Considerazioni sulla Dea Madre
di Alberto Massazza
Immaginiamo che la nostra civiltà, fondata sulla centralità
della religione cristiana, collassi e per alcuni secoli venga sepolta
dall’oblio. L’archeologo del futuro che scavasse in un luogo di culto più o
meno importante, si troverebbe di fronte due figure dominanti: una donna
regale, serena, luminosa ed un uomo perlopiù raffigurato in situazioni penose,
crocifisso, flagellato, deposto in un sepolcro. Cosa dovrebbe pensare
quell’archeologo della civiltà che ha partorito una simile iconografia? Stando
alle conclusioni che si vorrebbero trarre su determinati periodi del nostro
passato, dovrebbe dedurre che quella civiltà scomparsa fosse rigorosamente
matriarcale e che ai maschi fossero riservati i lavori più umili e faticosi e
posizioni sociali di assoluta subalternità. Noi sappiamo benissimo che le cose
non stanno affatto così; ciò nonostante, abbiamo la tendenza ad arrivare a
frettolose conclusioni sulla base di ritrovamenti che, per quanto possano
essere numerosi, rappresentano pur sempre un campione infinitesimale della
cultura di appartenenza, specie se si tratta di reperti che affondano nel buio
di una preistoria datata migliaia (se non decine di migliaia) di anni fa.
E’ il caso delle raffigurazioni della cosiddetta Dea Madre o
Grande Madre, statue perlopiù di piccole dimensioni ritrovate in diverse zone
europee, asiatiche e africane e ascrivibili a un lungo periodo della preistoria
che va dal Paleolitico Superiore all’Eneolitico, con caratteristiche
successivamente riproposte e diversificate in divinità femminili dei Pantheon
delle civiltà monumentali e classiche, fino alla figura della stessa Madonna.
Alla grande archeologa lituana Marija Gimbutas si deve
il più imponente e dettagliato tentativo di ricostruzione dell’evoluzione del culto legato a queste raffigurazioni; ricostruzione evidentemente difficile e inevitabilmente aleatoria, vista l’ampiezza dei periodi di tempo e dei territori che sono stati interessati da questo culto.
il più imponente e dettagliato tentativo di ricostruzione dell’evoluzione del culto legato a queste raffigurazioni; ricostruzione evidentemente difficile e inevitabilmente aleatoria, vista l’ampiezza dei periodi di tempo e dei territori che sono stati interessati da questo culto.
La Gimbutas, pur evitando di parlare di
matriarcato, quanto piuttosto di matrifocalità e di maternalismo (evidentemente
intuendo, da donna straordinariamente intelligente qual era, i pericoli di
strumentalizzione della sua ricostruzione in funzione di un estremismo
femminista revanscista nei confronti del maschio), giunse comunque alla
conclusione, a mio parere arbitraria e manichea, di una continuità culturale
dal Paleolitico Superiore a tutto il Neolitico, fondata sulla centralità della
Dea Madre; una civiltà pacifica e egualitaria, in cui la figura femminile era
il punto di riferimento della comunità, destinata a durare fino alle invasioni
dei bellicosi Indoeuropei che instaurarono il patriarcato, la società divisa in
caste e il militarismo.
La rappresentazione della Dea Madre, com’è noto, inizialmente
steatopigia (dai glutei abbondanti), con forte evidenziazione degli attributi
sessuali e dell’essere fonte di vita e di nutrimento, rimase legata a questo
modello fino al Neolitico antico, assumendo prerogative sempre più complesse,
per subire successivamente una stilizzazione astratta e geometrica, fino alla
frantumazione in divinità specializzate dalle quali deriverebbero numerose
divinità femminili della storia antica e non solo. Il processo di stilizzazione
è ben rappresentato in Sardegna, dove in un arco di tempo relativamente
breve si è passati dalla cosiddetta Venere di Macomer, di indubbia ascendenza
paleolitica e di incerta attribuzione (tra la fine del Paleolitico e l’inizio
del Neolitico, dal 10000 al 5000 ca. a.C.), alle diverse rappresentazioni della
Dea ascrivibili alla Cultura di Bonu Ighinu (V-IV millennio a.C.), dalle forme
ancora abbondanti, ma con una raffinata cura del dettaglio e un senso inedito
dell’ordine (forse specchio di un’organizzazione del sacro e della società ben
strutturata), fino alla stilizzata Venere della cultura di Ozieri, nella
caratteristica forma a croce, con lineamenti e attributi sessuali appena
accennati; echi della Dea Madre si possono ritrovare nella bronzistica
nuragica, in particolare nella cosiddetta Madre dell’ucciso di Urzulei e quelle
di Serri, interpretate come madri imploranti per i loro figli o come Dee Madri
con figli divini.
A sostegno della tesi matriarcale si è avanzata l’ipotesi che
l’uomo, non avendo ancora messo in relazione l’atto sessuale con la gravidanza
e il parto, ritenesse la donna in grado di generare autonomamente. Questa tesi
sottovaluta le capacità intuitive e analogiche dell’uomo preistorico che già da
un buon milione di anni era capace di manipolare il fuoco e di utilizzarlo per
cacciare le prede e per difendersi dai predatori. Si è anche sostenuto
erroneamente, come chiarito dalla stessa Gimbutas, che la Dea Madre sia stata
la prima e per lungo tempo unica divinità. In realtà, parallelamente alla Dea
Madre (forse addirittura con qualche anticipo, stando alle datazioni più
aggiornate), si sviluppò un’altra forma di religiosità legata alla
rappresentazione parietale di scene di caccia, attività prettamente maschile e
principale fonte di sostentamento per gli uomini del Paleolitico. In
particolare, emerse una figura ibrida o comunque simulante l’ibridazione tra
uomo e animale, attraverso l’utilizzo di maschere, pelli, corna ecc.; figura
che suggerisce la pratica sciamanica. D’altronde, mi pare poco credibile che in
comunità dove la caccia aveva un ruolo ancora preponderante, la figura
femminile potesse rivestire un ruolo centrale.
Accanto alla caccia, piuttosto, come attività sussidiaria,
c’era la raccolta. Mettiamola così: più o meno contemporaneamente, in zone
fortunate per la caccia e/o per la raccolta, si manifestano due atteggiamenti
ascrivibili alla sfera del sacro. Il primo è direttamente propiziatorio per
l’attività umana, pratico, utilitaristico, maschile; il secondo è legato ai
grandi interrogativi della vita, più concettuale e astratto, consolatorio,
femminile. La crisi della caccia successiva alla fine dell’ultima glaciazione
fece aquistare sempre più centralità alla Dea Madre, facilmente adattabile alle
necessità spirituali dei primi agricoltori. Forse in questo frangente, una
volta raffinate le tecniche agricole e dell’allevamento e messo a regime un
ciclo produttivo in grado di sostenere la pressione demografica, si poté
realizzare quella società armoniosa e prospera pensata da Marija Gimbutas (la
mitica età dell’oro?), prima che criticità legate alla produzione agricola o
alla pressione demografica (la stlizzazione e l’astrazione, in quanto
trascendenti, potrebbero essere proprio il segno di una crisi), o le brame di
conquista di nomadi militarizzati, o ancora i flussi oceanici indoeuropei, non
la facessero crollare. Non un matriarcato, probabilmente, ma comunità che
riconoscevano e valorizzavano le prerogative femminili.
O forse la mitica età dell’oro fu quando i paleolitici
trovarono i luoghi ideali per le loro attività di caccia e di raccolta e,
grazie all’aumento di tempo libero, poterono liberare la loro capacità
immaginativa e crearsi delle divinità da ingraziarsi e ringraziare. E perché
no: proprio in questi luoghi dove la caccia e la raccolta erano più abbondanti,
l’uomo, sulle ali delle sue capacità di astrazione e di analogia, iniziò a
sperimentare la coltivazione delle specie vegetali e l’addomesticamento degli
animali. Di sicuro, come rilevato da Jung, la figura della Dea Madre
rappresenta un archetipo che attraversa tutta la storia dell’umanità, con
caratteri che emergono in figure divine appartenenti alle più disparate culture
del mondo.
Fonte: https://albertomassazza.wordpress.com
Mi dispiace ma trovo molte (troppe) congetture in questo articolo come ad esempio l'idea che la caccia sia stata l'attività principale come fonte di sostentamento per gli uomini del Paleolitico, personalmente non lo darei così per scontato; la raccolta (con la capacità di riconoscimento di cibo commestibile) è a tutt'oggi nelle culture tribali amazzoniche il principale mezzo di sostentamento. La carne è sempre un avvenimento eccezionale. E la cultura sciamanica non precludeva affatto la donna. Poi la frase "Il primo è direttamente propiziatorio per l’attività umana, pratico, utilitaristico, maschile; il secondo è legato ai grandi interrogativi della vita, più concettuale e astratto, consolatorio, femminile." E' semplicemente anacronostica
RispondiEliminaSplendido articolo che condivido come studioso della psiche dell'uomo preistorico. Mi piacerebbe conoscere chi ha scritto questo articolo.
RispondiEliminaAlberto Massazza
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