Articolo di di Felicia Corsale e Franco Foresta Martin
L’ossidiana alimentò la prima, grande rete di scambi commerciali e
culturali su lunga distanza realizzata dall’uomo in età Neolitica, circa 6000
anni prima di Cristo. Questa rete di scambi ebbe nella Sicilia uno dei nodi più
importanti dell’intero bacino mediterraneo. Oggi la ricerca scientifica mette a
disposizione analisi fisiche e chimiche che da un minuscolo frammento di
ossidiana permettono di risalire al giacimento geologico di provenienza e di
definire l’età in cui questo vetro di origine vulcanica fu lavorato, fino ad
assumere la funzione di utensile. L’ossidiana è un vetro naturale di origine vulcanica, un materiale amorfo, privo di
quell’ordine strutturale tipico dei minerali. L’ossidiana di solito ha un
aspetto nero-lucente e una tendenza a rompersi generando una superficie
concoide, cioè curva come il guscio di una conchiglia. Si forma quando colate
di lava molto ricche in
Silice (SiO2>69%) raffreddano rapidamente, impedendo
o quasi la formazione di cristalli e generando così una massa vetrosa amorfa. Grazie
alla sua attitudine a essere ridotta in schegge molto affilate, l’ossidiana fu
molto sfruttata nel corso della Preistoria per produrre strumenti da taglio e
da caccia: coltelli, raschiatoi, punte di freccia e di lancia.
A partire dai
nuclei di ossidiana raccolti nei giacimenti geologici, l’uomo preistorico
estraeva e modellava schegge con punte e bordi molto affilati. Nel Mediterraneo
centrale i giacimenti di ossidiana sfruttati durante la preistoria, dal
neolitico all’età dei metalli, furono solo quattro e tutti si trovano in isole
italiane peri-tirreniche: Lipari e Pantelleria (Sicilia), Monte Arci in
Sardegna e Palmarola, una delle isole Pontine nel Lazio. I quattro
giacimenti del Mediterraneo centrale alimentarono le esportazioni di ossidiana
verso migliaia di villaggi preistorici. Popoli diversi, attraverso il mare, si
scambiarono ossidiana, merci e culture. Iniziavano cosi le prime relazioni
interculturali: individui diversi si riconoscevano reciprocamente pari dignità,
pur nelle loro differenze. Le correlazioni spaziali e temporali fra i reperti
archeologici raccolti negli insediamenti preistorici e i rispettivi giacimenti
d’origine sono di fondamentale importanza per la ricostruzione delle rotte e delle vie di scambio e comunicazione
usate nella Preistoria.
L’ossidiana dell’isola di Lipari fu esportata a partire dal
Neolitico, circa ottomila anni fa. I giacimenti più utilizzati in virtù della
buona qualità del vetro vulcanico che permetteva di ricavare ottimi utensili
furono due: Vallone del Gabellotto (il più sfruttato) e subordinatamente
Canneto Dentro. Entrambi i giacimenti si trovano sul versante orientale
dell’isola. L’ossidiana di Lipari ha un abito lucente, con gradazioni di colore
dal nero al grigio in luce riflessa; e da grigio al marrone in luce trasmessa. La colata di ossidiana di Vallone del Gabellotto, spicca come un blocco nero
lucente anche nelle foto da satellite, a ridosso della spiaggia di Canneto.
L’età dell’eruzione che portò alla sua formazione è stimata attorno a 9000 anni
fa: quindi poco prima del suo sfruttamento da parte dell’uomo preistorico. I
giacimenti di ossidiana dell’isola di Pantelleria sfruttati durante la Preistoria sono stati almeno
tre: Salto La Vecchia e Balata dei Turchi nella costa meridionale; Fossa della
Pernice (o Lago di Venere) nella parte settentrionale.
Monte Arci, un antico
edificio vulcanico a ridosso del Golfo di Oristano, nella parte occidentale
della Sardegna, ha prodotto
i più antichi giacimenti di ossidiana del Mediterraneo Centrale, con una età
stimata di circa 3.5 milioni di anni. Qui i quattro giacimenti di ossidiana
sfruttati nella preistoria sono stati identificati dagli archeologi con
altrettante sigle: SA, SB1, SB2 e SC. L’ossidiana di Monte Arci si presenta in
una grande varietà di tipologie: sia trasparente sia opaca, con colori dal nero
intenso al marroncino; in alcuni casi la massa vetrosa nera è attraversata da
venature marroni.
L’isola di Palmarola,
appartenente all’arcipelago delle Pontine (Lazio) presenta un’importante colata
di ossidiana a Monte Tramontana, nella parte settentrionale; e poi abbondanti
blocchi sparsi, in giacitura secondaria, nella zona meridionale, a Punta
Verdella. Di queste due sorgenti, la prima è quella che offre vetri di migliore
qualità, adatti alla scheggiatura per trarne utensili litici. L’età di
formazione delle ossidiane di Palmarola è piuttosto antica, valutata in circa
1.7 milioni di anni fa. Le ossidiane di Palmarola hanno un aspetto scarsamente
brillante e opaco, con colorazioni nero intense e grigio scure.
Come si ricavano le informazioni dai reperti di ossidiana?
L’INGV (con i suoi
laboratori specializzati della sezione di Palermo) è stato coinvolto nel
progetto che aveva lo scopo di ottenere informazioni dai reperti di ossidiana,
per raccogliere dati utili e ricostruire le rotte e le vie di scambio e
comunicazione usate nella Preistoria. Per analizzare le ossidiane si applicano
diversi metodi fisici il cui principio generale consiste nello stimolare un
reperto a emettere radiazioni che recano la sua impronta composizionale. Fra
gli strumenti più usati per la caratterizzazione geochimica delle ossidiane ci
sono: la microsonda elettronica con
cui si ottiene la percentuale relativa degli elementi chimici maggiori e
minori; la spettroscopia di massa con
ablazione radar per ricavare gli elementi in traccia; la fluorescenza ai raggi X. Le analisi
permettono di individuare, per ciascuna sorgente geologica di ossidiana, uno
specifico spettro caratteristico che
rappresenta l’impronta geochimica del giacimento. Mettendo a confronto questa
impronta con quella ricavata dai reperti archeologici, si riesce a risalire,
per ogni singolo reperto, al suo giacimento d’origine.
Interessantissimo. Finalmente, un articolo divulgativo non prolisso e piano. Proprio per tutti. Sarebbe da leggere a scuola. Grazie. Cerea, nèh!
RispondiElimina