Storia e archeologia del cuoco. Evoluzione storica e culturale di un
mestiere straordinario.
di Aldo
Lissignori
E' difficile parlare di un
mestiere che è consolidato nella storia e cultura dell'Italia e dell'Europa ed
è profondamente mutato nel corso dei secoli. Parlando di tutto ciò, bisogna
affermare che le informazioni sulla vita e il lavoro dei cuochi ci sono fornite
non da testi autografi, che sono molto rari, ma dai documenti che parlano dei
banchetti tenutisi in case nobiliari e palazzi e, cosa che può apparire strana,
dai conti e dalle annotazioni contabili di questi luoghi. Certo è che ricettari
e testi simili sono testimonianze molto importanti in questa analisi perché
permettono di ricostruire in modo indiretto la vita professionale dei cuochi
nei secoli, un esempio di ciò può esserci fornito dalle informazioni che gli
studiosi sono riusciti ad avere su Bartolomeo Scappi ( Dumenza 1500 - Roma
13 aprile 1577), cuoco prima alla corte di vari cardinali e successivamente del
Pontefice Pio IV e poi Pio V. Sebbene attraverso queste analisi vengano fornite
informazioni molto importanti sulla vita professionale dei cuochi, dal punto di
vista biografico non traspaiono notizie. Certo è che in passato i cuochi
potevano essere figure professionali importanti e molto influenti,
che potevano entrare a
pieno nel panorama socio-culturale dell'epoca; un
esempio su tutti è Cristoforo di Messisbugo (Ferrara, prima metà del XVI
secolo). Bisogna tuttavia riconoscere che se da un lato la vita professionale
di un cuoco possa essere interessante ed avvincente se ricostruita attraverso
conti, documenti di banchetti e ricettari, diventa una ricerca sterile sotto
altri aspetti, questo perché non si possono consultare e avere come ulteriore
elemento di analisi commenti ed annotazioni del diretto interessato in merito
alle vicende lavorative, sulla sua persona e sul suo modo di pensare.
Va poi aggiunto che il
ricettario non è uno strumento efficace per definire le dinamiche lavorative di
un cuoco e la sua figura (compresi i caratteri personali, si intende), questo
perché era fondamentalmente il frutto di un lavoro collettivo a cui partecipavano
quindi più figure professionali nel corso del tempo, ed era quindi la
sommatoria di più competenze. A fianco a ciò sono presenti anche le dovute
eccezioni, come la biografia di Antonio Latini (Fabriano 1642 - Napoli 1696),
cuoco italiano. Come già affermato, il ricettario può essere considerato quindi
la sommatoria di più esperienze, differenti non solo in termini di soggetti e
del loro "vissuto lavorativo", ma anche delle loro differenze dal
punto di vista temporale, poiché tali raccolte potevano durare anche molto
tempo e quindi essere redatte da più cuochi.
Tutto ciò si realizzava, dal punto di vista professionale, nella brigata di cucina, ovvero un'organizzazione non solo sotto l'aspetto della suddivisione delle mansioni, ma soprattutto su scala gerarchica, degli individui che lavoravano in cucina. Ognuno, infatti, aveva mansioni ben precise e contribuiva attraverso l'adempimento del lavoro a lui affidato al funzionamento della cucina di corte o palazzo. Di certo, sotto questo aspetto, le continue preoccupazioni dei cuochi (soprattutto ai vertici) sulla buona riuscita dei piatti, banchetti ed eventi, contribuivano a forgiare un carattere duro, rigoroso ma anche burbero ed alimentare le credenze riguardo le loro abitudini, come quella del bere, documentate da numerosi documenti. La paura circa la buona riuscita delle preparazioni, se esse erano gradite ai palati raffinati dei nobili invitati e dei proprietari, ma anche possibili avvelenamenti o sintomatologie dovute alle scarse conoscenze delle norme igieniche e di conservazione delle derrate alimentari, erano certamente una continua fonte di ansia e di preoccupazione. La divisa da cuoco ha sempre fatto parte delle norme che regolavano il lavoro in cucina. Del resto non solo i cuochi, ma tutti coloro che lavoravano nel settore alimentare all'interno di palazzi e corti erano tenuti ad indossare divise differenti in funzione al lavoro svolto; solo i lavapiatti non erano soggetti a queste norme. Tutto ciò non impediva (anzi, incentivava enormemente) l'adozione da parte delle differenti figure di "simboli ed insegne" che avevano la funzione di indicarne le mansioni e sancire le differenze di posizione all'interno di una brigata o, in un contesto più ampio come un ricevimento, tra i vari addetti di sala e cucina. L'introduzione di un nuovo modo di vestire rigido e immutabile fu operato nell'Ottocento, due i motivi che furono alla base di queste scelte: rispondere alle esigenze di cerimoniosità e stile obbligatorie nelle varie occasioni e rispondere alle nuove e mutate norme di igiene.
Sotto questo aspetto se il nero fu per secoli (in forme e contesti diversi, si intende) il colore delle divise eleganti degli addetti in sala, il cappello del cuoco fu un elemento dell'abbigliamento professionale che sopravvisse per molto tempo alle varie modificazioni delle norme in fatto di gusti estetici, esigenze pratiche ed igieniche. Si può tranquillamente affermare che la rigidità e il rigore del mestiere erano segnalate e per certi versi incarnate, dalle divise che venivano portate. Nell'Ottocento le giacche dei cuochi (simili a quelle classiche di oggi) furono disegnate a partire dalle giubbe dell'esercito, addirittura alla cintola si portava il fodero di un coltello. Questa somiglianza tra il mestiere del cuoco e il soldato era indice di una similitudine delle caratteristiche lavorative dei due. Più nello specifico si potrebbe affermare che ciò non aveva implicazioni solo dal punto di vista igienico o estetico, l'adozione di una divisa comune accentuava infatti lo spirito di appartenenza al gruppo e quindi alla brigata, facendolo prevalere su quello del singolo individuo.
Tutto ciò si realizzava, dal punto di vista professionale, nella brigata di cucina, ovvero un'organizzazione non solo sotto l'aspetto della suddivisione delle mansioni, ma soprattutto su scala gerarchica, degli individui che lavoravano in cucina. Ognuno, infatti, aveva mansioni ben precise e contribuiva attraverso l'adempimento del lavoro a lui affidato al funzionamento della cucina di corte o palazzo. Di certo, sotto questo aspetto, le continue preoccupazioni dei cuochi (soprattutto ai vertici) sulla buona riuscita dei piatti, banchetti ed eventi, contribuivano a forgiare un carattere duro, rigoroso ma anche burbero ed alimentare le credenze riguardo le loro abitudini, come quella del bere, documentate da numerosi documenti. La paura circa la buona riuscita delle preparazioni, se esse erano gradite ai palati raffinati dei nobili invitati e dei proprietari, ma anche possibili avvelenamenti o sintomatologie dovute alle scarse conoscenze delle norme igieniche e di conservazione delle derrate alimentari, erano certamente una continua fonte di ansia e di preoccupazione. La divisa da cuoco ha sempre fatto parte delle norme che regolavano il lavoro in cucina. Del resto non solo i cuochi, ma tutti coloro che lavoravano nel settore alimentare all'interno di palazzi e corti erano tenuti ad indossare divise differenti in funzione al lavoro svolto; solo i lavapiatti non erano soggetti a queste norme. Tutto ciò non impediva (anzi, incentivava enormemente) l'adozione da parte delle differenti figure di "simboli ed insegne" che avevano la funzione di indicarne le mansioni e sancire le differenze di posizione all'interno di una brigata o, in un contesto più ampio come un ricevimento, tra i vari addetti di sala e cucina. L'introduzione di un nuovo modo di vestire rigido e immutabile fu operato nell'Ottocento, due i motivi che furono alla base di queste scelte: rispondere alle esigenze di cerimoniosità e stile obbligatorie nelle varie occasioni e rispondere alle nuove e mutate norme di igiene.
Sotto questo aspetto se il nero fu per secoli (in forme e contesti diversi, si intende) il colore delle divise eleganti degli addetti in sala, il cappello del cuoco fu un elemento dell'abbigliamento professionale che sopravvisse per molto tempo alle varie modificazioni delle norme in fatto di gusti estetici, esigenze pratiche ed igieniche. Si può tranquillamente affermare che la rigidità e il rigore del mestiere erano segnalate e per certi versi incarnate, dalle divise che venivano portate. Nell'Ottocento le giacche dei cuochi (simili a quelle classiche di oggi) furono disegnate a partire dalle giubbe dell'esercito, addirittura alla cintola si portava il fodero di un coltello. Questa somiglianza tra il mestiere del cuoco e il soldato era indice di una similitudine delle caratteristiche lavorative dei due. Più nello specifico si potrebbe affermare che ciò non aveva implicazioni solo dal punto di vista igienico o estetico, l'adozione di una divisa comune accentuava infatti lo spirito di appartenenza al gruppo e quindi alla brigata, facendolo prevalere su quello del singolo individuo.
Il Novecento vide imporsi due
principali tipologie di cuochi: d'albergo o nave e il cuoco di casa. Due
tipologie assai diverse nelle dinamiche di realizzazione, d'opera e nei fattori
che le influenzavano, ma che coesistevano in un unico panorama. A loro si
affiancava una figura consolidata nel panorama gastronomico dal punto di
vista storico e culturale che meriterà una successiva e più approfondita analisi:
l'oste. In questo articolato discorso un'attenzione speciale deve anche
essere posta alla figura della donna nell'evoluzione della cucina nel
corso dei secoli. Essa ha sempre avuto un ruolo importante della cucina ma
in quella domestica, rivolta al nucleo familiare, diversa e più articolata fu
la sua presenza in quella professionale. La competizione tra uomo e donna
crebbe in ambito lavorativo nel corso dei secoli, fino alla designazione
diversa dell'uno e dell'altra: per le cucine di alto livello il primo, per il
ceto borghese o la cucina di casa (come già accennato) la seconda. La
donna era concepita quindi unicamente nel suo ruolo di massaia, curatrice del
focolare domestico e dei molteplici aspetti della cucina di casa. Essendo
bresciano non posso non accennare a tal proposito la "Massera da
be'", testo dialettale in cui sono presenti tutti gli elementi che ho
appena esposto. Ma il testo appena esposto offre un punto di analisi non solo
del lavoro della donna nella cucina ma anche le similitudini esistenti con il
lavoro maschile. Parlando di ciò non si possono non considerare gli aspetti
caratteristici indiretti che accomunano l'uno e l'altra: anche la donna appare
golosa, burbera, rigida ed inflessibile, similmente al collega di sesso
maschile. Il testo appena citato espone però una vera e propria forma di cucina
di matrice popolare: la cucina delle "Massere", tema molto complesso
ed articolato, che andrò ad analizzarlo successivamente. Nasce e si
diffonde poi successivamente il mito della cuoca attenta alle tradizioni, al
loro recupero ed estremamente meticolosa, capace con la sua bravura di minare
le basi di un mestiere cui l'uomo la faceva da padrone e destare scandalo nelle
menti benpensanti ma un po' bigotte, e con ciò non parlo di secoli fa, si
pensi al film "Il pranzo di Babette" ambientato a fine Ottocento
e tratto dall'omonimo racconto di Karen Blixen. Successivamente il mito della
cuoca attenta non solo al gusto ma soprattutto all'economia della casa e al
costo delle derrate alimentari si trasferì anche a livello professionale e alle
alte sfere. Il patrimonio gastronomico unito alla riscoperta delle tipicità
e ad un occhio critico alla spesa saranno i pilastri della cuoca anche ad
inizio Novecento. La figura professionale del cuoco (in generale) negli ultimi
decenni ha subito un'enorme evoluzione, trasformandosi ed assumendo in taluni
casi caratteristiche che, a causa dei mezzi mediatici, sono più attribuibili
allo spettacolo che non ad un lavoro meticoloso e di ricerca. Punto forte
è l'attenzione che ultimamente sta riscuotendo questo mestiere anche nei
confronti del pubblico che ahimè, e lo dico con spirito critico, considera solo
gli aspetti legati alla creazione dei piatti, senza dare la giusta attenzione
al lavoro globale di cucina. Mi auguro che il cuoco torni ad essere un po' meno
showman e un po' più uno scopritore del gusto (oltre che valorizzatore delle
tipicità) e che il pubblico possa essere più attento, che l'interesse mostrato
sia più profondo e meno superficiale. Forse così si valorizzerà un mestiere
faticoso, un enorme patrimonio culturale e gastronomico.
Fonte: http://alberodellagastronomia.blogspot.it
Immagine: http://www.prolocoemiliaromagna.it/
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