Archeologia. Atene, Sparta, il Peloponneso e il dominio sul Mar Egeo. Così
muore una democrazia...
Riflessioni di Matteo Riccò
Nell'anno
406 a.C., il tratto di mare antistante l'odierna città di Bademli, in Turchia,
è teatro della titanica battaglia navale delle Arginuse. Da una parte, la
flotta ateniese (forte di circa 150 navi), dall'altro quella spartana (120
navi). In palio, il dominio sull'Egeo e, di riflesso, la vittoria finale nella
guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), lo scontro mortale tra Atene e Sparta
che si trascina da quasi trent'anni e che ha ormai esaurito le risorse di
entrambi i contendenti.
La
battaglia, come spesso accadeva nel mondo antico, è l’esito finale di un
percorso complesso, con antefatti recenti e più remoti. Per farla molto (molto)
breve: nonostante la terribile pestilenza del 430 a.C., Atene ha
sostanzialmente vinto la prima parte della guerra per il predominio sul mondo
ellenico estesamente applicando quella che potremmo chiamare la "dottrina
Pericle".
E
cioè: evitare rigorosamente lo scontro per terra con Sparta, colpire i
peloponnesiaci alle spalle in operazioni anfibie come a Pilo ed a Sfacteria,
lasciare che gli Spartani entrino in Attica indisturbati nascosti dietro le
Lunghe Mura, che collegavano la zona dell'Acropoli (cioè l'Atene antica) con il
porto del Pireo, trasformando Atene in una roccaforte praticamente
inespugnabile. Questa dottrina era basata sull’assunto che Sparta fosse una
potenza militare basata sul proprio esercito di terra, a sua volta costituito
dalla totalità della popolazione maschile adulta, esercito che, però, prima di
tutto svolgeva il costante controllo del territorio, necessario in quanto la
maggioranza della popolazione era costituita dagli iloti, in pratica “servi
della gleba”, in larga parte Messeni asserviti da circa 200 anni e che
aspiravano alla riconquista della libertà. Sparta poteva, quindi, solo
faticosamente tollerare che una parte del proprio esercito si allontanasse dal
Peloponneso, e solo per poco tempo. Le invasioni dell’Attica non potevano che
essere, pertanto, delle incursioni, senza possibilità di imbastire un vero e
proprio assedio della città. Che nel frattempo, posta la mancanza di una flotta
spartana degna di questo nome, poteva rifornirsi liberamente via mare senza
correre il rischio di un blocco navale.
Dopo
una breve pace, la c.d. "Pace di Nicia" (Nicia era il nome del
facoltoso uomo politico ateniese primo firmatario dell’accordo), nel 415 a.C.
Atene si fa coinvolgere in un'avventura oltremare dagli esiti disastrosi.
Chiamata in causa dalla città di Segesta contro la preponderante potenza
militare di Siracusa, Atene intravede la possibilità di costruirsi un impero
oltremare, primo tassello che trasformerebbe quello attico in un vero e proprio
stato mediterraneo. Ciò che, ci insegna Tucidide, era aspirazione degli
Ateniesi sin dai primi momenti della Guerra del Peloponneso, allorché Atene si
era fatta coinvolgere nella guerra tra Corcira e Corinto. Con un colossale
sforzo economico, Atene mette in piedi una vera e propria task force composta
da 134 triremi, 5100 fanti pesanti, circa 2000 ausiliari da Argo e Mantinea,
cui si aggiungono in un secondo momento altre 70 navi e ulteriori 5000 fanti
pesanti. Considerando che le triremi fossero operate da cittadini, che ogni
triremi richiedesse un equipaggio fra le 150 e le 200 persone, Atene mette sul
piatto qualcosa come almeno 50,000 effettivi. Una frazione significativa sia
della propria forza militare che della propria cittadinanza attiva.
Alla
vigilia della partenza da Atene, accade il primo "disastro
democratico" di questa storia. Alcibiade
(450-404 a.C.), il leader della famiglia degli Alcmeonidi, nonché di quello
che potremmo chiamare il "partito progressista" (insomma, della
"sinistra al caviale" ateniese), viene coinvolto in un procedimento
penale complicatissimo. Si tratta di un evento complicato, sul quale gli
storici antichi e moderni si interrogano da 2500 anni senza venirne a capo.
Per
farla brevissima: nell'antica Atene, ad ogni incrocio si trovano delle statue
stilizzate del dio Ermes, composte da una colonna, la testa del Dio e il suo
pene. Di sorpresa, la notte prima della partenza programmata per la Sicilia,
tutte le statue sono state mutilate (indovinate dove). Un'empietà colossale,
che scatena un processo per direttissima contro ignoti. Il problema è che non
si trovano testimoni, come se le strade dell’Atene notturna - solitamente
piuttosto affollate, fossero state improvvisamente deserte. Le indagini
tuttavia annotano che una sola Erma è rimasta intatta, quella che si trova di
fronte alla casa di un certo Andocide, noto esponente della vita bohemienne
dell’Atene antica, una specie di Lapo Elkann del tempo insomma, che viene
subito interrogato. Andocide confessa che quella sera si trovava in effetti
fuori casa per andare a riscuotere la tassa mensile da un suo schiavo, operaio
presso le miniere del Laurion. Andocide (la cui versione sull'evento ci è
pervenuta sia nella forma "definitiva", rilasciata nel 399 a.C., sia
nella forma deposta all'indomani dello scandalo: esse divergono in vari punti)
fa alcuni nomi appartenenti all'Atene bene, ma le prove paiono piuttosto
incerte.
Insomma,
un buco nell’acqua? No. Perché Andocide, ad un certo punto dichiara di aver
saputo (non si capisce bene come) che Alcibiade quella sera avesse celebrato
una parodia dei Misteri Eleusini. Nota bene: parliamo di un sentito dire, non
di una testimonianza diretta; solo, in seguito dirà di averlo visto. In altre
parole: immaginatevi che una sera tutte le chiese di Milano siano deturpate, e
che un possibile testimone, anziché far nomi di possibili responsabili,
dichiari di aver sentito dire che quella stessa sera Silvio Berlusconi fosse
stato impegnato in una parodia della messa di Pasqua con Ruby Rubacuori nella
villa di Arcore. Ed immaginatevi che a questo punto il magistrato inquirente
lasci perdere le chiese e si dedichi agli affari privati di Berlusconi.
Un
colossale pretesto, per farla breve.
Alcibiade,
chiamato in causa, chiede di essere processato per direttissima per liberarsi
dalle accuse. L'assemblea democratica che governava Atene, la Boulé, pressoché
all'unanimità ordina tuttavia ad Alcibiade di partire, per essere processato
solo al ritorno. L’idea di fondo è che il processo sarà sostanzialmente
inutile, in quanto al ritorno si celebrerà il trionfo sui siracusani.
Arrivato
in Sicilia ed iniziato l'assedio di Siracusa, Alcibiade viene tuttavia
raggiunto dall'ordine improvviso di tornare indietro per essere sottoposto a
processo. Cos'è successo?
E'
successo, ed è fondamentale per capire quanto è successo e quanto accadrà
all'indomani delle Arginuse, che più o meno la metà dei cittadini con diritto
di voto è partita con Alcibiade alla
volta della Sicilia. Come immediata conseguenza, la composizione dell'assemblea
si è modificata, ed ora ha una maggioranza composta prevalentemente dagli
avversari politici di Alcibiade, esponenti della destra ateniese (immaginatevi
una specie di "Lega Ateniese"), che ne chiede l'immediato processo
sapendo di poterlo eliminare dalla scena politica con questo colpo di mano.
Alcibiade
ovviamente non tornerà ad Atene, rifugiandosi piuttosto a ... Sparta, che
spingerà a riprendere le ostilità - prima in Sicilia, quindi in continente,
consigliandola tanto saggiamente da mettere Atene alle strette con due mosse
strategiche geniali.
Prima
di tutto, determinando l'escalation della guerra sicula, che se elimina
definitivamente dalla scena pressoché tutta la flotta ateniese e migliaia di
uomini (ivi compresi gli abili comandanti Nicia,
Demostene, Eurimedonte e Lamaco),
agli spartani costa una manciata di uomini e alcuni consiglieri militari (come
il geniale consigliere Gilippo), e
quindi occupando militarmente la fortezza di Decelea, situata ai confini di
Attica e Beozia, potendo pertanto occupare stabilmente l'attica e trasformando
in perenni sfollati gli abitanti del contado. L'afflusso degli abitanti del
contado, cittadini, all'interno delle Lunghe Mura è previsto dalla
"dottrina Pericle", ma temporaneamente. Atene non ha le risorse
strutturali per sostenerli a tempo indefinito, e soprattutto vede la
composizione della propria assemblea nuovamente alterato: ne consegue una prima
guerra civile ateniese, che vede l’ascesa del partito aristocratico dei piccoli
possidenti, nominalmente filo-spartano, faticosamente rimosso.
Nel
confuso “aftermath” della spedizione sicula, pochi anni prima della battaglia
delle Arginuse, Alcibiade (che si è messo nei guai seducendo la moglie del re
di Sparta) è richiamato ad Atene a furor di popolo (sono gli anni dell'allusiva
tragedia Filottete di Euripide): è il miglior comandante navale del tempo, ed
il suo intervento nuovamente ribalta le sorti della guerra introducendo una
nuova "dottrina bellica" che potremmo chiamare "dottrina
Alcibiade". E cioè: portare la guerra in Asia, assicurando le rotte di
rifornimento ateniesi e al tempo stesso obbligando Sparta ad un
"overstretching" che ne provochi il rapido esaurimento delle risorse
logistiche. Purtroppo per Atene, Sparta frattanto ha trovato il suo Alcibiade, Lisandro (morto nel 395), il quale
compie una mossa simile a quella di Nixon con la Cina: si allea cioè con il
potentissimo satrapo persiano d'Asia, Ciro
il Giovane (morto nel 401), il quale riempie di oro e risorse gli spartani
affinché costruiscano una flotta per sconfiggere gli ateniesi per mare. Sparta
è quindi diventata una potenza marittima, con navi nuovissime e più
"moderne" di quelle ateniesi, nonché armate dei migliori equipaggi in
circolazione (pagati a peso d'oro). La dottrina Alcibiade si completa quindi
con l'evitamento sistematico del confronto con gli spartani SALVO quando la
posizione di forza sia tale da garantire una vittoria sicura. Atene infatti non
potrebbe costruire una nuova flotta, non avendone né le risorse economiche né
quelle umane.
L'anno
prima delle Arginuse (ci siamo quasi), la flotta assegnata ad Alcibiade ha
subito tuttavia un'improvvisa sconfitta: Alcibiade si è infatti temporaneamente
distaccato per sistemare di persona alcuni campi di battaglia secondari, ed i
suoi luogotenenti (in particolare un certo Antioco)
pensano sia l’occasione buona per acquisire fama in madrepatria attaccando la
flotta spartana nonostante la mancanza di una chiara posizione di forza. La
battaglia a Nozio è una batosta: un terzo della flotta (circa 25 navi) è
distrutta, e se il danno materiale non pare enorme, bisogna nuovamente
ricordare che Atene non può più coprire le perdite umane. La sconfitta costa il
rinnovo della nomina ad arconte (cioè capo della marina) ad Alcibiade, che
quindi emigra volontariamente nella zona degli stretti per evitare la
riapertura del processo delle Erme.
Veniamo
quindi alle Arginuse. Ciò che resta della flotta ateniese, non più di 50 navi,
comandata da Conone (440-390 a.C.),
si trova intrappolata a Lesbo dalla flotta Spartana, composta da quasi 200
navi. La distruzione della flotta significherebbe la fine della guerra e la
sconfitta ateniese. Atene quindi compie uno sforzo titanico: tutti i cittadini
più ricchi si tassano all'inverosimile (le c.d. “liturgie”), i templi si
svuotano degli ori e dei gioielli... tutto per armare una nuova flotta di 150
triremi. Per operarle, servirebbero però rematori che Atene non ha più. Per
salvare la situazione, la Boulé decide di compiere un atto senza precedenti:
agli schiavi che si arruoleranno sarà data la libertà, a loro ed agli stranieri
che parteciperanno allo sforzo sarà concessa la cittadinanza. Dalle fonti
antiche sappiamo che circa metà della flotta fosse quindi operata da schiavi o
stranieri... il che significa, conti alla mano, che in caso di vittoria i
cittadini ateniesi di pieno diritto sarebbero passati da circa 30,000 a 45,000,
alterando in modo radicale la composizione degli organi amministrativi - in un
certo senso, cambiando geneticamente una volta e per sempre la natura dello
stato.
Sapendo
di avere le spalle al muro, Atene manda tutti gli ammiragli rimasti (Aristocrate, Aristogene, Diomedonte, Erasinide, Lisia, Pericle il Giovane,
Protomaco e Trasillo) con quella che legittimamente può essere chiamata
“l’ultima flotta”. Gli Ateniesi una volta tanto sono degli della loro storia e
vincono quella battaglia agendo di intelligenza e furbizia. Sapendo che gli
spartani rimangono comunque più numerosi, i nauarchi attirano gli Spartani
lontani da Lesbo, schierandosi a stretto ridosso della costa asiatica. Lo scopo
degli ammiragli è impedire manovre di accerchiamento da parte della flotta
spartana e, al tempo stesso, usare le irregolarità della costa per allargare il
fronte. Questo consente agli Ateniesi di schierarsi in doppia fila, una scelta
tattica inusuale che impedisce alla più esperta flotta spartana di compiere una
manovra nota come diekplous, in cui
una triremi si infilava nello spazio tra due unità nemiche, compiendo
un’improvvisa virata a 90° per colpire uno degli avversari sul fianco.
L’avversario degli ateniesi non è infatti Lisandro, sul quale si sono addensati
sospetti di aspirare alla tirannide, ma il meno abile Callicratide, che cade nel doppio tranello ateniese, dividendo in
due la sua flotta, affrontando quindi gli avversari in inferiorità numerica e
non cogliendo la minaccia dell’attacco in doppia fila.
La
battaglia è cruentissima, ma è una grande vittoria ateniese. Restano però due
problemi. Prima di tutto, durante la battaglia anche gli Ateniesi hanno subito
gravi perdite, in particolare 25 navi sono state affondate. Secondariamente,
bisogna raggiungere il prima possibile la flotta assediata a Lesbo prima che
gli Spartani ne mandino un’altra di rinforzo o che i fuggiaschi attacchino
Conone in una mossa disperata. Due comandanti navali, Trasibulo e Teramene,
sono quindi incaricati di recuperare i naufraghi mentre i nauarchi vanno alla
caccia degli Spartani.
Entrambe
le missioni falliscono perché una terribile tempesta colpisce la costa
asiatica, rendendo impossibile soccorrere i naufraghi.
Trasibulo
e Teramene sono i primi a rientrare ad Atene ed ovviamente fanno rapporto
all'assemblea, che frattanto ha ricevuto il rapporto dei Nauarchi, che
scaricano ogni colpa sui due ricchi uomini politici. Assemblea che quindi
minaccia di processarli, immediatamente, per incompetenza. Trasibulo e Teramene
reagiscono con altrettanta violenza: essi dichiarano che la loro missione fosse
sostanzialmente impossibile, e che la colpa fosse da ascriversi agli Ammiragli
che avevano rinunciato ai propri obblighi nei confronti dei concittadini
cercando la gloria militare. Tutti tranne ovviamente Conone, che da Lesbo non
aveva preso parte alla vicenda.
E’
a questo punto che entrano in scena le distorsioni della democrazia radicale di
Atene. Ogni magistrato (e gli ammiragli ERANO magistrati) è tenuto a presentare
un vero e proprio rendiconto alla fine del proprio incarico, che l'Assemblea
avrebbe potuto approvare o bocciare, imponendo sia una condanna “civile”
(pecuniaria) o penale (potendo sfociare nella condanna a morte). Data la
situazione, gli otto ammiragli sono richiamati ad Atene: due essi, Aristogene e
Protomaco, sentono puzza di bruciato e scappano. Gli altri sei arrivano e
trovano ad aspettarli un'assemblea ostile, dominata da Crizia, leader
della destra estrema ateniese. Erasinide, che degli otto è stato il meno
efficiente in battaglia, viene immediatamente processato e condannato per
inettitudine, mentre lui stesso e gli altri cinque, così come i due fuggiaschi,
sono rinviati a giudizio per empietà. L'accusa di empietà è ovviamente
pretestuosa, come possiamo immaginare, ma l'antica Atene, la patria della
filosofia, è città dal bigottismo per noi inconcepibile e caratterizzata dalla
pervasione religiosa di ogni livello della vita cittadina. Inoltre, Crizia sa
di dover agire immediatamente: se i 15,000 nuovi cittadini fossero stati
accolti nell'alveo urbano, il suo partito sarebbe messo definitivamente in
minoranza, e probabilmente Alcibidiade
ed i suoi fedelissimi potrebbero prendere stabile possesso dell'Attica. Poiché
quasi tutti gli strateghi a processo sono esponenti di primo piano del partito
democratico, l’occasione è ottima per decapitarlo una volta per tutte. Il primo
giorno del processo, in cui gli eventi sono semplicemente richiamati, si
conclude in termini sostanzialmente positivi, ed alla chiusura del dibattimento
la situazione appare sotto controllo. Tuttavia, il giorno seguente è una
festività del calendario sacro ateniese - la c.d. Apaturie, una festa che
vedeva la partecipazione di tutti i membri della famiglia. Che cadendo a
ridosso del disastro delle Arginuse apre una ferita profonda nel corpo civile
ateniese.
Quando
il processo si riapre, l’atmosfera si è deteriorata e l’atteggiamento della
popolazione si è capovolto, essendo ormai profondamente ostile. Un uomo di
Crizia, Callisseno, coglie l’attimo
per chiedere il procedimento immediato nei confronti dei generali. E’ chiara
l’intenzione della destra ateniese di sfruttare l’onda emotiva per ottenere una
condanna durissima. Alcibiade è assente - assenza che, data la sua grande arte
oratoria e la sua residua presa sulla popolazione, ha un peso enorme. E’
presente però un suo uomo, Eurittolemo,
si batte come un leone per difendere i sei. Eurittolemo arriva a proporre che
il procedimento sia tenuto secondo la norma draconiana (quindi, con gli
imputati in catene), che i sette siano processati subito, quello stesso giorno,
ma separatamente. Ricordiamo che nell'antica Atene non esistesse il principio
di personalità della responsabilità penale, e che quindi processi “di gruppo”
potessero concludersi con una condanna collettiva. Crizia capisce che una
condanna individuale rischia di perdere il valore simbolico che il demo
ateniese vorrebbe riservare ai trierarchi, e riesce a far sospendere il
processo con la scusa che, essendo calata la notte, sia impossibile vedere
correttamente le mani alzate al momento del voto.
Il
giorno dopo, la scena si ripresenta: Eurittolemo prova nuovamente a difendere i
generali ma, ...
...
questa volta Crizia ha preparato la scena con grande cura. Ha fatto affluire le
madri e le mogli dei naufraghi, che reclamano a gran voce, avvolte negli abiti
neri di lutto, il sangue degli empi generali. Inoltre, ha fatto affluire tutto
il popolino, le cui grida soverchiano rapidamente quelle dei democratici. Al
grido: "il nostro voto conta!"
(eh sì... proprio come l'hashtag di qualche settimana fa), Crizia forza la mano
alla giuria del tribunale, il cui presidente è - casualmente, Socrate. Nell’antica Atene, alcune
magistrature erano rivestite a turno, per sorteggio: per Socrate accadde una
sola volta di essere presidente del tribunale ed il caso volle fosse proprio
quel giorno. Socrate rigetta la mozione, in quanto ne percepisce (diremmo noi)
l’evidente incostituzionalità, ma soprattutto il rischio che la democrazia
ateniese (di cui già conosce i mali interni) sia politicamente manipolata a
prendere una decisione antitetica ai propri interessi - ciò che proprio ora sta
accadendo, ma quest’unica voce di buonsenso è costretta ad abbandonare il
processo a suon di legnate.
Si
va infine al voto della giuria, che processa gli ammiragli in gruppo, subito.
La condanna è la più severa possibile: i sei presenti, incluso Pericle il
giovane, sono subito messi a morte. Sugli altri due, cade una condanna in
contumacia e non torneranno ad Atene se non a guerra finita. Alcibiade, che dei
morti è amico, viene definitivamente etichettato quale persona non grata.
L’esito
è quindi disastroso.
In
un colpo solo, Atene ha tradito quanti, fra schiavi e meteci, l'avevano salvata
a rischio della vita armandone le navi al momento del sommo pericolo, nonché
decapitato la flotta. Ciò che è tanto più grave perché questo paralizza le
operazioni militari nell’Egeo, dando tempo agli spartani di tornare sui propri
passi, ricostituire la flotta e rimettere Lisandro al suo comando.
Un
anno dopo, ciò che resta dell’ultima flotta, viene attirata in trappola ad
Egospotami. Gli ateniesi, numericamente, sarebbero ancora in grado di opporsi
agli spartani e Alcibiade, troppo attaccato alla sua città per abbandonarla al
momento del pericolo, è presente in zona: ha intravisto il pericolo e
consigliato agli ammiragli come uscirne fuori.
Inutilmente.
Si parlerà di corruzione degli ammiragli (che letteralmente rimandano i
consigli al mittente con insulti allegati) - in realtà, la decapitazione della
flotta ha privato Atene degli unici comandanti abbastanza abili e preparati da
contrapporsi al furbissimo Lisandro, e in queste condizioni l’inesperienza (e
la sostanziale demotivazione) della flotta pesano come un macigno. Alcibiade è
quindi ignorato, gli ateniesi accettano la battaglia - e sono annientati. Delle
170 navi ateniesi ne scampano solo 20.
Atene,
che ha esaurito tutte le risorse economiche già nel corso dell’anno precedente,
decapitata a livello politico dal processo agli ammiragli, ormai nelle mani di
quella destra filo-spartana che vede come la salvezza finale l’arrivo dei
peloponnesiaci, oppone comunque una strenua resistenza. Lisandro le impone un
blocco per mare e per terra che dura alcuni mesi, durante i quali la fame
serpeggiante per le strade cittadine arriva fino agli estremi del cannibalismo.
Il plenipotenziario ateniese incaricato di trattare la pace, Teramene, in
questa fase della propria carriera politica molto vicino ai filospartani,
prolunga volontariamente le trattative per esaurire la resistenza del partito
democratico che, alla fine, è costretto alla resa.
Fra
le condizioni, l’abbattimento delle mura difensive e lo smantellamento
dell’ordinamento democratico. Il trionfo di Crizia, insomma, sulla democrazia.
Democrazia
che, in realtà aveva ucciso sé stessa l’anno prima.
Cecilia Marchese scrive:
RispondiEliminaL'articolo è scritto in modo molto spiritoso nonché ben esauriente per chi non conosce la storia e anche per chi la conosce.
Ma io una cosa la devo dire, col rischio di far inorridire qualcuno.
Non ho mai capito l'idealizzazione che, dal XVIII sec. in poi nel mondo occidentale, è stata espressa nei confronti del mondo greco di Età Classica.
Non c'è mai stata alcuna "democrazia" in Grecia... Sparta era un'élite di aristocratici che viveva da parassita sulle spalle dei disgraziati Iloti pensando solo a fare la guerra, Atene era altrettanto schiavista e rinchiudeva le donne nei ginecei, dov'erano considerate esattamente alla stregua di oggetti, mercanzia da compravendita e spesso maltrattata, né più e né meno.
Cosa ci sia mai di "democratico" e di tanto encomiabile in un simile sistema io non lo so.
Per forza che è finito in polvere: le fondamenta erano marce fin dall'inizio.