Archeologia. La
presenza qualitativa delle neviere in archeologia comparata.
Il
frequente ricorso nel passato alla edificazione delle neviere esprime anche il
grado di emancipazione del confort dei vari contesti sociali non soltanto
italici.
Articolo
di Alberto Zei
Passeggiando
fra i pendii collinari o montani di parecchie regioni italiane, non è difficile
imbattersi in vecchie neviere costituite in singolari costruzioni quasi sempre
a pianta circolare con una parte interrata e l'altra in elevato.
È
risaputo che le neviere erano architettonicamente costruite in maniera agevole
ed efficace per conservare più a lungo possibile la neve che di volta in volta
era immagazzinata prima, prelevata poi, per le necessità maggiormente sentite
della conservazione di sostanze alimentari più facilmente deteriorabili. Al
presente però, poche appaiono curate e restaurate. La maggior parte sono in
abbandono, ma continuano a essere testimoni di tempi in cui la vita era molto
più dura e molto più a contatto con la natura dalla quale l’uomo ha sempre
tentato di fare qualche passo avanti verso il
miglioramento della propria
esistenza.
Le neviere infatti, nella recente
storia dell’evoluzione rappresentano simbolicamente il concetto che accompagna
la progressiva emancipazione dell’uomo,
il quale esprime sempre più, l’esigenza
esistenziale del benessere e del comfort, ormai difficilmente rinunciabili.
Si sono
inserite nella scia di questo stesso concetto, compromettendone la credibilità,
speculazioni personalizzate a fini diversi. Per queste
ragioni di carattere storico e per altre ancora le neviere andrebbero tutelate
e valorizzate, ma ciò accade assai di rado.
Intervista con la Prof.ssa Barbara Aterini
La
Professoressa Barbara Aterini, docente alla Scuola
(ex-facoltà) di Architettura presso l'Ateneo fiorentino e Presidente del Corso di Laurea in Scienze
dell’Architettura, fra i molti libri che ha scritto ha dedicato anche a
queste strutture un importante volume, dal titolo ‘Le ghiacciaie: architetture dimenticate’. Per saperne di più ci
siamo rivolti a lei che cortesemente ci ha concesso l’intervista che qui di
seguito pubblichiamo.
Professoressa
Aterini, ci può spiegare quale era la funzione delle neviere e in quali
contesti sociali sono state costruite?
Occorre
intanto fare una precisazione e distinguere fra neviera e ghiacciaia.
La neviera
era un anfratto roccioso, o una buca scavata nel terreno, dove veniva ammassata
la neve per conservarla almeno fino all’estate; le ghiacciaie, invece, sono
delle vere e proprie costruzioni per lo più interrate, ma con una parte che si
erge sopra il terreno.
Non
possiamo definire un preciso contesto storico-sociale in cui sono state
costruite perché l’esigenza di avere il ghiaccio a disposizione in ogni momento
dell’anno, non solo per conservare le derrate alimentari, ma anche a scopo
terapeutico, è testimoniata fin dall’antichità.
Questa
tradizione culturale si è perfezionata e sviluppata tecnologicamente attraverso
i secoli, ma l’esigenza primaria di fare uso di ghiaccio, e da qui la necessità
di conservarlo, fa parte della storia dell’umanità.
L’uomo,
nei secoli, ha costruito vere e proprie architetture atte allo scopo, arrivando
ad organizzare il territorio in funzione della raccolta di ghiaccio naturale.
Agli inizi del Ventesimo secolo, fino all’avvento dei frigoriferi negli anni
Sessanta, esisteva una vera e propria industria del ghiaccio in tutto il mondo;
possiamo ricordare la Valle del Reno sulla montagna pistoiese dove, ancora
oggi, sono visibili i resti delle ghiacciaie e, dall’altra parte del globo, i
magazzini sulle coste dell’America in cui si conservava il ghiaccio che
arrivava persino dalla Norvegia.
In
realtà le tecniche di raccolta ed immagazzinamento del ghiaccio naturale non
iniziano in un’area definita, né in un periodo storico ben preciso, ma sono
diffuse in tutto il mondo anche se variano da un paese all’altro.
Inizialmente
il ghiaccio naturale era raccolto con strumenti semplici, per uso domestico,
sul terreno circostante l’abitazione.
Quando
nel XIII e XIV secolo, a seguito delle Crociate, nacque una nuova classe
sociale che, arricchitasi saccheggiando l’Oriente da cui aveva appreso anche
usi e costumi, ricercava uno stile di vita più raffinato, cosa che implicava
anche l’uso di neve e ghiaccio per rinfrescarsi nella stagione calda, si
cominciarono a costruire ghiacciaie vicino ai castelli o nei parchi delle
ville. Così questi edifici, inizialmente molto semplici e funzionali,
diventarono manifestazione del prestigio del proprietario e, di conseguenza,
subirono un cambiamento della forma esterna che culminò nella ricerca estetica
finalizzata a mascherarne la funzione tramite l’aggiunta di elementi
ornamentali come padiglioni e chioschi. Nacquero così delle architetture in cui
la frivolezza della costruzione che si ergeva sopra il terreno contrastava con
la realtà fisica del contenitore, cioè la camera del ghiaccio, completamente
interrato.
Con la
nascita della borghesia e la ridistribuzione della ricchezza il consumo di
ghiaccio naturale cominciò ad interessare maggiori fasce della società, tanto
che la produzione lievitò e si sviluppò a livello mondiale. Il ghiaccio
naturale diventò un bene di cui ciascun individuo aveva il diritto di godere e
questo determinò la nascita di un mercato in espansione, che cresceva anche
parallelamente alle riserve di cibo necessarie nelle città e, in seguito,
provocò l’affermazione di quell’industria che impiegava tecniche sempre più
raffinate per raccogliere, conservare e commerciare questo prodotto.
Allorché,
nel XIX secolo, la richiesta di ghiaccio cominciò ad arrivare, oltre che dai
ricchi anche da ospedali e laboratori di ricerca universitari, la raccolta
venne organizzata sempre più efficacemente. Il ghiaccio cominciò ad essere
utilizzato anche per la produzione della birra, della paraffina, delle candele
di cera, della nitroglicerina ed anche nei laboratori medici, quindi la
raccolta doveva avvenire su vasta scala. Allo scopo venivano scavati appositi
laghi artificiali che si riempivano, grazie ad un sistema di canali e chiuse,
deviando i corsi d’acqua. Gli operai addetti alla raccolta e
all’immagazzinamento dovevano: rompere le lastre di ghiaccio; tirarle fuori
dall’acqua; ridurle in blocchi; trasportarle alla ghiacciaia; ed immagazzinarle
isolandole.
Le
ghiacciaie avevano forme diverse, in genere secondo l’uso e la quantità di
ghiaccio che dovevano contenere. Oltre a quelle edificate nelle tenute private,
costruzioni seminterrate in muratura, provviste di canali per l’aerazione e per
lo smaltimento delle acque residue, esistevano tipologie simili a quelle
studiate in Germania appositamente per la lievitazione della birra; per gli
ospedali ed i laboratori, invece, venivano sfruttate le cantine adeguatamente
coibentate.
In
alcuni Paesi, come gli Stati Uniti ed il Canada, non esistevano scantinati per
il ghiaccio o costruzioni sotterranee, le ghiacciaie erano una sorta di casette
senza finestre, con pareti di legno doppie riempite di segatura o altri
materiali isolanti. In genere avevano pianta quadrata, con lato di circa tre
metri e mezzo; il pavimento, a tavole di legno, era rialzato per far scorrere
via l’acqua di scioglimento. Il soffitto, rimovibile, veniva coperto di
segatura; sopra il tetto c’era un’apertura, protetta da un coperchio, che
permetteva la ventilazione.
Successivamente,
quando la raccolta del ghiaccio divenne una vera e propria industria a livello
mondiale, si cominciarono a costruire magazzini sopra-terra, quasi sempre di
legno, con tutte le caratteristiche di un edificio industriale. In Norvegia
quelli costruiti a partire dal 1850 erano di legno, con pareti doppie riempite
di segatura, ma i più grandi erano quelli americani, provvisti di scivoli e,
grazie all’invenzione della macchina a vapore, anche di nastri trasportatori che agevolavano
l’immagazzinamento di grandi blocchi.
Dalla
seconda metà del XIX secolo, in diverse parti del mondo, lo studio e la
sperimentazione di nuove tecniche permisero la produzione di ghiaccio
artificiale che cominciò ad entrare in concorrenza con quello naturale, tanto
che all’inizio della prima guerra mondiale esistevano già fabbriche di ghiaccio
artificiale, sebbene continuasse l’esportazione, in particolare dal Canada, di
quello naturale.
L’abbandono
definitivo di quest’ultimo avverrà, più tardi, per motivi economici, poiché il
ghiaccio artificiale costava meno, ma anche per l’inquinamento delle acque,
particolarmente pubblicizzato dai produttori di ghiaccio artificiale in diretta
concorrenza.
Con
l’avvento dell’elettricità mutarono completamente usanze e comportamenti della
gente: nacque l’esigenza di avere il frigorifero in casa e da questo momento
l’edificio per conservare il ghiaccio naturale non ebbe più un ruolo. Quindi
non si costruirono più ghiacciaie e quelle vecchie restarono inutilizzate, perciò
demolite o, nella migliore delle ipotesi, lasciate in abbandono.
Ci può
descrivere una ghiacciaia 'tipo'?
Le prime
ghiacciaie ricordavano morfologicamente le antiche neviere: erano, infatti,
buche scavate nel terreno a forma di tronco di cono rovesciato per contenere
gli effetti della naturale erosione del terreno e, una volta riempite di neve,
venivano protette dall’aria con strati di foglie. Tale forma fu conservata
anche in seguito, quando le pareti laterali ed il fondo cominciarono ad essere
realizzati in muratura, per evitare il contatto diretto fra il ghiaccio ed il
terreno permeabile all’acqua ed all’aria e, conseguentemente, per limitare la
possibilità di scambi termici fra il ghiaccio ed altri fluidi a temperatura più
elevata, cosa che avrebbe favorito il processo di scioglimento.
La
pianta circolare rappresentava una buona soluzione statica per bilanciare la
spinta del terreno sulla superficie laterale della cavità; spinta che se poteva
essere considerata trascurabile nei periodi invernali, primaverili ed estivi,
perché bilanciata dalla pressione che il ghiaccio esercitava sulle pareti
interne, tuttavia nel periodo autunnale, quando la ghiacciaia era vuota ed il
terreno più pesante a causa delle ingenti piogge, diventava considerevole ed
avrebbe avuto ragione di murature rettilinee e di modesto spessore.
La forma
circolare delle ghiacciaie scaricava le spinte centripete del terreno lungo le
direttrici, tangenziali alla circonferenza, così lo spessore delle murature non
doveva essere superiore ai 60 – 70 cm anche in casi di ghiacciaie con 10 – 15
metri di diametro.
Inoltre
la forma tronco-conica permetteva di ridurre al minimo la superficie di
contatto fra la massa ghiacciata e le pareti esterne, sulle quali erano
esercitati gli scambi termici che erano da limitare il più possibile, per
ottenere un’ottimale conservazione del prodotto.
L’inclinazione
delle pareti laterali di contenimento favoriva la conservazione, fino alla
stagione estiva. Infatti nel periodo primaverile una certa quantità di calore,
attraverso lo strato di foglie, attaccava la superficie del ghiaccio e, con
l’aumentare dell’insolazione diurna anche la temperatura del terreno si
amplificava gradualmente, provocando lo scioglimento della parte superficiale
della massa di ghiaccio ma, grazie alla forma tronco-conica del vano lo
scioglimento del ghiaccio sul fondo, determinava un abbassamento della massa
del ghiaccio tale da riportare sempre la superficie congelata a contatto della
parete di contenimento. In tal modo l’architettura assumendo una forma ben
definita ottemperava in modo brillante alla funzione di contenitore del
ghiaccio.
Il
blocco di ghiaccio era appoggiato su una grata di legno o su strati di foglie
ed il drenaggio dell’acqua di scioglimento, oltre che dalla naturale permeabilità
delle pareti laterali, era assicurato da un apposito sistema di canali e vespai
ricavati sul fondo della ghiacciaia che era più alto nel centro secondo la
caratteristica forma a ‘schiena d’asino’.
Nel caso
delle ghiacciaie gemelle realizzate nel giardino di Boboli a Firenze, la
canalizzazione con tubi di terracotta portava l’acqua fino sotto le sale dei
Quartieri Estivi di Palazzo Pitti, garantendone la refrigerazione nei mesi
caldi.
All’interno
delle ghiacciaie la possibilità di scioglimento, con conseguente perdita di
materiale, era ridotta non solo grazie all’inerzia termica della notevole
quantità di ghiaccio immagazzinato, ma anche per il discreto isolamento termico
fornito dalle foglie e dal terreno, nonché per la protezione dai raggi solari
diretti, ottenuta con una copertura ed un’adeguata sistemazione della
vegetazione circostante.
Non a
caso si costruivano ghiacciaie coperte a cupola e interrate in una collina
artificiale sulla cui sommità venivano piantati alberi. Il vano a sezione
tronco-conica costituiva la ‘camera del ghiaccio’; in genere vi si accedeva da
un corridoio provvisto di almeno due porte consecutive che limitavano
l’ingresso all’aria esterna. La porta esterna era orientata verso nord; atri e
corridoi di accesso assolvevano la funzione di magazzino per gli alimenti da
mantenere al fresco.
Le
ghiacciaie a pianta circolare erano caratterizzate, in un primo periodo, da
coperture coniche leggere, con struttura portante primaria e secondaria in
legno e manto di copertura realizzato con fascine di paglia. Sul colmo, per
impedire all’acqua di penetrare, veniva posto un cappuccio di lamiera o un vaso
capovolto. L’inclinazione del tetto, superiore ai quarantacinque gradi,
favoriva lo scorrimento impedendo anche l’accumulo di grandi strati di neve che
ne avrebbero compromessa la stabilità.
Le
coperture di questo tipo, però, necessitavano di continua manutenzione a causa
della facile deperibilità del manto; perciò, con il passare del tempo, vennero
sostituite da cupole in muratura, cosa che favorì spesso la realizzazione di
veri e propri capolavori architettonici, come nel caso della ghiacciaia del
Convento dei Servi di Maria sul Monte Senario nel comune di Vaglia presso
Firenze. La cupola, costruita dopo la metà dell’Ottocento, è doppia e
realizzata in mattoni con un’intercapedine che doveva essere riempita da
materiale isolante. Quest’architettura con un
diametro di circa 14 metri a livello del terreno ed un’altezza totale pari a 21
metri, comprensiva della parte tronco conica che sprofonda nel terreno per
oltre 12 metri, è la più grande finora conosciuta. In origine
presentava
anche un raffinato apparato decorativo, rivestita all’esterno con filari
orizzontali bicromi, alternando tre strati di mattoni con uno di pietra. Sulla
sommità della cupola vi era una lanterna.
Infatti la scelta di realizzare delle cupole obbedisce sia all’esigenza di
creare un vano molto capace che alla necessità di convogliare, tramite un
camino di aspirazione sulla sua sommità, l’aria più calda lontano dalla camera
del ghiaccio, in modo da poterne prolungare il mantenimento.
Dal XVII
secolo le ghiacciaie diventano costruzioni che, all’interno di sistemi ipogei e
dislocate nei giardini, creano scenografie amene, in una perfetta armonia fra
forma e funzione, fra tecnologia e natura, fra ambiente esterno e clima
interno.
Qual è la
loro distribuzione nel territorio nazionale, isole comprese?
Attualmente se ne conoscono moltissime, ma devo dire che il loro numero è
destinato ad aumentare. Spesso mi capita di scoprirne di sconosciute ai più.
Ciò che resta di queste costruzioni, riadattate ad altri scopi, come nel caso
della caratteristica ghiacciaia sull’isola Madre del lago Maggiore, nella
provincia di Verbania. La costruzione, nascosta fra il verde perenne di alberi
ad alto fusto e siepi, è in pietra locale sormontata da una cupola che presenta
la copertura di scaglie lapidee. È stata sicuramente a servizio della villa
fino all’avvento dei frigoriferi. Circa vent’anni fa era possibile ammirarla in
tutta la sua profondità e si vedeva bene il pavimento ‘a schiena d’asino’ con
il canale laterale scavato per allontanare le acque di fusione. Purtroppo, come
spesso accade, è stata riempita fino a livello del terreno e il nuovo pavimento
di cemento l’ha ridotta a semplice ripostiglio di attrezzi per il giardinaggio.
Ghiacciaie e neviere, o ciò che ne rimane, si trovano in tutta Italia,
anzi Europa, e le loro caratteristiche tipologiche, legate alla conservazione
di neve e ghiaccio, sono ancora oggi ben riconoscibili.
A che
epoca risalgono le neviere più antiche e, in genere, per quanto tempo sono
rimaste in uso?
Le prime
notizie sull’uso del ghiaccio risalgono a circa
2000 anni a. C. quando in Mesopotamia esistevano una casa per il ghiaccio nella
città di Ur ed una ghiacciaia reale sul fiume Eufrate, come rivela il chimico
e storico olandese
R. J. Forbes (1900–1973),
professore di storia della scienza e della tecnologia all'Università di
Amsterdam. Il clima
della regione mesopotamica era, infatti, caratterizzato da notevoli sbalzi
climatici e, soprattutto nella zona fra Turchia e Siria, gli inverni
particolarmente rigidi portavano abbondanti precipitazioni nevose.
Altre
notizie derivano da una spedizione archeologica francese che all’inizio del XX
secolo ha portato alla luce le rovine di Mari, città che circa 4000 anni fa era
una delle più importanti nella terra tra i due fiumi e fu distrutta dal re
babilonese Hammurabi nel 1757 a.C. Alcune tavolette ritrovate negli scavi
illustrano la costruzione di ghiacciaie, che nei caratteri cuneiformi sono
dette ‘bit shuripim’ cioè ‘case per
il ghiaccio’. Queste erano costruzioni realizzate in mattoni crudi, sorrette da
travature lignee e dotate di condotti che assicuravano il deflusso dell’acqua
di scioglimento.
Nell’antico
Egitto in alcuni documenti della XIX dinastia si trova la parola ‘neve’
riferita, in particolare, alla conservazione dei cibi. Sembra che si facesse
uso della neve importata dalla Siria, dove erano soliti raccoglierla ed
immagazzinarla in apposite buche. Nel 1040 d.C. nella cucina del Sultano del
Cairo arrivavano, ogni giorno, 14 cammelli carichi di neve; a tale scopo era
stato persino istituito un servizio rapido fra Siria ed Egitto con stazioni
intermedie di riposo.
Altre
notizie sulle origini della raccolta del ghiaccio naturale ci portano nei paesi
asiatici; pare che in Cina si raccogliesse ed immagazzinasse il ghiaccio già un
millennio prima di Cristo, un’attività che doveva essere strettamente connessa
alla religiosità, visto che nel libro ‘Shin
Ching’ si narra di cerimonie religiose legate alla rimessa ed alla levata
del ghiaccio. Di ciò si trova traccia anche nella poesia cinese del XI sec.
a.C. ed è noto anche che in estate si cercava di raffreddare le stanze del
palazzo imperiale mettendo del ghiaccio nelle cantine sottostanti e facendo
salire l’aria fresca con dei grandi ventagli.
Dalle
scoperte archeologiche sappiamo che, alla fine del III secolo d.C., esistevano
nel Turkestan cinese dei magazzini per conservare il ghiaccio. Nel 1845 c’erano
ancora in tutto il Paese capanne (12,8x18,28 m, alte 11 m) per conservare il
ghiaccio che veniva raccolto sul terreno circostante, spianato e riempito di
acqua allo scopo, lo stesso terreno che nell’estate permetteva la coltivazione
del riso.
Nel 1970
a Pechino, intorno alla Città Proibita, si raccoglieva ancora il ghiaccio per
immagazzinarlo in cantine ai piedi delle mura.
Nel IX e
X secolo d.C. in Giappone si conservava la neve in apposite buche (30 x 20 m,
profonde 10 m) situate su un pendio, in modo tale da poterla raccogliere e
immagazzinare facilmente, e vicino ad un fiume, per un facile smaltimento
dell’acqua di scioglimento ed un agevole trasporto via fiume.
L’uso
del ghiaccio è testimoniato anche in India dal XVI sec. d.C., così come
nell’altopiano centrale dell’Iran dove, nel XV secolo, erano già in uso le
ghiacciaie, costruzioni imponenti e particolari: un pozzo scavato nel terreno e
coperto con una cupola. Alcune di queste avevano un diametro interno di 9 o
anche 15 metri; la più grande conosciuta aveva una altezza di 16 metri. Il
materiale usato, mattoni di argilla cruda, era però friabile e
richiedeva,
quindi, molta manutenzione. Per ovviare al problema alcune di queste
architetture esternamente erano a gradoni, come nel caso della ghiacciaia di Za
Farine.
Accanto
alla ghiacciaia si trovava sempre un laghetto dove avveniva la raccolta del ghiaccio;
a Yazd accanto a questo (9x90 m) era stato realizzato un muro della stessa
lunghezza ed alto 9 metri come protezione dai raggi solari. Come di
consuetudine in tutto il mondo, il bacino poco profondo veniva riempito, nelle
notti di gelo, deviando il vicino corso d’acqua; il ghiaccio doveva essere
raccolto ed immagazzinato nell’imponente ghiacciaia prima dell’alba. Intorno al
1977 erano in uso ancora una trentina di queste case per il ghiaccio.
Greci e
Romani usavano neve e ghiaccio come si deduce non solo dalle suppellettili
giunte fino a noi, ma anche dalla letteratura. Infatti lo scrittore greco
Plutarco (46-127 d. C.) e il filosofo romano Seneca (4
a.C-65 d.C.) citano dei depositi sotterranei ‘dove l’inverno era perenne e si
conservavano neve e ghiaccio’.
Il
consumo era notevole, nonostante i medici greci non fossero favorevoli all’uso
di bevande ghiacciate e già Ippocrate (459-377 a.C.) avvertiva che gli sbalzi
di temperatura erano dannosi per l’organismo, cosa affermata anche dal filosofo
Aristotele (384–322 a.C.). Dalla letteratura sappiamo che Alessandro il Grande,
una volta conquistata la città di Petra in Palestina, fece scavare 30 buche che
furono poi riempite di neve e protette con dei rami. La neve veniva usata per
raffreddare le bevande, ma anche per conservare i cibi; infatti in un libro di
ricette di un certo Apicius Coelius, gastronomo durante il regno
dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.), si parla di cibi “surgelati”. Inoltre
neve e ghiaccio erano usati per la ‘frigidaria’, cioè per i bagni di acqua
fredda alle terme, e per lavarsi le mani prima di mangiare, come scrive
Petronio, nel suo Satyricon, alla corte di Nerone (54-68 d.C.). I medici romani
erano in parte d’accordo con i colleghi greci nel dire che il ghiaccio faceva
male, però Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) racconta che il famoso medico greco
Asclepiade era soprannominato ‘frigida danda’ cioè ‘colui che prescrive il
freddo’, perché ai suoi pazienti di Roma e di Pompei prescriveva di bere vino
ghiacciato.
In epoca
più tarda l’imperatore Eliogabalo (218-222 d.C.) faceva ammassare la neve
accanto alla sua residenza estiva perché l’aria intorno fosse più fresca.
Nella
letteratura troviamo addirittura considerazioni sul prezzo della neve, come in
Marziale (40-102 d.C.) e Plinio il Giovane (61-113 d.C.).
A
Marciana, nell'isola d'Elba, esiste un ipogeo a forma di croce costruito
estraendo circa 200 tonnellate di dura roccia granitica. Secondo una
funzionaria di soprintendenza tale ipogeo sarebbe una neviera costruita dagli Appiani, Principi di Piombino, e sarebbe simile
alla neviera di Masi Torello (Ferrara). Tale ipotesi secondo Lei è accettabile?
Ho avuto
la fortuna di poter visitare l’ipogeo in questione e posso affermare, senza
ombra di dubbio, che non è e non può essere stata una neviera o una ghiacciaia.
Le
ragioni sono molteplici: mancano tutte le caratteristiche necessarie al
funzionamento di una neviera, prima fra tutte la circolazione dell’aria.
Infatti scendendo dentro l’ipogeo di Marciana se ne avverte subito la mancanza,
perciò sarebbe impossibile conservarvi il ghiaccio. Inoltre la sua forma è
completamente differente da qualsiasi altra ghiacciaia conosciuta, non solo in
Italia ma, potrei dire, nel mondo. Le caratteristiche tipologiche che ho elencato
nel mio libro sulle ghiacciaie non sono assolutamente rispettate. Inoltre non
esiste un sistema di smaltimento delle acque di fusione.
La
neviera di Masi Torello, ubicata nei
possedimenti di un antico monastero, rispetta
planimetricamente la tipologia della ghiacciaia, interrata in una collina
artificiale, a sezione circolare e coperta con cupola, presentando analogie con
molte altre ghiacciaie conosciute. È, però, evidente che non ha niente
in comune con l’ipogeo di Marciana, né per forma né per geometria. Anche il
materiale è molto diverso; infatti questa è stata realizzata in mattoni, mentre
l’ipogeo elbano è stato scavato in una roccia granitica.
Nell’ipogeo
di Marciana manca del tutto la cosiddetta ‘camera del ghiaccio’ che, in genere,
si presenta a pianta circolare e con la parte interrata a sezione
tronco-conica.
Una cosa
posso dichiarare con convinzione, data l’esperienza in materia: quello di
Marciana non è né una ghiacciaia né una neviera. E lo dico a ragion veduta
poiché non
solo
conosco ed ho rilevato moltissime ghiacciaie, ma, come già detto, ho anche
visitato l’ipogeo all’Elba.
Devo
dire che non riesco proprio a spiegarmi il tipo di ragionamento della
funzionaria della Soprintendenza. Posso capire la difficoltà di chi architetto
non è e, quindi, stenta a distinguere tipologicamente una costruzione da
un’altra, ma in questo caso è palese che non esiste la benché minima
somiglianza fra i due oggetti in questione. Qualsiasi affermazione dovrebbe
basarsi sulla conoscenza diretta degli oggetti costruiti, ma soprattutto è
necessario, prima di fare riferimenti, mantenere un’onesta scientificità che
deriva proprio dalla comprensione di ciò che vediamo.
Vorrei
aggiungere soltanto una riflessione sull’ipogeo elbano, considerazione che
faccio sulla base di planimetrie viste anche in mano a colleghi archeologi con
i quali ho collaborato. Potrei dire, a prima vista, che somiglia molto di più,
almeno planimetricamente, ad una tomba etrusca.
Un’ultima
considerazione: il materiale lapideo pregiato, tanto difficile da scavare, e
così ben levigato, ne sottolinea l’importanza. In altre parole il fatto che sia
stata scavata con difficoltà, in una pietra tanto dura e con un immane lavoro,
denota la rilevanza della sua funzione religiosa o celebrativa che fosse.
"L'ipogeo di Marciana: tomba gentilizia etrusca, non priva di influssi sardi, scavata nel granito tra il VI e V secolo a.c.". Per chi volesse approfondire, rimando a questo pregevole testo del Prof. Michelangelo Zecchini dal titolo: Gli etruschi negati.
RispondiEliminahttps://www.academia.edu/31717189/M._ZECCHINI_-GLI_ETRUSCHI_NEGATI.pdf
Ad oggi le neviere più importanti sono state documentate nei comuni di Cammarata e San Giovanni Gemini, (AG). Per la prima volta abbiamo descritto le tecniche di conservazione ed estrazione del ghiaccio, come si svolgevano le gare d'appalto con il metodo della candela vergine... e altri aspetti dell'Industria della Neve. www.laviadelghiaccio.it
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