mercoledì 31 ottobre 2012

Bosa, due macine del IV secolo a.C. ritrovate in mare dalla Guardia di finanza

Bosa, due macine del IV secolo a.C.
ritrovate in mare dalla Guardia di finanza



Due macine in pietra, risalenti al IV secolo a.C., sono state recuperate dalla Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Alghero nelle acque di Bosa.

L'operazione di ricerca e recupero, il primo di questo tipo nella zona della Planargia, si è svolta nelle acque a nord del litorale di Bosa e ha visto protagonisti i sommozzatori delle Fiamme Gialle, coordinati dal tenente Francesco Sancineto, in collaborazione col personale della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro. Attraverso l'impiego del Guardacoste G.208 Maresciallo Casotti del Reparto di Alghero e l'ausilio degli esperti sub della soprintendenza e del Corpo della Guardia di Finanza, durante la ricognizione del fondo marino sono state individuate le macine in pietra che si trovavano ad una profondità di circa 15 metri. All'importante scoperta sono subito seguite le operazioni di recupero.


I reperti storici sono stati posti a disposizione dei responsabili della Soprintendenza Archeologica di Sassari. Le due macine, di forma circolare con un diametro di 35 cm, uno spessore di 15 cm circa ed un foro al centro, sono analoghe a quelle utilizzate in quel periodo a bordo delle navi per ricavare la farina dai cereali. Arnesi che rappresentano la tecnologia di quel tempo ed il loro rinvenimento consente di aggiungere ogni volta un tassello utile alla ricostruzione della vita svolta quotidianamente a bordo di quelle navi che solcavano anticamente il mare. La scoperta di questi antichi manufatti si aggiunge ad altre, anche recenti, effettuate dagli uomini del Reparto Operativo Aeronavale di Cagliari impegnati in prima linea in mare e sul territorio a tutela del patrimonio naturale ed archeologico della Sardegna.

Fonte: L'Unione Sarda
Le immagini non sono quelle delle macine ritrovate. Al momento non è stata diffusa alcuna foto.

Archeologia: nuove dal web

Arbeia



Volontari dell'archeologia hanno riportato alla luce, nel forte romano di Arbeia, nel South Shields, una serie di interessantissimi reperti. Arbeia è l'unico forte sul Vallo di Adriano dove è possibile vedere e prendere parte agli scavi archeologici in corso.
I recenti ritrovamenti fanno pensare che vi sia dell'altro, custodito nella terra di Arbeia. Sono stati ritrovati frammenti della mascella di un cane ed ossa di altri animali che erano sepolti, si pensa, a fini rituali.
Il forte di Arbeia, in rovina, è stato in parte ricostruito. Fu edificato intorno al 120 d.C. ed ospita gli unici magazzini in pietra di tutta la Gran Bretagna, utilizzati per lo stoccaggio del grano.
Uno dei significati di Arbeia potrebbe essere "forte delle truppe arabe", in riferimento al fatto che, un tempo, una parte della guarnigione del forte era costituita da uno squadrone di barcaioli del Tigri. Si sa anche che era di stanza ad Arbeia uno squadrone di cavalleria delle Asturie.

Ottimi frutti per gli archeologi italiani in Iraq



La missione archeologica dell'Università di Udine ha scoperto il cuore dell'impero Assiro. Si tratta di oltre 200 siti dell'Iraq settentrionale.
Gli Assiri dominarono la Mesopotamia intorno al I millennio a.C. La prima campagna di scavi ha permesso di rivelare ben 239 siti archeologici finora sconosciuti, che attraversano un periodo compreso tra il IX millennio a.C. e il periodo medioevale e ottomano. Sono stati scavati anche cinque acquedotti dell'VIII-VII secolo a.C. ed una serie di canali ad essi collegati, nonché una necropoli del XIX-XVIII secolo a.C. e di bassorilievi rupestri del VII secolo a.C.
La missione dell'Università di Udine ha promosso la prima ricerca archeologica intensiva, sistematica e interdisciplnare nella terra di Ninive, un'area di 2.900 chilometri quadrati tra le province di Ninive (Mosul) e Dohuk. La prima campagna è durata tre mesi, da luglio a ottobre ed ha coinvolto docenti, studenti, specializzandi e dottorandi delle Università di Udine, Venezia e Verona, specialisti degli Atenei di Milano, Modena e Reggio Emilia, Venezia e dell'Istituto per le Tecnologie applicate ai Beni culturali del Cnr di Roma.



Uno degli scopi più importanti delle ricerche è stata la ricostruzione geoarcheologica e topografica dell'imponente e sconosciuto sistema idraulico costruito tra l'VIII e VII secolo a.C. dal sovrano assiro Sennacherib per portare l'acqua alla città di Ninive.
La regione fu densamente popolata intorno alla metà del III millennio a.C. e al periodo neo-assiro (IX-VII secolo a.C.), quando nell'entroterra di Ninive si contavano cento tra città fortificate, villaggi e fattorie che godevano dei benefici della efficiente rete idraulica fatta costruire da Sennacherib.
Le ricerche di canali scavati nella roccia ha permesso agli archeologi di individuare anche sei bassorilievi scolpiti, parte di una serie di ben nove bassorilievi sepolti dai detriti accumulatisi nei secoli. Di questi bassorilievi erano noti solamente tre che contenevano una processione con le principali divinità assire.
Le necropoli scoperte dalla missione archeologica italiana risalgono al periodo paleo-assiro e si trovano nel sito di Tell Gomel, lungo il fiume Gomel. La necropoli presenta ricche tombe a camera costruite con mattoni cotti e struttura ad arco. L'area di Tell Gomel, a sua volta, possiede un'acropoli ed una vasta città bassa ai suoi piedi. Proprio nella pianura dominata dall'altura di Tell Gomel lo storico Sir Aurel Stein colloca il campo di battaglia di Gaugamela, dove nel 331 a.C. Alessandro Magno sconfisse Dario III.



Antichi naufragi nel mar ligure



Mille anfore sono state individuate sul fondo del mare a poca distanza da Porto Venere.
E' stato proiettato, per la prima volta, il filmato del ritrovamento della nave romana avvenuto a 17 miglia a sud dell'isola del Tino ad opera dell'archeologo subacqueo Guido Gai. Sul fondale, a 400 metri di profondità, una distesa di anfore di terracotta, che "parlano" di traffici avvenuti tra il IV e il III secolo a.C. Sono anfore greco-italiche, prodotte, con tutta probabilità, nell'area laziale, utilizzate per il trasporto di vino in Gallia. Purtroppo molte anfore sono ridotte in frammenti a causa del passaggio delle reti a strascico.


Fonte: Le nebbie del tempo

martedì 30 ottobre 2012

Video - Viaggio nella storia fra Nuraghi - Domus De Maria

Viaggio nella Storia - Domus De Maria e i Nuraghi.
di Pierluigi Montalbano






Cliccare sul video per ingrandirlo e vederlo.


Si è svolto a Domus De Maria il 2° appuntamento con l’Associazione Tsìppiri che promuove dal 30 Settembre al 2 Dicembre 2012 in 4 località di interesse archeologico, una serie di appuntamenti domenicali con visite guidate e dibattiti culturali a cura di esperti di archeologia e storia sarda.
L’iniziativa, giunta alla sesta edizione è mirata alla presentazione di un percorso di cultura fra le possibilità di svago. Si vuole suggerire un punto d’incontro tra la frenetica quotidianità della città e l’incantevole tranquillità di una gita domenicale in campagna.


L’offerta si svolge secondo un calendario d’incontri con autori e relatori e visite ai siti.
Si affrontano diversi ambiti tematici: arte, storia e relazioni con altri popoli. I percorsi sono strutturati secondo il territorio visitato e prevedono una sosta gastronomica nelle migliori strutture ricettive agrituristiche della zona. Sarà offerta l’opportunità di rivisitare gli antichi sapori della cucina tradizionale sarda.

L’insieme dei beni archeologici e paesaggistici, uniti alla tradizionale ospitalità dei ristoratori dell’isola, è quanto di più prezioso può offrire la Sardegna ai visitatori, e la sensibilizzazione alla salvaguardia di questo immenso patrimonio è obiettivo da perseguire tenacemente e incessantemente.


Alcuni studiosi sardi si mettono a disposizione della comunità e mostrano l’altro aspetto della loro attività: la divulgazione. Troppo spesso le impersonali sale convegni evidenziano la barriera invisibile fra relatori e uditorio, e questa idea nasce proprio dalla ricerca di un contatto informale fra due mondi che vorrebbero incontrarsi ma non riescono a trovare i luoghi idonei. Dopo il successo delle scorse edizioni, si è preferito mantenere immutato il progetto didattico, e il programma degli incontri consentirà ai partecipanti di acquisire le nozioni fondamentali per una corretta lettura del territorio e del patrimonio naturalistico e archeologico dell’isola.
Ogni domenica è suddivisa in convegno-dibattito con gli autori, pranzo in agriturismo e visite guidate nei siti.


Domenica 30 Settembre – Giara di Siddi
Mattina - Visita alla tomba di Giganti di Lunamatrona
Convegno-dibattito su Domus De Janas e Tombe di Giganti
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro
Pomeriggio - Passeggiata sulla Giara e visita a Sa Domu ‘e S’Orku
In serata degustazione di vini presso le Cantine Lilliu

Domenica 28 Ottobre – Domus De Maria
Mattina - Visita al Museo Archeologico di Domus De Maria
Convegno-dibattito sulla civiltà nuragica
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro
Pomeriggio - Passeggiata con visita al nuraghe e alla Tomba di Giganti


Domenica 18 Novembre – Nuraghe Arrubiu
Mattina - Visita guidata al Nuraghe Arrubiu di Orroli
Pranzo tipico con carne di bufalo e mozzarelle di bufala
Pomeriggio – Visita guidata alla fattoria didattica di Siurgus Donigala - Borgo Maiora
http://www.mozzarellamaiora.com/
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso al sito 25 Euro (max 100 posti)

Domenica 2 Dicembre – Serri
Mattina – Convegno-dibattito sui bronzetti nuragici
Pranzo caratteristico con menù nuragico basato sugli alimenti dell’epoca
Pomeriggio - Visita guidata al Santuario Nuragico di Santa Vittoria
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso al sito 30 Euro (max 100 posti)

La partecipazione libera.
Informazioni e prenotazioni: pierlu.mont@libero.it
In tutti i siti sarà possibile acquistare prodotti alimentari a km zero

lunedì 29 ottobre 2012

Le navicelle bronzee nuragiche 2° e ultima parte


Le navicelle bronzee nuragiche 2° parte di 2
di Pierluigi Montalbano


Dopo l'introduzione alle navicelle, come promesso, inserisco una panoramica delle imbarcazioni in bronzo più celebri fra quelle visibili nei musei sardi.



Tutte le navicelle pongono quesiti di difficile soluzione per la funzione svolta.


Erano barche in miniatura?



E' possibile creare questi oggetti se non si hanno competenze marinaresche?

Le tracce archeologiche metallurgiche, ceramiche e architettoniche lasciate dai sardi sono numerose e importanti. E' possibile che ci siano così tante interpretazioni ma nessuna sia convincente?



Orli e listelli in rilievo sulle mura
Lo scafo delle navicelle nuragiche, di disegno lineare e di norma austero nella decorazione, presenta talvolta sulle fiancate uno o più ordini di rilievi che, a differenti altezze, corrono lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. Gli scafi di tipo V possiedono sempre almeno due cordonature; una, superiore, solitamente situata poco sotto il bordo; un'altra, inferiore, sempre in corrispondenza dell’intersecarsi del fondo con le bande. Una terza cordonatura è talvolta interposta equidistante tra le prime due.
Sappiamo per certo che la cantieristica antica faceva largo uso di funi e gomene nella costruzione degli scafi. Non solo nella legatura delle stuoie di papiro, come documentato nei numerosi dipinti egizi dell'Antico Impero, ma anche nella costruzione di scafi in legno, utilizzandole con precise funzioni strutturali. Questa cima era destinata a contrastare le forze che, qualora la nave si fosse trovata in dorso d'onda, avrebbero altrimenti spezzato in due o più parti lo scafo.
La struttura doveva probabilmente essere completata da una seconda cima, tesa al di sotto della chiglia, allo scopo di conferire uguale resistenza alle opposte sollecitazioni alle quali la nave era invece soggetta durante la navigazione in caso d'onda. Poco sotto il bordo, ancora oggi è d'uso che le piccole imbarcazioni applichino un listello di legno, con funzione di paracolpi (detto bottazzo), situato in tale posizione per sfruttare la maggiore resistenza che ha lo scafo in corrispondenza dell'intersezione tra le mura e le pontature di coperta.
Questo listello viene talvolta sostituito da una grossa gomena, come d'uso ancor oggi, che con il medesimo scopo corre lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. L'ipotesi che i rilievi a listello (e la funicella), presenti poco sotto il bordo delle navicelle nuragiche con scafo di tipo V, siano un elemento strutturale e non decorativo della costruzione, sarebbe accettabile se tali navicelle fossero il modello di imbarcazioni di modeste dimensioni adibite a compiti di traghettamento, con la conseguente necessità di proteggere lo scafo dai frequenti piccoli urti durante le operazioni di accosto, di abbordo, di approdo.
Se così fosse sarebbe possibile, a partire dalla presumibile dimensione delle gomene e dal posizionamento dei parabordi, trarre una precisa indicazione di scala che ci consentirebbe di stimare intorno ai 7 metri la lunghezza dell'eventuale modello reale di una navicella con scafo del tipo V.
Completano lo scafo di molte navicelle, oltre la protome e gli apparati di sospensione, diversi altri elementi, strutture e attrezzature tra i quali possiamo comprendere, insieme al gavone di prora che spesso risulta dalla fusione della protome con lo scafo, altri oggetti quali trasti, anellini, animali, totem, rilievi, colonnine, barrette di rinforzo.
La connessione delle parti può essere ottenuta fondamentalmente in due modi: mediante un procedimento di fusione limitato alle superfici da unire oppure mediante l'introduzione tra esse di un altro metallo fuso.
Il gavone di prora è del tutto assente negli scafi cuoriformi e del tipo V, dove è spesso sostituito da una particolare giunzione della protome che simula una funicella avvolta a spirale. Il gavone non svolge solo la funzione di tenere all'asciutto cibi, indumenti e quant'altro occorra riparare dall'acqua durante la navigazione, ma anche quella, strutturale, di chiudere con una parziale pontatura, irrobustendola, la sezione di scafo maggiormente esposta alla violenza delle onde.
La presenza del gavone può essere trascurata solo nel caso di piccoli scafi, destinati ad acque tranquille. La sua assenza parrebbe allora confermare che almeno per quanto concerne gli scafi di tipo V, non a caso sempre privi di albero, siano da escludere le grandi dimensioni e l'utilizzazione nella navigazione d'altura.
L'ambito costiero-palustre dello scafo del tipo V consentirebbe allora una diversa lettura del piccolo anellino che compare in posizione laterale su alcuni scafi, nonché del piccolo rilievo a “sella” presente sui tre scafi cuoriformi. Tanto l'anellino che il rilievo a sella si mostrano sempre nella medesima posizione, sull'orlo delle mura di sinistra in posizione circa equidistante tra prua e poppa.
Secondo Lilliu nella n° 78 da Tula questo anello sostituiva l'anello che, in altri esempi, sormonta il mezzo del manico a doppio ponte, e ancora quando si voleva appendere l'oggetto dopo l'uso in piano. L'interpretazione lascia tuttavia spazio ad alcune considerazioni:
1) ci si domanda per quale motivo l'anellino sia presente su alcune barche del tipo V e C, mai in quelle di tipo E ed EV, e sia sempre posizionato nel medesimo punto rigorosamente sul lato sinistro;
2) non si vede inoltre la necessità di un ulteriore anello di sospensione, e per giunta di tanto minori dimensioni, in alternativa ad altri numerosi e più efficienti appigli, come il manico, l'anello, la protome.
Cosa si deve intendere poi per “appendere dopo l'uso”? Certamente l'espressione è da riferire all'uso domestico dell'oggetto-lucerna. Ma l'unico risultato pratico che poteva ottenersi appendendo l'oggetto lateralmente era forse quello di facilitare lo sgocciolamento dell'olio combustibile residuo, al fine di ripulire perfettamente la lampada.
Resta tuttavia da chiedersi se un artificio di così complessa realizzazione (l'anellino doveva essere fuso a parte e poi saldato in una posizione che consentisse di bilanciare l'oggetto) sia giustificabile dal modesto risultato raggiunto, che si sarebbe più facilmente potuto conseguire posando la barchetta capovolta su un piano ovvero sospendendola per la protome. Tuttavia in questi due ultimi casi i manufatti si sarebbero potuti danneggiare.
Negli scafi cuoriformi compare un piccolo rilievo a sella che per Lilliu “forse stilizza un uccello o qualche altro animaletto”. Tuttavia riesce assai difficile leggere nel rilievo la stilizzazione di un uccello e non si comprende perché in questi scafi debba mostrarsi appena accennato e per di più rinunciando alla simmetria che su altre navicelle nuragiche vuole gli uccelli sempre disposti a coppie.
Potremmo allora avanzare l'ipotesi che questi rilievi altro non siano che i frammenti residui di anellini del tutto simili a quelli già visti sulle navicelle del tipo V, e che la posizione meno protetta abbia fatto sì che nessuno di tali anelli si sia conservato integro. Si può allora ipotizzare che tale anellino non rappresenti se non un particolare tipo di scalmo atto ad accogliere un solo remo, propulsore e direzionale insieme, ovvero una pertica atta alla navigazione lagunare e palustre in bassi fondali, ovvero un unico remo con funzioni solo direzionali. Sulle navi nuragiche la propulsione doveva essere affidata a remi a pagaia (così come sono d'altronde equipaggiate le barche fenice di Korshabad), vista l'assenza di altri oggetti sulle fiancate interpretabili come scalmi. Difficilmente si può ravvisare nelle colombelle un vezzo artistico di oggetti aventi funzione di scalmo.


Le colombelle sull’anello di sospensione...e altri animali.
Diversamente vanno interpretate le colombelle che spesso ornano la sommità dell'anello di sospensione. Esistono sostanzialmente due linee di interpretazione: una fa capo al Lamarmora che considera le colombelle animali esclusivamente e variamente simbolici; l'altra, del Crespi, che legge nei volatili anche un significato funzionale e pratico, allude alla avventurosa scoperta della terra, mediante la direzione segnata dal passaggio delle emigrazioni di certi volatili. La tesi ricorda come non si può escludere che le colombelle rappresentate avessero più che funzione rituale valore pratico, “per il loro sapersi dirigere, se liberate, verso casa e che i marinai di legni a vela usavano talvolta liberare le colombe quali vivi, anche se muti e romantici, messaggi di favorevoli navigazioni”. Il navigante, fuori dalla vista della terra, faceva uso di uccelli che liberava da una gabbia e seguiva nel loro volo per raggiungere l'approdo. Questo metodo, noto nel viaggio degli Argonauti (Apollodoro), è lo stesso raffigurato su di un sigillo babilonese, seguito da Ut-Napitshstim (il Noè babilonese) nella leggenda del diluvio, e dai suoi successori biblici. La tesi trova ulteriore conferma nelle navicelle sarde dove la colombella si trova in cima all'anello di sospensione, quasi sempre, salvo nei manufatti n° 15 da Nuragus e n° 40 da Gravisca, correlata alla presenza dell'albero o del semialbero.
Anche altri animali, oltre le colombelle e quelli raffigurati nelle protomi, sono presenti su alcune navicelle sarde. Nella n° 43 da Nuoro appare una scimmia, nella n° 2 da Abbasanta Lilliu pensa di riconoscere un topo o un ranocchio, nella n° 31 da Bultei la battagliola è ornata da due cani, nella n° 64 navicella del Duce da Vetulonia Lilliu descrive due anatrelle, un riccio, alcuni cani, un suino, un torello con le corna giovani, una pecora e un animale sdraiato e disteso per lungo sull'orlo.

Il Lilliu ritiene “la navicella da Vetulonia, come le analoghe, un esempio di battello da trasporto di lunga navigazione per la forma e le dimensioni, ma non certamente per l'ornato plastico, che non ha relazione alcuna con animali trasportati per mare. A quale scopo caricare cani e cinghiali?”.
Tuttavia lo scopo c’è: i cani sono animali da caccia e per la difesa personale, mentre i cinghiali erano preziosi per la carne e il grasso. I cinghiali possono essere addomesticati se catturati da piccoli e perciò potevano diventare una merce. Inoltre i denti e le zanne erano ottimi talismani per la loro forma lunata.
Altre strutture presenti in coperta su alcune navicelle di età nuragica sono infine barrette bronzee, cosiddette di rinforzo. Il Crespi avanza l'ipotesi che le lunghe barrette raffigurino due remi ovvero un albero a doppia antenna, temporaneamente smontato come d'uso sulle navi antiche. Vi sono inoltre le protomi prodiere: tutte le navicelle oggi conosciute, qualunque sia la foggia dello scafo, mostrano traccia di un prolungamento della prora ornato da una protome animale che riproduce in modi diversi il toro (o il bue), il cervo (o il daino), l'ariete (o il muflone). Il toro è la figura predominante.
Estremamente varia è poi la tipologia delle corna, nelle quali gli artigiani si sono sbizzarriti, per Lilliu, “nell'inventare forme, posizioni, movimenti vari, per lo più naturali rendendole col modellato per lo più robusto ma non pesante e quasi sempre elegante nelle linee bellamente ricurve”. Anche la lunghezza e l'orientamento del collo presentano una ricchissima casistica, variando da inclinazioni perfettamente orizzontali ad altre esattamente verticali. Non è da escludere l'ipotesi che la protome, saldata per ultima alla prua, venisse poi modificata nell'orientamento, deformandone il collo, per bilanciare in modo micrometrico la navicella.
Dal punto di vista nautico le protomi delle navicelle sarde, di generose dimensioni, paiono nella maggior parte dei casi inadatte alla navigazione. Nel maggior numero dei casi le protomi venivano fuse a parte e solo in un secondo momento saldate alla prora, con tecniche diverse. Si possono riconoscere le tecniche d'unione “a manicotto”, più diffuse sulle barche del tipo V, e le tecniche a “piastra saldata”, più comuni sugli scafi ellittici. Nella tecnica a manicotto la protome viene innestata tramite un bottone o spinotto in un corrispondente alloggiamento. Nella tecnica a piastra saldata la protome presenta all'estremità inferiore del collo una flangia triangolare che viene adattata, saldandola, alla prora dello scafo, formando in tal modo una sorta di gavone.
Molte delle barchette nuragiche possono essere utilizzate, oltre che posate su un piano, anche in posizione sospesa. Ciò grazie ad appositi apparati di sospensione i quali, seppure di differenti fogge, presentano tutti sulla cima un anello verticale e sono calibrati in modo da consentire l'equilibrio dell'oggetto, che nel supposto uso come lucerna doveva essere tale da evitare ogni perdita di liquido combustibile.
La tipologia degli apparati di sospensione può essere ordinata secondo tre classi ben distinte: a ponte, ad albero impostato sul fondo, mista. Al culmine è situato un anello, talvolta aperto sulla sommità, altre volte saldato o chiuso in cima da una colombella. È possibile che all'anello fosse collegata una corda o una catenella del tipo “a otto”, ben noto ai fonditori di età nuragica. La sezione piatta delle maglie sembra bene adattarsi agli anelli aperti nei quali l'ultima maglia della catena poteva facilmente essere introdotta di traverso per poi reggere senza difficoltà, quando raddrizzata, l'oggetto.
L'uso di funi o catenelle sembra tuttavia impedito, in alcune navicelle, dalla presenza della colombella che sovrasta l'anello. Ci pare allora più verosimile ipotizzare che la navicella venisse sospesa inserendo l'anello in un piolo fissato alla parete in posizione orizzontale. In questo modo la colombella, lungi dal rappresentare un ostacolo, sarebbe anzi servita da appiglio per sfilare più comodamente la navicella dal suo sostegno.
Al di là delle evidenti funzioni che il manico a ponte riveste nell'oggetto-lucerna, resterebbe da chiedersi fino a che punto la sua foggia possa aver tratto ispirazione da strutture similari eventualmente presenti su un ipotetico modello reale.
Strutture centinate simili nella forma sono visibili su barche egizie dell'Antico Impero e possono essere ritrovate nei cerchi a botte delle imbarcazioni tradizionali del lago di Como. Un preciso richiamo a queste strutture, la cui funzione era quella di offrire, ricoperta con pelli o tessuti, un estemporaneo riparo dalle intemperie, uno spazio per il pernottamento. Una protezione alle merci più delicate si può leggere anche nella costruzione centinata a graticcio (cabina?) che è presente nella n° 53 (proveniente dalla Sardegna).
In luogo della più diffusa sospensione a ponte, sette navicelle presentano un vero e proprio albero saldato al fondo e terminante con una sorta di capitello, in cima al quale è impostato l'anello, che in questo tipo di barche è sempre sormontato da una colombella che guarda verso poppa.
Altre dodici barchette adottano invece un sistema misto, in virtù del quale un albero più piccolo è fuso in un sol pezzo sulla sommità di un manico del tipo a doppio ponte. Tanto la sospensione ad albero che quella a semialbero sono caratteristiche esclusive delle barchette a scafo ellittico di tipo E ed EV, e mancano del tutto negli scafi cuoriformi C e in quelli del tipo V.
L'albero delle barchette nuragiche, basso e tozzo, pare inadatto ad accogliere un gioco velico. È tuttavia possibile che alberi di tal fatta non fossero destinati ad accogliere vele, ma avessero in realtà il compito di sostenere, come nella hippos fenicia, una coffa di avvistamento da leggersi nel disegno a capitello della parte terminale della struttura.
Questi capitelli sono sorprendentemente simili ai ballatoi delle torri nuragiche così come raffigurate nei modellini classificati da Lilliu con Sc. 268 e 269 (da Ittireddu e Olmedo), tanto da far ritenere non improponibile l'ipotesi che alcuni alberi volessero in qualche modo significare, quasi come una sorta di “insegna nazionale”, la struttura a torre dell'edificio più rappresentativo della civiltà nuragica.

Nelle immagini, alcune navicelle conservate al Museo Archeologico di Cagliari: Cuoriforme con antropoide e trilicne da Mandas.


Considerazioni sugli aspetti formali e simbolici
È evidente che gli artigiani tendevano a creare un oggetto che riproducesse la forma di un'imbarcazione ed è opportuno tenere presente l'esistenza di tre categorie fondamentali di modelli:
- vere e proprie riproduzioni di navi;
- oggetti d’uso nei quali l’aspetto naviforme ha un semplice scopo decorativo;
- prodotti simbolici di uso cultuale, specie in contesti funerari, legati al concetto del viaggio nell'oltretomba.
L'identificazione delle navicelle come doni votivi è strettamente dipendente dal contesto di rinvenimento, anche se a volte si è abusato nell’attribuire alla sfera votiva gli oggetti di cui non si riusciva ad individuare la funzione. Il dono votivo può essere un atto di gratitudine alla divinità da parte di un uomo di mare per lo scampato pericolo.
Il rinvenimento di questi modellini in contesti domestici, fa pensare a un loro uso nel quotidiano: oggetti votivi, lampade, simboli di prestigio. Votivo significa “offerto alla divinità”, e come tale può ben indicare un oggetto che ha una funzione pratica: una lucerna a navicella può avere anche un uso pratico. Il ritrovamento in diversi contesti dimostra che il bene era prezioso sia nella vita che nella morte.
Il valore religioso, oltre che dalla collocazione nei luoghi sacri, era messo in rilievo dalla valenza di ex-voto di particolare prestigio e importanza, ed all'utilizzazione della navicella come lucerna votiva adoperata nell'illuminazione degli ambienti bui, all'interno di santuari e sacelli, poggiata su un piano o sospesa per mezzo dell’appiccagnolo. La funzione di lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con un'analoga classe di manufatti realizzati in ceramica. Gli elementi più significativi di confronto giungono dai risultati di un'importante scavo effettuato nel nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.
Durante lo scavo del vano “e” in strati databili al Bronzo finale, alla prima età del Ferro e all'età orientalizzante e arcaica, si rinvennero oltre 500 modellini fittili di navicelle. I dati dello scavo, condotto da Giovanni Ugas nel luglio 1989, e parzialmente editi dallo stesso autore nel 1990, mostrano la maggior parte delle navicelle con una protome generalmente bovina all'estremità della prua. Il ritrovamento di questi oggetti in un ambiente del nuraghe chiaramente adibito a sacello ribadisce il valore cultuale di queste classi di oggetti che richiamano negli aspetti tipologici le più preziose navicelle di metallo.

Al di là di un loro utilizzo in termini funzionali si leggono significati legati a convenzioni simbolico-religiose che rispecchiavano valori sociali in relazione con la figura dello status dell'offerente. La presenza di rappresentazioni animali sul margine di alcuni modellini può essere interpretata come espressione della volontà di accentuare con la ricchezza di elementi figurati il valore e l'importanza dell'oggetto.
Il ritrovamento di numerose navicelle in aree non cultuali, ripostigli ed ambiti insediativi, evidenzia comunque la circolazione e la tesaurizzazione del bene tra membri di rango della comunità, prospettando una possibilità della realizzazione dell'oggetto di pregio e della sua conservazione, non solo in vista del dono alla divinità, ma anche con l'intento di custodire in ambito domestico, privato o comunitario, un manufatto prezioso da riservare eventualmente per pratiche di scambio e dono ma questa ipotesi attualmente non si può dimostrare.
Le navicelle sono nate dall'osservazione delle imbarcazioni del tempo, lo attestano legature, alte mura, alberi, coffa. Negli esemplari più ricchi si aggiungono piccole sculture riproducenti animali. Le imbarcazioni attestano quindi un interesse per la navigazione che non poteva mancare in un popolo coinvolto nelle relazioni con l'esterno e stanziato in una terra insulare che, anche per posizione geografica, si pone al centro di un'area di intensi traffici transmarini.
Le rimarcate divergenze tipologico-formali che distinguono gli scafi delle navicelle bronzee di età nuragica possono costituire il punto di partenza per un tentativo di classificazione: da un lato abbiamo le navicelle a scafo ellittico-convesso tipo E ed EV, dall'altro le barchette con scafo del tipo V, che a loro volta mostrano qualche affinità con le navi del tipo C.
Le barchette ellittiche presentano spesso protomi prodiere di maggiori dimensioni, le colombelle, le sospensioni ad albero e a semialbero, il gavone prodiero. Gli scafi del tipo V si distinguono, oltre che per la foggia, per la presenza di costolature a rilievo sulle mura, protomi prodiere solitamente piccole, manici a ponte spesso con decorazioni e talora in forma di giogo bovino, peducci di sostegno, l'assenza di colombella sull'anello di sospensione e, talvolta, presenza dell'anellino sul bordo sinistro.
Lo scafo cuoriforme del tipo C, presenta anch’esso l'anellino sinistro e una piccola protome con lungo collo orizzontale. Le differenti forme degli scafi, ma anche il differente gusto decorativo per la foggia delle protomi, per l'alberatura e per la presenza di importanti dettagli nautici, deve farci ritenere che proprio gli scafi angolosi del tipo V, più di quelli ellittici, possono rappresentare vere e proprie riproduzioni di imbarcazioni d'uso locale, per brevi spostamenti, di piccolo cabotaggio.
Notiamo quindi delle tipologie parallele fra gli scafi, non un unico percorso evolutivo, da semplici scafi cuoriformi alle navicelle più elaborate, forse una tradizione di barche forestiere, dapprima soltanto osservate, in seguito forse anche imitate dalla cantieristica isolana. Cantieristica che doveva peraltro essere limitata dalla qualità e quantità dei materiali.
Mancavano in Sardegna alberi alti fino a 40 metri, come i grandi cedri del Libano, indispensabili per costruire lunghe e solide chiglie, remi, alberature. Si sarebbero potuti utilizzare i pini mediterranei, le querce o i cipressi, anche se il risultato non sarebbe stato paragonabile. Mancava il bitume, che consentiva di calafatare e rendere impermeabili gli scafi, il fasciame, i legni e le pelli; anche per questo materiale si potrebbe pensare ad una sostituzione con delle resine naturali, tuttavia il risultato non avrebbe avuto la stessa qualità. Mancavano terre e isole vicine, a vista, con le quali intessere quella fitta rete di traffici e collegamenti marittimi, non limitati a contatti occasionali o stagionali, che avrebbe potuto trasformare gli antichi uomini di Sardegna da naviganti in navigatori.
E navigatori si diventa, attrezzando porti, cantieri di costruzione, rimessaggio e manutenzione, elaborando un'astronomia e una cartografia, lasciando tracce del proprio passaggio nelle testimonianze dei popoli vicini. Ciò che lascia perplessi, di fronte a tanta profusione di reperti, è la quasi assoluta mancanza, nei bronzi, dei mezzi di governo: vele, timoni, remi, scalmi, mostrati invece con tanto rilievo nelle raffigurazioni marinare di altre civiltà; e poi l'assenza, nei dipinti ma non nelle sculture, di strumenti di offesa e difesa: rostri, rinforzi, scudi, imprescindibili per la navigazione d'altura.
Armare una nave significa dotarla degli armamenti necessari per affrontare coscientemente i pericoli, non sempre e solo naturali, del mare. Tutte le antiche civiltà mediterranee conoscevano la nave rostrata, che invece pare assente nei modelli sardi. Occorrerà forse allora riconsiderare, fra i due estremi che vogliono le antiche genti sarde ora un popolo di montanari legato alla terra, ora un popolo di temuti dominatori dei mari, il ricco ventaglio delle possibilità intermedie, tra le quali certamente trova luogo anche l'ipotesi di una cantieristica locale in grado di costruire imbarcazioni adatte per gli spostamenti in acque interne, per il piccolo cabotaggio, per il trasbordo e traghettamento delle merci e, forse, attrezzate per la difesa delle coste.
Senza peraltro escludere l'eventualità di avventurosi viaggi che abbiano visto gli uomini dei nuraghi allontanarsi su navi di tal fatta dal continente Sardegna, con quella frequenza e quella regolarità che sole possono stimolare lo sviluppo delle arti e delle tecniche marinaresche. Arti e tecniche che, nelle testimonianze archeologiche fino ad oggi esaminate, risultano solo in piccola misura attestate e significate. Resta aperta l’ipotesi che le navi più grandi fossero costruite in vari cantieri del Mediterraneo, con maestranze provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, con gli alti fusti del Libano e i vari materiali occorrenti, opportunamente scambiati con altre merci. Un anticipo, dunque, di quella globalizzazione di merci e uomini alla quale assistiamo nei nostri giorni.
Da tempo ipotizzo che il committente volesse racchiudere nella navicella un simbolismo fortissimo. Desiderava evidenziare la sua conoscenza, e il relativo dominio, sui 4 elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco. La terra con la riproduzione di nuraghi e animali; l’aria con gli uccelli e la colombella; l’acqua con lo scafo e il fuoco con il processo di fusione del bronzo. Se ipotizziamo l’uso come lucerne si aggiunge un altro fattore: lo stoppino acceso si troverebbe a poppa, costituendo il quarto punto cardinale a formare nord (colombella), sud (scafo), ovest (protome), est (fiamma). Una vera e propria cosmografia racchiusa in un unico oggetto prezioso.

Nelle immagini: colombelle e protomi di navicelle conservati al museo di Cagliari

sabato 27 ottobre 2012

Le navicelle bronzee nuragiche


Navicelle bronzee nuragiche 1° parte di 2
di Pierluigi Montalbano



Quasi mai lo studio delle navicelle è stato separato da quello più generale della produzione dei bronzi figurati sardi. Questo avviene sin dai tempi del Lamarmora che, nel 1840, li classificava come “oggetti votivi d'origine orientale con una colomba in cima all'albero, animale dedicato a Venere”. Poiché, secondo Tacito, Iside era adorata attraverso il simbolo della barchetta (per la sua forma lunata), il Lamarmora avanza l'ipotesi che le navicelle fossero dedicate ad Astarte, che riuniva in sé i caratteri di Iside e di Artemide. Nel 1884 il Crespi rifiuta l'opinione di coloro che vedono in questi bronzi delle lucerne. Questo perché “la funzione ne sarebbe impedita dalla forma, inadatta ad accogliere un eventuale lucignolo, e perché i fianchi delle navicelle sono talvolta traforati”. Tuttavia la poppa di molte navicelle disegna una sorta di beccuccio, simile a quel che si osserva su molte lucerne, e trafori sono sempre al disopra dell'orlo dello scafo, consentendo quindi il perfetto contenimento dell'eventuale liquido.
La protome, comune a tutte le navi antiche, rappresenta per il Crespi una "divinità tutelare, sotto la cui protezione si mettevano le navi. Altre volte la stessa è considerata un’insegna, per richiamare qualche caratteristica particolare o da cui prendeva il nome la nave. Così, ad esempio, la testa del daino può significare leggerezza e velocità”. La protome era destinata a urtare come rostro. Le barchette erano per il Crespi modelli di navi reali, e a suo avviso potevano essere appese, in qualità di ex voto, nell’ambiente domestico della casa per la scampata avventura o per il felice arrivo nella nuova terra.
Nel 1884 il Pais si sofferma sull'uso, comune tra le popolazioni antiche, di ornare la prora e la poppa delle navi con un'immagine animale: d’oca, di cigno, di leone, di cavallo. Mai però di toro, di daino, d'antilope, come invece accade sulla navicelle sarde. Riprendendo il discorso del Crespi, che voleva espresse nella protome le caratteristiche di agilità e di velocità dell'imbarcazione, il Pais si domanda quale significato possa in tal senso assumere la figura, predominante, del toro. Egli nota come nell'antichità il cavallo fosse poco conosciuto nell'isola, e come siano pochissimi i bronzi raffiguranti uomini a cavallo, in confronto a quelli che invece mostrano uomini sul dorso del toro. Così, d'altronde, è anche vero che le monete puniche battute a Cartagine hanno impresso il cavallo mentre i coni coevi in Sardegna mostrano il toro.
Il toro, dunque, sostituirebbe nella decorazione prodiera il cavallo, animale che caratterizza la protome della hippos fenicia. La protome ritenuta di antilope dimostrerebbe per il Pais e il Crespi che queste navicelle appartenevano a un popolo che aveva navigato fuori dalle coste di Sardegna. Poteva anche trattarsi di ex-voti dei soldati sardi che militavano presso potenze d’oltremare. Nel 1884 era già ampiamente nota la cosiddetta navicella proveniente dalla Tomba del Duce, che per prima offriva la possibilità di una attendibile datazione da parte di Lilliu, visto che il contesto etrusco di ritrovamento la situava con ragionevole certezza intorno alla seconda metà del VII a.C., suscitando nel contempo in campo nazionale l'attenzione di un gran numero di studiosi.
L'idea che le barchette nuragiche fossero un oggetto in qualche modo legato all'uso funerario e votivo, accreditato dai luoghi e dal contesto dei rinvenimenti (tombe o templi), nonché dall'immediato confronto con le navicelle dell'antichità orientale ed egizia, è condiviso anche dal Taramelli nel 1913. Lo Zervos considera non diversamente le navicelle come barche simbolico-funerarie ma nel 1954 riconosce nelle navicelle da Oliena e da Vetulonia, ambedue con scafo di tipo carenato, un possibile modello di vere imbarcazioni. In particolare distingue le barche con scafo ellittico-convesso, di uso votivo e funerario, da quelle con scafo a sezione trapezoidale, modelli di barche reali.
Nel 1962 Lilliu, rilevando sulla navicella proveniente da Aritzo, tracce certe di un restauro antico, ribalta per primo molte di queste convinzioni leggendo il rozzo rappezzo come un’incontrovertibile prova dell'uso non solo votivo, ma anche quotidiano, domestico di questi oggetti, nei quali riconosce delle lucerne. Egli distingue tra un tipo lungo esplicitamente paragonato alla hippos fenicia e un tipo corto simile alla gôlah. Sostenendo l'uso sia pratico, come lampada, che votivo funerario dell'oggetto, Lilliu vede nelle barchette sarde una prova dell'esistenza di una marineria nuragica di cabotaggio e d'alto mare.


Una seconda prova, questa volta di fonte letteraria, andrebbe ricercata nel noto passo in cui Strabone scrive di atti di pirateria ripetutamente compiuti sulle coste della Toscana da montanari provenienti dalla Sardegna. Ciò non è condiviso dallo storico Meloni nel 1975, il quale, riportando integralmente il brano, nota che conseguentemente a tali incursioni fu deciso da Roma l'invio in Sardegna di governatori militari, e che pertanto i fatti narrati andrebbero datati non in epoca nuragica, bensì intorno all'anno 6 d.C., nel quadro di generale insicurezza che caratterizza l'isola sotto Augusto. In quell'epoca i sardi, avendo già assimilato dai Cartaginesi i segreti dell'arte nautica, e da Sesto Pompeo la tecnica dell'assalto piratesco, sarebbero stati perfettamente in grado di minacciare le coste tirreniche, ma occorre rilevare che si trattava di Sardi delle aree interne e ciò implica un legame comunque tra i sardi indigeni e il mare, continuato nel tempo e persistito sino all’età romana, quando ancora molti sardi erano imbarcati in diverse flotte come quella di Miseno.
La cronologia delle navicelle viene fatta sostanzialmente concordare con quella degli altri bronzi, con inizio nel IX a.C. Un altro studioso, il Gras, ritornerà sull'argomento nel 1985, riconoscendo come assimilabile al tipo sardo una navicella dipinta su un vaso proveniente da Skyros, databile al Miceneo III c. Non sarebbe così da escludere una retrodatazione delle sculture sarde al XII a.C. La tesi è accolta con favore dal Lilliu, che vede nella navicella di Skyros il segno della presenza d'una marineria sarda già nel XII a.C. e di mercanti nuragici che partecipano ai negozi mediterranei in tutte le direzioni.
Ma l'idea di una o più popolazioni nuragiche dedite all'arte della marineria e della carpenteria navale, che solcano il Mediterraneo tessendo fruttuosi commerci con altre genti rivierasche, per quanto stimolante e affascinante, necessita ancora di più attente disamine e verifiche. E poiché le fonti letterarie tacciono, ci pare che un contributo alla risoluzione di alcuni di questi interrogativi possa giungere da un esame delle attitudini e funzionalità nautiche delle imbarcazioni raffigurate nelle antiche sculture in bronzo, così da poter in qualche modo valutare se e in quale misura scafi di foggia simile a quelli presumibilmente riprodotti nei bronzi sardi fossero in grado di intraprendere viaggi e trasporti marittimi e, in caso affermativo, in quale ambito geografico. In particolare si cercherà di verificare la presenza, sulle navicelle sarde, di raffigurazioni di attrezzature e strumenti atti alla navigazione, come alberi, vele, timonerie, remi, scalmi, ponti, rostri, valutando dove possibile anche la congruità dei dimensionamenti.



Nell'immagine, la copertina del mio libro "SHRDN, Signori del mare e del metallo".




I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico. Il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano navigare solo nei fiumi e nell'immediata linea costiera. Il mio progetto è quello di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini, in grado, quindi, di produrre cultura. Ritengo offensivo, nei confronti dell’intelligenza di chi legge, proseguire lungo la strada tracciata in passato da quegli studiosi e invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide. Inserirò, quindi, prevalentemente immagini con pochi commenti, lasciando a voi le conclusioni.




Nel III Millennio a.C. la metallurgia fu una scoperta tecnologica caratterizzante, tanto da dare il nome a diverse fasi culturali della preistoria e della protostoria: Età del Rame o Calcolitico, Età del Bronzo e del Ferro.
Della metallurgia interessano diversi aspetti: la ricerca dei minerali, i processi di fusione, il commercio delle materie prime e dei manufatti. A seguito della scoperta dei metalli nacquero nuove professioni come quella del fabbro itinerante.
La civiltà nuragica si sviluppò tra l’Età del Bronzo e il I Ferro, e ancora oggi ci sorprendiamo nell’ammirare tanto i resti delle più elaborate costruzioni fortificate, i nuraghi, quanto i manufatti che gli artigiani, in particolare i fonditori seppero creare, a cominciare dalle armi e dalle sculture.
La Sardegna fu tra le protagoniste nei tempi della prima metallurgia, grazie soprattutto alle miniere di rame. Questo minerale, dopo l’ossidiana, ha interessato i commerci in tutto il Mediterraneo. Un’altra isola diede impulso ai commerci dell’epoca, Cipro, che insieme a Creta e, nell’Occidente alla Sardegna, costituiva l’asse portante dei commerci navali nel Mediterraneo.
Tutti i popoli che si affacciavano sul Mediterraneo cercavano di scambiare i propri prodotti con le materie prime ricavate dalle miniere, dato che alcuni minerali erano di difficile reperibilità come, ad esempio, lo stagno. Per ottenere un bronzo di qualità si aggiungeva al rame una percentuale di stagno del 10% circa. Giacimenti interessanti si trovavano in Cornovaglia, Bretagna e Spagna, lontani dalle miniere di rame.
Una delle vie commerciali di tale minerale, la cosiddetta “via dello stagno”, transitava attraverso lo stretto di Gibilterra. Una valida alternativa era offerta via terra partendo dalla Liguria, attraverso i territori di Francia e Spagna. Lungo queste vie sorsero approdi e centri di scambio che incrementarono la ricchezza delle popolazioni produttrici di tali risorse.
Il mare era sostanzialmente un’autostrada commerciale e la Sardegna non poteva essere estranea e tagliata fuori nel II Millennio a.C. quando ospitò oltre 8.000 nuraghi distribuiti a controllare ogni palmo del territorio. I nuraghi sono legati indissolubilmente alla disponibilità di notevoli risorse economiche e alla circolazione di considerevoli quantità di metallo, come peraltro confermano i frequenti ritrovamenti di lingotti in rame. Ma finché furono costruiti i nuraghi tra il XVI e il X a.C, le rappresentazioni di divinità divinità in epifania antropomorfa o zoomorfa sono essenzialmente aniconiche (betili e disegni schematici della testa taurina).



Intorno al X a.C. dopo 600 anni si assiste a un epocale cambio strutturale nella società sarda. Dopo il crollo delle parti sommitali dei nuraghi, forse per la onerosa manutenzione, e la nascita di nuove generazioni che ponevano i commerci alla base della loro economia, sorgono i governi aristocratici degli anziani. I nuraghi non sono più costruiti e quelli più importanti sono trasformati in luoghi di culto.
Le espressioni figurative cambiano profondamente. Inizia una fase che mi piace chiamare "miniaturizzazione", nella quale compaiono piccole rappresentazioni a tutto tondo antropomorfe e zoomorfe, soprattutto in bronzo, ma anche a grandezza naturale in pietra e terracotta. Colpisce la realizzazione di piccoli nuraghi pieni in pietra, posti su basamenti e posizionati al centro di grandi capanne con sedile periferico interno. La nuova classe dirigente consacra lo status di leaders della comunità attraverso le piccole sculture bronzee che rappresentavano dei ed eroi da cui essi forse discendono e ricevono il potere.
Erano realizzate con il metodo della cera persa, a dimostrazione che i nuragici padroneggiavano la metallurgia già da tempo. Queste opere d’arte mostrano guerrieri, sacerdoti e capi, ma anche animali e oggetti a tutto tondo.
Fra questa produzione, spiccano per bellezza le incantevoli navicelle bronzee. Sul significato di questi manufatti ancora oggi non c’è un’interpretazione univoca da parte degli archeologi. Si è pensato alla funzione votiva, a quella pratica di lucerna o di prezioso oggetto di scambio fra i capi delle società aristocratiche anche al di fuori dell’isola.
Va detto che una funzione non esclude affatto le altre, ma certo il fatto che tali navicelle fossero di bronzo, e non in semplice terracotta, dimostra la loro pertinenza a famiglie o a gruppi che volevano ostentare il proprio status aristocratico e la non comune disponibilità economica.
Attraverso questi preziosi bronzi, l’aristocrazia fa emergere anche la conoscenza del mare e delle tecniche di navigazione, e soprattutto la tessitura di rapporti con altre regioni (Etruria, Magna Grecia) e popoli (Etruschi e Greci) che si affacciavano nel Mediterraneo.
Negli scafi sono raffigurati numerosi animali e altri simboli che marcano il dominio sui prodotti della terra oltre che il legame con le antiche forze della natura che essi rappresentano.
Le navicelle sono certamente riproduzioni di barche dell’epoca e possono essere classificate in base alla forma dello scafo; questo può essere cuoriforme, ellittico come le capienti navi da trasporto o a sezione trapezoidale come le veloci navi da guerra dell’epoca.
Tutte le riproduzioni in bronzo, come le navi nella realtà, mostrano una protome prodiera di un animale che simboleggia l’epifania della divinità che protegge la barca e l’equipaggio. A differenza delle caratteristiche rappresentazioni delle altre navi di età fenicia, che propongono la testa equina, in Sardegna primeggia la testa del bue che, sul piano simbolico, rappresenta l’animale più importante fin dal Neolitico finale, quando fu raffigurato nelle domus de janas.
Gli altri animali più frequentemente rappresentati sono il cervo, il muflone, l’ariete, il caprone. Nella corrispondente produzione in terracotta scoperta nel tempio-nuraghe di Su Mulinu a Villanovafranca dal prof. Ugas, compaiono anche esemplari di navicelle con protome ornitomorfa.
I singoli elementi costruttivi fanno emergere la dimestichezza dei sardi nuragici con il mare: alberi, modanature laterali, coffe di avvistamento, battagliole, barre di rinforzo e scalmi. La presenza di anelli per la sospensione e di alette alla base (stabilizzatori nelle navi reali, ma semplici peducci nelle sculture, pratici per poggiare gli oggetti su un piano), dimostrano l’utilizzo secondario della navicella quale lucerna.
Più incerta è l’interpretazione delle colombelle che si possono ammirare sopra gli alberi. Per alcuni studiosi si tratterebbe della rappresentazione di veri animali imbarcati per individuare la rotta da seguire, vista la loro capacità di dirigersi verso terra se vengono liberati. Altri archeologi ipotizzano la funzione simbolica: quella della Dea femminile della fertilità, protettrice della navigazione.
Le navi dell’epoca possono classificarsi da guerra o da carico. La forma stretta e lunga delle prime serve ad ospitare il maggior numero di rematori possibile e a raggiungere una grande velocità nel caso di attacco; la sagoma larga e corta delle imbarcazioni da carico è idonea per aumentare la capienza.
Le navicelle sono diffuse in tutto il territorio dell’isola. Oggi se ne contano circa 150, oltre gli esemplari rinvenuti in Toscana, nel Lazio e a Crotone, nel tempio di Hera Lacinia.
La cronologia è ancora al vaglio degli studiosi; secondo alcuni (Lo Schiavo) le barchette sarde risalirebbero XI a.C. Personalmente, d'accordo con Lilliu, ritengo, sulla base delle stratigrafie e dei contesti, che non siano anteriori al IX a.C.
La produzione durò almeno fino al VI a.C. e ancora oggi questi preziosi oggetti sono copiati per la loro originalità e bellezza. Diversi esemplari fanno parte di collezioni svizzere, tedesche e statunitensi e ciò dimostra indirettamente la straordinaria rilevanza anche estetica di queste opere, che talora appaiono come veri e propri capolavori.





Aspetti formali delle navicelle

Le analisi chimiche e metallografiche dei manufatti di epoca nuragica hanno messo in evidenza la disomogeneità di rapporto tra i componenti della lega, con l'individuazione di esemplari particolarmente ricchi di rame, e di altri con elevate percentuali di piombo e ferro, come riporta nel 2005 la studiosa Depalmas a pag. 168 del suo lavoro sulle navicelle nuragiche. Le percentuali di stagno si mantengono stabilmente su valori canonici tra l' 8 e il 10%.
Un problema che interessa strettamente i tentativi di determinazione dei giacimenti metalliferi è la pratica della rifusione. La creazione di un oggetto metallico può, infatti, essere il risultato della fusione di più elementi metallici di diversa origine e provenienza, uniti allo scopo di riciclare il metallo mediante una nuova fusione, pratica questa molto diffusa e attestata dai numerosi ritrovamenti, effettuati soprattutto in ripostigli ed officine, di materiali frammentari accumulati per il riutilizzo.
Chiameremo scafo l’insieme delle strutture che costituiscono il corpo di un galleggiante. Lo scafo si distingue in “opera viva” e “opera morta”, a seconda che ci si riferisca rispettivamente alla sua parte immersa ovvero a quella emersa. Lo scafo può essere chiuso da uno o più ponti, il più esterno dei quali è detto ponte di coperta. Su questo trovano posto varie attrezzature: alberi, scalmi, sartiame, bitte, cabine, boccaporti…
Lo scafo può assumere svariate forme stabilite dalle leggi dell'idrodinamica e dalle diverse esigenze di navigazione o di carico. Scafi di foggia circolare erano in uso presso le antiche civiltà fluviali della Mesopotamia. Scafi allungati sono comuni a tutte le marinerie antiche, da quella egizia fino all'etrusca e alla fenicia. Le tecniche di costruzione di uno scafo variano secondo i materiali utilizzati: si va dai fasci di papiro legati tra loro, a zattere di tavole sovrapposte fino alle strutture con chiglia, coste e bagli.


Quest'ultima è la più perfezionata perché consente la realizzazione di scafi di grandi dimensioni con ottime caratteristiche di resistenza e leggerezza. I cosiddetti Fenici furono favoriti dalla disponibilità di legname d'alto fusto, indispensabile per costruzioni navali di questo tipo. Occorre comunque rilevare che le prime imbarcazioni fenicie furono coeve delle ultime nuragiche. La struttura a chiglia e coste è costituita da un elemento longitudinale sul quale si impostano le coste, disposta in senso trasversale. Lo scheletro così ottenuto, irrobustito giungendo le mura con centine e ponti, è rivestito dal fasciame, costituito da sottili tavole di legno affiancate e talvolta sostituite da pelli, stuoie o altri materiali, resi poi impermeabili aspergendoli con pece o bitume con l'operazione che è detta di calafataggio. Le navicelle nuragiche mostrano generalmente uno scafo aperto, privo di ponte di coperta, e il fondo a volte piatto. Lo scafo aperto è sinonimo di navi non superiori a 8 metri di lunghezza perché la mancanza di elementi trasversali di rinforzo comprometterebbe, in strutture di maggiori dimensioni, le necessarie doti di resistenza alle sollecitazioni laterali, longitudinali e torsionali. Barche più grandi dovrebbero mostrare, anche nel modello, efficaci strutture trasversali di rinforzo delle quali solo un esempio è offerto sulle oltre 150 navicelle sarde. La maggior parte delle barche mostra uno scafo ellittico-convesso con il fondo appiattito. La presenza contemporanea di forme convesse e fondo piatto pone alcuni problemi interpretativi: una barca a fondo piatto non può essere costruita con la tecnica a chiglia e coste, che dà normalmente origine a una sezione maestra convessa con linea di chiglia fortemente pronunciata; d'altra parte uno scafo cavo, ellissoidale e tondeggiante, non può ottenersi con altre tecniche se non con quella appena esclusa. Da ciò scaturiscono due ipotesi:
a) lo scafo delle navicelle, convesso nelle barche reali di cui esse sono il modello, è stato volutamente appiattito al fine di posare meglio in piano l'oggetto, per usarlo come lucerna;
b) lo scafo delle navicelle riproduce imbarcazioni osservate in fase di navigazione, quando la chiglia (opera viva) è sommersa e la parte emersa (opera morta) è la sola che appaia chiara alla vista.








Tutte le navicelle sono tratte dal libro "Le navicelle bronzee nuragiche". Citazioni e bibliografia si trovano direttamente nel libro.


Nell'ordine, dall'alto verso il basso:


Navicella di Costa Nighedda (Oliena)




Navicella n° 76 rinvenuta in Ogliastra (Lilliu n° 278)




Navicella n° 62 da Posada (Lilliu n° 279)




Navicella n° 17 da Mores (Lilliu n° 290)




Navicella n° 110 del tempio di Hera Lacinia (Capo Colonna) a Crotone

venerdì 26 ottobre 2012

La Repubblica: recensione su "Sardegna l'isola dei Nuraghi".


Recensione dell'ultimo libro di Pierluigi Montalbano "Sardegna, l'isola dei nuraghi" su La Repubblica.

(Domenica 4 Novembre il libro sarà presentato dall'autore a Lanusei, nel Bosco Seleni, nella sala convegni alle 18.00)

Cliccando qui si apriranno 18 pagine del libro.

“Nell’ultima parte del secondo millennio dell’Età del Bronzo, si sviluppò in Sardegna un particolare tipo di struttura chiamata oggi nuraghe. Il complesso è costituito da torri circolari in forma di tronco di cono, realizzate con pietre di notevoli dimensioni (progressivamente più piccole man mano che aumenta l’altezza), con camere interne voltate a pseudocupola. Il complesso di Barumini, che fu ingrandito e rinforzato nella prima metà del primo millennio, è il più bello e il più completo esempio di questa straordinaria forma di architettura preistorica”. È la motivazione del classificazione delle caratteristiche costruzioni megalitiche quale patrimonio dell’umanità. L’Unesco ha riconosciuto nel 1997 i nuraghi “una eccezionale risposta alle condizioni politiche e sociali, con l’uso creativo e innovativo dei materiali e delle tecniche disponibili presso la comunità preistorica dell’isola”. Sulla tecnica di edificazione, un appassionato della civiltà nuragica, il sardo Pierluigi Montalbano, ha realizzato una nuova ricerca, pubblicata dall’editore pugliese Capone (Lecce): “Sardegna. L’isola dei nuraghi”, 128 pag. 15 euro. Simbolo da millenni della grande isola mediterranea – e lo restano tuttora, a maggior ragione – non hanno precedenti nel mondo arcaico. Ci sono, semmai edifici successivi che li ricordano, dalle fortificazioni di micenee nell’Argolide ai tempi dell’ittita Hattusa, in Asia Minore, alle tombe a tholos dell’Egeo e del Medioriente.
Ovviamente, i nuraghi sono stati costruiti a mano. È una curiosità legittima domandarsi con quale tecnica siano stati edificati, visto che sorsero in epoche primitive. Possenti, altri, composti da grandi blocchi poligonali, su vari piani, con corridoi e coperture a ogiva, sono circa ottomila. Lo stato di conservazione è quanto mai vario però: si va da una solidità sorprendente, al “desolante abbandono”. I più antichi datano fino a quasi 4mila anni fa, dopo il 1800 prima di Cristo. I più recenti risalgono all’inizio dell’Età del Ferro, X secolo a.C.. Montalbano ricorda il parere prevalente degli archeologi, secondo i quali i maestri costruttori nuragici hanno adottato una specie di geometria sul campo, priva di cognizioni astratte ma strettamente operativa e indubbiamente efficace. Tutta prassi, niente teorie. Fissando in terra un paletto, tracciavano circonferenze concentriche con una cordicella. Incrociando i cerchi ottenevano le indicazioni geometriche indispensabili. L’autore sardo attribuisce a questa proto-scienza pragmatica il merito di aver fatto compiere un netto progresso alle civiltà remote. “Per realizzare le colossali imprese – ha osservato Montalbano in un articolo recente – occorreva coordinare una serie di capacità contemporaneamente: progettazione architettonica, organizzazione del lavoro, supporto logistico, fornitura dei materiali, amministrazione e perfino una qualche forma di assistenza medica.
Davanti all’impiego di tanti megaliti messi in opera, altre curiosità riguardano la soluzione del problema di trasportare massi ingenti e collocarli ad altezze considerevoli. “La teoria più accreditata è quella della rampa”: i blocchi venivano trascinati in alto su rampe inclinate realizzate allo scopo e che venivano fatte girare a spirale intorno all’edificio, per evitare pendenze insormontabili. Servivano evidentemente anche misure precise “per realizzare una costruzione equilibrata”.
Resta da chiarire la funzione delle opere. Rinviando al volume risposte più articolate, si può sintetizzare in un compito di fortificazioni multiruolo, ricche peraltro di significati anch’essi multipli, da torri di avvistamento a templi a residenze del capo clan.
Pierluigi Montalbano è nato e vive a Cagliari. Studioso di paleostoria, insegna storia antica in alcuni istituti sardi. È stato relatore in ambito storico-archeologico in numerosi convegni in Italia e all’estero ed è coordinatore di importanti rassegne espositive sul Mediterraneo arcaico. È tra i maggiori specialisti in metallurgia del rame e del bronzo.

http://libri-bari.blogautore.repubblica.it/2012/10/25/i-nuraghi-editore-pugliese-autore-sardo/

4 Eventi culturali in arrivo



4 Appuntamenti con la cultura...a breve.
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giovedì 25 ottobre 2012

La voce della Luna - Riti sciamanici

La voce della Luna.
Riti sciamanici nuragici nelle cosiddette Tombe dei Giganti e il significato simbolico-rituale delle corna sui bronzetti nuragici.
di Melqart Re




Egli uscì dall'edificio di pietra, un santuario fatto di enormi mattoni aggettanti approssimativamente sbozzati e incastrati a secco, l'uno sull'altro a formare un lungo corridoio dalla forma uterina, nel cui fondo era sistemato un largo sedile di pietra per stare comodi. All'ingresso del cunicolo, la sua parte esterna, spesso imponente, era caratterizzata da una grande esedra chiusa, a cerchio quasi completo, da due grandi bracci laterali, come due mezze lune e insieme, come le corna di un toro selvaggio. Il morto, Argantonyo, ovvero il neofita, assisté alla cerimonia di iniziazione, e uscì dalla tomba come la luna esce dall'oscurità. Come un animale lunare che scompare e riappare.
Rientrò il candidato dentro la tomba e allora fu fatto a pezzi dal toro che lo squarciò con le sue potenti corna riducendolo in brandelli, così come è ridotta in tanti frammenti la luna.


Innumerevoli miti rappresentano il dramma della luna spezzettata o ridotta in frammenti, addirittura polverizzata dal Dio Sole. Troviamo lo stesso modello archetipico nelle iniziazioni Osiridee. Plutarco ci trasmise il De Iside, nel quale si narra della tradizione del rituale di Osiride, che regnò 28 anni, e fu ucciso un 17 del mese, a luna calante. Il sarcofago in cui Iside l'aveva nascosto fu scoperto da Seth, che era a caccia, in una notte di luna. Seth divise il cadavere di Osiride in 14 parti, che sparse su tutto il territorio egiziano. Nel rituale, l'emblema del dio morto ha la forma di una luna nuova. C'è un’evidente somiglianza tra la morte e l'iniziazione. Per questo, dice Plutarco, esiste un'analogia così stretta fra i termini greci che significano morire e iniziare. Se l'iniziazione mistica si ottiene per mezzo di una morte rituale, la morte può, allo stesso modo, assimilarsi a una iniziazione.

Le anime che raggiungono la parte superiore della luna sono chiamate vittoriose da Plutarco, e portano corna in testa, come gli iniziati e i trionfatori.

Queste corna non sono altro che spicchi di luna simbolicamente rappresentati.

La forma lunare è il divenire. La luna ripartisce e fila, misura, allineata oppure feconda, riceve le anime dei morti e purifica, inizia e cura. Tale ritmo è sempre presente nei cicli lunari.
Le fasi della luna, danno origine, negli approfondimenti sul tema, alle più complesse corrispondenze. Stuchen ha studiato, e ne ha costruito un'opera completa, le relazioni tra lettere dell'alfabeto e le stazioni lunari, quali le concepivano gli Arabi. Dieci e undici caratteri ebraici, così come mostratici da Hommel, indicano le fasi della luna, in cui alef significa Toro. E' il simbolo della luna nella sua prima settimana, ed è, insieme, il nome del segno zodiacale da cui comincia la serie di mansioni lunari. La stessa corrispondenza si trova fra i segni grafici e le fasi della luna presso i Babilonesi, i Greci, gli Scandinavi. Una delle più chiare e complete assimilazioni dell'alfabeto (considerato come insieme di suoni, non come grafia) con le fasi lunari, si trova in uno scolio di Dionigi di Tracia, ove le vocali corrispondono alla luna piena, le consonanti sonore alla mezza luna (i quarti) e le consonanti sorde alla luna nuova.


Cit: Eliade; Stuchen; Hommel; Hoffler.

Immagine di: ilcerchiodellaluna.it

mercoledì 24 ottobre 2012

Corsi, Corsica e pugnaletti sardi

Corsi, Corsica e pugnaletti sardi
di Rolando Berretta


In un mio precedente pezzo, del 12 settembre 2010, proposi un’immagine simile:


Così Montalbano, in data 14 Ottobre, si è espresso :

“Mentre i Sardi sono sempre ubicati in Sardegna, le altre tribù stanziate nell’isola, Corsi e Balari, richiamano altre terre, rispettivamente la Corsica e le Baleari. Nell’antichità, spesso i nomi della terra e del popolo coincidevano”.

Perfetto!
Allora Pausania avrebbe dovuto scrivere Bàlari e Cirni; i Greci, quell’isola, la chiamavano Cirno.
Il nome Corsica è di origine latina. Si legge che i primi Romani trovarono i Corsi con un pugnale appeso al collo: Corsica deriverebbe da cor (petto-cuore) e sica (coltello).




Ho sempre parlato di carte geografiche, giunte dal passato, con la caratteristica che sono disegnate con il Sud in alto. Certamente qualche problema l’hanno creato.
Si potrebbero richiamare, a proposito dei pugnali, alcune statue presenti in Corsica e in Sardegna.
Prima bisognerebbe ritrovare pugnali a doppia lama. Poi bisognerebbe avere una profonda conoscenza del territorio.

martedì 23 ottobre 2012

Archeologia dal Web: notizie varie

Anfore nel mare dell'Est Europa


Nel mare di Pola sono state ritrovate centinaia di anfore romane del tipo Lamboglia 2, mai giunte a destinazione e affondate con la nave che le trasportava 2000 anni fa. Nessuna delle anfore, purtroppo, rimasta intatta. Le operazioni di recupero sono coordinate dal Centro Internazionale di Archeologia Marina di Zagabria e sono sotto il patrocinio dell'Unesco.
Anche la costa croata è ricca di relitti, almeno 400, di imbarcazioni affondate in ogni epoca. Gli studiosi si augurano che presto si abbia una sistematica esplorazione delle acque e dei fondali tra Pola e la Croazia, per recuperare quello che ha tutta l'aria di essere un interessante tesoro archeologico. L'anfora Lamboglia 2 è caratterizzata dal corpo ovoidale con punto di massima espansione nella parte inferiore, collo cilindrico con orlo a fascia verticale, anse a bastone applicate sotto l'orlo e sulla spalla e puntale pieno. Erano diffuse in tutto il Mediterraneo, soprattutto nella parte occidentale.



Un'antica sepoltura infantile in Austria




Nella località di Schutzen am Gebirge, nel Burgenland, in Austria, durante uno scavo edile è riemersa la tomba di un bambino risalente all'epoca romana. Gli archeologi, prontamente accorsi, hanno affermato che la piccola sepoltura, risalente al I secolo d.C., è circondata da pesanti pietre e che non sembra essere stata violata.
All'interno sono stati trovati diversi oggetti in vetro e ceramica. Sono stati ritrovati anche i denti del piccolo defunto, nel cranio. E' stata anche intercettata una seconda sepoltura non lontana da quella in cui giaceva il bambino.


Un fabbro donna austriaca.



Uno scheletro scoperto a nord di Vienna sta inducendo gli archeologi a guardare con occhi diversi ai ruoli di uomini e donne all'interno delle comunità preistoriche. Lo scheletro, infatti, pare essere quello di una lavoratrice del metallo, una professione che, almeno era quello che si pensava fino ad oggi, era riservata agli uomini.
La sepoltura e lo scheletro risalgono a 2000 anni prima della nascita di Cristo. Le ossa appartengono ad un individuo di sesso femminile di età compresa tra i 45 ed i 60 anni. Nella sepoltura sono stati ritrovati anche gli strumenti per creare gli ornamenti in metallo che adornavano il corpo. Di quest'ultimo mancavano le ossa del bacino, ma si è potuto, comunque, appurarne il sesso.

Fonte: Le nebbie del tempo.