Buddha tra i talebani
di Hannah Bloch
In Afghanistan una squadra di archeologi scava per
portare alla luce un complesso buddhista prima che venga distrutto per far
posto a una miniera di rame.
A circa un’ora d’auto da Kabul, sull’autostrada per Gardez,
dopo aver superato i negozi affollati, i gas di scarico dei camion e il
fracasso dei carri trainati dagli asini, c’è una strada sterrata che svolta
bruscamente a sinistra. Ci troviamo in uno dei distretti della provincia di
Logar, dove la popolazione locale simpatizza per i talebani, in una regione
sconvolta da esplosioni di ordigni, attacchi occasionali di missili, rapimenti
e omicidi. La strada prosegue sul letto asciutto di un fiume, si lascia dietro
piccoli villaggi, blocchi stradali di paramilitari, torri di guardia, e arriva
a costeggiare un complesso di capannoni deserto e recintato dal filo spinato.
Poco più avanti si apre una
vallata completamente brulla, increspata da scavi e
antiche mura. Negli ultimi sette anni un team internazionale di archeologi
afghani e stranieri, affiancato da 650 operai, ha riportato alla luce migliaia
di statue, manoscritti, monete e monumenti sacri buddhisti. Sono stati
disseppelliti interi monasteri e fortificazioni. Il sito è circondato da più di
100 postazioni di controllo e pattugliato giorno e notte da un corpo di 1.700
agenti di polizia. Lo scavo è senza dubbio il più ambizioso nella storia
dell’Afghanistan. Ma tutte queste misure di sicurezza non sono state prese
soltanto per proteggere un gruppo di ricercatori e qualche operaio locale.
Sepolto sotto queste antiche rovine c’è un giacimento di rame che si estende
per quattro chilometri in larghezza e si infila per circa un chilometro e mezzo
nel monte Baba Wali, un rilievo che domina il sito. È uno dei più grandi
giacimenti vergini del mondo, si stima che contenga 11,4 milioni di tonnellate
di rame. In passato questo rame deve aver arricchito i monaci buddhisti che
vivevano qui; i vasti depositi di scorie color porpora che ricoprono le pendici
del Baba Wali, che sono il residuo solidificato della fusione del rame, fanno
infatti pensare a una produzione su scala quasi industriale. Il governo afghano
si augura che il rame aiuti il paese a ritornare ricco, o perlomeno
autosufficiente.
Il nome non rende giustizia a questo posto: Mes Aynak
significa infatti “piccola sorgente di rame”, eppure qui di piccolo non c’è
nulla. Nel 2007, la China Metallurgical Group Corporation (Mcc), una grossa
società di Pechino che guida un consorzio sostenuto dal governo cinese, ha
avuto in concessione i diritti per l’estrazione del rame per un periodo di
trent’anni. (La Cina ha un gran bisogno di rame e attualmente ne consuma metà
delle risorse globali). In cambio la società ha offerto più di tre miliardi di
dollari e ha promesso di realizzare in questo distretto isolato e
sottosviluppato una serie di infrastrutture tra cui strade, una ferrovia e una
centrale elettrica da 400 megawatt. Secondo le stime dei funzionari afghani, la
miniera porterebbe nella fragile economia della nazione un afflusso di 1,2
miliardi di dollari, dettaglio non trascurabile per un paese che dal 2002
dipende dagli aiuti internazionali e deve fronteggiare un deficit annuo di
sette miliardi di dollari. I tesori archeologici di Mes Aynak sono
conosciuti da decenni, e quando si è saputo dell’affare cinese i difensori del
patrimonio culturale afghano hanno preteso che si effettuassero scavi e
un’adeguata documentazione del sito prima che, con l’inizio dell’attività estrattiva,
quegli antichi tesori andassero perduti. I manufatti però erano già in
pericolo, non per le minacce dei talebani ma per le razzie dei saccheggiatori,
che trafugandoli uno alla volta li sottraggono per sempre alla ricerca
scientifica. «Se a distruggerlo non sarà la miniera, lo faranno i
saccheggi», commenta l’archeologo francese Philippe Marquis, che ha diretto gli
scavi dal 2009 al 2014. Meglio documentare quanto più possibile e in modo
sistematico adesso, aggiunge. I rischi a cui è esposto oggi il sito hanno
ritardato la costruzione della miniera. I capannoni con i tetti azzurri,
costruiti per ospitare gli ingegneri cinesi, sono stati abbandonati dopo una
serie di attacchi missilistici avvenuti tra il 2012 e il 2013. Le mine antiuomo
lasciate dai sovietici negli anni Ottanta e gli ordigni esplosivi piazzati in
tempi più recenti dai talebani e da al Qaeda rappresentano un ulteriore
pericolo, considerato anche che nel 2014 i talebani hanno ucciso otto
sminatori. (Quando l’Afghanistan era sotto il controllo dei talebani, Mes Aynak
era diventato sede di un campo di addestramento di al-Qaeda. Qui sarebbero
stati addestrati quattro dei dirottatori che presero parte agli attacchi del
2001 a New York e Washington). Se ai problemi di sicurezza si aggiungono
le complicazioni legate alla logistica - la mancanza di una ferrovia per
trasportare il rame fuori della regione e una grave carenza idrica - c’è poco
da stupirsi che l’attività mineraria, che doveva cominciare nel 2012, non sia
ancora iniziata. Nel 2013 la Mcc ha cominciato a fare marcia indietro su alcune
delle condizioni imposte dal governo afghano, e le due parti non hanno ancora
rinegoziato l’accordo. Con simili premesse, se mai si comincerà a estrarre il
minerale, è improbabile che questo avvenga prima del 2018. I ritardi
hanno lasciato agli archeologi molto più tempo di quello che si aspettavano per
fare gli scavi, anche se il personale è stato notevolmente ridotto. Il passato
che stanno svelando contrasta nettamente con la violenza e il disordine dei
nostri tempi. Dal III all’VIII secolo dopo Cristo, Mes Aynak fu un centro
spirituale che fiorì in condizioni di relativa pace. Intorno al sito, disposti
in semicerchio, ci sono almeno sette complessi monastici buddhisti a più piani
contenenti cappelle, alloggi per i monaci e altri ambienti, ciascuno protetto
da antiche torri di avvistamento e alte mura. All’interno di questi complessi
monastici e abitativi fortificati gli archeologi hanno portato alla luce quasi
un centinaio di stupa in scisto e argilla. Gli stupa erano reliquiari buddhisti
che avevano un ruolo centrale nella pratica del culto. Ce n’erano di svariate
misure, dai monumentali ai portatili. Mes Aynak era anche un importante
centro economico del Gandhara, una regione a cavallo tra gli attuali territori
dell’Afghanistan orientale e del Pakistan nordoccidentale. Il Gandhara era un
crocevia di civiltà: qui si incontravano tre grandi religioni - induismo,
buddhismo e zoroastrismo - e si mescolavano antiche culture - la greca, la
persiana, quella dell’Asia centrale e l’indiana. Secondo Abdul Qadir Temory,
archeologo afghano che è a capo del progetto, il Gandhara era il «centro del
mondo». Nei primi secoli dopo Cristo i buddhisti del Gandhara
rivoluzionarono i canoni artistici della regione, affinando una loro
sensibilità estetica che sintetizzava l’influsso di secoli di conquiste da
parte di civiltà straniere. Furono tra i primi a dare al Buddha un’immagine
realistica e antropomorfa, un’innovazione di stampo ellenistico risalente ai
tempi di Alessandro Magno, che era arrivato in Afghanistan nel 330 avanti
Cristo. Nelle cappelle di Mes Aynak sono state scoperte statue del Buddha
grandi il doppio delle dimensioni reali, con ancora le tracce dei colori con
cui ne erano state dipinte le tuniche; e poi cumuli di gioielli d’oro,
frammenti di manoscritti antichi e pareti affrescate. In una nicchia è stata
rinvenuta una rara statua di scisto che ritrae Siddhartha Gautama prima che
diventasse il Buddha. Dal sito è emersa anche una gran quantità di
monete di rame datate tra il III e il VII secolo, trovate sui pavimenti delle
abitazioni oppure, a centinaia, nei posti in cui le conservava chi ne faceva
uso. Molte recano l’immagine del sovrano kushana Kaniska il Grande, vissuto nel
II secolo. Non è noto se Kaniska praticasse il buddhismo: di certo accolse con
favore nel suo impero questa e altre tradizioni religiose, in particolare
quella zoroastriana dell’adorazione del fuoco, originaria dell’antica Persia.
Molte delle monete trovate a Mes Aynak hanno su una faccia l’immagine di
Kaniska e sull’altra quella di un Buddha seduto oppure di qualche divinità
persiana, come per esempio Ardokhsha, una dea associata alla fortuna. «La
moneta di Kaniska si usava da Roma fino alla Cina», dice Nancy Hatch Dupree,
un’archeologa americana trapiantata da molti anni a Kabul che è ormai
un’autorità nel settore degli studi sul patrimonio culturale afghano. «Le
divinità raffigurate sulle monete kushana sono 23. Questo è un segno di
tolleranza. Era un periodo di apertura mentale».
Per quanto noti siano i legami tra l’antico buddhismo e il commercio, poco si sa del suo rapporto con la produzione industriale. Ed è proprio su questo punto che i ritrovamenti di Mes Aynak potrebbero fornire importanti risposte, perché fanno intravedere una complessità maggiore di quella finora attribuita al sistema economico della civiltà buddhista. A differenza del ben più noto sito di Bamyan, l’antico luogo di pellegrinaggio buddhista e centro carovaniero sulla Via della Seta - 200 chilometri a nord-ovest - dove si trovavano i due colossali Buddha del VI secolo distrutti dai talebani nel 2001, sembra che la prosperità di Mes Aynak dipendesse soprattutto dall’estrazione e dalla produzione del rame. I complessi monastici si trovano proprio sopra il giacimento di rame. Per capire fino in fondo l’importanza del sito di Mes Aynak ci vorranno decenni e una nuova generazione di archeologi. Sultan Masoud Muradi ha 24 anni ed è figlio di un operaio edile di Kabul. Dopo essersi laureato all’Università di Kabul ha sostenuto un concorso per lavorare agli scavi del sito. Si dice orgoglioso di poter lavorare senza problemi con colleghi di etnie diverse; cosa non da poco in un paese che negli anni Novanta era lacerato da una terribile guerra civile tra fazioni di mujaheddin divise per etnie. «Abbiamo 5.000 anni di storia, e per la nuova generazione di afghani è molto importante conoscerla», dice Sultan Masoud, tenendo in mano una piccola pala durante una pausa dal lavoro. «Altrimenti saremo famosi solo per il terrorismo e l’oppio». Oggi il paesaggio intorno a Mes Aynak è completamente disboscato, ed è possibile che l’antico processo di fusione del rame abbia avuto un ruolo nella desertificazione dell’area. E che questa, a sua volta, sia stata la ragione per cui la produzione del rame cessò. Estrarre dal minerale una modica quantità di rame (0,45 chili) poteva richiedere fino a nove chili di carbone vegetale, e per fare il carbone bisognava bruciare enormi quantità di legname. Tanto ne serviva per mantenere il fuoco a una temperatura di 1.093 gradi centigradi e una piccola fornace accesa per giorni. Nel 2012 lo specialista britannico di archeometallurgia Thomas Eley ha scoperto che nel corso del tempo la produzione di rame era passata da una forma relativamente efficiente di fusione a un processo più lento e complicato, il contrario di quello che si sarebbe aspettato. Ma il processo più efficiente è anche quello che richiede più combustibile; forse la crescente penuria di legname costrinse i fonditori a ripiegare sul metodo più lento. La lavorazione di tutto quel rame richiedeva anche un approvvigionamento idrico sicuro per lavare il minerale e raffreddare i lingotti incandescenti. L’acqua proveniva probabilmente da sorgenti di montagna, corsi d’acqua poco profondi e antichi canali d’irrigazione sotterranei chiamati karez, in uso ancora oggi in alcune parti dell’Afghanistan. Nella parte settentrionale del sito è stato portato alla luce un karez di nove metri, che probabilmente faceva parte di una rete di canali simili. La deforestazione in corso potrebbe aver ridotto la piovosità della zona, rendendo l’acqua ancora più scarsa. Gli archeologi devono far fronte a un problema di sovrabbondanza: data la rapidità con cui procedono gli scavi, si rischia di rimanere indietro con la catalogazione e la conservazione di tutto quello che viene fuori dal terreno. «Scavare è facile», spiega l’ex viceministro della cultura afghana Omar Sultan, che è anche archeologo. «La parte difficile è la salvaguardia». Circa un migliaio dei pezzi più importanti sono andati direttamente al Museo nazionale dell’Afghanistan di Kabul. «Purtroppo non possiamo accettare tutti i reperti», si rammarica Omara Khan Massoudi, che è stato per molti anni il direttore del museo. «Non c’è spazio». Per ora le migliaia di oggetti recuperati che non si sono potuti trasferire al museo si trovano in depositi temporanei a Mes Aynak o nei dintorni. Molti non sono stati ancora né analizzati né studiati. Massoudi e Sultan vorrebbero prima o poi realizzare un museo in loco, ma, almeno a breve termine, l’ipotesi più plausibile per preservare la memoria di Mes Aynak quando partirà l’attività estrattiva è quella di creare un museo e una ricostruzione virtuali. Prima, però, l’Afghanistan deve risolvere i suoi problemi di sicurezza. E nel lungo termine ulteriori ritardi nella realizzazione della miniera potrebbero esporre il sito a nuove e più terribili minacce. La sicurezza di Mes Aynak dipende in larga parte dalla capacità di garantire un lavoro retribuito alla popolazione maschile locale, vulnerabile al richiamo o alla coercizione dei talebani. Inoltre, tra la gente che è stata dislocata dai villaggi per far posto alla miniera di rame c’è un certo malcontento. La Banca Mondiale, che ha finanziato il lavoro degli archeologi attraverso un progetto con il ministero afghano delle miniere e del petrolio, ha stimato che i posti di lavoro creati direttamente dalla miniera saranno 4.500, e svariate migliaia quelli creati indirettamente. Le poche centinaia di uomini che in questi anni hanno preso in mano picconi e pale o hanno svolto altre mansioni di manodopera al sito sono state pagate generosamente per gli standard locali, ma «se non hai cibo né stipendio e i tuoi bambini hanno fame, sei pronto a fare qualunque cosa», dice Habib Rahman, «magari anche unirti ai talebani. Loro ti danno uno stipendio». Nel 2001 questo padre di famiglia quarantaduenne dalla barba ingrigita ha perso una gamba per l’esplosione di una mina mentre badava a un gregge di capre. Adesso cammina con le stampelle, e per venire dal suo villaggio di montagna a Mes Aynak, dove lava i frammenti di ceramica estratti dagli scavi, ci mette due ore all’andata e due al ritorno. La vita dura di persone come Rahman non potrà cambiare granché nell’immediato futuro. Molti, non avendo legami personali con il passato preislamico, non sono interessati alla ricca storia che stanno contribuendo a svelare, e le minacce fatte dai talebani ad alcuni operai, accusati di promuovere il buddhismo, certo non aiutano. Eppure c’è ammirazione per le realizzazioni del passato. «I miei antenati erano musulmani», riflette un operaio di 36 anni, veterano dell’esercito afghano, che dice di chiamarsi Javed, «ma noi sappiamo che su questa terra sono passate tante generazioni. Quando lavoro, penso che qui c’era una civiltà, una fabbrica, una città, dei re. Sì, l’Afghanistan è anche questo». I reperti rinvenuti a migliaia riflettono la ricchezza che questo sito religioso e industriale trasse dal rame. Tra quelli più preziosi, una rara rappresentazione di Siddhartha Gautama prima che diventasse il Buddha, e il più antico Buddha integro di legno che si conosca , una statuetta di 20 centimetri datata all'incirca tra il 400 e il 600 dopo Cristo.
Per quanto noti siano i legami tra l’antico buddhismo e il commercio, poco si sa del suo rapporto con la produzione industriale. Ed è proprio su questo punto che i ritrovamenti di Mes Aynak potrebbero fornire importanti risposte, perché fanno intravedere una complessità maggiore di quella finora attribuita al sistema economico della civiltà buddhista. A differenza del ben più noto sito di Bamyan, l’antico luogo di pellegrinaggio buddhista e centro carovaniero sulla Via della Seta - 200 chilometri a nord-ovest - dove si trovavano i due colossali Buddha del VI secolo distrutti dai talebani nel 2001, sembra che la prosperità di Mes Aynak dipendesse soprattutto dall’estrazione e dalla produzione del rame. I complessi monastici si trovano proprio sopra il giacimento di rame. Per capire fino in fondo l’importanza del sito di Mes Aynak ci vorranno decenni e una nuova generazione di archeologi. Sultan Masoud Muradi ha 24 anni ed è figlio di un operaio edile di Kabul. Dopo essersi laureato all’Università di Kabul ha sostenuto un concorso per lavorare agli scavi del sito. Si dice orgoglioso di poter lavorare senza problemi con colleghi di etnie diverse; cosa non da poco in un paese che negli anni Novanta era lacerato da una terribile guerra civile tra fazioni di mujaheddin divise per etnie. «Abbiamo 5.000 anni di storia, e per la nuova generazione di afghani è molto importante conoscerla», dice Sultan Masoud, tenendo in mano una piccola pala durante una pausa dal lavoro. «Altrimenti saremo famosi solo per il terrorismo e l’oppio». Oggi il paesaggio intorno a Mes Aynak è completamente disboscato, ed è possibile che l’antico processo di fusione del rame abbia avuto un ruolo nella desertificazione dell’area. E che questa, a sua volta, sia stata la ragione per cui la produzione del rame cessò. Estrarre dal minerale una modica quantità di rame (0,45 chili) poteva richiedere fino a nove chili di carbone vegetale, e per fare il carbone bisognava bruciare enormi quantità di legname. Tanto ne serviva per mantenere il fuoco a una temperatura di 1.093 gradi centigradi e una piccola fornace accesa per giorni. Nel 2012 lo specialista britannico di archeometallurgia Thomas Eley ha scoperto che nel corso del tempo la produzione di rame era passata da una forma relativamente efficiente di fusione a un processo più lento e complicato, il contrario di quello che si sarebbe aspettato. Ma il processo più efficiente è anche quello che richiede più combustibile; forse la crescente penuria di legname costrinse i fonditori a ripiegare sul metodo più lento. La lavorazione di tutto quel rame richiedeva anche un approvvigionamento idrico sicuro per lavare il minerale e raffreddare i lingotti incandescenti. L’acqua proveniva probabilmente da sorgenti di montagna, corsi d’acqua poco profondi e antichi canali d’irrigazione sotterranei chiamati karez, in uso ancora oggi in alcune parti dell’Afghanistan. Nella parte settentrionale del sito è stato portato alla luce un karez di nove metri, che probabilmente faceva parte di una rete di canali simili. La deforestazione in corso potrebbe aver ridotto la piovosità della zona, rendendo l’acqua ancora più scarsa. Gli archeologi devono far fronte a un problema di sovrabbondanza: data la rapidità con cui procedono gli scavi, si rischia di rimanere indietro con la catalogazione e la conservazione di tutto quello che viene fuori dal terreno. «Scavare è facile», spiega l’ex viceministro della cultura afghana Omar Sultan, che è anche archeologo. «La parte difficile è la salvaguardia». Circa un migliaio dei pezzi più importanti sono andati direttamente al Museo nazionale dell’Afghanistan di Kabul. «Purtroppo non possiamo accettare tutti i reperti», si rammarica Omara Khan Massoudi, che è stato per molti anni il direttore del museo. «Non c’è spazio». Per ora le migliaia di oggetti recuperati che non si sono potuti trasferire al museo si trovano in depositi temporanei a Mes Aynak o nei dintorni. Molti non sono stati ancora né analizzati né studiati. Massoudi e Sultan vorrebbero prima o poi realizzare un museo in loco, ma, almeno a breve termine, l’ipotesi più plausibile per preservare la memoria di Mes Aynak quando partirà l’attività estrattiva è quella di creare un museo e una ricostruzione virtuali. Prima, però, l’Afghanistan deve risolvere i suoi problemi di sicurezza. E nel lungo termine ulteriori ritardi nella realizzazione della miniera potrebbero esporre il sito a nuove e più terribili minacce. La sicurezza di Mes Aynak dipende in larga parte dalla capacità di garantire un lavoro retribuito alla popolazione maschile locale, vulnerabile al richiamo o alla coercizione dei talebani. Inoltre, tra la gente che è stata dislocata dai villaggi per far posto alla miniera di rame c’è un certo malcontento. La Banca Mondiale, che ha finanziato il lavoro degli archeologi attraverso un progetto con il ministero afghano delle miniere e del petrolio, ha stimato che i posti di lavoro creati direttamente dalla miniera saranno 4.500, e svariate migliaia quelli creati indirettamente. Le poche centinaia di uomini che in questi anni hanno preso in mano picconi e pale o hanno svolto altre mansioni di manodopera al sito sono state pagate generosamente per gli standard locali, ma «se non hai cibo né stipendio e i tuoi bambini hanno fame, sei pronto a fare qualunque cosa», dice Habib Rahman, «magari anche unirti ai talebani. Loro ti danno uno stipendio». Nel 2001 questo padre di famiglia quarantaduenne dalla barba ingrigita ha perso una gamba per l’esplosione di una mina mentre badava a un gregge di capre. Adesso cammina con le stampelle, e per venire dal suo villaggio di montagna a Mes Aynak, dove lava i frammenti di ceramica estratti dagli scavi, ci mette due ore all’andata e due al ritorno. La vita dura di persone come Rahman non potrà cambiare granché nell’immediato futuro. Molti, non avendo legami personali con il passato preislamico, non sono interessati alla ricca storia che stanno contribuendo a svelare, e le minacce fatte dai talebani ad alcuni operai, accusati di promuovere il buddhismo, certo non aiutano. Eppure c’è ammirazione per le realizzazioni del passato. «I miei antenati erano musulmani», riflette un operaio di 36 anni, veterano dell’esercito afghano, che dice di chiamarsi Javed, «ma noi sappiamo che su questa terra sono passate tante generazioni. Quando lavoro, penso che qui c’era una civiltà, una fabbrica, una città, dei re. Sì, l’Afghanistan è anche questo». I reperti rinvenuti a migliaia riflettono la ricchezza che questo sito religioso e industriale trasse dal rame. Tra quelli più preziosi, una rara rappresentazione di Siddhartha Gautama prima che diventasse il Buddha, e il più antico Buddha integro di legno che si conosca , una statuetta di 20 centimetri datata all'incirca tra il 400 e il 600 dopo Cristo.
Immagini di Simon Norfolk
Fonte:
www.nationalgeographic.it
Tutto il mondo è paese...non è che in Sardegna sia tanto diverso
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