lunedì 25 giugno 2018

Archeologia. Atene, Sparta, il Peloponneso e il dominio sul Mar Egeo. Così muore una democrazia... Riflessioni di Matteo Riccò


Archeologia. Atene, Sparta, il Peloponneso e il dominio sul Mar Egeo. Così muore una democrazia...
Riflessioni di Matteo Riccò

Nell'anno 406 a.C., il tratto di mare antistante l'odierna città di Bademli, in Turchia, è teatro della titanica battaglia navale delle Arginuse. Da una parte, la flotta ateniese (forte di circa 150 navi), dall'altro quella spartana (120 navi). In palio, il dominio sull'Egeo e, di riflesso, la vittoria finale nella guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), lo scontro mortale tra Atene e Sparta che si trascina da quasi trent'anni e che ha ormai esaurito le risorse di entrambi i contendenti.
La battaglia, come spesso accadeva nel mondo antico, è l’esito finale di un percorso complesso, con antefatti recenti e più remoti. Per farla molto (molto) breve: nonostante la terribile pestilenza del 430 a.C., Atene ha sostanzialmente vinto la prima parte della guerra per il predominio sul mondo ellenico estesamente applicando quella che potremmo chiamare la "dottrina Pericle".
E cioè: evitare rigorosamente lo scontro per terra con Sparta, colpire i peloponnesiaci alle spalle in operazioni anfibie come a Pilo ed a Sfacteria, lasciare che gli Spartani entrino in Attica indisturbati nascosti dietro le Lunghe Mura, che collegavano la zona dell'Acropoli (cioè l'Atene antica) con il
porto del Pireo, trasformando Atene in una roccaforte praticamente inespugnabile. Questa dottrina era basata sull’assunto che Sparta fosse una potenza militare basata sul proprio esercito di terra, a sua volta costituito dalla totalità della popolazione maschile adulta, esercito che, però, prima di tutto svolgeva il costante controllo del territorio, necessario in quanto la maggioranza della popolazione era costituita dagli iloti, in pratica “servi della gleba”, in larga parte Messeni asserviti da circa 200 anni e che aspiravano alla riconquista della libertà. Sparta poteva, quindi, solo faticosamente tollerare che una parte del proprio esercito si allontanasse dal Peloponneso, e solo per poco tempo. Le invasioni dell’Attica non potevano che essere, pertanto, delle incursioni, senza possibilità di imbastire un vero e proprio assedio della città. Che nel frattempo, posta la mancanza di una flotta spartana degna di questo nome, poteva rifornirsi liberamente via mare senza correre il rischio di un blocco navale.
Dopo una breve pace, la c.d. "Pace di Nicia" (Nicia era il nome del facoltoso uomo politico ateniese primo firmatario dell’accordo), nel 415 a.C. Atene si fa coinvolgere in un'avventura oltremare dagli esiti disastrosi. Chiamata in causa dalla città di Segesta contro la preponderante potenza militare di Siracusa, Atene intravede la possibilità di costruirsi un impero oltremare, primo tassello che trasformerebbe quello attico in un vero e proprio stato mediterraneo. Ciò che, ci insegna Tucidide, era aspirazione degli Ateniesi sin dai primi momenti della Guerra del Peloponneso, allorché Atene si era fatta coinvolgere nella guerra tra Corcira e Corinto. Con un colossale sforzo economico, Atene mette in piedi una vera e propria task force composta da 134 triremi, 5100 fanti pesanti, circa 2000 ausiliari da Argo e Mantinea, cui si aggiungono in un secondo momento altre 70 navi e ulteriori 5000 fanti pesanti. Considerando che le triremi fossero operate da cittadini, che ogni triremi richiedesse un equipaggio fra le 150 e le 200 persone, Atene mette sul piatto qualcosa come almeno 50,000 effettivi. Una frazione significativa sia della propria forza militare che della propria cittadinanza attiva.
Alla vigilia della partenza da Atene, accade il primo "disastro democratico" di questa storia. Alcibiade (450-404 a.C.), il leader della famiglia degli Alcmeonidi, nonché di quello che potremmo chiamare il "partito progressista" (insomma, della "sinistra al caviale" ateniese), viene coinvolto in un procedimento penale complicatissimo. Si tratta di un evento complicato, sul quale gli storici antichi e moderni si interrogano da 2500 anni senza venirne a capo.
Per farla brevissima: nell'antica Atene, ad ogni incrocio si trovano delle statue stilizzate del dio Ermes, composte da una colonna, la testa del Dio e il suo pene. Di sorpresa, la notte prima della partenza programmata per la Sicilia, tutte le statue sono state mutilate (indovinate dove). Un'empietà colossale, che scatena un processo per direttissima contro ignoti. Il problema è che non si trovano testimoni, come se le strade dell’Atene notturna - solitamente piuttosto affollate, fossero state improvvisamente deserte. Le indagini tuttavia annotano che una sola Erma è rimasta intatta, quella che si trova di fronte alla casa di un certo Andocide, noto esponente della vita bohemienne dell’Atene antica, una specie di Lapo Elkann del tempo insomma, che viene subito interrogato. Andocide confessa che quella sera si trovava in effetti fuori casa per andare a riscuotere la tassa mensile da un suo schiavo, operaio presso le miniere del Laurion. Andocide (la cui versione sull'evento ci è pervenuta sia nella forma "definitiva", rilasciata nel 399 a.C., sia nella forma deposta all'indomani dello scandalo: esse divergono in vari punti) fa alcuni nomi appartenenti all'Atene bene, ma le prove paiono piuttosto incerte.
Insomma, un buco nell’acqua? No. Perché Andocide, ad un certo punto dichiara di aver saputo (non si capisce bene come) che Alcibiade quella sera avesse celebrato una parodia dei Misteri Eleusini. Nota bene: parliamo di un sentito dire, non di una testimonianza diretta; solo, in seguito dirà di averlo visto. In altre parole: immaginatevi che una sera tutte le chiese di Milano siano deturpate, e che un possibile testimone, anziché far nomi di possibili responsabili, dichiari di aver sentito dire che quella stessa sera Silvio Berlusconi fosse stato impegnato in una parodia della messa di Pasqua con Ruby Rubacuori nella villa di Arcore. Ed immaginatevi che a questo punto il magistrato inquirente lasci perdere le chiese e si dedichi agli affari privati di Berlusconi.
Un colossale pretesto, per farla breve.
Alcibiade, chiamato in causa, chiede di essere processato per direttissima per liberarsi dalle accuse. L'assemblea democratica che governava Atene, la Boulé, pressoché all'unanimità ordina tuttavia ad Alcibiade di partire, per essere processato solo al ritorno. L’idea di fondo è che il processo sarà sostanzialmente inutile, in quanto al ritorno si celebrerà il trionfo sui siracusani.
Arrivato in Sicilia ed iniziato l'assedio di Siracusa, Alcibiade viene tuttavia raggiunto dall'ordine improvviso di tornare indietro per essere sottoposto a processo. Cos'è successo?
E' successo, ed è fondamentale per capire quanto è successo e quanto accadrà all'indomani delle Arginuse, che più o meno la metà dei cittadini con diritto di voto è partita con Alcibiade alla volta della Sicilia. Come immediata conseguenza, la composizione dell'assemblea si è modificata, ed ora ha una maggioranza composta prevalentemente dagli avversari politici di Alcibiade, esponenti della destra ateniese (immaginatevi una specie di "Lega Ateniese"), che ne chiede l'immediato processo sapendo di poterlo eliminare dalla scena politica con questo colpo di mano.
Alcibiade ovviamente non tornerà ad Atene, rifugiandosi piuttosto a ... Sparta, che spingerà a riprendere le ostilità - prima in Sicilia, quindi in continente, consigliandola tanto saggiamente da mettere Atene alle strette con due mosse strategiche geniali.
Prima di tutto, determinando l'escalation della guerra sicula, che se elimina definitivamente dalla scena pressoché tutta la flotta ateniese e migliaia di uomini (ivi compresi gli abili comandanti Nicia, Demostene, Eurimedonte e Lamaco), agli spartani costa una manciata di uomini e alcuni consiglieri militari (come il geniale consigliere Gilippo), e quindi occupando militarmente la fortezza di Decelea, situata ai confini di Attica e Beozia, potendo pertanto occupare stabilmente l'attica e trasformando in perenni sfollati gli abitanti del contado. L'afflusso degli abitanti del contado, cittadini, all'interno delle Lunghe Mura è previsto dalla "dottrina Pericle", ma temporaneamente. Atene non ha le risorse strutturali per sostenerli a tempo indefinito, e soprattutto vede la composizione della propria assemblea nuovamente alterato: ne consegue una prima guerra civile ateniese, che vede l’ascesa del partito aristocratico dei piccoli possidenti, nominalmente filo-spartano, faticosamente rimosso.
Nel confuso “aftermath” della spedizione sicula, pochi anni prima della battaglia delle Arginuse, Alcibiade (che si è messo nei guai seducendo la moglie del re di Sparta) è richiamato ad Atene a furor di popolo (sono gli anni dell'allusiva tragedia Filottete di Euripide): è il miglior comandante navale del tempo, ed il suo intervento nuovamente ribalta le sorti della guerra introducendo una nuova "dottrina bellica" che potremmo chiamare "dottrina Alcibiade". E cioè: portare la guerra in Asia, assicurando le rotte di rifornimento ateniesi e al tempo stesso obbligando Sparta ad un "overstretching" che ne provochi il rapido esaurimento delle risorse logistiche. Purtroppo per Atene, Sparta frattanto ha trovato il suo Alcibiade, Lisandro (morto nel 395), il quale compie una mossa simile a quella di Nixon con la Cina: si allea cioè con il potentissimo satrapo persiano d'Asia, Ciro il Giovane (morto nel 401), il quale riempie di oro e risorse gli spartani affinché costruiscano una flotta per sconfiggere gli ateniesi per mare. Sparta è quindi diventata una potenza marittima, con navi nuovissime e più "moderne" di quelle ateniesi, nonché armate dei migliori equipaggi in circolazione (pagati a peso d'oro). La dottrina Alcibiade si completa quindi con l'evitamento sistematico del confronto con gli spartani SALVO quando la posizione di forza sia tale da garantire una vittoria sicura. Atene infatti non potrebbe costruire una nuova flotta, non avendone né le risorse economiche né quelle umane.
L'anno prima delle Arginuse (ci siamo quasi), la flotta assegnata ad Alcibiade ha subito tuttavia un'improvvisa sconfitta: Alcibiade si è infatti temporaneamente distaccato per sistemare di persona alcuni campi di battaglia secondari, ed i suoi luogotenenti (in particolare un certo Antioco) pensano sia l’occasione buona per acquisire fama in madrepatria attaccando la flotta spartana nonostante la mancanza di una chiara posizione di forza. La battaglia a Nozio è una batosta: un terzo della flotta (circa 25 navi) è distrutta, e se il danno materiale non pare enorme, bisogna nuovamente ricordare che Atene non può più coprire le perdite umane. La sconfitta costa il rinnovo della nomina ad arconte (cioè capo della marina) ad Alcibiade, che quindi emigra volontariamente nella zona degli stretti per evitare la riapertura del processo delle Erme.
Veniamo quindi alle Arginuse. Ciò che resta della flotta ateniese, non più di 50 navi, comandata da Conone (440-390 a.C.), si trova intrappolata a Lesbo dalla flotta Spartana, composta da quasi 200 navi. La distruzione della flotta significherebbe la fine della guerra e la sconfitta ateniese. Atene quindi compie uno sforzo titanico: tutti i cittadini più ricchi si tassano all'inverosimile (le c.d. “liturgie”), i templi si svuotano degli ori e dei gioielli... tutto per armare una nuova flotta di 150 triremi. Per operarle, servirebbero però rematori che Atene non ha più. Per salvare la situazione, la Boulé decide di compiere un atto senza precedenti: agli schiavi che si arruoleranno sarà data la libertà, a loro ed agli stranieri che parteciperanno allo sforzo sarà concessa la cittadinanza. Dalle fonti antiche sappiamo che circa metà della flotta fosse quindi operata da schiavi o stranieri... il che significa, conti alla mano, che in caso di vittoria i cittadini ateniesi di pieno diritto sarebbero passati da circa 30,000 a 45,000, alterando in modo radicale la composizione degli organi amministrativi - in un certo senso, cambiando geneticamente una volta e per sempre la natura dello stato.
Sapendo di avere le spalle al muro, Atene manda tutti gli ammiragli rimasti (Aristocrate, Aristogene, Diomedonte, Erasinide, Lisia, Pericle il Giovane, Protomaco e Trasillo) con quella che legittimamente può essere chiamata “l’ultima flotta”. Gli Ateniesi una volta tanto sono degli della loro storia e vincono quella battaglia agendo di intelligenza e furbizia. Sapendo che gli spartani rimangono comunque più numerosi, i nauarchi attirano gli Spartani lontani da Lesbo, schierandosi a stretto ridosso della costa asiatica. Lo scopo degli ammiragli è impedire manovre di accerchiamento da parte della flotta spartana e, al tempo stesso, usare le irregolarità della costa per allargare il fronte. Questo consente agli Ateniesi di schierarsi in doppia fila, una scelta tattica inusuale che impedisce alla più esperta flotta spartana di compiere una manovra nota come diekplous, in cui una triremi si infilava nello spazio tra due unità nemiche, compiendo un’improvvisa virata a 90° per colpire uno degli avversari sul fianco. L’avversario degli ateniesi non è infatti Lisandro, sul quale si sono addensati sospetti di aspirare alla tirannide, ma il meno abile Callicratide, che cade nel doppio tranello ateniese, dividendo in due la sua flotta, affrontando quindi gli avversari in inferiorità numerica e non cogliendo la minaccia dell’attacco in doppia fila.
La battaglia è cruentissima, ma è una grande vittoria ateniese. Restano però due problemi. Prima di tutto, durante la battaglia anche gli Ateniesi hanno subito gravi perdite, in particolare 25 navi sono state affondate. Secondariamente, bisogna raggiungere il prima possibile la flotta assediata a Lesbo prima che gli Spartani ne mandino un’altra di rinforzo o che i fuggiaschi attacchino Conone in una mossa disperata. Due comandanti navali, Trasibulo e Teramene, sono quindi incaricati di recuperare i naufraghi mentre i nauarchi vanno alla caccia degli Spartani.
Entrambe le missioni falliscono perché una terribile tempesta colpisce la costa asiatica, rendendo impossibile soccorrere i naufraghi.
Trasibulo e Teramene sono i primi a rientrare ad Atene ed ovviamente fanno rapporto all'assemblea, che frattanto ha ricevuto il rapporto dei Nauarchi, che scaricano ogni colpa sui due ricchi uomini politici. Assemblea che quindi minaccia di processarli, immediatamente, per incompetenza. Trasibulo e Teramene reagiscono con altrettanta violenza: essi dichiarano che la loro missione fosse sostanzialmente impossibile, e che la colpa fosse da ascriversi agli Ammiragli che avevano rinunciato ai propri obblighi nei confronti dei concittadini cercando la gloria militare. Tutti tranne ovviamente Conone, che da Lesbo non aveva preso parte alla vicenda.
E’ a questo punto che entrano in scena le distorsioni della democrazia radicale di Atene. Ogni magistrato (e gli ammiragli ERANO magistrati) è tenuto a presentare un vero e proprio rendiconto alla fine del proprio incarico, che l'Assemblea avrebbe potuto approvare o bocciare, imponendo sia una condanna “civile” (pecuniaria) o penale (potendo sfociare nella condanna a morte). Data la situazione, gli otto ammiragli sono richiamati ad Atene: due essi, Aristogene e Protomaco, sentono puzza di bruciato e scappano. Gli altri sei arrivano e trovano ad aspettarli un'assemblea ostile, dominata da Crizia, leader della destra estrema ateniese. Erasinide, che degli otto è stato il meno efficiente in battaglia, viene immediatamente processato e condannato per inettitudine, mentre lui stesso e gli altri cinque, così come i due fuggiaschi, sono rinviati a giudizio per empietà. L'accusa di empietà è ovviamente pretestuosa, come possiamo immaginare, ma l'antica Atene, la patria della filosofia, è città dal bigottismo per noi inconcepibile e caratterizzata dalla pervasione religiosa di ogni livello della vita cittadina. Inoltre, Crizia sa di dover agire immediatamente: se i 15,000 nuovi cittadini fossero stati accolti nell'alveo urbano, il suo partito sarebbe messo definitivamente in minoranza, e probabilmente Alcibidiade ed i suoi fedelissimi potrebbero prendere stabile possesso dell'Attica. Poiché quasi tutti gli strateghi a processo sono esponenti di primo piano del partito democratico, l’occasione è ottima per decapitarlo una volta per tutte. Il primo giorno del processo, in cui gli eventi sono semplicemente richiamati, si conclude in termini sostanzialmente positivi, ed alla chiusura del dibattimento la situazione appare sotto controllo. Tuttavia, il giorno seguente è una festività del calendario sacro ateniese - la c.d. Apaturie, una festa che vedeva la partecipazione di tutti i membri della famiglia. Che cadendo a ridosso del disastro delle Arginuse apre una ferita profonda nel corpo civile ateniese.
Quando il processo si riapre, l’atmosfera si è deteriorata e l’atteggiamento della popolazione si è capovolto, essendo ormai profondamente ostile. Un uomo di Crizia, Callisseno, coglie l’attimo per chiedere il procedimento immediato nei confronti dei generali. E’ chiara l’intenzione della destra ateniese di sfruttare l’onda emotiva per ottenere una condanna durissima. Alcibiade è assente - assenza che, data la sua grande arte oratoria e la sua residua presa sulla popolazione, ha un peso enorme. E’ presente però un suo uomo, Eurittolemo, si batte come un leone per difendere i sei. Eurittolemo arriva a proporre che il procedimento sia tenuto secondo la norma draconiana (quindi, con gli imputati in catene), che i sette siano processati subito, quello stesso giorno, ma separatamente. Ricordiamo che nell'antica Atene non esistesse il principio di personalità della responsabilità penale, e che quindi processi “di gruppo” potessero concludersi con una condanna collettiva. Crizia capisce che una condanna individuale rischia di perdere il valore simbolico che il demo ateniese vorrebbe riservare ai trierarchi, e riesce a far sospendere il processo con la scusa che, essendo calata la notte, sia impossibile vedere correttamente le mani alzate al momento del voto.
Il giorno dopo, la scena si ripresenta: Eurittolemo prova nuovamente a difendere i generali ma, ...
... questa volta Crizia ha preparato la scena con grande cura. Ha fatto affluire le madri e le mogli dei naufraghi, che reclamano a gran voce, avvolte negli abiti neri di lutto, il sangue degli empi generali. Inoltre, ha fatto affluire tutto il popolino, le cui grida soverchiano rapidamente quelle dei democratici. Al grido: "il nostro voto conta!" (eh sì... proprio come l'hashtag di qualche settimana fa), Crizia forza la mano alla giuria del tribunale, il cui presidente è - casualmente, Socrate. Nell’antica Atene, alcune magistrature erano rivestite a turno, per sorteggio: per Socrate accadde una sola volta di essere presidente del tribunale ed il caso volle fosse proprio quel giorno. Socrate rigetta la mozione, in quanto ne percepisce (diremmo noi) l’evidente incostituzionalità, ma soprattutto il rischio che la democrazia ateniese (di cui già conosce i mali interni) sia politicamente manipolata a prendere una decisione antitetica ai propri interessi - ciò che proprio ora sta accadendo, ma quest’unica voce di buonsenso è costretta ad abbandonare il processo a suon di legnate.
Si va infine al voto della giuria, che processa gli ammiragli in gruppo, subito. La condanna è la più severa possibile: i sei presenti, incluso Pericle il giovane, sono subito messi a morte. Sugli altri due, cade una condanna in contumacia e non torneranno ad Atene se non a guerra finita. Alcibiade, che dei morti è amico, viene definitivamente etichettato quale persona non grata.
L’esito è quindi disastroso.
In un colpo solo, Atene ha tradito quanti, fra schiavi e meteci, l'avevano salvata a rischio della vita armandone le navi al momento del sommo pericolo, nonché decapitato la flotta. Ciò che è tanto più grave perché questo paralizza le operazioni militari nell’Egeo, dando tempo agli spartani di tornare sui propri passi, ricostituire la flotta e rimettere Lisandro al suo comando.
Un anno dopo, ciò che resta dell’ultima flotta, viene attirata in trappola ad Egospotami. Gli ateniesi, numericamente, sarebbero ancora in grado di opporsi agli spartani e Alcibiade, troppo attaccato alla sua città per abbandonarla al momento del pericolo, è presente in zona: ha intravisto il pericolo e consigliato agli ammiragli come uscirne fuori.
Inutilmente. Si parlerà di corruzione degli ammiragli (che letteralmente rimandano i consigli al mittente con insulti allegati) - in realtà, la decapitazione della flotta ha privato Atene degli unici comandanti abbastanza abili e preparati da contrapporsi al furbissimo Lisandro, e in queste condizioni l’inesperienza (e la sostanziale demotivazione) della flotta pesano come un macigno. Alcibiade è quindi ignorato, gli ateniesi accettano la battaglia - e sono annientati. Delle 170 navi ateniesi ne scampano solo 20.
Atene, che ha esaurito tutte le risorse economiche già nel corso dell’anno precedente, decapitata a livello politico dal processo agli ammiragli, ormai nelle mani di quella destra filo-spartana che vede come la salvezza finale l’arrivo dei peloponnesiaci, oppone comunque una strenua resistenza. Lisandro le impone un blocco per mare e per terra che dura alcuni mesi, durante i quali la fame serpeggiante per le strade cittadine arriva fino agli estremi del cannibalismo. Il plenipotenziario ateniese incaricato di trattare la pace, Teramene, in questa fase della propria carriera politica molto vicino ai filospartani, prolunga volontariamente le trattative per esaurire la resistenza del partito democratico che, alla fine, è costretto alla resa.
Fra le condizioni, l’abbattimento delle mura difensive e lo smantellamento dell’ordinamento democratico. Il trionfo di Crizia, insomma, sulla democrazia.
Democrazia che, in realtà aveva ucciso sé stessa l’anno prima.


1 commento:

  1. Cecilia Marchese scrive:
    L'articolo è scritto in modo molto spiritoso nonché ben esauriente per chi non conosce la storia e anche per chi la conosce.
    Ma io una cosa la devo dire, col rischio di far inorridire qualcuno.
    Non ho mai capito l'idealizzazione che, dal XVIII sec. in poi nel mondo occidentale, è stata espressa nei confronti del mondo greco di Età Classica.
    Non c'è mai stata alcuna "democrazia" in Grecia... Sparta era un'élite di aristocratici che viveva da parassita sulle spalle dei disgraziati Iloti pensando solo a fare la guerra, Atene era altrettanto schiavista e rinchiudeva le donne nei ginecei, dov'erano considerate esattamente alla stregua di oggetti, mercanzia da compravendita e spesso maltrattata, né più e né meno.
    Cosa ci sia mai di "democratico" e di tanto encomiabile in un simile sistema io non lo so.
    Per forza che è finito in polvere: le fondamenta erano marce fin dall'inizio.

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