domenica 19 agosto 2018

Archeologia, le materie prime dell'antichità. Il miele, una pietanza di lusso preistorica riservata alla corte. Riflessioni di Pierluigi Montalbano


Archeologia, le materie prime dell'antichità. 
Il miele, una pietanza di lusso preistorica riservata alla corte.

Riflessioni di Pierluigi Montalbano


L’archeologia ha documentato piante produttrici di nettare e polline databili a 100 milioni di anni fa. Le prime api organizzate per la produzione di miele hanno un’età di circa 10 milioni di anni, come i primi esemplari di primati. L’uomo è più giovane, potremmo farlo risalire a pochi milioni di anni fa, ma le prime tracce archeologiche che testimoniano l’uso del miele da parte dell’umanità sono databili a circa 10 mila anni fa, come testimoniato dalla pittura rupestre scoperta nei pressi di Valencia, in Spagna, nella grotta del ragno: una donna che si arrampica su una rupe ed è circondata da api. Ha una cesta per riporre i favi tolti alle api, e si nota una nuvoletta di fumo per renderle mansuete, la stessa tecnica primordiale usata ancora oggi dai cacciatori di miele dell’India. La più antica attestazione di api allevate è una pittura egiziana nel Tempio del Sole nei pressi della capitale, Il Cairo, datata alla metà del III millennio a.C., in cui si nota il prelievo dei favi dagli alveari con l’uso del fumo. Il miele, nell’Antico Egitto, era una pietanza di lusso riservata alla corte, e per trovare fonti che parlano di
utilizzo diffuso dobbiamo giungere alla metà del secondo Millennio a.C., con il  ritrovamento di vasi per il miele e favi in tombe non reali, e la citazione come razione di cibo nelle spedizioni commerciali, come bottino di guerra, come pagamento di tributi e nelle offerte al tempio. Tra il III e il II secolo a.C. aumenta l’interesse per l’apicoltura, con diversi autori che offrono notizie dettagliate nei trattati di agricoltura dell’epoca. Aristotele, nel suo trattato “De Generatione Animalum”, ci regala la prima descrizione anatomica delle api e della formazione del miele: “il miele è una sostanza che cade dall’aria, al sorgere delle stelle e quando si incurva l’arcobaleno. L’ape lo porta da tutti i fiori che sbocciano in un calice succhiandolo da questi fiori con l’organo simile alla lingua”. Ne parleranno, successivamente, Virgilio nelle Georgiche, Plinio nella Naturalis Historia, Columella nel De re rustica. Seneca, nel I secolo d.C., affermò che le api dopo averlo raccolto dai fiori lo elaboravano mescolandolo con una qualità del loro alito. Nel 1680 d.C. con il microscopista danese Swammerdam si ebbe un’enunciazione definitiva del processo di trasformazione del nettare in miele, ma solo nell’Ottocento la chimica organica ha fornito una spiegazione del fenomeno. Il miele, nell’alimentazione, era utilizzato come dolcificante, come condimento e come conservante. Il trattato De arte coquinaria di Apicio è ricco d’informazioni sull’uso del miele in cucina, tuttavia all’epoca si preferiva il gusto agrodolce nelle ricette. Come dolcificante, il miele compariva su tutte le tavole, a volte servito nel favo in cui era contenuto. Era usato nel confezionamento di piatti di pesce e di legumi, di confetture di frutta e sciroppi, di focacce. Come conservante, era utilizzato con frutti come mele cotogne, e pere. Insieme al latte, costituiva un alimento per i bambini delle fasce sociali più alte.  Dalla sua fermentazione veniva prodotto l’idromele, e un’altra bevanda ricercata era il vino mielato, per il quale si utilizzavano i vini più pregiati e stagionati, come Falerno e Massico. L’uso del miele si estendeva alla cosmesi, con la produzione di oli aromatici e profumi, e alla medicina, come antisettico, cicatrizzante e purgativo, fino all’artigianato, per dare brillantezza al colore porpora dei tessuti o alle pietre preziose mediante immersione. Alle api e al miele era attribuito un valore sacro e un’origine divina, come testimoniano diversi miti: quello di Zeus nutrito dal latte della capra Amaltea e di miele dalle figlie di Melisseo,  di Dioniso allevato a miele da una ninfa e di Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, che insegnò agli uomini l’arte dell’apicoltura. Il miele era anche simbolo di rigenerazione dopo la morte, ed era usato nei culti funerari ad Atene fin dal V a.C. La distinzione delle varietà di miele era arcaica, basata sull’osservazione a occhio nudo, e si definiva di prima o seconda scelta a seconda che provenisse dalla colatura del favo o dalla spremitura. Aristotele distingueva tra il miele primaverile “più dolce e più bianco e nel complesso più dolce di quello autunnale”, e affermava che “il miele rosso è meno buono, infatti si corrompe come il vino da un recipiente e perciò occorre farlo seccare”. Il miele di timo era quello che godeva di maggiore popolarità: “Il miele della Sicilia”scriveva Varrone “ha la palma su tutti proprio perché là abbonda il buon timo”.  E Plinio: “Perché sia buono, deve essere profumato, di un sapore dolce-amaro, vischioso e trasparente”. Anche il miele di erica era apprezzato: “è raccolto dopo le piogge autunnali, quando solo l’erica è in fiore nei boschi: per questo ha l’aspetto granuloso”. Il prezzo del miele era equiparabile a quello dei migliori oli e vini, come riporta l’Editto dei prezzi di Diocleziano del 301 d.C. Nelle zone Mediterranee l’apicoltura si praticava con arnie orizzontali vegetali o di coccio, mentre nel Nord Europa e in Russia  si sviluppò un’apicoltura forestale in continuità con l’attività del cacciatore di miele: gli sciami, alloggiati in alberi d’alto fusto, venivano identificati e, praticando delle aperture per estrarre il miele, venivano periodicamente ripuliti con l’aiuto di scale di corda. Il passo successivo fu quello di tagliare gli alberi per recuperare gli sciami o di utilizzare tronchi cavi per sfruttare le colonie d’api. Arnie in paglia consentirono lo sviluppo dell’arnia a tronco, col vantaggio di una maggiore trasportabilità. La tecnica di produzione non cambia fino a metà dell’Ottocento, con la scoperta dello spazio fisso di 9 mm che le api lasciano per distanziare le loro costruzioni e consentire il passaggio di due api contemporaneamente. Questo portò all’invenzione dell’arnia moderna a favi mobili, dove era possibile vedere e studiare la vita delle api e ottimizzare la raccolta del miele senza ricorrere all’uccisione delle api. L’ultima invenzione, nel 1856 grazie al maggiore Von Hruschka, fu lo smielatore, dove si potevano inserire i piccoli telai mobili da cui estrarne il miele con la centrifugazione. La storia del miele s’incrocia con quella dello zucchero, utilizzato fin dal III a.C. per scopi medici. Nel VIII d.C., con l’arrivo degli Arabi in Spagna, se ne diffonde l’uso nel Mediterraneo  come dolcificante. Il termine è di origine araba, sukkar, comunque gli arabi erano promotori della dolcificazione dei cibi in generale, e quindi facevano circolare ambedue le sostanze. Distribuivano il miele sulla costa nordafricana e sui mercati andalusi della Spagna, e gestivano le esportazioni della Sicilia normanna. Il prezzo del miele è sempre stato molto inferiore a quello dello zucchero, probabilmente per una diversità di accesso ai due prodotti in termini di classi sociali e per la sua facile reperibilità. Uno statuto senese del XIV secolo vieta di spolverare in modo truffaldino con zucchero i dolci preparati in realtà col miele. Il suo molteplice ruolo come correttore di sapidità, per ingentilire sapori rustici come quelli dei legumi, come condimento di carni rosse o bianche, come conservante della frutta, capace di esaltarne la naturale dolcezza, come ingrediente di confetture, e come conservante delle olive, come riporta un trattato del tempo specificando che nel miele si conservano intatte come se fossero raccolte di recente e se ne ricaverà l’olio verde quando si vorrà. Nella pasticceria ha una lunga tradizione, e sono di derivazione araba dolci a base di frutta secca come il torrone e il panforte, ma anche quelli a base di farina e spezie, diffusi soprattutto nel Nord Europa, le cui ricette furono importate nel 1100 dai cavalieri di ritorno dalla prima Crociata. Dal punto di vista nutrizionale, è un cibo calorico e di facile digeribilità, base dell’alimentazione di malati, bambini, eremiti, militari e per i periodi di parziale digiuno dei monaci. Alle soglie del Rinascimento, le aristocrazie europee, sull’onda del consolidato successo dello zucchero, si diffonde la moda della creazione di salsine dai sapori eterogenei che arricchiscono le portate e confondono il palato coprendo il sapore dei cibi. Nel XVI secolo si arriverà a una separazione dei sapori, spostando il dolce a fine pasto. Intorno al 1700, nelle isole caraibiche, si diffonde la coltivazione della canna da zucchero, mentre in Europa compare la barbabietola e il gusto dolcificato inizia a diffondersi anche nelle classi meno agiate. Nel Novecento l’industria dello zucchero porta a un aumento di 20 volte della produzione, e il prezzo di miele e zucchero va a pareggiarsi. Nella prima metà del Novecento si sviluppa una maggiore attenzione alla provenienza botanica del miele, con Don Giacomo Angeleri che nel 1927 scrive sulle pagine della rivista L’Apicoltore Moderno“Idealmente, il miele dovrebbe esser venduto tal quale la natura ce lo dà e lo trasforma, e venduto sotto il nome che gli viene dal fiore che lo produce”. Oggi il miele è accreditato in gastronomia, e valorizzato come alimento sano, nutriente, facilmente digeribile e gustoso. Inizia a essere accreditato anche clinicamente, nella guarigione di ferite e ustioni, e in una grande varietà di applicazioni cosmetiche.


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