Archeologia.
Le città in Sardegna fra tardoantico ed alto medioevo.
Articolo di Rossana
Martorelli
Le
recenti ricerche storiche ed archeologiche stanno incrementando le conoscenze
sulle città sarde, fornendo una nuova base per delinearne l’assetto raggiunto
in epoca postclassica attraverso dinamiche di continuità o trasformazione. Sia
le fonti scritte – sebbene scarse e relativamente più abbondanti su Cagliari –
sia l’archeologia confermano una sostanziale persistenza nel medesimo sito
degli insediamenti urbani, sino a che un insieme di eventi ne causò il
progressivo abbandono in favore di nuovi centri agli inizi del medioevo. Impedisce
di disegnare bene l’urbanistica e la fisionomia delle città sarde in questo periodo
il fatto che i livelli archeologici relativi a tali secoli sono stati asportati
durante esplorazioni “archeologiche” condotte in passato per riportare in luce
le
Le
città-municipium almeno dal IV secolo divennero sede di diocesi. La più
antica è Carales, rappresentata al concilio di Arles del 314 dal vescovo
Quintasius e dal presbyter Ammonius. Non è certo se nuovi presuli
siano stati istituiti prima del concilio di Sardica (343), ma dalla fine del
medesimo secolo Carales è certamente metropolita, per cui doveva
esistere almeno un’altra diocesi. Si ritiene che entro la prima metà del V
secolo siano state create le altre sedi presenti al Concilio di Cartagine nel
484 (v. paragrafo I Vandali), perché non sarebbero potute nascere in
questo periodo, se anche nell’Isola fu applicato il divieto dei re vandali di
istituire nuovi presuli (facendo essa parte del regno). Anche per la prima metà
del V secolo non si hanno notizie su luoghi di culto cristiani nelle città
sarde. Il Martirologio Geronimiano, calendario in uso in tutto l’impero,
compilato fra il 431 e il 450, nomina diversi martiri legati alla Sardegna, di
cui sono ritenuti autentici Lussorio (a Forum Traiani), Gavino (a Turris)
e Simplicio (forse ad Olbia, anche se la fonte riporta in Sardinia).
Sebbene non menzionato, Saturnino era certamente oggetto di devozione a Carales.
Stretto era il legame con il suburbio, dove si dislocavano i sepolcreti nei
quali gradualmente trovarono sepoltura i cristiani e nacquero i santuari
martiriali. Delle prime fasi si hanno poche e non sempre chiare testimonianze
al di sotto dei martyria bizantini (cfr. paragrafo L’età bizantina).
Tra fine IV e prima metà V secolo le città acquisirono una fisionomia
cristiana. Contemporaneamente e talvolta in dipendenza dei poli cultuali si
ampliava la superficie urbana. A Carales nella zona orientale fu
progettato il nuovo quartiere ritrovato sotto la chiesa di Sant’Eulalia, spianando
un’area prima occupata da un tempio per impiantare una strada lastricata e due complessi
residenziali di notevoli dimensioni. Tale strada fu poi deviata per un portico
monumentale, affacciato forse su una terrazza a giardino, che mutò la direzione
degli assi viari da NE/SW a NW/SE. Anche a Nora un quartiere si sviluppò
attorno alla nuova strada, con impianto regolare, edifici quadrangolari,
costruiti in “opus africanum” (riquadri delimitati da piedritti in
materiale litico, riempiti da pezzame litico o ceramico). Turris registra
fra III e IV secolo spostamenti delle aree cimiteriali in settori prima urbani.
I
Vandali
L’Isola
fu conquistata dai Vandali, che sferrarono un attacco violento su Olbia.
Indagini recenti hanno restituito una decina di navi attraccate nel porto,
incendiate in connessione con il sacco di Roma (455 d.C.). I relitti mai
rimossi ne decretarono la cessazione d’uso. Forse a questo evento vanno
ricollegati i crolli visti anche in passato in alcuni punti della città, ma Olbia
non venne distrutta: la ridotta funzionalità del porto e il venir meno
della sua posizione strategica con la caduta dell’impero romano, che spostò
l’asse verso Cartagine e non più Roma, furono la causa di una fase di stasi
economica, politica e sociale. Caralis mantenne invece il ruolo di città
principale della Sardegna, come sede del funzionario rappresentante del nuovo
regno. Si conosce solo il nome dell’ultimo – Goda – che emise moneta poco prima
della sua sconfitta da parte dei bizantini, che riconquistarono l’Isola. Sporadiche
e disomogenee sono le attestazioni relative a nuovi interventi edilizi o
urbanistici. Al concilio indetto a Cartagine nel 484 da Unnerico su questioni
dogmatiche (MGH, AA, 3, 1, pp. 63-64 e 71) presero parte 5 presuli (Lucifer
II – Carales; Vitalis – Sulcis; Martinianus – Forum Traiani; Bonifatius –
Senafer; Felix – Turris Libisonis). Il concilio si concluse con la condanna
all’esilio in Sardegna e Corsica di numerosi vescovi e monaci che rifiutarono
l’arianesimo, tra cui Fulgenzio di Ruspe. A Caralis, i religiosi giunti
al suo seguito introdussero la disciplina monastica; quando poi la sua casa (Vita
Fulg., 24) divenne inadatta per i numerosi seguaci, chiese al vescovo
Brumasio (fra 519-523) un terreno presso il santuario di San Saturnino per
fondare un cenobio, che fu dotato di uno scriptorium.
Dell’ecclesia
episcopalis non si hanno notizie, ma alcuni indizi ne suggeriscono l’ubicazione
nel nuovo quartiere (oggi La Marina). Nel teatro di Nora, ad ovest del
foro, sono state evidenziate trasformazioni: all’esterno erano focolari e nuove
costruzioni, forse ad uso artigianale; all’interno, dopo la fine degli spettacoli,
l’iposcenio fu utilizzato come cantina con grossi dolia per contenere le
derrate alimentari. Negli stessi anni la vita si spostò definitivamente nel
nuovo quartiere, dove venne edificata una basilica, dotata forse di battistero,
anche se Nora non sembra essere stata sede di una diocesi. Anche a Tharros
si riscontra un nuovo impulso edilizio. Le terme n. 1 furono riadattate per
impiantarvi il complesso episcopale. Nel 1956 tornò alla luce un edificio ad
aula unica monoabsidata, che conteneva una vasca esagonale, scavata nella
roccia e foderata da lastre basaltiche, con tre gradini di accesso. Sul bordo
si vedono ancora un sedile in arenaria e i resti delle basi di colonnine che in
origine dovevano sorreggere un baldacchino in pietra. Sulla collina che
sovrasta a nord il battistero sopravvivono i resti di un piccolo edificio forse
a tre navate, absidato ad ovest, in cui si è indotti a riconoscere la
cattedrale connessa al battistero. I vani delle originarie terme, evidentemente
non più in uso, furono forse destinati sia a residenza del vescovo e del clero
sia ad “uffici diocesani”. Johannes episcopus tharrensis, il primo presule
noto, è citato nella XII epistola di un’opera perduta di Fulgenzio
(inizi VI secolo). La posizione della cattedrale tharrense, urbana e centrale,
apre la via verso la possibilità che tutte le sedi delle diocesi fossero entro
i limiti urbani e non nel suburbio in prossimità dei santuari. In base a
quest’ultima ipotesi la tradizione ha da sempre identificato il complesso in loc.
Columbaris (costituito da un sepolcreto all’interno del quale vennero edificati
a partire dal IV secolo una chiesa cimiteriale, una basilica e un battistero,
completati da una struttura residenziale) con la cattedrale di Senafer =
Cornus. Il toponimo Senafer, derivato forse dalla contrazione di Sinus
Afer, sembrerebbe più appropriato ad un distretto territoriale, dato che diversamente
dalle altre sedi diocesane non si riferisce ad alcun centro urbano noto.
La
distanza da Cornus, l’ubicazione e la sua fisionomia, accostabile alle ecclesiae
baptismales per gli abitanti delle campagne, fanno pensare che potrebbe
essere una cattedrale rurale, per coloro che in un sistema latifondistico in
uso in età romana e bizantina popolavano il territorio: i possessores,
che gestivano l’economia agricolo-pastorale. È possibile invece che Cornus avesse
una sua propria chiesa principale in ambito urbano, che più tardi assunse
dignità di cattedrale: un vescovo Boethius di Cornus partecipa al
Concilio del 649. Un edificio absidato, identificato dagli scopritori come
basilica, risalente a fine IV-V secolo per analogia costruttiva con la basilica
funeraria di Columbaris, è tornato alla luce nell’area nord-est del foro
all’interno dell’area urbana.
L’età
bizantina
Le città
figurano nel VII secolo nella Cosmographia dell’Anonimo Ravennate (V,
26): Caralis, Sulci, Neapolis, Othoca, Tharri,
Corni, Bosa, Turris Libisonis. Sia nelle lettere di papa
Gregorio Magno (590-604) che nella Descriptio Orbis Romani di Giorgio di
Cipro (prima metà VII secolo) il toponimo Olbia appare sostituito con
Fausißh. Studi recenti la ubicano sul sito della città romana – e non nella
loc. Pasana, a 3 km da Olbia dove è stata da alcuni localizzata in base
all’assonanza del toponimo. Le mura urbiche rimasero in uso e le città sarde –
come in tutto il Mediterraneo – dovevano apparire centri fortificati. Procopio
di Cesarea, narrando lo scontro a Caralis nel 552 fra i Goti che per un
anno occuparono l’Isola e l’esercito di Giustiniano, riferiva che essi uscirono
dalle porte della città (Bellum Gothicum, IV, 24,31-38). Pochi decenni
dopo (ottobre 598), Gregorio Magno (Ep., IX, 11) esortava il suo vescovo
Ianuarius a rinforzare le mura, forse danneggiate durante i suddetti
eventi, per arginare il pericolo di incursioni da parte dei Longobardi.
Appartengono
al circuito urbico le strutture in grossi blocchi ritrovate sotto la chiesa di
San Michele nel quartiere di Stampace e sotto l’ex Albergo “La Scala di ferro”
in viale Regina Margherita, che sembrano delineare un percorso che proteggeva
il centro urbano a nord, dall’anfiteatro, sotto l’attuale via Manno, per congiungersi
poi alle mura a triplice cortina individuate da G. Lilliu sotto al Palazzo
dell’INPS in via XX Settembre. Non si escludono anche i cosiddetti “ridotti”,
aree di minori dimensioni, cinte da mura, con funzione difensiva e militare,
spesso presenti all’interno delle città bizantine. A Carales risiedeva
la flotta e certamente anche un corpo di guardia. Dall’area prospiciente lo
stagno di Santa Gilla proviene un’epigrafe che menziona un metatum Sancti
Longini. Il metatum era un ridotto e la dedica a San Longino, il
centurione testimone della Passione del Cristo, suggerisce l’intenzione di
porre il luogo sotto la protezione di un “militare”. La Cosmographia del
Ravennate cita un praesidium Norae: le mura non sono state trovate; si
ipotizza che le cosiddette Terme a mare, che hanno subito modifiche,
defunzionalizzando alcuni ambienti e chiudendo gli accessi al mare, siano da
identificare con il suddetto praesidium. Delle mura di Sulci rimangono
alcuni resti vicino al Fortino Sabaudo. Ancora nell’Ottocento A. Della Marmora e
V. Angius vedevano un castrum, attestato già in una stampa seicentesca.
In particolare Della Marmora ne fornisce un disegno: una costruzione
trapezoidale con quattro torrette d’angolo e due sui lati lunghi. Situato dove
oggi è il campo sportivo, proteggeva l’accesso alla città, che avveniva dai due
bacini portuali a nord e a sud dell’istmo e dal ponte romano, che collegava l’isola
alla terraferma mediante una strada (affiorante oggi dall’acqua).
La Descriptio
Orbis Romani di Giorgio di Cipro menziona un Kßstron tou Tßrwn, secondo
molti studiosi da identificare con il cosiddetto Castellum aquae, in
origine serbatoio idrico della città, trasformato con l’aggiunta di altri
ambienti, visibilmente addossati alla struttura principale quadrangolare; oppure
con i resti murari individuati sul Colle di San Giovanni. Forum Traiani,
l’unica città sarda citata nel De aedificiis di Procopio di Cesarea (Aed.,
VI, 7,12-13), è detta phrourion (oppidum, luogo fortificato).
Delle mura non si sa nulla; si è pensato che Casteddu Ezzu, nuraghe riusato in
età bizantina a scopi difensivi, fosse legato alla città. Forse anche Cornus
era dotata di un castrum al quale andrebbero attribuiti i resti
murari segnalati all’inizio del Novecento. A Turris Libisonis tratti
delle mura sono tornati alla luce sotto la Banca Nazionale del Lavoro e il
Banco di Sardegna, tra via Sassari e via Mannu, nel corso Vittorio Emanuele e
nella zona dell’ex pretura. Innalzate su interri contenenti reperti di V-VI
secolo, rientrano nella risistemazione degli inizi dell’età bizantina. Il
sistema viario, pur invariato rispetto ai secoli precedenti, registrava
modifiche nell’orientamento delle strade in relazione ai nuovi poli. I centri
politico-amministrativi della città “romana” probabilmente rimasero in vita. Caralis
fu capitale amministrativa all’interno della provincia d’Africa (VII
dell’impero).
Del
funzionario – il praeses – non si conosce la sede, ma pesi ed exagia (usati
nelle uffici pubblici e commerciali) trovati in Piazza del Carmine inducono a
ritenere che il fulcro fosse ancora nel foro. Le indagini in via Malta hanno
restituito reperti di VII secolo, ma sembra che la zona dove era stato il
teatro-tempio in età repubblicana fosse un giardino dopo la sua dismissione;
dalla vicina via Maddalena provengono frammenti di anfore del X secolo. A Nora
il foro in età protobizantina non era più la sede del potere, ma solo luogo
di residenza e attività artigianali. A Forum Traiani, situato dietro
alle Terme, rimase forse in uso fino a tarda età. Nel 599 Gregorio Magno
lamentava gli abusi del dux Theodorus a danno di poveri, religiosi e del
vescovo di Turris (Ep., I, 59). Non si sa se il dux risiedesse
nella città, ma è opinione comune che le terme centrali in età bizantina siano
state trasformate in palazzo pubblico, tramandato con il nome di re Barbaro,
che nella tradizione locale richiama il praeses Barbarus, che aveva
condannato al martirio Gavinus, Protus e Ianuarius.
Un’epigrafe, oggi nella basilica di San Gavino, celebra la vittoria di un tal Constantinus
(imperatore o doux) sui Longobardi e altri barbari (seconda metà
VII-inizi VIII sec.). A. Taramelli disse che era incisa sullo stipite della
porta di un edificio romano, poi usato come architrave di una chiesa bizantina
presso la stazione. L. Pani Ermini, invece, ha proposto che fosse stata posta
su un edificio pubblico laico, il palazzo di Re Barbaro. La massima autorità
militare, scissa fino al VII secolo da quella politico-amministrativa,
risiedeva a Forum Traiani, forse la Chrysopolis di Procopio (Aed.,
VI, 7,12) e Giorgio Ciprio (Descriptio, 682). Una scelta strategica, per
la sua posizione centrale, in un progetto di organizzazione della difesa
dell’Isola. Ancora nuovi quartieri si impiantarono in porzioni già incluse
nell’area urbana, ma sino a quel momento poco frequentate. A Caralis l’estensione
dell’area urbana verso est è correlata al nuovo porto, presso il molo Ichnusa
(via Campidano), dove sono stati visti resti di una banchina e grossi
contenitori cilindrici della tarda età imperiale. La chiesa di Santa Maria de
portu gruttis, reintitolata dagli Spagnoli a San Bardilio e demolita nel
1909, e il San Saturnino de portu kalaretani, citato in documenti di età
giudicale, confermano l’uso portuale del bacino che si apriva dove oggi è viale
Cimitero. Anche a Nora il nuovo quartiere (Area M) si affaccia su
un’insenatura usata come approdo almeno alla fine del VII secolo. A Tharros un
quartiere residenziale fu costruito sui muri rasati dell’anfiteatro romano. Le
terme all’estremità sud del centro abitato vennero riadattate, con la
ripartizione interna degli spazi, foderando la parete esterna, verso il mare,
con una muratura priva di finestre, mentre un altro muro invase la sede stradale
e ne impedì la percorribilità verso l’estremità della penisola di San Marco.
Il
toponimo attuale di Terme di Convento vecchio induce ad ipotizzare che il
complesso termale sia stato destinato ad accogliere una comunità monastica. Dall’arcidiocesi
di Carales dipendevano altre sei sedi isolane (Ep., IX, 203
inviata nel 599 da Gregorio Magno). Nel pieno VII secolo la Descriptio di
Giorgio di Cipro (che riporta: Kßralloj mhtr’rolij, To›rhj, Sanßfar, Sànhj,
So›lkhj, Fausißnh, Crus’polij, kßstron to› Tßrwn) attesta che le maggiori città
dell’Isola continuavano ad avere un ruolo nell’organizzazione ecclesiastica.
Oltre a Senafer, come ricordato, nel 649 è noto un vescovo della sancta
Ecclesia Cornensis, Boethius, facendo pensare a due sedi diverse.
Sànhj è citata distintamente dal Kßstron tou Tßrwn: la primitiva dimora del
vescovo potrebbe essersi spostata nel suburbio, a San Giovanni di Sinis, una
chiesa forse in origine a croce libera come i grandi santuari sardi, oggi nella
ristrutturazione di epoca medievale ad impianto longitudinale, trinavato, che
conserva sotto il pavimento resti di epoca anteriore, fra cui un lacerto di
decorazione absidale con motivo a tendaggi attribuibile all’età mediobizantina.
Un documento negli archivi della Megisti Lavra al Monte Athos riporta la
professione di fede di Eutalio, vescovo sulcitano (circa 680), che aveva
ricusato l’ortodossia nell’ambito delle dispute tra monoteliti e diteliti. A Turris
il presule Marinianus fu destinatario di alcune missive di Gregorio
Magno e nel 648 la diocesi fu coinvolta nella questione relativa al potere
arrogato dall’arcivescovo cagliaritano di ordinare i vescovi delle sedi
suffraganee sarde. Nel 649 un nuovo episcopo – Valentino – partecipò al sinodo
di Martino I. Gregorio Magno (Ep., IV, 27, a. 594) raccomanda
all’arcivescovo Ianuarius di Cagliari di eleggere un vescovo in loco
qui intra provinciam Sardiniam dicitur Fausiana, ove la consuetudine di
nominare un presule era da tempo decaduta. Si può intravedere un segno delle
difficoltà durante il periodo di assedio da parte dei Vandali. Nel 600, però, Olbia-Phausania
ha il vescovo Victor, che si prodiga nell’evangelizzazione dei
Barbaricini e lamenta i soprusi dei funzionari africani nell’esazione dei tributi
(Ep., XI, 7). Ancora incerto il quadro dei luoghi di culto cristiani.
Delle cattedrali è nota solo Tharros, ma le città avevano altri edifici.
A Carales ne rimane l’eco nei primi atti di età giudicale: San
Salvatore, San Leonardo e Santa Lucia de civita o bagnaria (oggi
la Marina); Santi Andrea e Anania de portu, Santa Maria de portu
gruttis o salis; Sant’Anastasia, Santa Restituta, San Guglielmo,
luoghi rupestri. A Nora si ritiene che il tempio di Su Coloru, forse
dedicato ad Eshmun/Asklepio, sia stato riconvertito al cristianesimo. A Neapolis
erano le chiese di Santa Maria de Nabui e Sant’Elena, citata da
Vidal; a Bosa non si sa se sotto San Pietro vi fosse una chiesa più
antica. La religiosità si viveva molto nel suburbio, nei cimiteri e nei santuari
dei martiri. La basilica di San Saturnino a Carales ebbe un nuovo e
radicale restauro. Il martyrium cruciforme edificato sull’area funeraria
antica, che divenne il cimitero della gerarchia ecclesiastica caralitana,
riprese modelli costantinopolitani. Anche nella necropoli di Nora si
creò un polo cultuale dove la tradizione ritiene sia stato sepolto Efisio, il
martire di Aelia Capitolina (nome romano di Gerusalemme), ucciso in
Sardegna. Il santuario è oggi frutto di un rifacimento successivo. A Sulci la
catacomba accolse presto il culto di Antioco. Un’epigrafe ricorda interventi di
Petrus antistes, che rinnovò con marmi un’aula dove il corpo del
beato Antioco riposava. La chiesa attuale viene ascritta nel suo primo impianto
tra la fine del VI e il VII secolo e ritenuta una filiazione del modello del
San Saturnino di Cagliari, ma non si sa se sostituisca un edificio più antico.
Il martyrium di Luxurius, individuato di recente, perpendicolare
alla chiesa attuale, fu edificato in un sepolcreto in uso almeno fino all’VIII.
Ad est della basilica un vano ha tracce di pitture, ascrivibili al medesimo
secolo. Nel cimitero sud di Turris sono stati rinvenuti diversi edifici databili
tra IV e XI secolo, tra cui una chiesa trinavata, con abside a ferro di
cavallo, forse dedicata ai martiri turritani, in Atrio Comita.
A Tharros,
invece, non si ha memoria di martyria. L’Ep. IX, 196 di papa
Gregorio ricorda che un ebreo di nome Pietro, convertitosi al cristianesimo, pose
a forza un’immagine della Vergine in una sinagoga della città di Carales.
Due iscrizioni presso il Palazzo di re Barbaro documentano anche a Turris una
comunità ebraica. L’epistolario gregoriano menziona diverse comunità monastiche
a Cagliari, che usavano domus private, lasciate in testamento alla
Chiesa locale. Esistevano inoltre il cenobio di San Saturnino e un monastero di
San Lorenzo, citato nell’epigrafe di una sua badessa, Redempta. Un’altra
comunità è attestata a Turris (Ep., X, 3, al vescovo Mariniano,
a. 599) e due epigrafi di benefattori della comunità non escludono xenodochia
o piccoli cenobi a Tharros e Olbia. Scarse sono le fonti
relative a monaci orientali. Una lettera fu indirizzata nel 655 o 662 dal monaco
Anastasio, discepolo di Massimo il confessore, dal suo esilio in Crimea ad una
comunità di religiosi stabilita a Caralis [PG XC, coll. 133-136]. Forse
non si trattava di un gruppo stanziale a Caralis, ma solo di monaci
“peregrini”, transitanti in città per poi insediarsi in aree più isolate. Nel
VI secolo sepolture furono poste a Tharros nelle Terme n. 1 e nelle
terme di Convento Vecchio, entro le mura. L’inumazione all’interno dell’area
urbana era vietata dalla legge romana, ma in età bizantina iniziò a verificarsi
ovunque.
I
cosiddetti “secoli bui”
Ancora
“bui” sono i secoli VIII-X, “illuminati” da una documentazione scarsa, che ha
creato una letteratura spesso fantasiosa, dovuta anche al fatto che molte città
dopo l’età bizantina furono abbandonate e le testimonianze monumentali e
materiali andarono a poco a poco disperse. Le ragioni furono imputate, secondo
una storiografia ideologicamente condizionata, a invasioni islamiche, che
avrebbero distrutto le città e soprattutto le chiese. L’archeologia, insieme ad
un’accurata rilettura delle fonti e al confronto con il coevo panorama
mediterraneo, ha portato nuovi elementi. Le città-diocesi sono ancora nominate
nelle Notitiae episcopatuum orientalium di Leone il Sapiente (PG, CVIII,
c. 344), ma forse il compilatore utilizzò un testo più antico.
I
manufatti attestano che le città sarde continuarono a vivere nel medesimo sito,
ma con modalità diverse. Il recupero a Caralis, Turris, Bosa e Olbia
della Forum Ware, ceramica invetriata prodotta in area
romano-campana dalla metà dell’VIII alla metà del IX secolo, prova una frequentazione
ininterrotta di tali centri urbani; dall’altra parte però gli scavi stanno
rimettendo in luce città “a macchie”, ove quartieri abitati convivono con
ruderi e accumuli di detriti, segno di continuità, ma anche della non volontà
(o non possibilità) di ricostruire. Cagliari continua ad essere un porto
fiorente e i reperti documentano una fitta rete di relazioni commerciali con
l’Africa, la Penisola Iberica e l’Oriente. Proprio per questo si ritiene che
sia stata una delle mete principali delle incursioni islamiche subito dopo la
distruzione di Cartagine del 697-698, riportate da fonti scritte di parte araba
fra il 711 e il 753. È degli stessi anni la notizia fornita dal monaco inglese
Beda il Venerabile della vendita delle ossa di Sant’Agostino al re longobardo
Liutprando (721-725), che le portò a Pavia (Bedae Venerabilis Opera, VI.
Opera didascalica. De tempore ratione, LXVI, 593. CCL, 123, p.
535), ribadita nell’Historia Langobardorum di Paolo Diacono (VI, 48.
MGH, Scriptores Rerum Langobardicarum, p. 181). La tradizione
ritiene che le reliquie siano giunte con gli esuli africani del regno
vandalico, ma è probabile che siano state portate dopo la conquista araba. In
seguito la città è nominata da Eginardo, biografo di Carlo Magno (770-840), in Annales
regni Francorum: Legati Sardorum de Carali civitate dona ferentes (a.
815). Nei secoli VIII-XI essa vive momenti difficili: nell’area archeologica di
Sant’Eulalia cumuli di detriti di edifici distrutti, mai rimossi, furono
ricoperti di terra, generando discariche nel pieno centro urbano; il portico
monumentale crollò; case ancora abitate confinarono con ruderi fino al
definitivo abbandono e alla desertificazione. Un graffito, in caratteri cufici,
murato nel rifacimento vittorino della chiesa di San Saturnino, insieme ad
un’epigrafe araba (inizi X secolo), danno la percezione di una società
multietnica forse non sempre in pace. Si è ipotizzato che Caralis sia la
città sarda distrutta nel 935 da parte della flotta araba, di ritorno da
Genova; se così fosse, tale attacco potrebbe aver causato il definitivo
abbandono dell’area urbana e il trasferimento dei suoi abitanti e dei centri
del potere civile e religioso nell’area di Santa Gilla. Nora appare
destrutturata: molti antichi edifici, spoliati, furono trasformati in
discariche e in impianti artigianali modesti; le strade ricoperte di terra;
spazi abitati alternati a spazi deserti. La città non sembra sopravvivere oltre
la fine del VII secolo o gli inizi dell’VIII, quando un incendio danneggiò le
Terme a mare, forse a causa dei primi attacchi arabi. Invece, il santuario di
Sant’Efisio fu frequentato nei secoli VIII-XI, forse gestito da monaci
orientali, come suggeriscono alcuni manufatti scultorei recuperati al largo
dell’Isola di San Macario e l’agiografia. Anche per Sulci dalla passio
di Sant’Antioco si è indotti a ritenere che il santuario fosse ancora in
vita, gestito da una comunità di religiosi, forse orientale. Il compilatore
della passio di Santa Giusta di Othoca, che racconta di
un’inondazione che avrebbe cancellato la vecchia città, come punizione divina
per i persecutori della santa, doveva vedere una città desertificata. Se l’Archivum
ipotizzato a San Giorgio di Cabras in base ai numerosi sigilli ivi
recuperati è da riferire ad un trasferimento dell’Archivum di Tharros,
si dovrebbe pensare all’abbandono dell’antica città e allo spostamento del centro
amministrativo in un’area interna. L’anfiteatro di Forum Traiani fu
smantellato come edificio di spettacolo e ridestinato a sepolcreto di soldati:
le tombe contenevano fibbie di cintura dei militari bizantini e monete, che consentono
di datarne l’uso almeno sino alla fine dell’VIII secolo. Cornus, per
quanto attiene al complesso in loc. Columbaris, non fu frequentata oltre la
fine del VII secolo. Nel X-XI, in seguito alla riorganizzazione diocesana
territoriale, una sede diocesana fu istituita a Bosa, secondo alcuni in
sostituzione di Senafer. A Bosa le ricerche archeologiche hanno
riportato alla luce un cimitero sotto la cattedrale di San Pietro edificata in età
giudicale: si ipotizza che l’abitato antico dovesse essere nei pressi, come
indicano i reperti ascrivibili ai secoli VIII-XI. A Turris la basilica,
caduta in disuso e demolita fino alle fondazioni, venne coperta da un nuovo
edificio di cui si è trovato un lato del portico, usato come cimitero: le tombe
poggiano – occultandole – sulle fondazioni della chiesa più antica. Esso era
decorato, come dimostrano i lacerti di affresco recuperati negli strati di
crollo, databili al IX-X secolo. Fu demolito per cause ignote, anche se si può
azzardare l’ipotesi di qualche attacco dall’esterno alla fine del X secolo. Che
la città fosse ancora in vita almeno nel IX è testimoniato dalla Forum Ware e
da monete bizantine e arabe trovate nella regione di Balai. Queste ultime
potrebbero essere l’indizio di relazioni commerciali, o – come a Caralis –
di un nucleo islamico residente in città, l’altro grande porto dell’Isola, che metteva in
comunicazione tra l’altro con la Spagna, dove gli arabi erano stanziati dal
711. Turris fu con ogni probabilità la prima sede dei giudici del regno
di Torres, che nel XII secolo andarono a risiedere in una vila de Ardar e
in un castedu/casteddu de Ardar.
Forse il
porto di Olbia è ricordato dall’Apocalisse dello Pseudo-Metodio come uno
dei primi a subire un tentativo di incursione islamica. Egli narra che i
Saraceni depredarono le città e i villaggi, fino a Roma, l’Illiria, l’Egitto,
Âfnasôliôs e Lûzâ la grande, di fronte a Roma. Lo storico W. Kaegi ha tradotto
Lûzâ con Olbia, anticipando l’attacco alla Sardegna al VII secolo. Altri
studiosi ritengono invece che egli abbia usato una traduzione latina e non la
versione originaria siriaca, confondendo con avvenimenti del 720 o di pochi
anni prima. Il traffico commerciale rimase attivo nel suo porto, che sui relitti
impiantò un nuovo approdo.
Foto di copertina: Forum Traiani, le terme link: www.forumtraiani.it
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