Archeologia della Sardegna.
Culto e Misteri dei Bronzetti Sardi Nuragici.
Riflessioni sul tema, di Mariano Piras
(copyright Mariano Piras, tutti i diritti sono riservati all'autore)
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Dea Madre
La divinità principale dei
Nuragici era la Dea Madre, considerata il principio femminile della Natura e
identificata con essa. Il suo corpo era la Terra sulla quale viviamo, il suo
respiro era il vento (aria), il suo sangue era l’acqua che scorre nei fiumi e
il suo spirito era la luce (fuoco). Per queste caratteristiche veniva
rappresentata con sembianze umane: una Madre il cui culto si diffuse in tutto il
mondo già nella preistoria, sorprendentemente anche tra popolazioni distanti
tra loro. Probabilmente, questa ideologia religiosa legata alla Dea Madre, fu
diffusa e tramandata da una popolazione che viaggiò per i vari continenti ma
potrebbe esserci una spiegazione alternativa: nel paleolitico superiore, quando
l’uomo viveva in perfetta simbiosi con la Natura, la Dea Madre potrebbe avere
impresso nella mente dell’uomo la consapevolezza della Sua presenza, insieme
all’istinto e alla morale.
Oggi la scienza arriva pian
piano a scoprire questioni che i nostri antenati conoscevano fin dall’alba dei
tempi. Nel glossario del suo libro “Non a Sua immagine”, John Lamb Lash (Uno
Editori, I edizione 2/2013), riferendosi alla Terra cita il termine
“autopoietico” per indicare un sistema capace di rigenerarsi e creare le
sostanze adatte alla sua sopravvivenza. Questa parola fu coniata negli anni
Settanta del secolo scorso, insieme al termine ecofemminismo, una dottrina
moderna che vede un legame tra la subordinazione delle donne e lo sfruttamento
e il degrado della natura. Un’altra recente scoperta, pur se i nostri antichi
antenati ne erano già a conoscenza, è che la Terra è un superorganismo vivente
e senziente, dotato d’intelligenza che si regola in base alle forme di vita che
lo abitano. Tutto ciò fu scritto dallo scienziato inglese James Lovelock nel
1979 in “Gaia, a new look at life on Earth”. Gli
uomini si accorsero che il susseguirsi delle stagioni era conseguenza di
fenomeni celesti. L’interazione ciclica tra i fenomeni che avvengono in cielo e
in terra dà luogo alle stagioni, e la natura offre un ciclo che va dalla
nascita, alla crescita, alla maturazione, alla morte e, infine, alla rinascita.
Il seme deve morire per dare
vita a una nuova pianta, per cui in esso c’è qualcosa di eterno che si conserva
dopo la morte. E cosa ci può essere di
eterno nell’uomo? L’anima!
L’anima, per queste culture
antichissime, si separava dal corpo dopo la morte e saliva in cielo prendendo
posto nel grande orologio cosmico che è lo zodiaco. Successivamente si
reincarnava in un nuovo corpo.
Il moto annuale del Sole
all’interno delle costellazioni dello zodiaco scandiva le stagioni, e la
costellazione in cui si trovava in Primavera, durante la civiltà nuragica, era
la costellazione del Toro.
L’anima dell’uomo morto,
affinché rinascesse in un nuovo corpo, doveva raggiungere la costellazione del
Toro, dove avveniva l’equinozio di Primavera e la natura rinasceva.
Il rito funerario, che con le
sue pratiche permetteva all’anima di separarsi dal cadavere, avveniva al
sorgere di questa costellazione, in varie ore del giorno e della notte secondo
la stagione.
L’elemento principale della
costellazione del Toro sono le corna e tutto doveva riferirsi a questo
elemento. Le tombe dei giganti, i sepolcri monumentali in cui si seppelliva in
quei tempi, hanno la forma delle corna del toro. La nave che trasportava le
anime nell’aldilà sino allo zodiaco, aveva sulla prora una protome taurina. I
guerrieri portavano l’elmo con le corna non per far paura al nemico ma perché
se fossero morti in battaglia e non avessero ricevuto il rito di sepoltura,
potevano comunque sperare che la loro anima raggiungesse la costellazione. In
altre parole, attuavano le condizioni per la reincarnazione. Queste conoscenze
risalgono a una dozzina di migliaia di anni fa quando la costellazione in cui
si trovava il Sole all’equinozio di primavera era il Leone. Queste rivelazioni
furono apprese dalle donne con intercessione della Dea Madre. In Egitto, gli uomini riuscirono
fin dal Neolitico ad apprendere queste conoscenze dalle sacerdotesse. Si andò
formando una classe di uomini che si dedicavano alla religiosità. Fecero
costruire le tre grandi piramidi e la sfinge, manifestando con esse uno sfoggio
di magnificenza e potenza. Uno dei principali scopi di questi immensi edifici
sacri, era quello di indirizzare l’anima nella costellazione del Leone,
precisamente nella stella Regolo, in prossimità della quale si trovava il Sole
all’equinozio di primavera. Mentre altrove la sfera del sacro attuata dalle
sacerdotesse riguardava tutti, in Egitto il rito funerario era riservato al
faraone, a sua moglie e al figlio. La grande piramide era per il faraone,
quella media per la moglie e la piccola per il figlio, se fosse morto prima di
diventare faraone. Il corpo veniva deposto all’interno della piramide fino alla
fuoriuscita dell’anima, agevolata dalla lettura dei passi del libro dei morti.
Dopodiché il corpo veniva portato nella tomba.
Le tre piramidi di Giza, come
disse Bouval nel suo libro “il Mistero di Orione”, sono allineate secondo le
tre stelle della Cintura di Orione. Da principio, per gli egizi, Orione era Nu,
raffigurato a mezzo busto mentre sorreggeva la barca funeraria. Ma l’Orione a
mezzo busto non si vide mai nei cieli egizi. Per vederlo così bisognava salire
sino all’alta Mesopotamia e nelle terre che si trovavano alla latitudine di
40°, ad esempio in Sardegna, a Creta, nell’Andalusia e in altre terre. C’è da
precisare che questo fenomeno avveniva intorno al 10000 a.C. Successivamente,
in Egitto, Orione-Nu diventò Orione-Osiride, con la stessa funzione di
accompagnatore dei morti all’aldilà.
Tuttavia, gli egizi non
avevano compreso bene l’antica conoscenza, o la dimenticarono nel tempo, perché
quando, successivamente, gli equinozi di primavera non avvenivano più nel Leone
ma nel Cancro, poi nei Gemelli e in seguito anche nel Toro, loro continuavano a
compiere gli stessi riti nelle piramidi.
Fu solo intorno al 1300 a.C.,
con il faraone Ramses II della XX dinastia, che si nota una novità nelle tombe
egizie. Il faraone era deluso dai risultati dei riti, e i suoi sacerdoti
cercavano, invano, di riportare alla luce l’antico sapere. Quando incontrarono
gli Shardana, i sacerdoti riferirono al faraone che quel popolo possedeva
l’antica conoscenza, avendo osservato il rituale che riservavano ai loro morti.
Gli Shardana confidarono al faraone che provenivano da un’isola che sta in
mezzo al Grande Verde, il Mare Mediterraneo. Egli pensò si trattasse di quel
popolo, citato negli antichi scritti, che trasmise la conoscenza al mondo.
Forse questo fu uno dei motivi per i quali gli Shardana furono arruolati nella
sua guardia reale: voleva farsi raccontare le loro conoscenze. Da quel momento,
in Egitto furono edificati templi e santuari particolari, alcuni dei quali somigliano
a quelli sardi, templi a megaron e pozzi sacri, proprio perché svolgevano
funzioni similari. Inoltre, nelle tombe, da quel momento in poi fu disegnata la
posizione del sole tra Toro e Ariete come si trovava in quei tempi:
all’equinozio di primavera.
In Sardegna, invece, non si
guardò a immense costruzioni, neanche nell’era del Leone. Vediamo, ad esempio,
i menhir con il simbolo della costellazione scolpito in rilievo. C’è da dire
che non era il Leone perché i sardi non lo conoscevano, infatti, le tre stelle
posteriori del Leone, ossia Kertan, Zosma e Denebola, appartenevano a un’altra
costellazione. Rappresentavano il simbolo che conosciamo: la costellazione del
Leone senza le tre stelle posteriori (foto 5-5.1). Dopo 3000 anni furono realizzati
i Dolmen, a imitazione della costellazione dei Gemelli, e dopo altri 2000 anni
le tombe di giganti a forma di testa di toro. Ritengo che nell’era del
Cancro (VII e VI millennio a.C.)furono realizzate delle Domus de janas che
imitano il guscio del granchio, dove il defunto veniva sotterrato insieme a
gusci di crostacei, bagnato e ricoperto di ocra rossa, il colore del granchio.
Queste tombe furono riutilizzate nell’era del Toro (IV millennio a.C.), per cui
risulta stravolta la datazione.
La simbologia zodiacale è più
antica di quanto si pensi e gli abitanti della Sardegna la conoscevano dalla
notte dei tempi. L’elemento caratteristico delle costellazioni, era quello che
doveva attuare la separazione dell’anima dal corpo. Nell’era dei Gemelli, segno d’aria, 6500 a.C.
– 4500 a.C., il corpo veniva lasciato a scarnificare prima di essere sepolto.
Nell’era del Toro, segno di terra, 4500 a.C. – 1200 a.C., il defunto veniva
seppellito inizialmente nelle domus de janas e poi nelle tombe dei giganti.
Nell’era dell’Ariete, Cervo per i nuragici, segno di fuoco, dopo il 1200 a.C.,
il cadavere veniva sottoposto al rogo rituale prima di essere seppellito.
Con la nascita di agricoltura
e allevamento, intorno al 12000/10.000 a.C., le popolazioni divengono
stanziali, iniziano le relazioni sociali e l’uomo attenua la sua simbiosi con
la natura. E’ come se la Grande Madre, visto che le comunità desideravano il
distacco dalla simbiosi a favore di uno sfruttamento intensivo della natura,
avesse detto che da quel momento avrebbero dovuto sottostare alle conseguenze.
Fu come un tradimento verso la Gran Madre perché la terra era ricca di beni,
dalle piante agli animali, e non c’era bisogno di produrre più di quanto
necessario per cibarsi. Le genti si distribuirono anche in zone inospitali,
manipolando l’habitat, disboscando e sfruttando intensivamente le terre. Dal
lavoro si generò il profitto e, da questo, l’avidità. Questa progressione di
eventi alimentò guerre per il possesso di nuovi territori. Con l’invenzione
della moneta, si manifestarono a cascata tutti quei fenomeni che complicano la
vita rendendola una ricerca frenetica di qualcosa che non si può ottenere e,
spesso, non si sa neanche cosa sia.
Le guerre arricchivano i
vincitori ma avevano aspetti cruenti e provocavano distruzione. Per convincere
le genti ad andare in guerra, servivano
strumenti di controllo sui popoli. Il culto della Gran Madre fu messo da parte,
e presero piede le divinità maschili, fino ad allora considerate per il ruolo
di fecondatori.
In ogni angolo della terra
nacquero religioni caratterizzate da divinità maschili che incitavano i fedeli
alla guerra, pur se subdolamente si professavano come religioni di pace.
La Sardegna, per le sue doti
di ricchezza alimentare come agricoltura, allevamento e pesca, dovute anche
all’isolamento, si mantenne lontana da questi eventi cruenti per un certo
tempo. La divinità maschile del culto della Gran Madre era Sardan: il figlio
che nasceva a primavera, cresceva, diventava lo sposo della Madre fecondandola
per poi morire e rinascere.
Nelle sue forme antiche, la
Dea Madre mediterranea era rappresentata da un corpo di donna stilizzata con le
braccia aperte, una sorta di croce somigliante alla costellazione della Croce
del Sud (foto 1-1.1-1.2). Alle nostre latitudini, nel paleolitico e nel
neolitico, questa costellazione si poteva osservare alta sull’orizzonte, per il
noto fenomeno del movimento di precessione dell’asse terrestre. Anche le
statuine più antiche della Gran Madre, quelle ritrovate nella necropoli Cuccuru
Is Arrius, nei pressi di Cabras, mostrano una donna seduta, grassa, con il
bacino largo, evidenziano un restringimento ai piedi e alla testa, e simboleggiano
la Croce del Sud. Questa costellazione è la più lontana dal Nord, origine del
vento freddo, mentre i venti caldi spirano dalle direzioni da cui si poteva
osservare la Croce dal suo sorgere al suo tramontare. Questa simbologia è
riferibile al fatto che la vita è calda mentre la morte è fredda.
L’uomo preistorico percepiva
la vita come un mistero, non riusciva a comprendere le connessioni tra il suo
corpo e la sua intelligenza, verosimilmente perché non era ancora consapevole
della sua anima. Ritengo che fu la Gran Madre a rivelarsi. Fin dal Paleolitico
superiore, insegnò alle donne l’utilizzo di piante enteogene, ossia quelle che
avevano la capacità di rivelare all’individuo che le assumeva la presenza della
Divinità all’interno della Natura. Le sacerdotesse crearono un’organizzazione
che custodiva i misteri ai quali, di volta in volta, accedevano altre donne
grazie alle conoscenze che si tramandavano e all’elaborazione di particolari
riti. Nacquero le Sacerdotesse della Dea Madre, chiamate anche sciamane. Ognuna
di esse aveva una discepola, una bambina alla quale insegnava nel tempo le sue
conoscenze. Gli uomini rispettavano questa loro facoltà, e nelle comunità
divennero consigliere e guaritrici. Lo sciamanesimo è la comunione con la
natura. Non sorprende che l’accesso alla sua conoscenza è aiutato
dall’assunzione di specifiche piante, infatti è la Gran Madre che genera il
mondo vegetale e con esso fornisce la possibilità, a chi predisposto, di
comunicare con Lei.
In Sardegna, l’antica
conoscenza proseguì per millenni in mano a sacerdotesse che riuscirono a
preservarla e tramandarla, anche grazie all’isolamento. Queste donne
conoscevano i meccanismi della natura e avevano la facoltà di agire sui
fenomeni naturali. Per queste caratteristiche erano rispettate e temute.
Ritengo che gli uomini avessero altri interessi e non si occupavano di questi
fenomeni. Ancora oggi, in vari paesi della Sardegna, i sindaci sono giovani donne
e gli uomini le lasciano lavorare senza creare problemi.
Immagino che un giorno, una
sciamana che aveva fatto buon uso delle sue piante, osservando la Croce del
Sud, ossia la Gran Madre, vide che sopra vi era una costellazione che
raffigurava una donna nell’atto di mostrarle qualcosa. Era come se questa
costellazione procedesse dallo sviluppo della Croce del Sud, verso l’alto. Si
trattava della costellazione della Vergine (foto 2.1-2.2). Noi diciamo che la
costellazione mostra una vergine che tiene in mano una spiga di grano, ma
osservandola non si vede niente del genere. Invertendo la direzione
d’osservazione di 90°, ossia guardandola da Nord verso Sud (al suo passaggio al
meridiano) e comprendendo anche parte della nostra costellazione del Centauro,
e più a Sud la Croce del Sud, si vede l’immagine del bronzetto sardo ritrovato
a Vulci, un’antica città etrusca (Foto 2)
Questa piccola scultura di
bronzo, è conservata nel museo di civiltà etrusca Villa Giulia, a Roma, e viene
definita sacerdote-pugilatore. Sacerdote per il cappello a punta e l’abito che
termina dietro con una coda a punta. Pugilatore perché sotto la mano destra che
saluta si nota qualcosa che somiglia a un guantone. Il gonnellino a punta, che
rappresentava la Croce del Sud, quindi la Dea Madre, era la parte posteriore
del vestito delle sacerdotesse e in seguito dei sacerdoti, come nella
costellazione, perché loro ne erano la manifestazione.
Cosa rappresenta quel
bronzetto lo rivela la costellazione stessa a cui fa riferimento. Tra le
stelle, si nota chiaramente una mano destra lanciare in una scodella delle
piccole stelle che le sciamane interpretarono come chicchi di grano. La stella
Menkent, che per noi appartiene alla costellazione del Centauro, è il bordo
destro della scodella. Nella mano sinistra ha un lungo telo avvolto e tenuto
per un lembo sotto il braccio sinistro. La parte alta di questo telo è
costituita dalle tre stelle sopra citate a proposito del Leone, ossia Zosma,
Kertan e Denebola. Questa costellazione, era la rivelazione della Gran Madre
nell’atto di insegnare i misteri alle sciamane. Quando la rivelazione fu
completamente interpretata nacque l’insegnamento organizzato dei misteri.
Le sciamane adottavano una
bambina fin dalla tenera età. Per la scelta osservavano due caratteristiche
particolari: l’iride degli occhi, e le posizioni degli astri al momento della
nascita. La bambina per tutta la vita
viveva come una persona normale, come se la sciamana fosse sua madre. Le
insegnava la conoscenza, con la raccomandazione di non trasmetterla ad altri.
Poi, alla fine dell’adolescenza, veniva sottoposta a quattro prove: della
Terra, dell’Aria, dell’Acqua e del Fuoco. Gli insegnamenti ricevuti avevano lo
scopo di rivelare la presenza della propria anima alla bambina, inizialmente inconsapevole
di ciò. Le prove avevano lo scopo di far morire l’Ego e dare vita a un nuovo
essere che fisicamente non era cambiato, se non nel portamento. La vera
metamorfosi avveniva a livello psichico-spirituale. Le ultime due prove avevano
luogo nei celebri pozzi sacri presenti in Sardegna. Non tutti questi luoghi
erano adatti al rituale. Uno di essi è il pozzo di Santa Cristina, nel comune
di Paulilatino. Questo edificio rappresenta la Gran Madre, e ha la forma del
simbolo di Tanìt.
Nella Gran Madre si nasce, si muore e si rinasce. Il simbolo di Tanìt, aspetto
della Gran Madre che riguarda la morte e la reincarnazione, simboleggia il
principio e la fine delle cose, ciò che per altri popoli erano l’Alfa e
l’Omega.
Chi conosce i riti di
iniziazione nota subito che il pozzo di Santa Cristina è un santuario dove
avvenivano la prova dell’acqua e quella del fuoco. La candidata, la bambina, la
pupilla della Sacerdotessa, veniva fatta entrare nel pozzo bendata e vestita
con una bianca tunica di lino. Il pozzo veniva oscurato e lei poteva togliersi
le bende. Seguendo le istruzioni impartite, scendeva rapidamente la scalinata
senza temere le conseguenze, altrimenti la prova non sarebbe riuscita.
Naturalmente la bambina non doveva conoscere la struttura del pozzo e, come
lei, nessun altro doveva conoscere il pozzo, quindi questi luoghi erano
accessibili solo alle sacerdotesse in carica. Una volta caduta in acqua,
nell’oscurità completa, travolta dal panico e a un passo dalla morte, con il
fiato in gola, cercava la salvezza. Quando trovava la scalinata, dopo aver sentito
con le mani solo pareti diritte che le facevano temere di essere finita in una
trappola mortale, la bambina riusciva a orientarsi nell’oscurità, e risaliva la
scalinata fermandosi ai primi gradini per prendere respiro. Aveva sfiorato il
mondo dell’aldilà. Lì, nel buio, dove i suoi occhi non potevano catturare
alcuna luce, sentiva la superficie dell’acqua calmarsi, e allo stesso modo
qualcosa si calmava in lei: stava comunicando con la profondità della Terra. A
un passo dalla morte sentiva crescere la consapevolezza della futilità delle
cose mondane, percepiva un cambiamento e le si rivelava lo scopo degli
insegnamenti ricevuti. Tutta la sua vita era stata organizzata per preparare
quel momento, e lei lo comprendeva in tutta la sua profondità. Nel buio si
accorgeva di poter vedere perché era diventata chiaroveggente: le si era
manifestata la presenza della sua anima.
La chiaroveggenza, a volte
confusa con il potere di prevedere il futuro, è la facoltà di essere
consapevoli della propria anima. Non è sufficiente dire: ”Si, io so di avere
un’anima”; il chiaroveggente la percepisce e ne usa il potenziale come usa i
suoi occhi, le sue mani e tutto il resto.
Arrivata a questo livello,
dall’esterno al pozzo sollevavano il tappo della cupola e un fascio di luce
solare penetrava nell’oscurità illuminando il pozzo. Ciò che vedeva era
sorprendente perché la superficie dell’acqua era, allo stesso tempo, il riflesso
della cupola. Inoltre, anche la scalinata aveva il suo riflesso. C’era un
momento in cui la bambina non distingueva l’alto dal basso, e questa era la
rivelazione. Il fuoco l’aveva illuminata: ciò che è in basso è come ciò che è
in alto, ciò che è in cielo è come ciò che è in terra. Questo concetto non è
semplice come sembra, e chi non è iniziato non percepisce l’essenza che va
oltre la comprensione dei fenomeni.
Dall’esterno del pozzo, la
sacerdotessa, nelle vesti della Gran Madre, la chiamava a nuova vita. Si
eliminava la copertura dell’entrata e le parole che la sacerdotessa pronunciava
dovevano essere formulate secondo precisi rituali. Forse erano: “Io sono il
principio e la fine, risorgi dalle acque e vieni a noi”, ossia alle altre
sacerdotesse sedute intorno al pozzo.
E’ curioso il fatto che in
lingua sarda per dire “vieni qui” si dice, “beni innoi”. Questa affermazione è
ancestrale, usata sin dalla notte dei tempi, prima ancora che da qualsiasi
altra parte. Uscita dal pozzo, trovava davanti a sé la sacerdotessa che con il
braccio destro alzato la salutava mentre lasciava cadere dei chicchi di grano
all’interno della scodella legata al suo polso. Poi, la sacerdotessa mostrava
il grano germogliato all’interno della scodella e quando vedeva che la
candidata iniziava a comprendere, lasciava cadere il telo tenuto avvolto al suo
braccio sinistro rivelando le lunghe spighe di grano maturo. Quella era la
rivelazione dei misteri della vita, un rito che funzionava per chi era già
stato, come lei, iniziato alla comprensione dei misteri.
E’ chiaro che nel bronzetto
non c’è rappresentato il grano nella scodella, e nemmeno all’interno del telo
avvolto, perché il bronzetto era conservato nell’abitazione della sacerdotessa
e la bambina candidata alla comprensione dei misteri poteva vederlo. Non doveva
sapere cosa era fino a quando le sarebbe stato rivelato alla fine delle prove
come descritto.
Da quel momento, se tutto era
andato come doveva, era nato un nuovo essere, con lo stesso aspetto fisico di
prima ma diverso spiritualmente. Le si manifestava davanti la vita con tutti i
suoi misteri, e ne comprendeva l’essenza e la meccanica perché possedeva il
potenziale della propria anima. La metamorfosi subita a livello
psichico-spirituale la rendeva incapace di provare interesse verso per le cose
mondane, compreso il sesso, e da ciò si capisce il motivo della verginità delle
sacerdotesse. Proprio per questo la costellazione della Vergine fu chiamata
così, pur se solo pochi sapevano di preciso
dove era collocata nel cielo. Queste donne iniziavano a vivere per servire la
comunità.
Il primo recinto di pietra,
quello che contorna il pozzo, rappresenta l’inizio del cammino del nuovo
essere, mentre il recinto esterno è l’uovo cosmico dal quale l’essere usciva a
nuova vita.
Questo rituale ricorda i
Misteri Eleusini celebrati in Grecia, posteriori di molti secoli. Il bronzetto
di Vulci è del IX secolo a.C., ma il rituale in Sardegna è molto più antico
perché in quella data la costellazione della Croce del Sud si trovava troppo
bassa sull’orizzonte per essere valutata come rappresentazione della Dea Madre. Inoltre, ai misteri Eleusini poteva partecipare
chiunque lo avesse richiesto. Era una scuola che educava l’individuo per
aumentarne la morale e avere meno paura della morte, niente a che fare con
l’antico rito iniziatico sardo.
Capotribù
Prendendo in esame il bronzetto
del Capo Tribù ritrovato a Uta, in provincia di Cagliari, la forma è
rappresentata dalla nostra costellazione dell’Aquila. (foto 3.1-3.2). Il bronzetto di Uta (Foto 3) ha il viso
stilizzato e tiene con la mano destra una spada poggiata sulla spalla, mentre
con la mano sinistra tiene il bastone inclinato verso i suoi piedi, come
rappresentato dalla costellazione.
Egli è la rappresentazione della divinità,
mentre gli altri bronzetti di Capo Tribù hanno i lineamenti del viso più umani.
Con la mano destra salutano e con la sinistra tengono il bastone diritto. La
loro postura è sempre quella indicata dalla costellazione. Questi ultimi erano
la rappresentazione di familiari defunti, Capi Tribù e pastori.
I bronzetti possono essere
divisi in categorie:
1) Divinità, quando hanno
l’esatta postura della costellazione cui fanno riferimento e non salutano.
2) Persone, quando sono i
familiari morti rappresentati durante lo svolgimento del loro mestiere. Hanno
la postura della divinità ma non salutano la divinità stessa ma i familiari
vivi che li guardano ai quali augurano ogni bene offrendo cibo ricavato dal
loro lavoro.
3) Animali. Sono quelli che
appartengono alle costellazioni e ne riproducono la postura. Alcuni
appartengono alla parte di cielo soggetta al ciclo di alba/tramonto e sono
animali buoni; altri, appartengono al mondo degli inferi senza possibilità di
ritorno perché la costellazione che li rappresenta non tramontava mai, essendo
situata oltre i 50° Nord della volta celeste della Sardegna di quel tempo.
Guerriero Quattro occhi e Quattro braccia
Uno fra i bronzetti che ha
incuriosito maggiormente gli studiosi è il guerriero con quattro occhi e
quattro braccia, forse perché è diverso dagli altri. Ha un viso mostruoso, due
lunghe corna che terminano con cappucci sulle punte e le punte stesse sono
ravvicinate sino a toccarsi.
Questa figura è rappresentata
in cielo dalla combinazione di tre costellazioni: il corpo è la costellazione
del Boote, lo scudo destro è la costellazione della Corona Boreale e le due
lunghe corna sono parte della nostra costellazione del Dragone. (foto
4-4.1-4.2).
Queste tre costellazioni,
all’inizio della civiltà nuragica facevano parte di un’unica costellazione che
non tramontava completamente, essendo situata nel cielo del Nord, ossia quella
parte di cielo che va dall’orizzonte in direzione Nord, sino al polo Nord
celeste, il quale è una parte di cielo che non tramonta mai, né di giorno né di
notte né in nessuna stagione.
Già queste caratteristiche
fanno intuire che il personaggio appartiene al mondo degli inferi, un luogo dal
quale non si può ritornare poiché si trova nella regione del cielo non soggetta
al ciclo del sorgere, tramontare e risorgere.
Ora prendiamo in
considerazione la navicella con tre scimmie conservata al Bible Lands Museum di
Gerusalemme. A differenza delle altre navicelle, questa procede con la poppa
trasformata in prora come si nota facilmente osservando la protome taurina che,
contrariamente a tutte le altre navicelle, si trova dalla parte opposta
dell’avanzamento dello scafo. Inoltre, le corna sono incappucciate.
A bordo
dell’imbarcazione si trovano tre macachi senza la coda. Uno di questi è grande
ed è posto al centro dello scafo. Guarda alla sua destra e nella mano sinistra
tiene un oggetto a forma di boomerang parandosi con esso le terga. Le altre due
scimmie sono sedute sui due bordi della nave, e hanno la mano sulla fronte come
se guardassero qualcosa d’imprecisato all’interno della navicella. Uno di essi,
ha il dito indice puntato verso qualcuno che non si vede all’interno della
navicella. Sembra dire: “Fermo lì”. Vi è anche un cinghiale che morde la coda a
una volpe. Una delle due scimmie piccole tiene la volpe per un orecchio in modo
da non farsi mordere. Poi, ancora, c’è un topo che percorre il bordo della
nave.
La scimmia centrale è
l’esatta riproduzione della nostra Orsa Maggiore (foto 6-6.1-6.2), compresa la
navicella con le corna rappresentate dalle due stelle Alula Australis e Alula
Borealis, e l’oggetto con il quale si copre le terga si trova proprio nella
parte finale della nostra costellazione, in pratica ne è la coda. Anche questa
costellazione non tramontava durante la civiltà nuragica, quindi che cosa era?
Come ho già scritto, il culto
della Gran Madre prevedeva la reincarnazione dell’anima, come avviene per ogni
cosa che appartiene al ciclo naturale. Per reincarnarsi, l’anima, doveva
raggiungere la costellazione del Toro che era quella in cui avveniva
l’equinozio di primavera e la rinascita della natura, (Come è in Cielo, così è
in Terra).Veniva trasportata da una navicella con protome taurina con le corna
non incappucciate.
Il rito funebre doveva aver
luogo durante il sorgere di questa costellazione. Se nel momento in cui la
costellazione sorgeva a Est, giravamo lo sguardo a Nord, vedevamo la navicella
della grande scimmia (Orsa Maggiore) posarsi sulla terra con movimento da Ovest
verso Est trovandosi in quel momento oltre il polo Nord celeste.
La grande
scimmia, con lo sguardo rivolto alla sua destra, guardava l’anima del defunto
in risalita. Se si trattava di un’anima buona la lasciava andare. Se era
malvagia, invece, la bloccava lanciando un segnale alla piccola scimmia
(costellazione delle Pleiadi, foto 7) posta di guardia davanti alla
costellazione del Toro. La piccola scimmia infilava due cappucci alle corna
della navicella che trasportava l’anima rendendole impossibile raggiungere il
Toro, e la barca veniva deviata verso il Nord, il regno dei morti senza
ritorno.
L’artista che ha fuso la navicella con le tre scimmie ha rappresentato
il viaggio dell’anima verso il mondo degli inferi senza ritorno, imbarcando su
essa le tre scimmie (Orsa Maggiore, Orsa Minore, Pleiadi.) anche se non era
quella la loro posizione nel cielo.
Ritornando al Guerriero con
quattro occhi, egli era inizialmente un giovane guerriero risalito nel cielo
del Nord per catturare la Grande Scimmia portando con sé uno scudo e una mazza
a forma di boomerang. Tenendo la Grande scimmia per la coda, come si può vedere
osservando il cielo, gliela strappò e la Piccola Scimmia sopra di lui gli
infilò due cappucci nelle corna dell’elmo, condannandolo al regno dei morti
senza ritorno (foto 8-8.1). I bronzetti 89-96-97 e 104, della classificazione
dell’archeologo sardo Giovanni Lilliu nel suo “Sculture della Sardegna
Nuragica”, rappresentano la metamorfosi subita da questo guerriero sino allo
sdoppiamento del suo corpo per farlo diventare un demone con quattrocchi e
quattro braccia. Rappresentava il Demonio dei nuragici e abitava il Nord
(l’inferno nuragico).
Veniva rappresentato con due scudi,
e le code delle scimmie strappate sono posate sulle spalle e usate come fruste per ricattare e dominare
le creature di quel mondo. Battendo i suoi due scudi provocava i tuoni e con i
suoi quattro occhi lanciava le saette. Data la paura che i nuragici avevano di
quell’Essere, lo rappresentavano con le corna incappucciate e cortocircuitate,
infatti le due estremità, cioè le punte, si toccavano, diversamente da ciò che
vediamo nella costellazione dove le corna sono diritte. Ovviamente i nuragici
non conoscevano la corrente elettrica ma il cortocircuito di un’energia è
intuitivo.
Altra curiosità è che il Polo
Nord celeste in quei tempi era situato tra l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore,
cioè tra le due scimmie. Nel Sulcis scimmia si dice moninca, ed è curioso come
il nome del vento che proviene da nord, la tramontana, somigli a tramonincana
(tra le scimmie). Il vento freddo che viene dal Nord, dal regno dei morti, è un
vento gelido, e nel tempo il termine tramonincana è diventato tramontana,
indicando il vento che è freddo perché proviene dai monti. Ciò non è realistico
perché la tramontana è fredda anche quando proviene dalle pianure o dal mare. Tutto
ciò suggerisce che forse la lingua sarda non deriva dal latino, ma era già
parlata prima della romanizzazione operata dai romani. Una considerazione che
vorrei fare sulla Sardegna vista come granaio di Roma è che i nuragici praticavano
scambi commerciali con i romani traendo profitto dallo scambio perché se così
non fosse stato l’avrebbero dato agli animali o bruciato prima di consegnarlo.
A Mogoro è stato trovato un
bronzetto che riproduce un bottone, sulla cui sommità, secondo alcuni studiosi,
compare un cacciatore che infilza un cervide con una lancia. Il cervide è
azzannato alla gola dal cane del cacciatore. In realtà, penso che ciò che il
bronzetto rappresenta in realtà un giovane guerriero che diviene il demonio
nell’atto di strappare la coda alla scimmia. Prima di tutto infilare una lancia
dietro un’animale, anche se è mortale, non è etico per nessun cacciatore di
nessun tempo, inoltre la posizione del cervo è quella della scimmia con lo
sguardo rivolto a destra. Il cane è la volpe, traditrice come tutte le creature
che abitano il Nord. Il cacciatore è sbilanciato, si vede che sta tirando e non
infilzando. Il bronzetto è molto rovinato ed è stato restaurato facendo
risultare una lancia quella che, invece, era verosimilmente la coda della
scimmia. Le orecchie della scimmia sono state ripulite facendole sembrare le
corna di un cervo o di un muflone.
I due Lottatori e gli Oranti
Altri bronzetti che incarnano
le divinità del cielo sono i due Lottatori e gli Oranti. Si tratta del mito dei
Gemelli. Entrambi sono la rappresentazione della costellazione dei Gemelli,
(foto 9-9.1-9.2-9.3-9.4). In questa costellazione, osservando da una precisa
angolazione, si vedono due fratelli che lottano o che si abbracciano.
Non
avendo, i nuragici, sviluppato un sistema di scrittura autoctono, hanno
lasciato una tradizione orale. Per capirne il significato, come per il Boote,
occorre confrontare le leggende di altri popoli come sumeri, greci, egizi,
romani e altri. I personaggi sono due affiatati fratelli Gemelli che un giorno
litigano per una donna e lottano. Sfortunatamente uno di loro batte la testa e
muore. Il fratello rimasto vivo è sconcertato e pentito di quanto accaduto.
Nella sua disperazione, per evocare il ricordo e rivedere il fratello, si
specchia nell’acqua. Nel nostro caso, le due piccole sculture di bronzo sono
due oranti che risultano essere uno il riflesso dell’altro. Affranto dal
dolore, il fratello ancora in vita si affida alle divinità chiedendo di morire
per espiare la sua colpa. In quel frangente entra in scena una divinità che lo
accontenta e, un istante dopo essere spirato, viene trasformato in
costellazione insieme al fratello.
Da allora, nella costellazione dei Gemelli
si vedono due fratelli che si abbracciano, o che lottano, simbolo degli
opposti. Gli opposti sono elementi uguali nell’essenza ma con diversa polarità,
Giorno e Notte, Inverno ed Estate, Cielo e Terra, Sole e Luna, maschio e
femmina, bene e male, ecc. Questa costellazione, durante l’equinozio di
primavera dal 6000 a.C. al 4000 a.C., portava il Sole e ispirò la costruzione
delle tombe a Dolmen che sono la sua rappresentazione simbolica.
La Madre dell’ucciso
Una linea di sculture di
bronzo interessanti per il nostro discorso è quello che raffigura le madri con
i figli in braccio. Il bronzetto che rappresenta la divinità è quello in cui la
madre ha il braccio destro rotto, la testa molto grande e gli occhi squadrati.
Sono la Gran Madre con il figlio Sardan in braccio. Il viso di Sardan è uguale
al viso che si trova raffigurato nella moneta coniata dai romani, precisamente
da Azio Balbo, e dedicata al Sardus Pater, come lo chiamavano i romani.
Il bronzetto della divinità
prende la sua configurazione dalla nostra costellazione di Cassiopea (foto
10-10.1-10.2) che in età nuragica si trovava vicina alla parte di cielo che non
tramontava mai, il Nord, tuttavia essa tramontava e quindi non apparteneva a quella
zona. Era la Gran Madre che alla fine dell’estate portava suo figlio, che era
anche il suo sposo e il principio maschile della vita, nel regno degli inferi.
Sardan, nel momento della sua morte non raggiungeva lo Zodiaco, ma andava nel
regno degli inferi alla fine dell’estate, e la Terra piombava sempre più nel
freddo. Fino a quando il suo principio maschile rimaneva in quella zona, la
Terra continuava a precipitare nel freddo.
Anche dopo il solstizio d’inverno,
quando il Sole ritornava ad apparire sempre più in alto nell’orizzonte
meridionale, la Terra continuava a precipitare sempre più nel freddo gelido
dell’inverno, sino a che Sardan non rinasceva e ritornava la primavera.
Anche dopo il solstizio di
inverno, momento in cui le giornate ritornano ad allungarsi, la terra continua
a sprofondare nella morsa del freddo, e lo fa fino al momento in cui Sardan
risorge, e cioè a inizio primavera. In questa tipologia di bronzetti, il
bambino seduto in braccio alla madre non sembra un bambino morto, come invece ritiene
Lilliu, infatti la rappresentazione è quella del personaggio quando era in
vita, come per tutti gli altri bronzetti: rappresentano personaggi defunti
quando erano ancora in vita.
Considerazioni finali
Da quanto detto e mostrato si
conclude che i bronzetti sardi fanno parte di un culto che comprende divinità e
defunti, fondamentale della vita dei nuragici. Le rappresentazioni dei
personaggi sono ispirate alle persone vere, compresi i costumi indossati.
Una cosa che si nota è che
nei bronzetti non vi è nessun riferimento alle stelle o alla costellazione che
rappresentano. L’unico caso è quello dell’elsa delle spade infilate nello scudo
del demone. E’ fatta a X nel punto in cui vi è una stella, tuttavia è difficile
notarlo. Quindi, la volontà di chi ha progettato i bronzetti era quella di non
far sapere di preciso cosa rappresentava la loro postura: le sacerdotesse
tenevano occultato il loro sapere.
I bronzetti dei familiari
morti, insieme con alcuni appartenenti a divinità sentite dalla famiglia, venivano
custoditi nell’abitazione, su una mensola in legno o pietra. Sopra di essi si
appendeva una navicella riempita di cera dove venivano inseriti tanti stoppini
a seconda delle anime da ricordare. Dopo un anno dalla morte del familiare si
poteva richiedere il rito di auspicio alla rinascita del defunto. Questo rito
veniva celebrato nei pozzi dalle sacerdotesse, e comprendeva l’impiombatura dei
piedi, da noi vista come un sigillo o la stipula di un accordo. Ciò ha indotto
i ricercatori a ipotizzare che nei pozzi si stipulavano accordi di scambio.
Il potere e
l’indispensabilità raggiunti dalle sacerdotesse grazie a questi riti era
grande, ma esse non agirono mai per solo interesse personale ma per il bene
della comunità. A volte, durante i rituali veniva rappresentato l’intero cielo,
comprese le creature demoniache che, anche se temute, facevano comunque parte
di un aspetto della natura. Infliggevano la giusta punizione a chi l’aveva
meritata. I bronzetti rimanevano nei pozzi
con i piedi impiombati per un certo tempo, poi venivano riutilizzati per altri
familiari, la cosa importante era che dovevano rappresentare un defunto che
aveva lo stesso ruolo nella vita di tutti i giorni. Ad esempio, un pastore non
poteva essere rappresentato da un fornaio. Il culto delle figure rappresentate
dai bronzetti non inizia con la loro fabbricazione con il bronzo, probabilmente
ne esistevano già di legno.
Nota: Per le tombe e i monumenti egizi vedere il libro “Stargate Il cielo degli egizi” di Massimo Barbetta, Uno Editori, I edizione 9/2015. Per i riti iniziatici in Egitto vedere il libro “Iniziati e riti iniziatici nell’antico Egitto” di Max Guilmot, Edizioni Mediterranee 1999.
Ricevo in redazione e pubblico.
RispondiEliminaCiao Pierluigi, ho letto l'articolo e ho trovato degli spunti interessanti. Se Piras conoscesse l'antroposofia, molte cose per lui sarebbero più chiare. Vediamo alcuni punti:
Parla del percorso delle anime dopo la morte, che Steiner spiega benissimo, mentre lui li mutua da Papiri dell'Egitto, però non riesce ad avere una visione chiarissima. È notevole però che agganci la conoscenza della reincarnazione all'antica civiltà sarda, che io ipotizzo essere più d'una. E questo è un elemento di valore indiscutibile.
Ciò che va aggiunto è il fatto che, perlomeno fino a una certa data, gli uomini erano in grado di vedere i defunti e gli Dei con la chiaroveggenza atavica, e, quindi, di seguire la vita dei trapassati senza particolari difficoltà(ciò è spiegato nel libro "Scienza occulta"
Ciò in epoca egizio caldaica si stava spegnendo e sorgeva l'esigenza di performare potenti rituali magici per assicurare al ka e al ba del Faraone e di altri il percorso di rientro alle Divine Sedi (il Faraone e i Governanti erano considerati di rango divino.
Un'altro spunto importante è che abbia fatto risalire questa civiltà ad un'epoca antichissima che Steiner chiama atlantidea. Anche secondo me le nostre civiltà sono così risalenti e per me - è una mia opinione personale - anche di più.
La teoria di Bauval, che ritengo in parte accettabile per il solo Egitto, dove tutto il Cielo era rappresentato, non solo la cintura di Orione, solo che le altre parti monumentali sono ancora sottoterra o sono state distrutte. Anche se, va detto, quel popolo incentrava molto del suo culto su Sirio, perchè la sua levata eliaca, se da noi portava la canicola ( infatti, si congiunge al Sole nella Costellazione del Cane Minore), lì segnava le piene del Nilo con tutto ciò che questo significava.
Il suo esame delle Costellazioni andrebbe visto secondo la precessione degli equinozi e del cielo di quel periodo qui in Sardegna. Io non ho però le conoscenze necessarie.
Ciò che in Sardegna non è stato fatto è quello che ha fatto proprio Bauval, misurare la precessione in base a certe rappresentazioni monumentali: questo autore parla del 10.500 a.C. solo in merito alla Sfinge, le Piramidi sono un po successive per cui alcuni calcoli andrebbero rivisti.
I riferimenti sardi nella cosmizzazione sono alle Pleiadi e all'Orsa Maggiore, ma nessuno ancora ha datato e scoperto quale Stella Polare si puntava (cambia con la precessione).
Era fondato e diffuso il culto della Dea Madre con i suoi Misteri. In tutta l'area Mediterranea ed europea, ma non solo, anche in Oriente. Tuttavia quel culto era uno dei culti, legati alla Natura e alla Vegetazione. Non vi erano solo sacerdotesse.
Tuttavia questo culto andò scomparendo con la cultura atlantica che segue a quella atlantidea( ora siamo nella quinta epoca post atlantica sempre secondo la scienza occulta)...segue
...segue...In merito al Pozzo di Santa Cristina c'è un prezioso lavoro di Lebeouf che sto leggendo che ne chiarisce il significato del tutto lunare (gli alchimisti del Medioevo e del Rinascimento parlavano della Coda di Melusina per indicare il ciclo lunare al quale agganciavano il compimenti di talune operazioni. Ma di questi cicli ne parla anche Steiner nel ciclo "Domande umane e risposte cosmiche".
RispondiEliminaAltri spunti sono legati allo sviluppo delle parti costitutive dell'uomo che nelle varie epoche si trova ad elaborare, ma mi dilungherei troppo...
Possiamo inoltre parlare della Sardegna che in quell'epoca era unita alla Saturnia Tellus, una terra che copriva tutto il Mar Tirreno, che progressivamente si è sfaldata, e gli ultimi inabissamenti sembrano esserci stati dopo Ramses. Quella terra era molto verde, ricca d'acqua, di risorse, di animali. Come del resto l'Egitto e il Sahara fino al 5000 a.C..
Insomma io penso che anche tutto ciò che fa riferimento al toro, risale ad un'epoca di molto molto precedente, a una civiltà che è scomparsa con l'inabissarsi delle terre e che poi è tornata a galla e riutilizzata dai nuovi abitatori.
Ancora: secondo Steiner l'iniziazione più evoluta sull'Atlantide non era quella dei Misteri della Grande Madre. Esisteva un oracolo solare che doveva portare l'anima dell'uomo verso un pensiero individuale, staccandolo dal grembo delle gerarchie.
Allora, abbiamo Giganti e poi altri.
I Giganti erano un'umanità che nel terzo periodo post atlantico è definitivamente scomparso. Erano chiaroveggenti. Tutti i miti del terzo millennio a. C. e altri successivi, anche quelli biblici e greci, ci raccontano come l'uomo nuovo avesse accecato i giganti, e evolutivamente superato la visione del ciclope, cioè la chiaroveggenza atavica. Erano uomini atlantici, il cui sviluppo corporeo era legato ad altre condizioni climatiche e di pressione atmosferica presenti sulla terra. Anche gli alberi erano più alti Questi sono il sostrato più antico secondo me. Dell'epoca precessionale del toro, ma atlantidea, non post atlantica. E avevano città intere in Sardegna. I loro scheletri si rinvengono e sono numerosissimi. Questa è un'umanità che si stava assemblando secondo la nuova forma.
I nuragici vennero un po dopo, uomini già "nuovi", pronti al passaggio alla nuova epoca, ma ancora in grembo alle gerarchia come si vede dalla loro architettura.
Insomma tutto fa pensare che ciò che noi studiamo, sia una sovrapposizione delle vere civiltà prenuragiche, e anche gli shardana, popoli del mare, avevano già perso i legami con le antiche tradizioni.
Mi scuso se queste considerazioni non sono ordinate, è quello che mi è venuto in mente leggendo l'articolo, che come ho detto, ritengo prezioso perché si avvicina alle mie conoscenze.
Pierluigi, scusa, ma la coppia di figure (gemelli?) in bronzo di Fig. 9 da dove viene? E a quando risalirebbe?
RispondiEliminaSo che sono bronzetti diversi, ma se dovessi costruire la sequenza "sportiva", io metterei le figurine in quest'ordine: 9.2 (lo studio della presa) - 9 (l'applicazione della presa) - 9.1 (la proiezione e forse fine della lotta).
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