mercoledì 20 gennaio 2016

Lo stato costrutto, la tecnica per fondere due nomi per costituire un’unità morfologica. I nomi del Dio (della Dea), della Natura e i suoi epiteti. di Salvatore Dedola

Lo stato costrutto, la tecnica per fondere due nomi per costituire un’unità morfologica.
I nomi del Dio (della Dea), della Natura e i suoi epiteti.
di Salvatore Dedola

La Sardegna sta al centro di un fenomeno linguistico arcaico, d’ampiezza mediterranea, i cui archetipi si ritrovano in tutte le antiche lingue semitiche. È lo stato costrutto, ossia la tecnica di fusione di due nomi, reggente-retto, che in tal modo vanno a costituire un’unità morfologica.
   In origine la sequenza era: sostantivo reggente + sostantivo retto al genitivo, saldati insieme da una -i- (morfema di sutura). Oggi che il genitivo non è più in voga, la Sardegna ne fa ovviamente a meno ma conserva ugualmente la -i- di sutura nonché i rapporti originari tra i due termini che si saldano. Esempio: cabi-mannu ‘che ha la testa grande’, cambi-russu ‘che ha le gambe grosse’, pili-ruju ‘che ha i capelli rossi’, mani-lestru ‘svelto di mano’, matti-falada ‘avente il prolasso uterino’, fusti-albu ‘pioppo’, ecc. Questi sei esempi di “fusione” sono composti apposizionali o predicativi (i più frequenti fra tutti i tipi di composizione) costituiti da nome-aggettivo, in cui l’aggettivo è apposizione del nome.
   Beninteso, in composizione possono entrare anche
due nomi (così come accadeva nelle forme semitiche). In tal caso parliamo di composti determinativi, dove il primo membro determina il secondo in rapporto genitivo; esempio: ninni-eri ‘rosa di montagna’, da accadico nīnû ‘a medicinal plant’ + erû ‘aquila’ (nīni-erû = ‘pianta delle aquile’); o anche piri-coccu ‘perlina minore, Bartsia trixago’, da accadico perʼu ‘germoglio’ + quqû‘serpente’ (perʼi-quqû = ‘germoglio del serpente’); o Ari-tzo (un villaggio nato accanto a due sorgenti), da semitico ārā ‘sito’ + ittsa ‘scaturigine’ (āri-ittsa = ‘luogo delle sorgenti’). Altro tipo di composto determinativo èBari-sone (= ‘giudice della reggia protettiva’, da accadico barûm ‘giudicare’ + sūnu ‘luogo di protezione’, in stato costrutto bari-sūnu).
   Altro tipo di nomi sardi “in fusione” sono i composti possessivi, es. gali-léu ‘pappa reale’, dal babilonesegarûm ‘crema’ + rēʼû ‘pastore’ (gari-rēʼû = ‘crema del pastore’).
   Ulteriore tipo di “fusione” di nomi in Sardegna (e in Italia) sono i composti copulativi, in cui due nomi si legano, mercé la -i-, in rapporto reciproco, es. Elì-a, antico nome ebraico Eliy-yahu (da El ‘Dio Sommo’ +YAHW ‘Dio Sommo’ = ‘El è YAHW’, ossia ‘il dio chiamato El dai Cananei è lo stesso YAHW degli Ebrei’).
   Faccio notare che lo stato costrutto è fenomeno mediterraneo, non solo sardo; questa è una delle prove che millenni prima di Roma l’intero bacino parlava una sola lingua, che oggi possiamo classificare “semitica” ma era anzitutto “mediterranea”. Lo stato costrutto insiste in Italia (es. capi-nerapetti-rossoocchi-nero…), in Corsica (es. barbi-biancunasi-tortu…), in Spagna (es. barbi-rubiocari-redondodienti-malladooji-negro…), nell’antica Roma (es. ponti-fexacci-piter ‘falco’: quest’ultimo da accadico akki-pitru ‘furia delle steppe’).
   Per non tediare, vado innanzi senza illustrare altri tipi di stato costrutto (peraltro già trattati alle pagg. 247-253 della mia Grammatica della Lingua Sarda Prelatina). Voglio però osservare un altro fenomeno importante della grammatica sarda, semitica, mediterranea in genere, ed è che moltissime parole, e composti di parole, creati nel bacino mediterraneo millenni prima di Cristo, ebbero la fortuna di risalire a nord, varcare le Alpi e rimpolpare il vocabolario dei Popoli delle Steppe e dei Popoli delle Foreste, ivi compresi molti nomi creati dai Germani. Così fu per la parola italica baròne (titolo feudale assunto dapprima da tutti i grandi di un regno). Nessun dizionario etimologico europeo è stato sinora in grado di stabilire scientificamente l’origine di baròne, per la semplice ragione che nessuno dei ricercatori ha aperto il dizionario sumerico, dove troviamo bar‘outsider, eccellente’ + unu ‘high, alto, elevato’; il composto sumerico bar-unu indicò, almeno da 10.000 anni fa, un ‘uomo d’alto rango, d’eccellente valore’.
   Millenni dopo i Sumeri, ritroviamo anche tra i Germani il lemma baro, nella loro lingua ancora individuato come ‘uomo libero, guerriero’ (quasi come lo vollero individuare gli antichi Sumeri).
   Dopo aver doverosamente puntualizzato ciò a riguardo dell’origine delle parole, debbo richiamare fermamente qualsiasi ricercatore ad essere molto prudente nel formulare le proprie etimologie. Il confondere i dati linguistici e storici con la pretesa di proporre una qualsivoglia etimologia, conduce a risultati ascientifici e, sia pure contro le intenzioni personali, “avvelena i pozzi” della ricerca. Ad esempio, si vorrebbe far accettare il già esaminato Barisòne (nome di parecchi giudici della Sardegna pre-catalana, indubbiamente rifluito in Italia e in Sardegna tramite i Longobardi) come risultato di una lunghissima ed inaccettabile catena di mutazioni fonetiche che avrebbero alla base il nome composto barigild, termine anch’esso in stato costrutto ma di origine longobarda. Dichiaro che tra Barisone e barigild c’è un abisso fonetico incolmabile, quindi non è proponibile alcuna mediazione etimologica. Le numerose forme italiche (BarisoneBarixonBariselbarigild, ecc.) vanno esaminate sulla base di tutto quanto ho appena illustrato, e non è permessa alcuna scorciatoia, quale l’attingimento di conforti e sostegni da un libro di tale Carlo Salvioni intitolato “Fonetica del dialetto moderno della città di Milano”.
   Analoga circospezione va posta nel trattare l’italico barigellobargello, uguale al sardo barracello. Wagner lo fa derivare dallo sp. barrachel. Corominas sostiene essere apparso in Italia nel 1516, derivante da it.ant.barigello (oggi bargello), dal franco barigild ‘funzionario di giustizia’.
   Il termine è in realtà un composto antichissimo avente base nell’accadico barû(m) ‘to see, look at; oversee, watch searchingly’, ‘vedere, guardare, dare un’occhiata, sorvegliare, vigilare il territorio’ + ṣēlû ‘incendiare’, anche ‘insultare’. Il composto ebbe il significato identico a quello sardo attuale. Gli antichissimi rangers ovigilantes erano vere e proprie guardie parastatali assunte per la guardia del territorio al fine di prevenire gli incendi nonché risse e dissidi tra i pastori.
   Peraltro, sarebbe singolare e fantasioso proporre barigello o bargello o barracello (capitano di un gruppo di soldati) derivante da un tardo lat. baroncellus (quasi un ‘piccolo barone’), perché sarebbe una contraddictio in terminis e recherebbe ulteriori insanabili contrasti col fatto che su barracellu in Sardegna fu una semplice guardia, spesso analfabeta, mai un… “piccolo barone”.

I nomi del Dio (della Dea) della Natura e i suoi epiteti


  Il maiale. Cammello Dio. Verme Dio. Coccodrillo Dio. Cavallo Dio. Bue Dio. Pecora Dio. Muflone Dio. Coniglio Dio. Ratto Dio. Legno Dio. Pietra Dio. Acqua Dio. Anguria Dio. Grano Dio. Ruota Dio. Casa Dio. Montagna Dio. Porco Dio.
  Ho provato ad affiancare a Dio una serie di epiteti, presi a caso. Nessuno calza bene quanto il Porco. Con questa orribile bestemmia siamo familiari da quasi due millenni. Ma perché Dio non è stato maledetto con centinaia di altri epiteti e si è preferito maledirlo descrivendolo come porco?
  Altra domanda è questa: siamo certi che questa lacerante bestemmia abbia origini plebee?
  Altra domanda: forse che in questa bestemmia c’entrano Ebrei e Musulmani, visto che essi demonizzano il porco?
  Ancora una domanda: Antonio eremita-abate, grande santo del Cristianesimo, che aveva il porco come simbolo sacro, c’entra qualcosa con l’incredibile bestemmia?
  Se qualche lettore m’implorasse di occultare quest’argomento assai scabroso, gli risponderei di no, poiché una serie di tasselli portano a colpe storiche ben precise, che vanno smascherate: Quod turpe est, id, quamvis occultetur, tamen honestum fieri nullo modo potest ‘Ciò che è turpe, per quanto lo vuoi nascondere, in nessun modo può diventare onesto’ (Cicerone). Da quanto scriverò, penso ci siano le prove che fanno sedere come imputata la Chiesa romana e, in relazione alla Sardegna, i preti bizantini.
    Il tema va affrontato partendo primamente dall’antropologia delmaialino. È noto il rapporto dell’uomo mediterraneo col maiale. Stando alla storia, soltanto ebrei e musulmani hanno sempre considerato immonda la carne suina, mentre nel resto del Mediterraneo essa si mangia, si è sempre mangiata. Anche i Sumeri, i Mesopotamici, i Frigi, i Popoli delle steppe, i Cinesi, gli Indiani, gli isolani del Pacifico, i Celti, i Vichinghi, i Romani e quant’altri mangiarono il maiale. Occorre capire perché esistano da tempo immemorabile due concezioni contrapposte, delle quali una fortissimamente minoritaria.
  La questione si risolve impostandola (con alcuni distinguo!) secondo la teoria antropologica di Frazer. Egli ricorda che gli Egizi sacrificavano una volta all’anno il maiale al dio Osiride, poiché il maiale, il cinghiale, incarnava lo spirito del grano: in definitiva, il suino fu, alle origini, il Dio della Natura. Il rapporto tra il cinghiale e il Dio della natura è noto: Adone viene ucciso da un cinghiale, e sprofonda agli Inferi, da cui risorge ogni anno. Il frigio Attis viene ucciso da un cinghiale, e anch’egli ogni anno muore e risorge insieme alla Natura. Oggi in Sardegna abbiamo il Santo del Carnevale, ossia S.Antonio, che si accompagna a un maialino. Anche S.Antonio scende all’Inferno, ed inaugura i riti del Carnevale, i quali altro non sono che i riti d’inizio Anno, di propiziazione della Primavera, della rifioritura della Natura.
  In realtà, il maiale, il cinghiale, fin dal Paleolitico fu identificato tout courtcol Dio della Natura, e nei miti tramandati dalla storia troviamo il Dio-e-il-maiale talora affiancati (come nella divinità vichinga), talora contrapposti in un rapporto di morte-e-resurrezione. Perché tanta considerazione per il maiale, per il cinghiale? La risposta si ha osservando le abitudini dei cinghiali all’arrivo delle piogge: le foreste, il loro habitat, vengono grufolate in modo parossistico. Talora interi chilometri quadrati vengono “arati” (dipende dalla densità della presenza suina), con profondità che vanno dai 20 ai 50 cm.
  Agli antichi quel furioso rimestio delle zolle non passò inosservato, e fu proprio da tali “arature” che s’inventò l’aratro, imitando la bestia che rendeva fertili immensi territori senza bisogno della fatica umana. Già Eudosso di Cnido (408-355 a.e.v.), astronomo e matematico greco, si era accorto che gli Egizi non risparmiavano il maiale per avversione, anzi: quando le acque del Nilo si erano ritirate, mandavano nei campi i branchi dei maiali, i quali “aravano” tutto.
  «Il miracoloso intervento del maiale nei campi ha il suo rovescio: troppe bestie indisturbate danneggiano le colture. E quando un essere è soggetto a sentimenti così contrapposti, ha un equilibrio instabile. Col tempo, uno dei due sentimenti prevale, e il maiale assurge al divino o sprofonda nel demoniaco. Presso gli Ebrei e in Egitto prevalse la demonizzazione» (Frazer). Ma non sono affatto convinto di questa tesi. Mi danno ragione gli scavi archeologici della Cananea del 1000 a.e.v., che mostrano un consumo normale dei maiali nei villaggi dei bassopiani e delle pianure. Non si riscontrano resti di tali pasti sugli altopiani. Ma la ragione di ciò è fin troppo evidente: sugli altipiani boscosi i suini erano soltanto allevati, e venivano portati in pianura per lo smercio. È un po’ quanto accadeva nell’antica Roma per i prosciutti e le salsicce: i suini erano allevati nella Gallia cisalpina e nel territorio parmense, ed i loro immensi branchi venivano costantemente sospinti fino alla Capitale, nei cui dintorni i Galli preparavano i prosciutti e le salsicce per i Romani (come dire: dal produttore al consumatore).
  Nell’Israele classico il maiale era soltanto vietato mangiarlo, il che cambia notevolmente le carte in tavola. Assieme al maiale, il Levitico 11,7 elenca un gran numero di altri animali la cui carne era vietata, come il cammello, bestia utilissima al pari del maiale. Anche a Sàssari fino a 50 anni fa non si poteva mangiare il cavallo (è una mia esperienza diretta); parimenti accadeva in parecchi altri villaggi sardi: questione tabuica, non demoniaca, dovuta al grande rispetto per quest’animale da tiro, da corsa, da aratura (tre usi constatati di persona a Sassari). Lo stesso avveniva tra gli Ebrei, dove il maiale era allevato in branchi di migliaia di capi. Altro che demonizzazione! La montuosa Galilea era piena di maiali.
  L’episodio di Matteo 8:30-34 mostra che la perdita d’una grande mandria di maiali per colpa di Gesù fu una catastrofe economica per l’intera popolazione della città, che andò incontro a Gesù invitandolo sbrigativamente a cambiare strada. In Marco 5:11 si capisce l’entità della perdita: 2000 bestie, il patrimonio dell’intero paese dei Geraseni. Così pure in Luca 8:30-37. Da ogni evangelista sappiamo che tutti questi maiali occupavano molta estensione di pascoli e boschi i quali, se veramente il maiale fosse stato considerato merce meno che pregiata, potevano essere destinati alle pecore, alle capre, ai vaccini. Persino l’episodio delFiglio prodigo (Lu 15:15) lascia capire il grande valore dei porci, del cui cibo (le carrube) si saziava lo stesso ragazzo. E si badi che il Figliol prodigo era un salariato, dipendeva da un padrone di mandrie suine. Va da sé che sulle mandrie suine campavano servi, padroni, le loro famiglie, e un indotto economico nient’affatto trascurabile. Ecco perché un’intera cittadina si era rivoltata contro Gesù.
  Se quei maiali si trovavano tra i boschi di carrubi, che sono le piante più ombrose del Mediterraneo e dànno dei frutti molto più appetibili delle ghiande, vuol dire che i suoli erano fertili e produttivi, e che i maiali dovevano essere nutriti a dovere proprio con le carrube, non con le ghiande. Quindi sembra ovvio che presso gli Ebrei vigeva la protezionedel maiale, non la demonizzazione. Frazer ha sbagliato. Gli Evangelisti non avevano alcuna nozione di economia agropastorale: per loro, la liberazione d’un indemoniato valeva più del benessere d’una intera popolazione agricola. Invece che tra i maiali, penso che Gesù avrebbe potuto trasferire il demonio tra i tafani, animali ematofagi, che sono la peste degli armenti, ordinando poi loro di gettarsi nel lago e risanando di colpo l’economia pastorale della contrada. In Sardegna con undepistaggio di tal fatta si poteva, ad esempio, liberare la regione da Sa Musca Maccedda, mitico dittero (un tafano) assurto ad essere demoniaco perché i tafani sono il flagello dei pascoli (vedine la terribile descrizione fatta da Gavino Ledda in Padre Padrone).
  Fatta questa precisazione, va chiarita la causa del privilegio che alcuni villaggi della Galilea avevano di allevare soltanto maiali. Chiaramente, la tradizione risaliva all’età della Pietra Antica, allorchè non si era ancora inventato l’aratro e s’attendevano le piogge per “arare” i campi. Con tutta evidenza, i porcari del tempo – d’accordo o su richiesta degli agricoltori – portavano i porci in pianura a grufolare sui campi, riportando poi i maiali assieme al compenso, salvo le inevitabili cessioni di una parte del branco ad uso alimentare locale. Che poi le ossa dei maiali rimanessero nelle pianure e non nelle montagne, la causa pare assolutamente ovvia: mentre in pianura il maiale si consumava e le ossa venivano gettate, nelle montagne le ossa dei rari maiali mangiati dagli allevatori erano gettate in pasto agli stessi maiali del branco, i quali, si sa, fanno sparire ogni e qualsiasi sostanza edule.
  Così andò nei tempi pre-biblici, e subito dopo si passò all’invenzione dell’aratro, che fu costruito come il muso aguzzo del suino selvatico dell’epoca. Altro che demonizzazione: era un rispetto portato all’ennesima potenza. Da qui il tabù mosaico! Peraltro nel deserto del Sinai il maiale non poteva sopravvivere: non era il suo habitat. Proteggere i pochi maiali di proprietà doveva essere quindi addirittura vitale. Ma l’uso massivo dei suini per la grufolatura massiva proseguì anche in epoca storica, perch’era molto più semplice avere maiali “aratori” da rilasciare nei campi dopo la pioggia, risparmiando il sudore dell’uomo per migliori impegni. Se vogliamo, la genialità ebraica si scorge anche in queste operazioni.
  Va da sé che nei tempi arcaici il porco fu visto come effige del Dio della Natura. E pure quest’aspetto va chiarito: tra effige ed essenza nell’alta antichità non vi fu mai alcuna differenza. L’effige, la statua, l’emblema, erano in ogni modo lo stesso Dio. Quindi per la gente di allora, almeno nel Mediterraneo, in Italia, in Sardegna, il Porco era DioDio era il Porco. Da qui “Porco Dio”, che a quei tempi era un epiteto santificante rivolto al Dio della Natura nei momenti di alta sacralità, durante le processioni e durante le funzioni del tempio.
  Fu poi compito del clero cristiano gestire a dovere questo epiteto sacro per dirottarne, secolo dopo secolo, la semantica verso esiti loschi, dissacratori, infami. Ciò che colpisce in questo processo di mutazione è la depravazione del clero, il quale puntò a distruggere le religioni avverse senza badare al metodo, senza vergognarsi di gestire un’operazione che andava in rotta di collisione con le manifestazioni di probità, mansuetudine, lealtà e rispetto che la religione imponeva loro.
  Una considerazione finale riguarda il porco di sant’Antonio. Il fatto che il santo eremita egiziano sia festeggiato nel giorno d’inizio del Carnevale, chiarisce veramente tutto: in epoca cristiana Antonio fu scelto a sostituire il Dio della Natura, cui era connaturato il porco, come vedremo nel successivo Capitolo 10 (Il Carnevale in Sardegna) e come abbiamo già visto nel § 6e (Il maiale, effige del Dio della Natura). Che ad accompagnarsi al porco sia stato l’eremita egiziano Antonio, così dipinto nel Medioevo dall’iconografia cristiana, ciò è dovuto al fatto che proprio nella valle del Nilo al maiale fu riconosciuta la prodigiosa predisposizione che lo portò “agli altari”.




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