inferno dantesco : Non più sontuosi banchetti per i Sibariti, bensì un'eterna pioggia di acqua fetida e fango. Ma anche la golosità mista a lussuria può diventare leggenda.
Fonte: http://www.larivieraonline.com





Immagine di www.repubblica.it

mercoledì 30 ottobre 2013

Premio Roberto Coroneo

Premio Roberto Coroneo.

Il 6 novembre 2013 presso la fattoria di Sa Illetta, sala Sabater, alle ore 17,15 si terrà la cerimonia per l’assegnazione del premio Roberto Coroneo per la miglior tesi di laurea in Storia dell’arte medievale. La cerimonia sarà caratterizzata dalla Lectio Magistralis del Prof. Cosimo Damiano Fonseca, Teologo, Accademico dei Lincei e già Rettore dell’Università della Basilicata.

Interverranno Andrea Pala, docente di storia dell’arte medievale dell’Università di Cagliari nonché allievo di Roberto Coroneo che ne traccerà un ricordo; Rossana Martorelli, docente di archeologia cristiana e medievale dell’Università di Cagliari e Tatiana Kirova, preside della facoltà di Lettere-Beni Culturali Università Telematica Internazionale Uninettuno; Idimo Corte dell’associazione culturale Sa Illetta.
Coordinerà i lavori Cecilia Tasca docente di archivistica dell’Università di Cagliari.

martedì 29 ottobre 2013

Archeologia della Sardegna. Civiltà nuragica: risorse e attività

Civiltà nuragica: risorse e attività
di Pierluigi Montalbano


Alimentazione, ambiente ed economia sono temi interconnessi attraverso i quali si deduce il modo di vivere di una popolazione. Gli archeologi studiano gli alimenti consumati dai nuragici grazie alle nuove tecniche di analisi chimica e fisica. Dal VI Millennio in poi, in Sardegna, l’uomo da predatore diventa produttore e deve organizzare le attività dotandosi di strutture economiche.
La produzione dei beni di sussistenza si impatta sull’ambiente e le attività lasciano tracce, a volte pesanti, sull’ambiente circostante. E’ doveroso, per attuare una ricerca valida, approfondire una serie di studi che riguardano le relazioni fra alimentazione, economia e ambiente.
L’alimentazione è un elemento culturale complesso, infatti ancora oggi c’è il pranzo quotidiano che riunisce la famiglia, o il pranzo di rappresentanza dove si mostra qualcosa di sé all’ospite, e il pranzo diventa un momento fondamentale di convivialità.
Negli anni Ottanta, l’americano Gary Webster ha scavato a Borore, nel nuraghe Duos Nuraghes. Fra le nuove tecniche utilizzate, c’è la flottazione, ossia setacciare la terra con l’ausilio dell’acqua. Con questa tecnica i materiali pesanti si depositano sul fondo dei secchi, mentre sulla superficie rimangono quelli più leggeri, prevalentemente frammentini di carbone o resti carpologici, cioè semini o frutti carbonizzati, con i quali gli specialisti riescono a determinare la specie vegetale coltivata all’epoca. Al Duos Nuraghes si sono trovati semi di grano tenero e grano duro. Nell’isola, già dall’inizio del Neolitico, la coltivazione dei cereali (farricello e farro) testimonia la conoscenza di piante addomesticate, indelebile prova di frequentazione dell’isola da parte di gruppi umani provenienti dal Vicino Oriente, laddove l’agricoltura aveva ormai sviluppato tecniche evolute (la Mezzaluna fertile è il luogo più probabile).
Il grrano trovato a Duos Nuraghes è databile all’inizio del XIV a.C. nel periodo di pieno sviluppo della civiltà nuragica. Sul margine della Giara di Siddi ci sono 16 nuraghi, e al centro troviamo una grande tomba di giganti. In questi nuraghi si stanno eseguendo dei sondaggi di piccole aree di circa 20 mq, per recuperare le stratigrafie ed eseguire la flottazione e le analisi dei pollini, per capire come era l’ambiente della giara in quei tempi. Fra i primi risultati ottenuti, si è scoperto che dentro il nuraghe, a due metri di profondità, nel materiale bruciato intorno a un focolare, sono stati trovati dei semini di grano tenero. Questi elementi vegetali erano in associazione con ceramiche del XIV a.C., quindi siamo certi della datazione del contesto.
Nel villaggio attorno al nuraghe Genna Maria di Villanovaforru, sul fondo dei dolii fracassati visibili al museo, cronologicamente attestati nel X a.C., sono stati trovati resti di migliaia di semini carbonizzati di grano tenero, duro e orzo, oltre il farro. Nel vano 12 c’erano frammenti di pane azzimo. Si distinguono la crosta, la mollica e le bollicine del gas, piccole e regolari, della fermentazione dovuta alla cottura.
I cereali sono derrate solide a lunga conservazione, quindi l’uomo deve, oltre a produrli, conservarli perché la produzione deve durare tutto l’anno ed è necessario avere semi aggiuntivi da piantare per la successiva stagione produttiva. Ne consegue che occorrono dei luoghi e degli oggetti dove conservare questi materiali. All’epoca l’indice di produttività era 1:6, ossia si ottenevano 6 semi da ogni seme piantato.

Nel nuraghe Arrubiu di Orroli abbiamo due modalità di conservazione del grano: per la comunità e per la riserva familiare. La comunità conservava tutto in un silos all’interno del quale non c’erano ceramiche, ne ossa di animali, ne resti vegetali carbonizzati. C’è da considerare che il nuraghe è in basalto, e questo materiale ha una reazione acida con le piogge e tende a non conservare i residui organici. Il calcolo statistico rivela che il silos poteva alimentare per un anno circa 70/100 persone. Vista la presenza di un altro silos, si deduce che la popolazione di quella comunità era numerosa.
Nei nuraghi abbiamo anche la presenza di legumi (favini e piselli) e di lenticchie. Per quanto riguarda l’ulivo, sappiamo che in Sardegna, nella zona di Luras, esistono ulivi che risalgono al 2000 a.C. Le analisi del DNA dell’olivo hanno mostrato che l’olivo coltivato nel vicino oriente è diverso dall’ulivo selvatico mediterraneo. Da quest’ultimo, con l’addomesticazione, si arriva all’ulivo coltivato che conosciamo, pertanto oggi siamo certi che l’ulivo sardo non proviene dal vicino oriente. In uno strato del XV a.C. del Duos Nuraghes di Borore sono stati trovati alcuni semini carbonizzati di ulivo mediterraneo. Negli anni Ottanta, nello scavo di un sito del V Millennio a.C., a Saint Florence nell’alta Corsica, hanno trovato le tracce dei tessuti vegetali dei fiscoli, ossia quegli elementi in tessuto vegetale che servono per ricavare l’olio dalla spremitura delle olive. I semini carbonizzati erano di olivastro, e non di olivo coltivato, ma stiamo parlando di 2500 anni prima dei nuraghe. Questo suggerisce che in Sardegna conoscevano pressappoco le stesse tecniche mesopotamiche e ottenevano gli stessi risultati.

lunedì 28 ottobre 2013

Prima età del Bronzo: Relazioni strette fra Sardegna e Spagna.

La cultura iberica di “El Argar” e le relazioni con la Sardegna
di Claudia Pau


Claudia Pau, si è laureata in lettere classiche con indirizzo archeologico presso l’Università di Cagliari, si è specializzata in archeologia con tesi in preistoria nel programma “Archeologia e Territorio” dell’Università di Granada (Spagna), ha conseguito il master di museologia presso l’Università di Alcalá. Attualmente è al terzo anno di Dottorato di Ricerca europeo presso l’Università di Granada. Ha partecipato a scavi archeologici in Italia e all’estero e dal 2009 dirige scavi di archeologia preventiva in Spagna. Al suo attivo ha varie pubblicazioni archeologiche.


1. La cultura argarica
1. 1. Storia della ricerca archeologica

La cultura argarica, cominciò ad essere conosciuta nella bibliografia specializzata quando al finale del secolo scorso i fratelli Luis e Enrique Siret, due ingegneri belgi che lavoravano nella zona miniera de Herrerías (Almería), pubblicarono l’opera intitolata “Las primeras edades del metal en el Sudeste de España”; però fu con il lavoro del Prof. Tarradell negli anni Quaranta quando si cominciarono a fissare i limiti geografici della Cultura di El Argar.
I maggiori contributi in campo archeologico appartengono agli anni Settanta: El Cerro de la Virgen de Orce (Granada) (Prof. Schüle, Universitá di Freiburg), El Cerro de la Encina Monacil (Prof. Arribas, Molina, Universitá di Granada), La Cuesta del Negro Purullena (Prof. Arribas, Molina, Universitá di Granada), La Bastida, Totana, (Università di Barcellona).
Le informazioni sulla cultura di El Argar si rafforzeranno negli anni Ottanta, con la partecipazione di differenti equipe di ricerca: Dipartimento di preistoria dell’Università di Granada, l’istituto Archeologico tedesco, l’Università Autonoma di Barcellona, l’Università di Murcia e l’Università di Alicante (Contreras et alii, 1997).
Attualmente sono importanti gli studi condotti dall’Università di Granada (Progetto Peñalosa, Castellòn alto) e dall’Università di Almeria (Cabezo Redondo), dall’Università di Barcellona (La Bastida, Totana, Murcia).

1.1.1. Origine, sviluppo, cronologia
L’area spaziale della cultura di El Argar interessa gran parte della provincia di Granada, Jaén e Alicante e le province di Almeria e Murcia; nella stessa epoca, in altre regioni peninsulari, si svilupparono importanti culture influenzate da quella argarica: il Bronzo Valenziano (Levante), il Bronzo del Sud Est (Sud del Portogallo e Huelva), il Bronzo della Campiñas y della Bassa Andalusia (Valle del Guadalquivir), il Bronzo della Mancha (Provincia di Ciudad Real e Albacete), (Contreras et alii, 1997).
Sono state formulate diverse ipotesi sull’origine e lo sviluppo di questa cultura; attualmente si considera la Cultura Argarica come una tappa nell’evoluzione delle popolazioni autoctone del Sud Est, (Contreras et alii, 1997).
Seguendo la proposta di F. Molina e J. A. Camara, si ritiene che la cultura argarica abbia avuto origine nel Bronzo Antico: (2200-1900 A.C.) nella zona di Lorca e nella Depresión de Vera; si sia espansa verso l’altopiano granadino, l’Alto Guadalquivire, e la zona costiera orientale durante il Bronzo Pieno (1900-1650 A.C.); per concludersi nel Bronzo Tardo (1650-1450 A.C.) dopo un ultima espansione verso l’area di Villena.


1.1.2. Aspetti caratteristici della cultura argarica

La cultura argarica presenta una serie di innovazioni strutturali e materiali rispetto alle anteriori culture calcolitiche, molte di queste caratteristiche connoteranno questa cultura spagnola: la costruzione degli insediamenti, le sepolture e il rituale funerario, il ruolo del metallo, le nuove forme ceramiche, la forte differenziazione sociale, e l’uso di un sistema economico che integra le attività agricole, l’allevamento, le attività forestali, e lo sfruttamento delle risorse vegetali e faunistiche (Contreras et alii, 1997).

sabato 26 ottobre 2013

Sardegna archeologica. Monte Sirai, una fra le città sarde più antiche.

Storia degli scavi a Monte Sirai
di Piero Bartoloni



La città di Monte Sirai si pone come strumento fondamentale ai fini di una maggiore conoscenza della civiltà fenicia e punica poiché il centro
abitato, completo in ogni sua fondamentale componente, è privo di sovrapposizioni più tarde. Dopo il suo abbandono, avvenuto per motivi
non facilmente spiegabili attorno al 100 a.C., nulla è venuto a sconvolgere o a mutare in modo sia pure minimo la struttura del luogo.
L'insediamento di Monte Sirai è composto di tre grandi settori, che sono i fulcri scientifici e turistici dell'antico centro. Il principale è costituito dall'abitato, che occupa la parte meridionale della collina. Nella collina settentrionale è invece situato il tofet: è questo il luogo sacro nel quale erano sepolti con particolari riti i corpi bruciati dei bambini nati morti o defunti in tenera età. L'ultimo settore è costituito dalle due
necropoli, collocate nella valle che separa l'abitato dal tofet. Si tratta di una necropoli fenicia a incinerazione, della quale ormai sono visibili
unicamente delle fossette scavate nel piano di tufo, e una necropoli punica a inumazione, formate da tombe sotterranee, tutte visitabili.
Il centro di Monte Sirai nasce come abitato civile attorno al 740 a.C. e risulta particolarmente importante perché è situato lungo la via
costiera, alla confluenza con la valle del Cixerri che conduce al Campidano. La sua fondazione come città si deve probabilmente ai
Fenici di Sulcis o forse a quelli di un insediamento anonimo presso l'attuale Portoscuso. In ogni caso, da ciò scaturisce più che evidente la
necessità, e anzi l'obbligo, di un'analisi globale del territorio che tenga conto di tutte le componenti storiche che parteciparono alla nascita,
alla crescita e alle vicende della civiltà nella regione sulcitana. Pertanto, questa deve essere sempre considerata nella sua interezza, da
Chia a Monte Sirai, da Sant'Antioco a San Pantaleo. Quindi, non è né possibile né corretto lo studio di un solo insediamento che non tenga in debito conto anche la storia e la vita di quelli più o meno vicini, poiché sia la storia che la vita li accomunarono e li accomunano. L'altura di Monte Sirai trae la sua origine da vasti movimenti tettonici che hanno suddiviso la regione del Sulcis in alcune ampie zolle. Alcune di queste sono rimaste in rilievo e tra di loro vi è per l'appunto la collina di Monte Sirai, accanto ai monti Essu, Narcao e Sinni.
L'area di Monte Sirai in particolare è costituita da arenarie e conglomerati appartenenti alla cosiddetta "Formazione del Cixerri" (Eocene-
Oligocene medio) e in un secondo momento, al termine del Cenozoico (Oligocene-Miocene), venne ricoperta da rocce vulcaniche effusive (Ignimbriti). Non sono noti i centri di emissione di queste vulcaniti, poiché si tratta in prevalenza di prodotti ignimbritici (nubi ardenti), provenienti da diverse direzioni ed emessi da fratture della crosta terreste ormai richiuse da lungo tempo. Attualmente l'attività vulcanica nella zona prosegue in mare in un apparato vulcanico chiamato Quirino, situato 30 chilometri a sud di Capo Sperone, che è la punta meridionale dell'isola di Sant'Antioco. L'altura di Monte Sirai si eleva ad una quota massima di 194 metri sul livello del mare. La parte sommitale del rilievo è costituita da vulcaniti acide appartenenti alla cosiddetta "Serie Ignimbritica Sulcitana". Questa particolare serie è presente sul monte con due ignimbriti compatte, comunemente chiamate trachiti, separate da una piroclastite cineritico-pomicea tenera, comunemente denominata tufo.


Nell'area di Monte Sirai sono presenti anche prodotti vulcanici di natura andesitica, sia in cupole che in facies esplosiva. Il progressivo lento disfacimento delle vulcaniti acide ha dato origine ad un terreno ovviamente acido, le cui proprietà si riverberano anche sui manufatti di terracotta che di norma vengono rinvenuti con le superfici completamente spatinate. La particolare struttura morfologica di Monte Sirai trae origine dalla
differente natura e dal diverso grado di erodibilità delle rocce presenti. A questa situazione morfologica ha concorso anche l'assetto determinato
dalle forze tettoniche che hanno sollevato l'altura provocandone lo sbandamento verso sud-ovest. Il basamento della collina, che è di
natura sedimentaria, ha una forma tronco-conica, mentre gli episodi vulcanici che formano il "cappello" del rilievo e che costituiscono il
pianoro sommitale, caratterizzano il paesaggio con le tipiche rotture del pendio (gradonate). Le necropoli sono state realizzate scavando
l'unità piroclastica tenera, cioè il tufo. Quindi, Monte Sirai ha l'aspetto tipico dei pianori ignimbritici della regione Sulcitana e, con la sommità piatta e i fianchi scoscesi, ricorda la giare, i caratteristici tavolati basaltici della Sardegna centrale. Tra le più famose e di maggiore estensione è la giara di Gesturi. Anche Monte Sirai è specificamente noto per la sua posizione particolarmente isolate ed è quindi ben visibile lungo la costa anche da grande distanza. Dell'antico nome dell'abitato di Monte Sirai non è rimasta alcuna traccia nella memoria degli abitanti del circondario, nessuna antica fonte scritta lo ricorda e in definitiva non sappiamo neppure con certezza se il nome attuale abbia un'origine antica. Tuttavia ciò è probabile e quindi in un primo momento si è pensato che tra l'altro il nome di Sirai potesse essere accostato alla radice SR, il cui significato è roccia o scoglio, e che ad esempio compare nel toponimo fenicio che indica la città fenicia di Tiro (S.ur). Inoltre, si è ipotizzato che le due lettere finali di Sirai (-ai) fossero un suffisso di antica origine fenicia che indicava un nome plurale che si fosse conservato fino ai giorni nostri e che quindi, ad esempio, il nome significasse il Monte con due cime o il Doppio monte. Ma, come la precedente, anche quest'ipotesi è stata presto abbandonata in quanto non corretta per quanto riguarda l'aspetto glottologico e per di più linguisticamente insostenibile.


Né del resto vi è una giustificazione geografica poiché le due supposte cime, create dalle due successive colate laviche, risultano assai poco eminenti e non sono visibili se non dal versante settentrionale. Anche l'ipotesi che il nome di Monte Sirai avesse comunque un'origine fenicia o punica è stata abbandonata di recente a favore di una sua più probabile provenienza da lingue mediterranee anteriori all'arrivo sulle coste sarde dei popoli provenienti dal Vicino Oriente. In un primo momento infatti è anche stato proposto che il nome Sirai avesse una origine berbera e cioè che il monte fosse stato indicato con questo nome da coloni nord-africani di stirpe indigena, venuti in Sardegna come agricoltori al seguito degli eserciti cartaginesi dopo il 520 a.C. Si è ritenuto inoltre che l'insediamento di Monte Sirai fosse da identificare con l'antica Pupulum. Il nome di questo centro abitato è noto unicamente attraverso la Tabula Peutingeriana, che è una antica carta geografica nella quale è riprodotta la collocazione dei centri romani del mondo conosciuto nel IV sec. d. C. Ma poiché, come si vedrà più sotto, l'insediamento di Monte Sirai è stato abbandonato definitivamente alla fine del II sec. a.C., e la succitata carta geografica riproduce una situazione decisamente più tarda, è poco probabile che l'abitato di Monte Sirai fosse talmente importante da perpetuare il suo ricordo per circa cinquecento anni, tanto cioè da inserirlo nella riproduzione geografica del mondo allora noto. È invece più probabile che il toponimo di Pupulum vada riferito ad uno degli insediamenti romani divenuti particolarmente consistenti in età imperiale, quali ad esempio quelli di Matzacara o Paringianu, collocati lungo la costa antistante le isole di Sant'Antioco e di San Pietro. Attualmente si ritiene più probabile che l'origine del nome, il cui significato è da considerare comunque legato all'aspra natura del luogo e dunque alla roccia, sia sempre da collocare in ambiente nord-africano berbero, ma da porre in epoca neolitica e quindi in un periodo ben precedente all'arrivo di popolazioni orientali in Sardegna. La collina di Monte Sirai ha attratto l'attenzione degli studiosi del territorio fin dai primi decenni del secolo scorso grazie alla sua particolare forma e alla sua posizione emergente sul piano di campagna ed isolata nella piana costiera, che permettono di distinguerla nettamente anche da grande distanza. Il primo studioso che ne descrisse sia pur brevemente e in modo sommario le caratteristiche geologiche fu Alberto Ferrero della Marmora, che per la sua peculiarità morfologica la inserì nel volume Voyage en Sardaigne, pubblicato con una prima edizione nel 1826, e nella sua Carta topografica dell'isola del 1845, la prima ad essere rilevata con moderni sistemi di triangolazione topografica ed eseguita correttamente. Invece, il primo a intuire e a citare la presenza di un antico centro abitato sul monte fu il Canonico Vittorio Angius che curò la parte storica nella monumentale opera sulla Sardegna edita da Goffredo Casalis a Torino tra il 1833 e 1856. Infatti, alla pagina 349 del Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna si può leggere quanto segue: "Sirài ... I molti rottami che trovansi in questo sito fan congetturare molto considerevole l'antico paese di questo nome, che distrussero i barbari ...".


È evidente che l'episodio legato all'aggressione di non meglio precisate popolazioni barbare è del tutto immaginario ed ha un valore puramente leggendario, poiché, come sembra più probabile, l'insediamento di Monte Sirai fu abbandonato più o meno volontariamente dai suoi abitanti. La prima testimonianza scritta su Monte Sirai risale probabilmente al 1323, con la menzione dell'esistenza di un villaggio denominato Siray, mentre dalla seconda metà del XIX secolo la documentazione si concentra prevalentemente sull'interesse suscitato dal sito in relazione alle caratteristiche geologiche del pianoro, sebbene sia ravvisabile una seppur vaga intuizione dell'importanza del luogo, anche dal punto di vista archeologico. Sono note le vicende che portarono alla «riscoperta» dell'insediamento in età moderna. Il primo rinvenimento di stele nel 1892, da parte del parroco di Tratalias Don Vincenzo Atoni, attirò l'attenzione dell'allora Direttore del Museo di Antichità di Cagliari, Filippo Vivanet. Il Vivanet, per verificare la consistenza della scoperta e per non affrontare inutilmente un viaggio che in quel periodo era lungo e non facile, inviò al Parroco una lettera contenente una lunga serie di precise domande. Le risposte fornite tempestivamente permisero al Direttore del Museo di constatare l'indubbia importanza dell'antico centro abitato. Tuttavia, i prevedibili disagi, creati dalla considerevole distanza da Cagliari e gli alti costi dell'impresa per il reperimento in loco della mano d'opera e per il trasporto degli eventuali reperti, costrinsero il Vivanet a rimandare di qualche tempo le indagini sulla collina. Ma le speranze di Filippo Vivanet di realizzare le indagini progettate andarono deluse poiché, a causa di ulteriori lavori altrettanto importanti ed urgenti in altre località dell'isola, non ebbe mai più la possibilità di interessarsi di Monte Sirai. Dopo circa cinquanta anni di silenzio, all'inizio dell'ultima guerra mondiale sulla sommità del monte fu installata una batteria contraerea, oggi in parte restaurata e riutilizzata come luogo di ristoro per i visitatori. La batteria, che aveva il compito di proteggere dagli attacchi aerei le miniere di Carbonia, fondata il 18 dicembre del 1938, occupa un settore ove sono state rinvenute tracce forse di un villaggio di età neolitica, appartenente alla cultura detta di San Michele. Sempre nello stesso luogo è stata individuata parte di un santuario di età ellenistica, sorto dopo la conquista romana della Sardegna e dedicato probabilmente alla dea Demetra. I soldati occuparono e utilizzarono come rifugio antiaereo anche una tomba a camera ipogea della necropoli punica, ma in nessun caso si resero conto della presenza di un antico centro abitato o, se se ne resero conto, nulla fecero per esplorarlo. Nel frattempo, le pietre trachitiche crollate appartenenti alle antiche abitazioni furono ampiamente utilizzate per la costruzione della città di Carbonia. I lavori, iniziati nel 1935, si conclusero alla fine del 1938, periodo in cui fu inaugurata ufficialmente la città. Quindi, anche se la città sorse dal nulla, poiché nessun centro abitato le preesisteva, si pur ben dire che in qualche modo la città è fondata su antiche testimonianze.

venerdì 25 ottobre 2013

Archeologia. Rinvenute tombe di re guerrieri celti.


Archeologia. Rinvenute tombe di re guerrieri celti.
di Dea Ortolani


Importante scoperta nell’ambito dell’archeologia celtica in territorio francese: ad Attichy, nell’Oise (Piccardia), durante lo sfruttamento di una cava di conglomerati è stata rinvenuta una ricca necropoli appartenuta a questa popolazione.
L’Inrap, Institut National de recherches archeologiques, istituto che cura le ricerche nei siti a rischio archeologico, ha rinvenuto undici sepolture di inumati: i corpi sono stati deposti con le braccia distese lungo il corpo e il viso rivolto a levante. Solo uno di questi è in posizione fetale e rivolto a settentrione.
L’intera necropoli è datata III secolo a.C. in un momento di passaggio dalla pratica dell’inumazione a quella della cremazione che ha avuto fasi alterne nelle varie regioni europee.
Le tombe presentano ricchi corredi a seconda del sesso del defunto: i maschi si presentano con i loro attributi guerrieri come la lancia e la spada; mentre le donne con i loro oggetti da toeletta.
Di grande interesse sono le due tombe nobiliari di principi guerrieri celti che sono stati sepolti con il loro carro, del quale sono conservate i cerchi in ferro delle ruote, simbolo di ricchezza e potere.

Fonte: Archeorivista

giovedì 24 ottobre 2013

Doppia presentazione a Cagliari del libro “Sardegna, nursery del Neolitico" di Ulisse Piras.

Doppia presentazione a Cagliari del libro “Sardegna, nursery del Neolitico" di Ulisse Piras.



Sarà presentato a Cagliari Venerdì 25 Ottobre alle 17.30 alla Mediateca di Cagliari in Via Mameli e Lunedì 28 Ottobre nella sala consiliare di Via Roma, alle 17.30, il libro "Sardegna, Nursery del Neolitico", di Ulisse Piras. Ingresso libero.

Presentazione a cura dell'autore:
Negli ultimi anni sono state presentate diverse nuove ipotesi che trattano in modo originale e approfondito i temi relativi alle origini e allo sviluppo della civiltà umana. Un processo in apparenza complesso, composito e disarticolato, al punto da lasciare perplessi anche gli scienziati più illustri. A differenza dei dettagliati ma circoscritti interventi che appaiono sulle pubblicazioni specialistiche, alcune fra le più affascinanti teorie proposte al pubblico sono uscite dalle menti di autori che non seguono gli schemi consueti. La grande sfida di ogni autore è rappresentata dalla capacità di coinvolgere i lettori, senza esporsi al rischio di apparire un romanziere, anziché un leale studioso certosino.
Benché molti autori concordino sul fatto che la Sardegna occupò un ruolo importante nel processo di diffusione della cultura umana durante il Neolitico, molti tasselli del mosaico rimangono vaghi o nebulosi. Insomma, nel campo dell’archeologia, dove ogni scavo può ribaltare le ipotesi precedenti, nessuna pubblicazione scientifica o meno, sembra potersi proporre come definitiva e gli autori hanno difficoltà nel mettere in relazione, in modo organico e metodico, i tanti indizi finora raccolti.
In questi giorni uscirà nelle librerie un libro che rompe le interpretazioni canoniche. Titolo dell'opera: Sardegna, nursery del Neolitico (edizioni Phasar, Firenze). Con un approccio metodologico critico e rigoroso l'autore contesta apertamente l'idea che il processo di evoluzione della cultura umana sia stato incoerente o ambiguo, così come finora appare nelle pubblicazioni più autorevoli.
Secondo l’autore, Ulisse Piras, sociologo e ricercatore, le spiegazioni canoniche appaiono superficiali o comunque espresse basandosi su dati incompleti o conoscenze limitate. A suo dire, alla luce delle nuove scoperte sono esistiti personaggi e si verificarono eventi che risultano parte di un processo reale, documentabile, perfettamente comprensibile e giustificabile.

I primi capitoli analizzano e propongono una spiegazione all’incredibile sviluppo del megalitismo e della metallurgia in epoche arcaiche, in contrasto aperto con le attività tipiche delle tribù elementari di ogni luogo e tempo. Allo stesso modo, i primi centri urbani, i più antichi dei quali risalgono al X-IX millennio a.C., testimoniano uno sviluppo di conoscenze tecnologiche tale da considerarsi fuori dalla portata dei primi gruppi umani dell'epoca.
In buona sostanza, quello che appare agli studiosi tradizionalisti come un processo privo di organicità e continuità, frutto spesso del caso o delle circostanze, rappresenta per l'autore un chiaro esempio di come, già a partire dal Mesolitico, i primi insediamenti e le prime attività umane fossero parte di un più ampio programma, guidato da una ristretta élite, in possesso di conoscenze superiori agli standard dell'epoca, che traghettarono l'uomo dall'oscura condizione primitiva al pieno splendore delle prime civiltà evolute. Questo piano fu attuato dopo un catastrofico evento che intervenne a modificare le condizioni ambientali e climatiche generali, attorno all'11.500 a.C. Un cataclisma che portò all'estinzione di molte specie di animali, che contribuì a rimodellare il pianeta fino a dargli le caratteristiche che noi oggi conosciamo. Portò, infine, alla modificazione di alcuni parametri fondamentali nella biologia umana.
Il libro, una sorta di documentario narrato, si mostra elegante e pregevole per il modo in cui gli argomenti inseriti conducono il lettore dentro fenomeni apparentemente complessi Questi, trovano una loro logica solo se inseriti nel giusto ordine temporale e sequenziale. Senza questo processo di metodica concatenazione, ben poco della nostra preistoria potrà essere interpretato in modo corretto. Le teorie finora proposte lasciano scettico l'autore, per il quale le testimonianze che ci possono aiutare a capire le nostre radici biologiche e culturali sono state volutamente modificate e ammorbidite, forse per rendere meno inquietanti alcune verità scomode. Ciò che in origine aveva un ruolo e un significato terreno e umano, diventa poi parte di un complesso gioco di fenomeni ascrivibili, per convenzione e comodità, alla sfera psichica e religiosa. Eppure, nel panorama antropologico, non esiste un solo esempio di società semplice che muove dalla condizione mentale per realizzare la propria realtà materiale. Anzi, è scientificamente vero il contrario. Ma per le interpretazioni ufficiali il processo di evoluzione umana apparirebbe privo di logica, sarebbe un mistero, uno dei tanti che scienza e religione si rimbalzano a vicenda.
La figura chiave del libro è rappresentata dalla Grande Madre, una figura in apparenza mitica e simbolica, ma tanto reale da costringere le due grandi religioni monoteiste, l'ebraismo e il cristianesimo, a fare i conti con essa in modo profondo e duraturo. Dalle evidenze emerse e proposte, risulterebbe che la Grande Madre abbia avuto che fare con la Sardegna molto più di quanto raccontato finora. E chi leggerà il libro ne comprenderà appieno il motivo, che qui riassumiamo all’essenziale.
Come narrano alcuni antichi testi egizi, in passato sarebbe esistita un'isola, emersa dal caos della creazione, dalla quale sarebbero partite le migrazioni dei popoli che diedero vita alle più grandi civiltà del passato, quelle stesse che apparentemente emersero dal nulla: sumeri, egizi, cretesi, etruschi e altre. Con un percorso narrativo agile e snello, sempre supportato da riferimenti precisi e puntuali, il libro arriva alla sorprendente e intrigante conclusione che fu proprio la Sardegna la prima tappa di alcuni di questi grandi popoli del passato. E le tracce di un'avanzata civiltà, nel pieno di una mediocrità culturale diffusa altrove, dimostrano che nell’Isola questi gruppi erano gradualmente introdotti ad alcune semplici e fondamentali conoscenze culturali e tecnologiche. Dopo aver raggiunto un certo livello di sviluppo, venivano destinati a stanziarsi altrove, con il compito di colonizzare altre regioni. Questo processo durò per diversi millenni, fino al XII secolo a.C., periodo in cui la Sardegna conobbe un drastico impoverimento demografico che, secondo l’autore, sarebbe dovuto proprio all’improvvisa partenza degli ultimi popoli nati e cresciuti nell’Isola.


Corso di formazione sulle tecnologie in uso nella Preistoria

Corso di formazione sulle tecnologie in uso nella Preistoria

Lo stage è rivolto ad archeologi, studenti di Scienze Umanistiche e Naturali, insegnanti, operatori museali, guide archeologiche, naturalistiche, ambientali o turistiche, operatori culturali e semplici appassionati. Tale corso tratta la tecnologia dell'Uomo nella Preistoria.
All'interno di esso verranno affrontati diversi procedimenti tecnologici dei nostri antenati.
DOVE E QUANDO
«Corso di formazione sulle tecnologie in uso nella Preistoria»
dal 26 al 27 ottobre 2013, Prato
Info e prenotazioni Associazione Culturale «Archeologia Sperimentale» tel. 0573 545284 (dopo le 18:30); cell. 3405488956; info@archeologiasperimentale.it; www.archeologiasperimentale.it;

Programma di massima:
PRIMO GIORNO
Riconoscere le materie prime adatte alla scheggiatura (la selce, il diaspro, l'ossidiana, le quarziti...); analizzare le varie tecniche di scheggiatura (diretta, indiretta, pressione e ritocco) e le regole che determinano la scheggiatura, oltre alla prova pratica da parte dei partecipanti.
I partecipanti produrranno sperimentalmente alcuni distacchi per produrre qualche strumento attraverso il ritocco a pressione, che serviranno per realizzare manufatti durante lo stage.
Produzione di cordicelle realizzate ritorcendo fibre vegetali, tendini e budella di animali.
Vedremo quali sono gli usi e i vantaggi del fuoco, oltre alle tecniche di accensione (con percussione e frizione), attraverso la dimostrazione e le prove pratiche.
Verrà spiegata la modalità di concia attraverso la dimostrazione e la prova pratica del raschiamento di una pelle.
Le armi da caccia, spiegazione e prove su alcune armi da caccia come il bolas e il propulsore.
Per quanto riguarda i colori minerali, verranno presentati l'ocra e altri ossidi e minerali; si affronterà la loro preparazione e utilizzo, con realizzazione di pennelli, tamponi, e altri strumenti che verranno utilizzati per le diverse tecniche pittoriche (compresa quella a spruzzo).

SECONDO GIORNO
I partecipanti potranno realizzare un pendaglio, in steatite o carbonato di calcio, levigando in una pietra di arenaria e dopo averla forata con uno strumento di selce da loro prodotto e lucidata, realizzeranno una collana come in uso nel Paleolitico superiore e Neolitico.
Lavorare l'osso; produrre aghi d'osso levigando in pietra d’arenaria e con le relative crune.
Si finirà con eventuali domande e curiosità da parte dei partecipanti.
I corsisti al termine dello stage avranno sperimentato personalmente le varie attività e quindi saranno pronti per svolgere laboratori a terzi sull’accensione del fuoco con le pietre focaie, sulla realizzazione di pitture preistoriche con tecnica a spruzzo, sulla realizzazione di aghi d’osso e monili in conchiglia e steatite per mezzo della levigazione, sulla realizzazione di perforatori e grattatoi in selce, e sulla produzione di cordicelle in fibre vegetali e animali. Durante lo stage, verranno illustrate norme sulla sicurezza e regole per poter gestire le varie tecnologie ad un pubblico di ragazzi o adulti senza farsi male. Inoltre potrò fornire materie prime come: pietre focaie, steatite e carbonato di calcio per realizzare monili, parti o palchi interi di cervo, ocra rossa o gialla. Gli oggetti prodotti durante lo stage rimarranno di loro proprietà.
Fonte: www.archeo.it

mercoledì 23 ottobre 2013

La ceramica nuragica fra Bronzo Finale e Primo Ferro



La ceramica nuragica fra Bronzo Finale e Primo Ferro
di Pierluigi Montalbano


Bronzo recente:
Abbiamo due fasi: Muru Mannu di Tharros e Antigori.
Nella prima fase abbiamo tegami regolari con solcature che si intrecciano, come già scrisse l’Acquaro (bisogna fare attenzione a non scambiare i frammenti per pezzi appartenenti ad olle a tesa interna). Le superfici sono nere lucide inornate e le forme sono caratterizzate da pareti sottili che non sono testimoniate nel Bronzo Medio, caratterizzato da pareti spesse. Le ciotoline carenate hanno anse che si insellano, documentate anche nella successiva fase Antigori. Anche le grandi olle con colletto basso proseguono nella facies Antigori. Gli orci hanno spesso due grandi anse. I bollitori sono simili a quelli dell’Appenninico, a dimostrazione del parallelismo fra Sardegna e Italia peninsulare. Le spalle dei tegami sono concave o oblique, e la decorazione a pettine, che compare nel Bronzo Recente, non compare mai nei tegami delle facies precedenti.
Nella fase Antigori, il labbro è appiattito o obliquo, ma comunque ingrossato e le forme persistono fino al I Ferro. Le anse sono quasi sempre ad anello, e in questa fase la forma dell’ansa è ellittica: allungata e appiattita. Ritroviamo queste anse anche nelle ollette a collo. Queste presentano le anse a orecchia ellittica sulla pancia.
Le conche con labbro ingrossato a spigolo interno presentano generalmente delle piccole anse regolari di forma ellittica. Altre conche hanno labbro a chiodo che tende a diventare triangolare nella parte superiore, ossia ad ingrossarsi. Le scodelle e i calici per il vino somigliano molto ai modelli micenei: sono basse e presentano una piccola bugna come presa.
Le fuseruole discoidali iniziano ad assumere una forma lenticolare. Una caratteristica delle fuseruole è un ciclico cambio di gusto che si ricicla nei vari periodi e bisogna stare attenti alle classificazioni.
I tegami a volte sono decorati anche all’interno, con solcature a pettine o disegni a scacchiera simili a quelli del Bronzo Medio. Alcuni studiosi confondono i tegami con i coperchi delle grandi anfore, e sono proprio le decorazioni che svelano l’utilizzo reale.
Nell’oristanese e nelle zone interne della Sardegna le colorazioni nere e grigio ardesia, tipiche locali, tendono a conservarsi, a differenza del nord e del sud dell’isola dove diminuiscono e si accompagnano alle ceramiche chiare e dipinte, di provenienza greca e micenea IIIB, ad Antigori di Sarroch e al Nuraghe Arrubiu di Orroli ad esempio.
Nelle zone meridionali della Sardegna compaiono olle con labbro quadrangolare, apparentemente arcaico ma le anse ellittiche suggeriscono un inserimento nel Bronzo Recente.
Iniziano anche delle anforette tornite con prese ampie che sembrano legate alla diffusione del vino.
Nel Campidano troviamo olle realizzate con tornio lento, di colore giallo o con tonalità rosate e grigie, con orlo semplice appiattito e 2 o 4 anse allungate.
Iniziano le prime brocchette a orlo piatto, con forma globulare o biconica e bugne forate o solcate.
Le ceramiche decorate a pettine sono realizzate con uno strumento a dentelli che imprime dei piccoli fori sulla superficie A volte le decorazioni sono realizzate con simboli ispirati al sole o al carro, con raggi o a fasce.


Bronzo Finale:
Proseguono le ceramiche inornate ma verso la fase finale, e poi nel Ferro, iniziano ceramiche caratterizzate da belle decorazioni incise a spina di pesce o con motivi a piccole coppelle, simili ai vasi del proto-villanoviano.
Conosciamo due fasi (Oristano e Barumini) ma la classificazione è ancora troppo generica: pregeometrica e geometrica.
La fase Oristano si differenzia da quella successiva di Barumini perché è caratterizzata da ceramiche grigie inornate, meno pure dalle belle ceramiche lucide nere e grigio-ardesia. Il gran numero di scodelle suggerisce una maggiore sedentarizzazione della vita della comunità e un buon tenore di vita, almeno alimentare.
Le ciotole carenate con spalla alta e profilo dolce presentano bugne o anse a maniglietta, ad impostazione orizzontale, non presenti nel Bronzo Recente. Continuano le olle, sia a labbro triangolare che quadrangolare. Proseguono anche le anforette con 2 anse a gomito appiattite, e appaiono le ansa e gomito rovescio.
Compaiono le anfore a taglio obliquo e corpo carenato, quasi biconico. In alcuni vasi del centro-nord si notano dei peducci. La decorazione è generalmente sulle anse e sulla spalla.
Tutte queste forme della fase Barumini Surbale si trovano anche nelle fasi della distruzione di Lipari (Ausonio II), pertanto dobbiamo inquadrarle intorno al 850 a.C.
Dalle fonti emerge che l’acropoli di Lipari fu distrutta e abbandonata intorno al 850 a.C. per poi essere riabituata intorno al 650 a.C. ed è interessante trovare tanta presenza sarda (sia con produzione, sia con imitazione delle ceramiche) in quella zona e in quel periodo. Troviamo scodelle a calotta, a volte ombelicate, che presentano sia la bugna ellittica a rilievo sulla spalla, sia una piccola ansa ristretta, che deriva da quelle del Bronzo Recente. La colorazione è rosata e si diffonderà nel Primo Ferro.
Le decorazioni, spesso a foglie, sono impresse con punzoni. In alcune anse si notano dei beccucci, per favorire la bevuta dal vaso, ma nel Ferro compaiono anche brocchette a taglio obliquo senza beccuccio. In questa fase abbiamo grandi ciotole biansate a maniglie rialzate con spalle e vasca curvi. Le anforette con bocca piana iniziano nel Bronzo Recente e persistono fino al Ferro trasformandosi in quelle anfore con anse sulla spalla (e non sull’orlo).
Le olle a gomito rovescio caratterizzate da nervature alla base del collo, come quelle di Surbale, vedono motivi a cerchielli semplici impressi a cannuccia che mostrano la fase di passaggio fra Bronzo finale e Primo Ferro.
Le decorazioni del periodo geometrico sono in stretta sintonia con usi, costumi e religiosità della comunità. Abbiamo un cambiamento in ambito religioso con la comparsa di crescenti lunari e altri simboli legati al culto.

Fuseruole, pesi e contrappesi per telaio, alari per spiedi continuano nel loro ciclo di appiattimenti, forme arrotondate e forme discoidali.
Nel Primo Ferro compare un interessante cratere (a Ittireddu), simile a quelli del XII-XI a.C. nel Vicino Oriente (Israele e Palestina), caratterizzati da labbro ingrossato e arrotondato, forma carenata e rastremata verso il basso, anse a gomito, e a volte decorazioni.
A Surbale compare la Pintadera, con varie forme e vari utilizzi, anche come timbri per decorare il pane o come calendari.
Alcune forme interessanti sono state ritrovate a Sardara nella sala del consiglio e nella capanna 1. In quest’ultima si trova un ripostiglio con un ciotolone a spalla rientrante e ansa appiattita, ad anello, legato alla consacrazione della capanna, al suo rito di fondazione in prossimità dell’ingresso.

Nell'immagine in alto i ritrovamenti di ceramiche micenee in Sardegna
Al centro: Ceramiche trovate al nuraghe Antigori (Sarroch)
Sotto: Ceramiche trovate al nuraghe Santu Antine (Torralba)

P.S. Dietro segnalazione dell'amico Roberto di Nurnet, che ringrazio, inserisco un'immagine con la carta della Sardegna nella quale appaiono alcuni siti cerchiati in blu vicini a quelli segnati in rosso (poco precisi). La posizione dei siti in blu ha una maggiore precisione rispetto ai rossi.

martedì 22 ottobre 2013

Archeologia “invisibile” al grande pubblico: dalla Domus aurea a Ercolano

Archeologia “invisibile” al grande pubblico: dalla Domus aurea a Ercolano
di Manlio Lilli


Dietro cartelli che informano sulla chiusura al pubblico, dentro recinzioni chiuse e senza alcuna indicazione, oppure inaccessibili, c’è molto. Riacquistare il patrimonio archeologico alla fruizione è un’operazione non breve. Qualche volta senza tempo. Questione di risorse, spesso insufficienti e di rado male impiegate.
Il patrimonio archeologico italiano è immenso al punto di non essere neppure ben definito. In realtà quel che si può vedere, quanto risulta accessibile, è considerevolmente di meno.
A Roma, nel giugno scorso, i turisti hanno atteso per quasi cinque ore l’apertura del Colosseo. Davanti ai cancelli, senza alcun preavviso, si leggeva la scritta “chiuso per sciopero”. La stessa scena ripetuta anche davanti Palazzo Massimo, alle Terme di Diocleziano e di Caracalla. Terminata l’agitazione, nuovamente porte aperte. Quel che non succede, invece, per un’infinità di monumenti disseminati per la penisola, isole comprese. L’impossibilità di visitare singoli monumenti ed aree archeologiche o parti di esse, tutt’altro che un caso episodico. La casistica dei motivi che soprintendono alla dolorosa decisione di interdire la visita non propriamente ricca. Si va dai lavori di restauro, a quelli di scavo, dalla non ancora completata accessibilità e musealizzazione, allo stato di conservazione, pericolosamente oscillante tra il precario e il rovinoso. Qualche volta il verificarsi di crolli. Situazioni che tutte o almeno in parte potrebbero avere una loro più che plausibile giustificazione, se spesso non si protraessero stancamente da anni.
Roma non può che fornire materiale in abbondanza in questo viaggio alla ricerca di quel che c’è ma non si può vedere. Nella passeggiata virtuale si potrebbe partire con la Domus Aurea, nel parco del Colle Oppio, la nuova residenza con le pareti ricoperte di marmi pregiati e le volte decorate d’oro e di pietre che Nerone fece costruire dopo il celebre incendio del 64 d. C. “La Domus Aurea è sempre una miniera di scoperte” ha sostenuto nel settembre del 2009 l’allora Soprintendente archeologo Eugenio La Rocca, dopo il rinvenimento di un importante ambiente del complesso. Chiusa dal marzo del 2010, dopo il crollo di una delle strutture traianee sovrapposte all’impianto originario. Al settembre dell’anno in corso impegnati quasi 14.699 milioni di euro dei 16.472 a disposizione. Gli ambienti sui quali intervenire e quelli sui quali si lavora ancora di più di quelli terminati.
Un’altra chiusura eccellente, che si protrae da tempo, sul Palatino. E’ la cosiddetta “casa di Livia”, con le celebri pitture parietali anche con scene mitologiche.
Ugualmente off limits per restauri, la chiesa di S. Maria Antiqua, uno degli esempi più significativi dell’adattamento e della rifunzionalizzazione di un edificio pagano preesistente. Nell’ottobre dello scorso anno riaperta, dopo otto anni, per un breve periodo. Finora non sono bastati neppure i 639 mila euro consegnati alla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Roma dal World Monuments Fund di New York, che dal 2001 collabora al progetto di conservazione e valorizzazione del monumento, insieme a fondazioni ed istituzioni italiane e straniere.
Stessa sorte per l’area sacra di Largo di Torre Argentina con le strutture di quattro templi di età media e tardo repubblicana e i resti della Curia di Pompeo, celebre per l’uccisione di Cesare. L’area archeologica, per decenni nel più completo degrado nonostante le pulizie di associazioni di volontari e per questo interdetta alle visite, è da tempo chiusa per lavori di restauro.
La lista si allunga ancora di più considerando il numero spropositato di monumenti non accessibili senza preventiva autorizzazione. Insomma tutti quelli sulle cui recinzioni compare un pannello con la scritta “Per la visita rivolgersi a”, seguita da un numero telefonico della Soprintendenza archeologica di Roma. Per l’appuntamento con il custode delegato all’apertura, dipende dai casi. Molto difficilmente si ottiene in giornata. Accade al Ludus Magnus, la più grande delle palestre gladiatorie di Roma, l’area tra via Labicana e via San Giovanni in Laterano, a due passi dal Colosseo, come all’area sacra di S. Omobono con i resti di due templi di età repubblicana, tra via Petroselli e via del Vico Jugario, e al comprensorio di S. Croce in Gerusalemme con i resti del grandioso palazzo imperiale dei Severi, comprendente il cosiddetto anfiteatro castrense, e poi di Elena, madre di Costantino.
Le cose non vanno meglio altrove. Ad Ostia antica ci sarebbe la città fondata in età repubblicana e sviluppatasi in quella imperiale. Peccato che una parte non piccola di domus, addirittura di insulae, sia sommersa dalla vegetazione infestante. Che costringe a darle solo un’occhiata, da lontano. Stessa sorte di tanti ambienti di Ercolano, una delle città campane seppellite dall’eruzione del Vesuvio del 79. Anche se qui, spesso da decenni, ad impedire l’osservazione di mosaici ed affreschi, colonnati e giardini interni è il pericolo di crolli, il timore di aggravarne lo stato più che precario. Ad Ancona poi la situazione appare anche peggiore. I recenti scavi nei pressi del porto moderno con strutture riferibili all’area commerciale della città romana, trasformati in una foresta tropicale. Ci sarebbe materiale per continuare. Purtroppo.
Tra chiusure di lungo corso ed aperture a richiesta molti monumenti continuano a rimanere quasi invisibili. Non si possono visitare, non sono nelle condizioni di essere mostrati e di poter costituire un beneficio, ma allo stesso tempo la loro conservazione e valorizzazione presenta dei costi insopportabili. Mentre si continua a discutere sulle politiche gestionali da seguire, quanto spazio sia lecito lasciare all’intervento dei privati, perdiamo pezzi importanti del nostro patrimonio. Senza fare abbastanza.

Fonte: Il Fatto Quotidiano di oggi

Immagine di: http://www.tgcom24.mediaset.it

Inizio lezioni di archeologia all'Università di Quartu.

Buongiorno a tutti gli amici del Quotidiano on Line di Storia e Archeologia.

Comunicato:
Martedì 19 Novembre inizierà il corso di Archeologia all'Università di Quartu. Le 23 lezioni si svolgeranno nell'aula magna di Viale Colombo 172, al secondo piano, ogni martedì alle 17.00.
Il docente Pierlugi Montalbano ha preparato per questo anno il seguente tema: "Risorse, attività, traffici e manufatti della Sardegna preistorica".
Per iscriversi all’Università occorre compilare il modulo della domanda di adesione (scaricabile dal sito http://www.univerquartu.it/) e allegare la ricevuta del versamento della quota sociale annua (€.85) sul C.C.P.n.11057098 intestato “Università Quartu S.Elena.
Con 2 foto formato tessera occorre consegnare il tutto presso la Segreteria, aperta dal Lunedì al Venerdì, ore 9-12 e 16-19).
L'istituto è lieto di comunicare che per quest'anno sono previsti 66 corsi e il numero di allievi dovrebbe stabilizzarsi intorno agli 850, come lo scorso anno.

lunedì 21 ottobre 2013

I nuragici immuni dalla malaria, ma c'era al tempo dei cartaginesi

I nuragici immuni dalla malaria, ma c'era al tempo dei cartaginesi

Nell'età nuragica la Sardegna era immune dalla malaria. La presenza della malattia è invece accertata per il periodo della dominazione cartaginese.
Ciò emerge da uno studio storico-paleoimmunologico condotto dal dipartimento di Scienze biomediche dell'Università di Sassari, dal dipartimento di Scienze della salute pubblica e pediatriche dell'Università di Torino e della divisione di Paleopatologia dell'Università di Pisa. Le analisi sono state effettuate su materiali osteoarcheologici provenienti da diversi siti dell'Isola. Lo studio ha anche consentito di accertare che durante la dominazione cartaginese accanto alla malaria, era diffusa la leishmaniosi.
C’è tuttavia da osservare che la g6pd carenza, malattia a trasmissione familiare, è messa in relazione come fattore protettivo nei confronti della malaria (per diversi fattori), quindi:
1) nel nuragico "isolano isolato" (buon mantenimento della carenza, più protezione dalla malaria)
2) nel cartaginese "isolano colonizzato"(minore mantenimento carenza, meno protezione dalla malaria).

Fonte: L'Unione Sarda di oggi.

Nell'immagine: L'arciere di Monte Arcosu (Uta).

sabato 19 ottobre 2013

Congresso Internazionale Studi Fenici e Punici 21-26 ottobre 2013

Congresso Internazionale Studi Fenici e Punici 21-26 ottobre 2013

L'Università degli Studi di Sassari, in collaborazione con l'Amministrazione Provinciale di Carbonia-Iglesias, il Comune di Sant'Antioco e il Comune di Carbonia organizzerà in Sardegna dal 21 al 26 ottobre 2013 l'VIII Congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici che avrà il titolo "Dal Mediterraneo all'Atlantico: uomini, merci e idee tra Oriente e Occidente".
Il Congresso, suddiviso in sessioni tematiche, avrà la durata di cinque giorni e si svolgerà nella regione del Sulcis, a Sant'Antioco e a Carbonia. Il Congresso si aprirà lunedì 21 ottobre presso il Teatro centrale di Carbonia per poi spostarsi alla Grande miniera di Serariu (21-23 ottobre), il mercoledì pomeriggio sarà invece dedicato alle escursioni nei siti archeologici dei due Comuni. Giovedì e venerdì le sessioni congressuali si terranno nel Comune di Sant'Antioco, presso l'Aula consiliare e l'adiacente sala del Pierre Pub.

Informazioni, relatori, argomenti e date al link:
http://www.academia.edu/3509235/II_Circolare_VIII_Congresso_di_Studi_Fenici_e_Punici_aggiornata_

Il via sarà dato lunedì prossimo e accoglierà studiosi provenienti da Istituzioni Universitarie, di Ricerca e di Tutela di tutto il mondo. Saranno presenti esperti di 24 nazioni, in rappresentanza dei Paesi che conobbero lo stanziamento di genti fenicie e puniche, Italia, Spagna, Portogallo, Tunisia, Algeria, Libia, Malta, Cipro, Israele e Libano, del Continente Europeo ma anche del resto del mondo. E’ il più importante incontro mondiale sul tema, che vede riuniti ogni quattro anni tutti gli esperti mondiali del settore. La Sardegna ospita per la prima volta il Congresso Internazionale. Al professor Piero Bartoloni ordinario di archeologia fenicio punica all’Università di Sassari, il merito di aver convinto la comunità scientifica internazionale ad organizzare l’importante evento nel nostro territorio, luogo prediletto dai Fenici. I partecipanti si confronteranno su numerosi temi in diversi ambiti disciplinari, e faranno il punto sulla situazione delle ricerche riguardanti i numerosi insediamenti fenici e cartaginesi disseminati dal Mediterraneo all’Atlantico. I lavori si svolgeranno in parte a Carbonia e in parte a Sant’Antioco e concentreranno l’attenzione su una miriade di temi riguardanti le antiche comunità fenicio puniche.

Si potrà assistere infatti a circa 170 relazioni e osservare oltre 50 poster che consentiranno di fare il punto sugli avanzamenti delle conoscenze nel campo dell’archeologia fenicia e punica, con le rilevanti novità provenienti dal Mediterraneo orientale all’Atlantico. I lavori saranno introdotti dal Prof. Piero Bartoloni, mentre alla Prof.ssa María Eugenia Aubet, dell’Universidad Pompeu Fabra de Barcelona, sarà affidata la prolusione inaugurale. La discussione proseguirà nelle sale della Grande Miniera di Serbariu, dove si succederanno gli interventi di numerosi relatori, nelle sessioni dedicate ad “Abitati e vita quotidiana” e “Arte e artigianato”. A partire da giovedì 24 ottobre gli specialisti si incontreranno nell’Aula Consiliare di Sant’Antioco, dove avranno modo di confrontarsi sui temi “Interazioni culturali, sostrati e adstrati”, “Necropoli e riti funerari”, “Religione e archeologia del sacro”, “Storia e numismatica” ed “Epigrafia e Filologia”. Il giorno seguente, sempre a Sant’Antioco, si terrà la seduta conclusiva nella quale verrà annunciata la sede del prossimo Congresso del 2017.
Un parterre d’eccezione, qualificatissimo grazie alla presenza dell’intero gotha mondiale degli archeologi che si occupano di civiltà fenicia e punica.
L'appuntamento rappresenta anche uno strumento mediatico e pubblicitario di rilievo, in grado anche di fare da traino sotto il profilo turistico e della economia più in generale. Il primo convegno era stato organizzato a Roma nel lontano 1979 e sempre a Roma era seguito un secondo appuntamento nel 1987. Dal 1992, con il terzo convegno era stata decisa una cadenza quadriennale dell’appuntamento, toccando gli scenari di Tunisi nel 1992, Cadice nel 1995, Marsala nel 2000, Lisbona nel 2005 e Hammamet nel 2009, fino ad arrivare nell’area sulcitana, per fare base stavolta a Carbonia e Sant’Antioco. Ovvero i due centri nei quali si trovano due dei siti maggiormente rilevanti della presenza fenicia e punica nell’area mediterranea. A volere fortemente l’appuntamento è stato l’archeologo che del Sulcis ha fatto quasi la sua casa: stiamo parlando di Piero Bartoloni, professore ordinario di archeologia fenicio-punica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Sassari, che da più di quaranta anni studia gli insediamenti fenicio-punici di Sirai e Sant’Antioco. A lui è stata affidata la presidenza del Congresso, che si muoverà ad tutto campo su una miriade di temi specifici delle civiltà del passato.
«Al di là della enorme rilevanza scientifica del congresso – ha detto Bartoloni – , si tratta di una grande occasione per mettere in vetrina le ricchezze di un’area, come quella del Sulcis, che può diventare una capitale del turismo culturale dell’isola. L’importanza dei siti e dei ritrovamenti di Sirai e di Solky consentono di approfondire le nostre conoscenze, e spesso di scoprire novità di rilievo nella vita e nei riti dei popoli che giunsero in quest’area e si integrarono con la popolazione preesistente». Quasi impossibile raccontare i nomi di tutti gli scienziati che saranno presenti al convegno. Basta però a dare una idea della importanza dell’avvenimento uno sguardo al mondo universitario che questi rappresentano. Oltre alle università italiane, capofila Sassari che di fatto organizza il congresso, ci sono il fiore delle università di Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Germania, Belgio, Stati Uniti, Israele, Brasile, Canada, Giappone, Australia, tanto per citarne solo alcuni. Una platea di eccezione per un convegno di rilevanza mondiale e una bella occasione per il territorio.

venerdì 18 ottobre 2013

Cagliari, scoperta una fortificazione pisana accanto a quella spagnola già conosciuta nella zona del Bastione di Santa Croce a Castello.

Cagliari, scoperta una fortificazione pisana accanto a quella spagnola già conosciuta nella zona del Bastione di Santa Croce a Castello.


Si tratta di una vera e propria torre. Sarà l'Università di Cagliari a certificare la scoperta su cui anche in passato circolavano alcune ipotesi degli studiosi: è quanto emerso questa mattina nel corso della riunione della Commissione consiliare Urbanistica, presenza in audizione il funzionario dei Lavori pubblici, l'architetto Luisa Mulliri, durante l'esposizione dell'iter progettuale per la realizzazione del nuovo parco-parcheggio del Cammino nuovo. Il ritrovamento non riguarda l'area degli scavi e non dovrebbe allungare i tempi o creare ostacoli al piano. La scoperta si potrà ammirare grazie a un ascensore trasparente. Per quanto riguarda il percorso del restyling da via Santa Margherita a Castello con parcheggi, ascensori e area verde il Comune sta attendendo dall'Università i risultati della simulazione matematica del comportamento delle rocce di fronte agli scavi. Solo allora si potranno presentare i progetti che saranno poi valutati da una commissione comunale. A quel punto, dopo l'elaborazione del progetto esecutivo, potranno iniziare i lavori. Con l'eventuale ribasso d'asta si pensa a un intervento anche accanto alla zona degli scavi. Tempi? Dipenderanno dal numero dei partecipanti alla gara. Per il momento è difficile ipotizzare una data per i lavori.

Fonte: L'Unione Sarda di oggi.

giovedì 17 ottobre 2013

Archeologia. Scavi di Cuma, spunta una cucina di 3000 anni fa


Scavi di Cuma, spunta una cucina di 3000 anni fa
di Gabriele Scarpa




A margine dell'articolo, vorrei segnalare che Cuma è uno dei luoghi in cui si rifugiarono i capi nuragici cacciati dalla Sardegna nel IX a.C. quando si smise di costruire torri e si passò al sistema urbanistico con l'edificazione delle capanne delle assemblee. Il materiale trovato a Cuma è vasellame in stile geometrico, proprio quello del periodo nuragico delle statue di Monte Prama. C'è da riflettere. Vuoi vedere che anche a Napoli, oltre a Roma e nelle coste tosco-laziali etrusche, c'è lo zampino dei nuragici?(P.Montalbano)


Uno scavo porta alla luce, nell’area della città romana di Napoli, tracce del primo insediamento greco risalente all’VIII a. C.
I focolari e i vasi domestici adoperati per cucinare, mangiare ed anche per brindare nel rituale del “simposio”. Cuma, la più antica colonia greca d’Occidente, svela grazie ad uno straordinario scavo, le abitudini quotidiane e alimentari di una popolazione che fu dedita all’agricoltura ma apprezzava anche la carne di cervo e il pescato, e che usava come pentola gusci di tartaruga.
Sotto l’egida della Soprintendenza archeologica di Napoli e Pompei, lo scavo si sta svolgendo nell’area del Parco archeologico di Cuma, nella città bassa, più in particolare, nel settore compreso tra il Foro e le mura settentrionali della parte antica, settore interessato da una continuità abitativa nel tempo dalla fondazione della colonia greca fino all’abbandono della città romana all’inizio del medioevo. Proprio sotto l’insediamento romano, in appena 3,50 metri di profondità, sono emersi i resti di circa 3000 anni fa, tra i quali un ambiente adoperato come cucina che conserva una sequenza di focolari: il più antico presenta un piano refrattario realizzato con frammenti ceramici in stile geometrico del 720 a.C.
Ciò che resta delle abitazioni di quel gruppo di greci che, avventurandosi in Italia meridionale alla metà dell’VIII a.C., segnò la storia dell’Occidente, soprattutto grazie all’introduzione dell’alfabeto che sarebbe divenuto il più adoperato dai latini. Un vero e proprio spaccato della storia dell'antico insediamento: un quartiere centrale con strade e abitazioni che mostrano utensili e vasellame domestico. Si tratta di uno spaccato delle trasformazioni nel modo di vivere e nella cultura materiale dalla città greca a quella romana. Lo scavo, diretto da Matteo D’Acunto, si svolge come cantiere-scuola: “Stiamo lavorando – sottolinea D’Acunto – con il pieno coinvolgimento di una ventina di collaboratori, tra assegnisti, specialisti, laureati e laureandi al monumentale progetto di pubblicazione scientifica del complesso che, per primo nella storia della ricerca a Cuma, offrirà un panorama diacronico di tutta la sua vita”.
Lo scavo dell'Università Orientale di Napoli sta mettendo in luce un vero e proprio palinsesto di tutta la storia della città antica, in particolare della sua quotidianità: un quartiere centrale della città con le sue strade e le abitazioni che restituiscono gli utensili e il vasellame domestico. Si tratta di un vero e proprio spaccato delle trasformazioni nel modo e di vivere e nella cultura materiale dalla città greca a quella romana.
Lo scavo si svolge come cantiere scuola che prevede la partecipazione di oltre 100 studenti dell'Orientale e di altre università italiane e straniere: gli studenti, partecipando in prima persona alle procedure di scavo, documentazione e interpretazione, attraverso la scuola sul terreno, apprendono le tecniche di lavoro sul campo, premessa per un futuro lavorativo nel campo dell'archeologia e dei Beni culturali.
Per la fruizione del sito archeologico da parte dei turisti, è prevista, grazie agli scavi dell'Orientale, la congiunzione del percorso di visita del Foro con le mura settentrionali della città antica, grazie alla messa in luce di un intero sistema viario antico e del relativo quartiere occupato dalle abitazioni romane. Si tratta, dunque, di uno snodo essenziale per consentire al visitatore un percorso completo attraverso la città greco-romana, percorrendone le strade e visitandone le abitazioni.

mercoledì 16 ottobre 2013

In Grecia ritrovati campioni di vino risalenti a 6200 anni fa.

Vino del 4200 a.C.


I più antichi campioni di vino mai registrati in Europa sono stati ritrovati a Dikili Tash, in Grecia. I campioni risalgono al 4200 a.C.. Dikili Tash si trova a sudest di Drama, nella Macedonia Orientale, a circa 2 chilometri dalle rovine dell'antica città di Filippi.
Gli scavi e la successiva scoperta sono stati effettuati all'interno di una casa antica, chiamata Casa 1, dove sono stati ritrovati acini d'uva carbonizzati e pressati all'interno di un vaso. Il processo di vinificazione, dunque, sembra essere stato conosciuto ben prima di quanto si era finora pensato.

Fonte: Le nebbie del tempo

lunedì 14 ottobre 2013

Shardana e Popoli del Mare, decenni di studi su un problema ancora irrisolto.

Shardana, un problema ancora irrisolto
di Gabriella Scandone Matthiae



Il canonico Giovanni Spano, dotto e illustre studioso di antichità sarde ed autore di numerose pubblicazioni sull' argomento, che ancora oggi presentano notevole interesse, scriveva sul Bollettino Archeologico Sardo del 1861 riguardo alla necropoli della città di Tharros: "Nessuna tomba o sepoltura si è scoperta, per piccola che sia, dalla quale non sia venuto fuori qualche amuleto o figurina di divinità che allude ai misteri d'Iside o alla religione egiziana ... è forza conchiudere che qualche colonia egizia vi si fosse stabilita fin da remotissimi tempi". Le sue parole fanno comprendere quanto fortemente la presenza egiziana in terra sarda risaltasse agli occhi dei primi scavatori che abbiano rivolto la propria attenzione alle antichità isolane con fini strettamente scientifici, e non per avidità di tesori o per farne commercio: e ci sembrano la migliore introduzione a un' opera che intende narrare la storia dei rapporti tra la grande isola mediterranea ed il paese del Nilo. La possibilità di definire l'inizio di questi rapporti è legata all'interpretazione di un nome: quello di una delle popolazioni che nei secoli XIII e XII a.c. si riversarono ad ondate successive nel bacino Mediterraneo orientale, provenienti dalle regioni egeo-anatoliche e siriane settentrionali, e giunsero a mettere in pericolo con i loro reiterati attacchi l'impero dei faraoni, dopo aver devastato le coste siro-palestinesi. Le iscrizioni dei sovrani della XIX dinastia Ramses II (1279-1213 a.C.) e Merenptah (1213-1204 a.C.) ci tramandano per la prima volta le effigi e gli appellativi delle varie genti che componevano questa eterogenea mescolanza di etnie, oggi designata collettivamente con l'espressione "Popoli del Mare", che fu impiegata allo scopo per primo dal celebre egittologo francese Gaston Maspéro, oltre 100 anni fa, nel 1881. I loro singoli nomi sono Lukka, Danuna, Shekelesh, Aqiyaua, Tursha, Shardana: per ciascuno di essi gli studiosi di antichità hanno trovato un aggancio con territori e popolazioni menzionate nelle fonti greche e latine, per lo più sulla base di assonanze onomastiche. Così i Lukka sembrano corrispondere ai Lici, abitatori dell' Anatolia sudoccidentale in epoca classica, i Danuna ai Danai citati da Omero, i Shekelesh agli antichi Siculi, gli Aqiyaua agli Achei, anch' essi di omerica memoria, i Tursha ai Tirreni (Etruschi ?) ed i Shardana agli abitanti dell' antica Sardegna. Proprio questi ultimi, per noi particolarmente interessanti, sono ricordati abbastanza frequentemente nelle fonti egiziane dei secoli XIVXI a.C. I più antichi testi che menzionano i Shardana sono tre lettere inviate dal re di Biblo Rib-Addi ad un faraone della XVIII dinastia, Amenophis III (1386-1349 a.c.) o Amenophis IV (1356-1340 a.c.). Esse fanno parte del celebre complesso di corrispondenza diplomatica conosciuto come "Lettere di Amarna" dal nome del sito egiziano ove fu rinvenuto nel 1887-88; sono redatte in scrittura cuneiforme ed in lingua babilonese, che era l'idioma internazionale dell' epoca, una sorta di "inglese" del tempo, e trattano delle continue minacce che la città-stato di Biblo, porto commerciale della costa libanese legatissimo all'Egitto sin dalla fine del III millennio a.C., riceveva da un sovrano siriano desideroso di impadronirsene. Rib-Addi, fedelissimo al faraone, invocava con esse il soccorso delle truppe egiziane per respingere i tentativi del nemico, e accennava, tra le altre innumerevoli difficoltà, all'uccisione di soldati Shardana, che verosimilmente dovevano essere impiegati a Biblo come mercenari. I Shardana sono poi citati varie volte, come si è già accennato, nelle iscrizioni storiche di Ramses II della XIX dinastia: sia nei testi che accompagnano le grandiose scene scolpite sulle pareti dei templi di Luxor, Karnak, Abido ed Abu Simbel, ove è esaltato il valore guerriero del sovrano, sia in quelli incisi su talune stele, una delle quali è nota proprio come "Stele dei Shardana". Essi sono ricordati come uno dei "Popoli del Mare" che, allora per la prima volta, giunsero fino a saccheggiare le sponde egiziane mediterranee, per esservi sconfitti da Ramses: " ... I turbolenti Shardana, che nessuno aveva saputo combattere, essi vennero sfacciatamente sulle loro navi da guerra dal mezzo del mare, e nessuno poteva opporsi a loro. Ma egli li piegò con la forza del suo valido braccio, e li portò in Egitto". I Shardana vengono qui descritti come pirati e predoni sì, ma anche come guerrieri arditi e coraggiosi: quindi Ramses II, dando prova di encomiabile senso pratico, pensò di sfruttare questi loro pregi, inglobandoli nel suo esercito in qualità di truppe mercenarie. Come tali essi sono ricordati nel racconto della partenza della spedizione siriana del 1274 a.c., che ebbe il suo momento epico cruciale nella battaglia per la conquista della città di Qadesh, nella Siria centrosettentrionale: "Quando Sua Maestà ebbe approntato le truppe, i carri e i Shardana che aveva vittoriosamente catturato, tutti equipaggiati con le loro armi, e comunicato loro i suoi piani di battaglia, allora Sua Maestà partì verso nord con le sue forze". Durante il regno di Ramses II i "Popoli del Mare" non costituivano ancora un serio pericolo per l'Egitto; lo divennero sotto il suo tredicesimo figlio e successore Merenptah, che li dovette affrontare nel suo Vanno di regno (1209 a.Cv), insieme ad una coalizione di genti libiche, e ne ebbe ragione dopo un' aspra battaglia combattuta nel Delta egiziano occidentale e durata sei ore. Tra questi "Popoli del Mare" vi erano nuclei di Shardana, che si trovarono così a combattere su entrambi i fronti, sia come invasori sia come truppe mercenarie degli Egiziani. È forse a questa singolare situazione che alludono dei passi dei Papiri Anastasi I e II, ove sembra si parli di Shardana mercenari del faraone che avrebbero fatto prigionieri in battaglia i propri congiunti. La minaccia si ripresentò, assai peggiore, all'epoca di Ramses IlI, l'unico sovrano rimarchevole della XX dinastia (1185-1154 a.C}, che modellò tutta la propria vita su quella del suo illustre predecessore Ramses II. Ramses III dovette affrontare in durissime battaglie campali i "Popoli del Mare" e i loro alleati libici, e particolarmente i Shardana: le vittorie che riportò su di essi sono immortalate nei grandi rilievi parietali del suo tempio funerario a Medinet Habu, presso Tebe. Ancora una volta, come già ai tempi di Merenptah, i Shardana non erano solo tra gli invasori, ma comparivano anche tra i soldati del faraone, insieme ad altri contingenti mercenari costituiti da "Popoli del Mare" assoggettati. Un altro documento della XX dinastia, il Papiro Wilbour dell'epoca di Ramses V (1148-1144 a.C}, cita i Shardana non più come pericolosi guerrieri: qui essi figurano già integrati nella società egiziana, e ricevono in ricompensa dei servigi resi delle proprietà terriere. In questo caso particolare, ci troviamo di fronte evidentemente a discendenti dei mercenari Shardana, che continuavano ad esercitare il mestiere dei loro padri presso il Faraone. Abbiamo detto poc' anzi che gli studiosi hanno accostato il nome dei Shardana a quello della Sardegna in base ad un'assonanza linguistica: ma non è questo il solo motivo che ha indotto molti storici ad ipotizzare l'identità tra il popolo citato nei testi egiziani e gli antichi abitanti della grande isola mediterranea. Esistono infatti anche elementi di carattere iconografico che hanno orientato in tal senso l'opinione dei ricercatori: i rilievi di Ramses III riproducono svariati gruppi di "Popoli del Mare", i quali si diversificano per la fisionomia, 1'abbigliamento, le armi, i copricapi.

domenica 13 ottobre 2013

Una professione inspiegabile: l’archeologo

Una professione inspiegabile: l’archeologo
di Alessandro D’Amore


Nella vita di un laureato in archeologia arriva sempre un preciso momento in cui si riesce a capire davvero in che guaio ci si è andati a cacciare. Questo momento coincide con una domanda: «Cosa fai nella vita?».
Il dramma non sta nella domanda in sé – e neanche nella risposta – quanto piuttosto nelle due possibili riposte dell’interlocutore.
Risposta 1: «Wow, che bello! Anche io da piccolo volevo fare l’archeologo/a, poi però ho scelto di studiare altro… (e sappiate che in quei puntini di sospensione si sottintende “discipline serie e degne di questo nome come ingegneria/architettura/medicina e guadagnare 2000 euro al mese alla faccia tua!”).
Risposta 2: «Aaahhh, che bello! … (pausa) … Ma quindi che fai? Cioè praticamente, dico…».

Ecco. Parlavo proprio di questo momento.
Quanti di voi si sono sentiti rispondere così? Quanti si sono trovati in seria difficoltà a far capire alle persone ciò che fa un archeologo e soprattutto l’utilità del nostro lavoro?
Per la mia esperienza, l’archeologia per l’italiano medio si riduce a morti e templi: «Quindi stai tutto il giorno inginocchiato con un pennellino a spolverare le ossa dei morti?», oppure: «Ma tanto in Italia i templi li hanno già scoperti tutti».
Ma la svolta, ciò che mi fece capire quanto lontana era la nostra professione dal resto del mondo, si concretizzò in due episodi.
Episodio 1: visita in scavo di scolaresca. Spiegazione accattivante, pubblico rapito e attento. Domanda: «Ma perché i Romani hanno sotterrato tutte queste cose?».
Episodio 2: scavo archeologico in area urbana. Limite di scavo. Mamma e figlia osservano i lavori. Figlia: «Mamma, che fanno quei signori?». Mamma: «Lavorano. Vedi, cara, se non andrai bene a scuola, farai la loro stessa fine».
Lascio trarre le conclusioni a voi.
Ma la mia domanda è: siamo noi che non ci siamo fatti (e non ci facciamo) capire oppure manca del tutto un’educazione e una coscienza archeologica?
La risposta potrebbe essere scontata, ma non ovvia.

Fonte: http://leparoleinarcheologia.wordpress.com/
illustrazione di Domenico Sicolo

sabato 12 ottobre 2013

India, equipe di archeologi cerca il tesoro su una mappa indicata in sogno a un santone

India, equipe di archeologi cerca il tesoro su una mappa indicata in sogno a un santone

Un maharaja avrebbe rivelato a un santone indù il luogo in cui nel 1800 ha nascosto mille tonnellate d'oro prima di essere ucciso dagli inglesi. Ora un ministro ha segnalato il fatto alla Sovrintendenza, che ha inviato gli archeologi sul posto indicato in sogno.
Una troupe di archeologi è stata inviata da un ministro dello Stato indiano del Chhattisgarh a cercare un tesoro che sarebbe nascosto in Uttar Pradesh. A svelare il luogo segreto sarebbe stato il maharajà Raja Rao Ram Bux Singh, apparso in sogno al santone Shobhan Sarkar. Nella rivelazione onirica, l'uomo avrebbe spiegato di aver lui stesso nascosto mille tonnellate d'oro sottoterra in uno storico forte nel villaggio di Daundiya Kheda, sulle rive del Gange, prima di essere sconfitto e ucciso dagli inglesi durante la rivolta del 1857.
Il santone indù, come racconta The Indian Express oggi in prima pagina, si è rivolto a diverse autorità per fornire l'informazione, ma nessuno gli ha mai dato retta, nemmeno la potente leader del partito del Congresso Sonia Gandhi: "Tutti hanno sempre pensato a uno scherzo". Ora però un ministro dello Stato del Chhattisgarh, Charan Das Mahant, ha visitato il luogo indicato nel sogno e ha deciso di informare la Sovrintendenza indiana ai beni archeologici: "Se trovassimo il tesoro - ha dichiarato il politico - potremmo risolvere i problemi finanziari dello Stato in crisi a causa della svalutazione della rupia". Un team è già arrivato sul posto per delimitare l'area dove verranno effettuati gli scavi la cui evoluzione verrà trasmessa in diretta televisiva.


Fonte: Unione Sarda di oggi.

venerdì 11 ottobre 2013

Convegno "Atlantide e Nuraghi". Le Colonne d'Ercole di Alfonso Stiglitz.


Oh quante belle colonne, Madama Dorè
di Alfonso Stiglitz


In relazione al convegno di Monte Claro sul tema Atlantide e i nuraghi, vi propongo il secondo dei tre interventi di cui riferirò in questo quotidiano. Dopo quello di Paolo Bernardini, e quello odierno di Alfonso Stiglitz sulle "Colonne d'Ercole", seguirà quello di Mauro Perra su "Grano, granai e pane all'epoca dei nuraghi".

Le Colonne d’Eracle, per i volenterosi seguaci della tesi Sardegna = Atlantide, sono come le figlie di Madama Dorè, che ognuno vorrebbe maritare. E ognuno le vuole maritare con la Sicilia, Malta, le Sirti, le Bocche di Bonifacio o con la Spagna come voleva lo scudiero del re che prese la più bella.
Perché parliamo di Colonne? Perché senza Colonne non c’è Atlantide. Un rapido sfogliare delle pubblicazioni su Atlantide Sardegna ci porta a ubicare queste Colonne ovunque e, ovviamente, ad attribuire questa collocazione alla mente di Platone, il quale
- se la Sardegna è Atlantide, come ormai è assodato, salvo che per i pervicaci archeologi sardi, che nel loro oscurantismo continuano a ritenere che la Civiltà nuragica non sia collassata drammaticamente nel 1175 -
pone Atlantide al di là delle Colonne, ergo queste stanno al di qua della Sardegna, tra Platone e la nostra isola e, quindi, al massimo in Sicilia o tra Sicilia e Tunisia.



Ora confesso che, nel mio pervicace oscurantismo, trovo un po’ strano che Platone abbia posto la fine del mondo, il non plus ultra, in Sicilia
· Perché in Sicilia Platone ha vissuto per circa 7 anni
· Perché ai tempi di Platone, ben al di là della Sicilia fiorivano fior di città greche, famose, che inondavano il mare delle proprie merci, una per tutte Marsiglia.

Se le Colonne sono, come erano, nel punto di separazione tra la realtà dei vivi e l’aldilà, inteso come altra dimensione, non più umana, buon senso vuole che non stiano in mezzo ai propri traffici commerciali: i lettori lo avrebbero immediatamente sconfessato.
Ovviamente se Platone avesse preteso di raccontare una storia vera e non uno dei suoi racconti filosofici.

Cosa sono le Colonne ?
Sono i segni che indicano il passaggio dall’aldiquà all’aldilà. Un mito orientale
e i miti orientali sono alla base della mitologia greca (vedi Esiodo)
Sono le porte del sole che segnano il percorso del sole da E a W
1) il sole visita l’aldilà durante la notte
2) deve attraversare le “porte del cielo”
3) il guardiano è il dio solare shamash
4) che si identificano con due monti gemelli come ben visibile in un sigillo akkadico del III millennio a.C.
Mashu era il nome della montagna di ingresso nell’aldilà a W
durante la notte il sole ripercorreva il tragitto W-E fino a uscire dall’altra montagna gemella Mashu.

Questi racconti mesopotamico sono diffusi ovunque e rimangono in tutte le mitologie del Vicino Oriente, compresa la Bibbia. Il diluvio universale è un racconto mesopotamico che gli ebrei lessero, o sentirono, e riportarono nel loro racconto. A Ugarit, il porto siriano, l’aldilà si trova all’estremo occidente del mondo conosciuto. Il ciclo di Baal, la grande divinità semitica, comprende due montagne ai limiti della Terra che segnano l’ingresso dell’aldilà a Occidente, e dell’aldiqua a Oriente, e il portiere si chiama Reshep, la fiamma, strettamente imparentato con Melqart. Non è un caso che nei templi, ad esempio a Cadice, il fuoco viva perennemente, all’interno di appositi calderoni accesi nel tempio. Le colonne dunque rappresentano un limite, un confine un luogo ultimo oltre il quale non si può andare, separa l’aldilà dal mondo reale, la geografia degli dei da quella degli uomini
Chi ha portato queste colonne nel Mediterraneo?
È verosimile che siano stati quegli individui che si spostavano da oriente a occidente con le navi. In primo luogo i fenici con il loro dio, Melqart, che si stabiliscono in molte coste: da Tiro fino all’Atlantico. Non a caso nel lontano Occidente edificano templi dedicati a Melqart a Cadice e Lixus, dove il sole va ad addormentarsi. Le prime colonne sono legate alla nascita di Tiro, sono le pietre degli dei, le due rocce erranti (Ambrosiai Petrai) di cui Bernardini ci ha parlato tante volte nel mito di fondazione di Tiro. Esistevano due isole che erravano nel mare e Melqart insegna, ai fenici che stavano nella terraferma, a navigare per andare su queste rocce e fondare la loro città. In una di queste c’erano l’olivo fiammeggiante e un’aquila. Il sacrificio dell’aquila blocca le rocce e i fenici possono fondare la città. Le due pietre, le due stele, le due colonne, sono comunemente raffigurate davanti al tempio di Melqart a Tiro. Erodoto descrive questo tempio quando va a Tiro e dice che fra i tanti doni votivi c’erano due stele, una di oro puro e l’altra di smeraldo, che risplendevano “Ho visto [il tempio] riccamente provveduto di molti doni votivi: tra di essi nel tempio c’erano anche due stele [sthlai], una d’oro puro, l’altra di pietra di smeraldo, che di notte risplendeva grandemente” (Erodoto II, 44.2) + I RE

Questo stesso elemento è presente anche nella Bibbia: Salomone chiama Hiram, re di Tiro, e chiede legname di qualità e artigiani in grado di costruire un tempio grandioso. Nella Bibbia si trova anche la descrizione di questo tempio, e recita che “eresse le colonne nel vestibolo del tempio, quella di destra la chiamò Iachim e quella di sinistra Boaz.

In tutti i templi di Melqart sparsi per il Mediterraneo, esistevano due stele, due colonne, due pietre che indicavano questa origine. A Cagliari, dove c’era l’area del porto fenicio (intorno alla città mercato Auchan) sono stati recuperati materiali che fanno pensare alla presenza di un tempio, ad esempio la statua di Bes, una delle raffigurazioni di Melqart, che si trova oggi al museo di Cagliari, e un cippo con una dedica a Melqart. C’è un chiaro sincretismo tra Melqart e l’Ercole delle colonne, con dediche in fenicio che definiscono Melqart, mentre quelle in greco sono riferite a Eracle. Le statue fenicie di Cipro, con una raffigurazione di Melqart con la leontè perfettamente comparabile a quella di Ercole. Secondo molti studiosi, è proprio a Cipro che avviene il mescolamento e la sovrapposizione fra i due personaggi. Ogni gruppo di naviganti che va a fondare dei centri commerciali oltremare, edifica dei templi dedicati alle divinità. Melqart per i fenici, ed Eracle per i greci, sono le divinità fondanti, quelle che portano la civiltà nei luoghi visitati. I greci vanno a sovrapporre le loro storie a quelle dei fenici, e i miti garantiscono il diritto dei popoli di fondare colonie. Anche all’interno dei greci troviamo una stratificazione dei movimenti tant’è che ci dicono che Eracle è l’ultimo degli arrivati nella vicenda delle colonne, perché prima di lui appartenevano a Briareo, un personaggio con centinaia di mani, alleato di Zeus, guardiano delle porte aldilà delle quali è relegato Crono. Briareo è in stretto contatto con gli Euboici, quel popolo che, prima di Eracle, portò Briareo nel lontano Occidente: in Sardegna a Sant’Imbenia, in Atlantico a Huelva, dove insieme al materiale greco sono stati scavati manufatti fenici e nuragici, siamo in presenza di una joint venture.

Nel IX-VIII a.C. i nuragici, se la proposta dello tsunami fosse valida, sarebbero un popolo fantasma perché da 300 anni non dovrebbero più esistere. Se affrontiamo il discorso sui toponimi dobbiamo osservare che le parole che terminano in –ussa sono greche e ci raccontano i movimenti di questo popolo nel Mediterraneo. Per lo stesso motivo, i toponimi fenici raccontano i movimenti di questi naviganti. Se le colonne sono il limite oltre il quale non si può andare, significa che oltre le colonne ci sono porti non conosciuti dalle popolazioni che pongono le colonne. Nel momento in cui il mito arriva in Occidente, con i fenici e con gli euboici, il confine si trova in prossimità del tempio che divide gli insediamenti fenici da quelli iberici (peraltro frequentati da fenici, greci e nuragici), ossia a Cadice.
Confrontando la letteratura con gli studi geologici, aldilà delle colonne d’Eracle dovrebbero esserci fondali bassi o fangosi. Se non ci sono fondali fangosi ne consegue che non ci sono colonne e non c’è Atlantide. Se perdiamo un elemento della teoria di Platone cade tutta la proposta di Atlantide. È stato proposto che i fondali fangosi si trovano nel canale di Sicilia, ma in quell’epoca, ossia nel 1200 a.C., la profondità del canale era notevole, poco diversa dall’attuale, molto differenti dai fondali dello Stretto di Gibilterra. Dove potrebbero dunque trovarsi questi bassi fondali? Aristotele, allievo di Platone, osò dire che il suo maestro così come aveva creato Atlantide e l’aveva anche fatta affondare, dimostrando poca fiducia in quello scritto. Aristotele ci fornisce anche una informazione geografica dello stretto di Gibilterra: “le parti del mare situate al di là delle Colonne d’Eracle sono al riparo del vento a causa dei bassi fondali” (Aristotele, Meteorologica, II, 1 354° 22).

L’area di Cadice, vicina a Siviglia, nell’VIII a.C. era vicina al mare, ma il territorio era paludoso a causa degli apporti di detriti da parte del fiume Guadalquivir. Il golfo penetrava l’area per circa 70 km e si trovava aldilà di Cadice. L’apporto alluvionale del grande fiume col tempo chiuse il golfo, ma all’età di Platone alcune parti del fiume erano ancora navigabili. Possiamo fare un paragone con la situazione a Santa Gilla, ma con proporzioni decisamente minori. A Cagliari troviamo ancora acqua perché il Rio Mannu è molto più piccolo del Guadalquivir e, conseguentemente, l’apporto dei detriti è molto minore.

Vorrei chiudere il mio intervento con una considerazione: sembra quasi che ci vergogniamo della nostra storia, che la storia dei nuragici non sia considerata adeguata alla nostra terra e si senta il bisogno di abbellirla, di arricchirla e di invocare la distruzione della civiltà da parte di Poseidone come se solo in questo modo, ossia con un maremoto, ci nobilitiamo agli occhi del mondo.
La Sardegna nuragica, soprattutto in questi ultimi anni, è afflitta da una quantità di pubblicazioni che di volta in volta la collegano a Atlantide, Shardana, Giganti, Adoratori di Yhwh, All’isola dei Feaci…quasi che l’essere semplicemente nuragici non basti a garantirci un posto nella storia.
Fortunatamente non siamo stati sommersi, e a queste persone rispondo alla proposta Atlantide: “ No grazie, perché come dice lo scudiero del re, la più bella del reame l’ho già scelta Madama Dorè, è la Sardegna”.