Articolo di Paolo Bernardini
tratto da “Corpora delle antichità della Sardegna, LA SARDEGNA NURAGICA, Storia e monumenti”
«Possiamo immaginare che, intorno al perimetro del recinto di
Santa Vittoria di Serri, davanti al porticato, alle loggette dei mercanti, alle
capanne dei capi, da dove la folla assisteva alle manifestazioni, si
componesse, a circoli concentrici, il ballo tondo, al suono dell’aulete dal
mezzo soffiante a piene gote sul triplice flauto di canne […] con
accompagnamento di canti e di urla frenetiche. Saliva un’orgia corale
mimico-musicale, un misto barbarico di religione e di erotismo che nella notte
si consumava, senza veli, pronubi il bosco e gli astri. La piazza si
trasformava anche in “ginnasio” […] e i giovani atleti convenuti al santuario,
vi scendevano a difendere il prestigio e l’onore della tribù di appartenenza e
a cogliere il premio della vittoria […] questo quadro umano che
Certamente
i nuraghi continuano ad essere l’elemento più appariscente di organizzazione e controllo
del territorio delle comunità nuragiche e il modello socio-politico, nato e
sviluppatosi tra il 1500 e il 1000 a.C. circa, che ha realizzato il “sistema”
del nuraghe non esala il suo ultimo respiro nel giro di pochi anni; eppure
sembra chiaro che con il chiudersi dell’età del Bronzo si ferma anche il momento
espansivo delle torri. Poiché le generalizzazioni sono sempre pericolose e
poiché nella realtà dei processi storici non esistono risposte monolitiche,
dovremo sforzarci di sfumare e diluire questa affermazione perentoria in una
prospettiva più liquida e articolata, in cui regioni e distretti territoriali legati
a particolari situazioni socio-economiche, ed anche singoli insediamenti e
comunità di uno stesso territorio, vivono in momenti e in modi molto differenti
questa tendenza epocale. Se è vero che non vengono più edificati monumenti a
torre con l’avvio dell’età del Ferro e che molti di essi cessano la loro vita
nel corso degli ultimi secoli dell’età del Bronzo e se è altrettanto vero che
crolli e disfacimenti di cortine murarie non provocano premurose opere di
restauro e di riedificazione e che molti nuraghi presentano occupazioni
limitate a spazi ridotti entro la fortezza originaria e spesso mutamenti di uso
e di funzione, vi sono comunque esempi e situazioni di immutata vitalità di
questi insediamenti – è il caso della maggior parte dei grandi nuraghi
polilobati del territorio oristanese – che proseguono la loro vita senza nep-pure abdicare (come succede con
il maestoso Nuraghe S’Uraki-San Vero Milis o con quello, altrettanto
formidabile, di Su Mulinu-Villanovafranca) al loro ruolo di elemento centrale,
in linguaggio archeologico più specifico di central-place, della rete
insediativa ed economica di un determinato distretto o comparto territoriale. Il
modello politico e socio-economico di questa “civiltà delle torri” è quello che
l’antropologia moderna definisce come chiefdom: una serie di comunità
autonome, più o meno allargate e internamente erarchizzate, che dipendono da un capo comune
– emanazione di una élite che esercita il potere e con cui condivide
legami di sangue – sono stanziate in un determinato territorio di cui
controllano le risorse e si pongono in forte competitività (e ostilità) con strutture
e organizzazioni analoghe che abitano territori adiacenti. È una società la cui
permeabilità è paragonabile a quella delle cortine di pietra che chiudono gli
spazi interni del nuraghe e che avvolgono il monumento nell’impenetrabilità e
nell’isolamento. In questo scenario interessato, come si è detto, da una crisi
di sistema di lunga durata, l’apparizione degli insediamenti “di santuario”
all’avvio della Prima età del Ferro è un dato di violenta rottura con la
tradizione e segna l’embrionale trapasso ad un processo sociale ed
organizzativo differente che accompagnerà per circa duecento anni lo sviluppo
della società nuragica.
Vi sono infatti pochi dubbi ormai – alla luce
dell’esame della cultura materiale che ccompagna
i nuovi insediamenti e dei raffronti che è possibile istituire con l’Italia
continentale e, in particolare, con le sequenze villanoviane, cioè con quella
cultura dell’Italia tirrenica con cui la società nuragica interagisce in modo
intenso e continuativo – che essi vivono un periodo di intensa vitalità tra il
950 e il 750 per poi spegnersi lentamente – ma anche qui le generalizzazioni sono
da prendersi con cautela – nel cinquantennio successivo, tra la metà e la fine dell’VIII
secolo a.C. Ho preferito adottare in questa breve presentazione il termine
“insediamento di santuario” piuttosto che il più semplice “santuario” appunto a
causa della forte carica innovativa legata all’apparizione dei nuovi giacimenti
alle soglie del Primo Ferro e che si comprende in tutta la sua reale portata
“rivoluzionaria” nel graduale emergere di nuovi assetti sociali ed economici contrastivi
del sistema del nuraghe. Si tratta infatti di due società strutturate in modo
diverso, pur all’interno di una rete insediativa gerarchizzata di tipo chiefdom
– anche qui il termine anglosassone generalmente utilizzato in letteratura,
ranked chiefdom, ha una maggiore e più immediata efficacia semantica –
che si fronteggiano e si misurano; la prima appartiene al passato e alla
tradizione, la seconda si muove in tempi nuovi e guarda al futuro. Si tratta,
soprattutto, di modelli diversi di concepire e governare l’aggregazione
sociale, di usare le risorse e la ricchezza, di strategie differenti
nell’esercitare il potere da parte delle élites dominanti e di
controllare il meccanismo della redistribuzione delle risorse, dato cruciale e particolarmente
delicato per la sopravvivenza di ogni organismo di tipo chiefdom. Nei
nuovi insediamenti emerge con chiarezza il connotato della polifunzionalità: vi
sono ampi spazi utilizzati per attività cerimoniali e performances rituali
e tali spazi compongono sovente scenografie costruite del sacro, funzionali
quasi certamente all’esecuzione di processioni o di altre elaborate coreografie
del rito; da qui la fortuna del termine “santuario”, che si è vieppiù
consolidato nella percezione e nel vocabolario degli archeologi che tendono a
incasellare nel comparto “sacro e affini” molti degli aspetti di cui non
riescono a fornire coerenza di significato e di funzione. Ma vi sono anche
spazi di produzione e di attività economica, luoghi in cui si accumulano, talora
in quantità straordinaria, materie e materiali metallici, lavorati e
semilavorati; settori destinati ad abitazione – che sovente, in modo
semplicistico, vengono identificati come ricovero di devoti pellegrini o, in
modo ancora più incongruo, come sede dei “custodi” del santuario – ambienti
architettonicamente elaborati destinati all’élite e alle sue adunanze;
un quadro articolato in cui culto, rito, manifestazione del potere e controllo
delle risorse e della ricchezza sono, come sempre avviene nelle società
antiche, profondamente interrelati.
La presenza, abbastanza comune, di templi a
pozzo in questi giacimenti, l’innegabile testimonianza in molti di essi di
raffinate opere di ingegneria idraulica per la captazione e il controllo dei
percorsi delle acque e la decisa predilezione per una concezione religiosa di
tipo animistico – tratteggiata con energia e abilità da Lilliu nella sua
monumentale opera di ricostruzione della civiltà nuragica – hanno orientato per
la definizione, del tutto impropria, di santuari dedicati al culto delle acque
assegnata a gran parte di questi insediamenti. Mi pare, al contrario, che anche
una rapida visione delle forme del “sacro” nel comparto mediterraneo in questi
secoli della protostoria, evidenzi come l’acqua non sia tanto oggetto primario
del culto quanto uno degli elementi o dei mezzi, come ad esempio, il fuoco o
l’ebbrezza del vino, attraverso i quali si esplicano le cerimonie e la
conduzione dei riti. Dovremo quindi cercare altrove i estinatari dei culti praticati nei “santuari”
nuragici che sono espressione di comunità che vivono, come i loro coetanei
mediterranei ed egei, un ricco e maturo politeismo, denso di protagonisti che
appartengono a un mondo altrettanto gerarchizzato di quello reale e che si
muovono nella dimensione percepita dall’uomo, quello scenario naturale che è
sempre, come concluderà in seguito la metafisica greca, “pieno di dei”; dovremo
cercarli, questi dei e questi eroi, nel vasto campionario della bronzistica
figurata nuragica, percorrendo in tal modo strade già da tempo indicate e poi
sbarrate dall’interpretazione che si impose a partire dagli studi di Lilliu il
quale vi leggeva l’espressione, ricca, articolata e gerarchizzata, della
società nuragica dell’età del Ferro. Molti di questi insediamenti indiziano –
nella loro collocazione, ma anche nella ricca articolazione degli spazi che
deve riflettere la compresenza di tradizioni, credenze e rituali diversificati –
una dimensione che spezza la barriera chiusa dei chiefdom e si pone come
momento di apertura e di dialogo tra unità politiche differenti e
reciprocamente ostili e competitive; una realtà che, forse anche in Sardegna,
come avviene nel resto della penisola italiana nel corso della Prima età del
Ferro, si lega alla graduale definizione di entità politiche parzialmente
divergenti dai gruppi chiefdom e in cui emerge il concetto di popolo o
meglio di quei “populi” di cui le fonti antiche daranno testimonianza
per il territorio dell’isola. È stata suggerita, in ogni caso, una correlazione
tra la nascita di questi insediamenti e la successiva, e non lontana, apertura
del mondo nuragico ai traffici verso il Tirreno e l’interrelazione con le
società villanoviane e protoetrusche, un fenomeno che ha il suo massimo
sviluppo tra la seconda metà del IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C.
(850-750 a.C.) ed anche con i gruppi di potere che governano i reami tartessici
dell’Iberia centro-meridionale. Le élites che hanno elaborato i nuovi
assetti produttivi e ideologici che si riflettono nei santuari manifestano
quindi apertura e permeabilità verso i partners esterni e tra questi, i
Fenici, presenti nell’area mediterranea e atlantica almeno a partire dalla metà
del IX secolo a.C. come sembrano indicare i ritrovamenti di Huelva, La
Rebandilla e Utica; non sono del resto, rari, tra le offerte e i materiali di
pregio che trovano sede nei santuari, oggetti raffinati di fattura e provenienza
vicino-orientale. È anche indicativo come la parabola della fortuna degli
insediamenti di santuario corrisponda sostanzialmente ad un indebolimento e poi
al venir meno della presenza nuragica in Etruria; la seconda metà dell’VIII
secolo a.C. coincide inoltre con i tempi della stabilizzazione fenicia sulle
coste sarde, con il consolidarsi delle fondazioni urbane e la definizione più
propriamente “coloniale” della rete mercantile fenicia centro-mediterranea e
atlantica. Si trattò di un processo economico che entrava evidentemente in
collisione con la strategia degli insediamenti di santuario e il meccanismo di
controllo e redistributivo della ricchezza gestito dalle élites al
potere nell’isola, i cui modelli economici erano maggiormente compatibili con
l’aspetto acquisitivo e non strutturato delle prime spedizioni fenicie verso
l’Occidente e di cui Huelva (in Andalusia meridionale, oltre lo stretto di
Gibilterra) costituisce oggi la migliore documentazione. Gli insediamenti di
santuario presentano una diffusione che copre sostanzialmente tutta l’isola pur
con una estrema varietà di realizzazioni planimetriche, articolazioni interne e
individuazioni degli spazi: Santa Vittoria-Serri, Santa Cristina-Paulilatino,
Sant’Antonio-Siligo, Sa Sedda ’e Sos Carros-Oliena, S’Arcu ’e is
Forros-Villagrande Strisaili, Romanzesu-Bitti, Gremanu-Fonni,
Sant’Anastasia-Sardara sono soltanto i nomi più noti del vocabolario nuragico del
“sacro” nella nuova età del Ferro.
Prima di esaminarne alcuni, con l’intento di
estrapolare alcune particolari caratteristiche dei loro impianti e degli
aspetti cerimoniali che vi si legano, è importante ricordare come il fenomeno di
riutilizzo “sacro” di alcuni importanti nuraghi, nel corso della Prima età del
Ferro, riprenda le caratteristiche generali che abbiamo individuato per gli
insediamenti di santuario. È il caso, ad esempio, del nuraghe Nurdole di Orani,
dove raffinate opere di ingegneria idraulica, il decoro dei paramenti murari e
l’utilizzo parziale del corpo dell’antico monumento a torre, si accompagnano
alla sua funzione di contenitore di derrate, merci e minerali, quindi al suo
ruolo primario di centro di accumulo e
di redistribuzione; un caso analogo è costituito dal Su Mulinu di
Villanovafranca, con il suo maestoso altare costruito all’interno di una torre e
la fitta serie di offerte depositate nel sito; non ho dubbi che, quando gli
scavi toccheranno il cuore di quel poderoso gigante addormentato che è il
S’Uraki di San Vero Milis, con le sue dieci torri di antemurale, si troverà una
situazione assai simile a quelle descritte. Riorientamenti funzionali dei
nuraghi, nascita e sviluppo degli insediamenti di santuario corrispondono
quindi a un medesimo processo avviato dalle élites nuragiche, nel segno
del raggiungimento di un controllo sociale più vasto e condiviso e in qualche
modo trasversale, forse già in forme confederali, all’organizzazione cantonale
e frazionata dei chiefdom, del mantenimento del consenso di un forte
potere politico e della disponibilità a indirizzare e a dirigere il processo di
redistribuzione delle risorse entro i gruppi umani che essi governano e grazie
al quale la loro autorità può mantenersi solida e indiscussa. I grandi spazi
aperti di Santa Cristina e di Santa Vittoria sono il punto di partenza ideale
per approfondire alcune caratteristiche del culto e delle cerimonie religiose
che vi si svolgevano. Nel primo caso, lo spazio chiuso da doppio peribolo che
delimita il raffinato vano scala che conduce alla camera ipogeica e alla vena
d’acqua si apre in quello che è da considerarsi il centro dell’attività
rituale: un’ampia piazza delimitata da una serie articolata di ambienti di
varia dimensione e planimetria. Nel secondo esempio, l’insediamento di
santuario esplode in un moltiplicarsi apparentemente caotico di spazi di
rappresentanza, abitativi e di culto; anche in questo caso, l’area costruita intorno
alla vena d’acqua, il cosiddetto tempio a pozzo, è chiusa e compressa in un
doppio peribolo ma il centro dell’aggregato è un amplissimo e solare piazzale
in parte occupato dall’enigmatico “recinto delle feste”. In entrambi i casi la
situazione originaria è stata pesantemente modificata dal passare del tempo e
dalle varie trasformazioni dovute all’azione umana – non sappiamo, ad esempio,
quanto sia rimasto di originariamente nuragico nel “recinto delle feste” di
Santa Vittoria – ma quanto resta è sufficiente per comprendere come questi
insiemi strutturali diano testimonianza di una pratica cerimoniale e liturgica
i cui caratteri salienti sono l’esibizione di un culto pubblico e di amplissima
visibilità, condotto e celebrato attraverso la partecipazione di un numeroso raggruppamento
umano e realizzato tramite itinerari processionali ritualizzati. L’amplificazione
della visibilità degli spazi del sacro attraverso il superamento e lo
sfondamento dei culti privati, nascosti o segreti, la motivazione e il consenso
che raccolgono nel percorso cerimoniale e liturgico grandi masse umane sono gli
strumenti elaborati dall’élite per ottenere la propria legittimazione
politica, in modo pubblico, aperto e manifesto. Non a caso, in questi spazi si
rintracciano sempre, in posizione dominante, strutture che a questo gruppo di
potere fanno riferimento: sono le grandi
capanne circolari architettonicamente raffinate note con i termini generici di
“capanna delle riunioni”, “curia” o “casa del capo”, presenti sia a Santa
Cristina che a Santa Vittoria; in altri casi, come a Romanzesu o Gremanu, che vedremo
tra breve, saranno i megara, forse i segni di un culto “personale” che
nella dimensione allargata degli spazi santuariali può diventare pubblico e
pubblicamente condiviso. È stato acutamente osservato che il controllo sociale
nelle organizzazioni politiche complesse di età protostorica difficilmente si
concreta attraverso forme di imposizione violenta, difficili da attuare e
soprattutto da mantenere ad un inalterato stato di efficacia per tempi lunghi; alla
coercizione e all’imposizione si preferisce allora l’adesione e la
collaborazione tramite la motivazione e il consenso ideologico. L’ampio spettro
della religione, con la sua pittoresca cornice di rituali e di cerimonie, ha da
sempre costituito un validissimo collante per il raggiungimento del consenso
sotto forma di gratificante celebrazione identitaria e collettiva. La religiosità pubblica e manifesta comporta
necessariamente forme di scenografia del “sacro” che da un lato esaltino il protagonismo
dei fedeli e dall’altro rafforzino la percezione di far parte di un insieme;
gli insediamenti di santuario della Sardegna nuragica rivelano elementi che
sono riportabili a cerimonie lustrali e di immersione acquatica attraverso i
quali possiamo definire, a livello ideologico ed emotivo, la dimensione
dell’ordalia, della guarigione, del miracolo. Simili scenari vengono evocati
dal complicato tracciato cerimoniale di Romanzesu nel territorio di Bitti, che
conduce il fedele dalla vena acquifera del pozzo alla grande vasca gradonata delle
abluzioni o che lo impegna nel labirintico percorso del “recinto cultuale”;
deambulazioni di purificazione e di trasformazione – una vera e propria
coreografia del rito di passaggio – sono ipotizzabili nel percorso processionale
che a Gremanu, lungo la strada delimitata dal peribolo del temenos,
conduce al megaron e al “tempio circolare”, dove l’elemento naturale che
veicola il culto è questa volta il fuoco ardente del focolare, rinserrato dal
prospetto policromo dei filari in basalto e trachite, impreziosito da protomi
di ariete e sormontato dai fasci spinosi delle spade votive.
L’acqua è ancora
l’elemento che consente lo svolgimento dei riti ordalici e di divinazione nella
capanna con bacile centrale di Sa Sedda ’e Sos Carros di Oliena, anch’essa
messa a punto con una perizia idraulica che fa il paio con la sofisticata
decorazione dei gocciolatoi a testa di muflone che coronano le pareti della
sala (si veda il contributo di Gianfranca Salis in questo volume); e ancora
l’acqua domina il complesso delle fonti di Gremanu sistemato a mezza costa del
colle di Caravai. La fascinazione delle cerimonie, il loro potenziale di
coinvolgimento e trascinamento emotivo del fedele si esaltano anche nelle forme
delle architetture, nei contrasti di colore, negli abbinamenti tra la pietra e
i fasci di spade lucenti; il luogo d’arsione rituale ricavato negli spazi del megaron
(2) di S’Arcu ’e is Forros ne dà suggestiva testimonianza, così come la
capanna con bacile e protomi d’ariete di Sa Sedda ’e Sos Carros o i raffinati
conci di trachite decorati da losanghe, linee spezzate, scudi del nuraghe
Nurdole di Orani. Il nostro itinerario potrebbe continuare a lungo nel
fascinoso itinerario che dissemina tavole di offerte per i bronzi figurati e le
spade, vasche e aree lustrali, pozzi, cisterne e focolari sacri, indecifrabili
planimetrie ed enigmatici percorsi metafisici in luoghi come Su Tempiesu- Orune,
Abini-Teti, Funtana Coberta-Ballao, Untana ’e Deu-Lula, Serra Niedda-Sorso,
Monte Sant’Antonio-Siligo, Domu de Orgia-Esterzili, S’Arcu ’e is
Forros-Villagrande Strisaili; ci volgeremo invece ai protagonisti ultraumani di
queste contrade, gli dei, gli eroi, i demoni e le streghe che si muovono e si
materializzano attraverso l’acqua e il fuoco. Mi pare evidente che i riti e le
cerimonie che si sono ricordati altro non siano, in larga misura, che la
traduzione e il racconto, nella percezione sensibile dell’esperienza umana,
delle biografie avventurose di dei ed eroi che nessun poeta o mitografo o
storico ha voluto o potuto conservare se non in quelle notazioni stringate e
aride che hanno ridotto questo ricco immaginario mitologico alla sbiadita
presenza di personaggi ricalcati sul pantheon di cultura e tradizione greca o
fenicia. Eppure, i bronzi figurati dedicati nei santuari della Sardegna
riescono ancora a darci un’immagine, per quanto opaca e controversa, delle
divinità titolari dei culti e delle cerimonie; ad Abini si aggirano demoni con
quattro occhi e quattro braccia, schiatta lontana che ha generato Briareo, il
custode delle colonne a Gibilterra, e si trova una curiosa coppia pronta a dare
battaglia – i cosiddetti “commilitoni” – che riprende il filone infinito dei
fratelli o dei fratelli gemelli noti nel folklore tradizionale mediterraneo ed
europeo, che il destino bieco in genere divide ed allontana tra disgrazia,
invidia e discordia. Tra il Nuorese e l’Oristanese le antiche selve del Primo
Ferro sono la terra dei temibili centauri, forse appartenenti, come i loro
parenti ellenici, a quella pericolosa soglia di passaggio che divide caos e
civiltà, ordine e disordine. Santa Vittoria conosce una dea severa che accoglie
nel suo grembo un eroe, come Astarte accoglieva Servio Tullio nelle segrete
stanze del palazzo regio; è la consumazione dell’atto d’amore che sancisce
insieme il consenso divino all’esercizio del potere e la fortuna personale dell’uomo
“favorito dagli dei”; è lo hieròs gàmos, il matrimonio sacro, che ogni
anno veniva celebrato in scenografia umana dal vasto Mediterraneo alla piatta
Mesopotamia nelle recite rituali di Sumer, nelle rappresentazioni sacre nel
labirintico palazzo di Cnosso, nella corte di Tiro e nei palazzi romani del
potere.
Vi sono, più in generale, iconografie di ampia diffusione e
replicazione, come il guerriero e il cosiddetto “capotribù”, che indicano la
cristallizzazione e la codificazione di una rappresentazione figurata che, pur
con minime varianti, vuole dare conto di figure ormai saldamente ambientate – con
la loro biografia eroica – nell’immaginario tradizionale delle comunità
nuragiche; purtroppo resteranno per noi pallidi fantasmi, come quel fortunato
eroe – il pugnale sul petto ne indica la nobiltà di schiatta, così come l’eroe
amato dalla Venere-Astarte di Santa Vittoria – che solleva il bastone a doppia
forcella, verosimilmente una gruccia, per celebrare il miracolo di una
guarigione, forse premessa mitica al miracolo che i fedeli cercano nelle cerimonie
di abluzione del santuario. Le innumerevoli figure di animali presenti negli
insediamenti di santuario, cervi, tori, capri, volpi, volatili, che integrano
la testimonianza delle protomi inserite nelle architetture, costituiscono una
preziosa materia di riflessione per chi si interroghi sul politeismo nuragico; esse
potrebbero infatti alludere alla divinità di cui sarebbero rappresentazione
totemica – un esempio clatante in questa
direzione sono le decine di figurine di toro restituite dalla fonte di Untana e
Deu di Lula o le innumerevoli colombe (?) di Santa Vittoria – oppure (e
insieme) essere il segno totemico dei gruppi umani che vengono a celebrare nel
santuario i propri riti. Una straordinaria testimonianza che combina le due
valenze che si sono indicate proviene dall’area cerimoniale di Serra Niedda di
Sorso: un dio-eroe con lancia e scudo incede conducendo davanti a sé un ariete,
saldamente assicurato ad un robusto guinzaglio; piuttosto che la
rappresentazione di una vittima condotta al sacrificio da un fedele in armatura
opterei per l’immagine della epifania di un dio nella sua forma insieme umana
ed animale, ex-voto di un gruppo o di un individuo che, attraverso il proprio
animale totemico, magari oggetto del sacrificio reale, poteva vivere quella
epifania con particolare intensità ed emozione. Non è certo casuale che, quando
nei santuari produzioni figurate orientali di tipo antropomorfo si affiancano a
quelle di manifattura nuragica, la scelta iconografica ricade quasi
costantemente su immagini di divinità, come la dea su trono di Santa Cristina o
il personaggio in nudità eroica con scettro-bastone dal pozzo del Santu Antine
di Genoni o quello, per il quale si è impropriamente richiamato il tipo greco
del kouros, del nuraghe Nurdole o ancora i personaggi maschili incedenti
del tipo del dio combattente (smiting god); evidentemente l’ambientazione
comune tocca la sfera dell’ultramondo, del sacro e del divino e influisce sulla
selezione delle dediche “allogene”.
Basteranno per ora queste poche riflessioni
a segnare, per chi se ne sentirà pungolato, un possibile itinerario di studio
che ha necessità di essere percorso in modo dettagliato e puntiglioso, attraverso
una rilettura di tutte le immagini antropomorfe e animali restituite dagli insediamenti
di santuario; una prospettiva che mi sembra possa immergere la religiosità e i culti
della Sardegna nuragica della Prima età del Ferro nelle sue vere radici e
tradizioni mediterranee, in quell’immaginario fecondo e affollato di
protagonisti e di comparse di cui anche la nostra isola si è a lungo nutrita. Rimane
in ogni caso l’estrema precarietà della ricostruzione “sociale” elaborata da
Giovanni Lilliu: una società di fedeli di ogni classe e articolazione sociale,
dai nobili ai miserrimi, tutti però con piena disponibilità delle risorse
metallifere, che frequentano unitariamente i loro santuari ma che, nella dedica
dei loro ex-voto, mostrano di adeguarsi a rigide gerarchie che condizionano lo
stile e le iconografie delle stesse dediche. Così il nobile offrirà immagini
della propria classe o il guerriero si raffigurerà avvolto nelle armature da
parata ma il ciabattino si mostrerà intento al proprio mestiere e la popolana
discinta e volgare mentre si reca ad attingere l’acqua alla fonte. Non credo
che una società con tali caratteristiche, e soprattutto con un accesso e una
disponibilità trasversale e transclassista al metallo, sia mai esistita nel pur
articolato panorama delle comunità umane che si affacciano sul Mediterraneo; si
tratta di un affascinante ma del tutto astorico mito moderno. Dopo un accurato
e impegnativo lavoro di studio analitico dei materiali in metallo e dei
contesti in cui i vari tipi ricorrono e dopo uno sforzo analogo sulle
ceramiche, che ha restituito un quadro amplissimo di forme, sia inornate che
decorate, che appartengono alla Prima età del Ferro, gli insediamenti di
santuario hanno ritrovato una ambientazione cronologica coerente e in gran
parte unitaria. Certamente non tutti gli insediamenti che abbiamo ricordato
nascono con il Primo Ferro; in molti di essi sono attestati momenti precedenti,
con valenze prevalentemente produttive, di conservazione e di abitazione; il
loro aspetto peculiare di insediamento di santuario sembra definirsi soltanto
in una fase successiva, appunto a partire dai decenni che si dispongono intorno
alla metà del X secolo. Il funzionamento di un’area santuariale come centro
produttivo e di accumulo di beni è un aspetto di particolare significato, sia
per le quantità davvero eclatanti che tali accumuli raggiungono: si pensi ai
150 chili di metallo di Sa Sedda ’e Sos Carros o alle svariate centinaia di chili
– oltre 500 – costituiti dai manufatti finiti, integri o frammentari, e dalle
materie grezze recuperati nei ripostigli di S’Arcu ’e is Forros. L’elenco delle
voci degli ex-voto provenienti da quest’ultimo sito è estremamente
significativo della concentrazione di ricchezza accumulata negli insediamenti
di santuario: dall’area del megaron 1 vi sono spade votive, asce a
margini rialzati, frammenti di lingotti, bacini, bronzi figurati; da quella del
megaron 2 grandi quantità di panelle e lingotti, anche in stagno mentre i
due ripostigli ritrovati nell’insieme strutturale della cosiddetta insula 2
documentano asce e seghe in ferro, lance, pugnali, bronzi figurati, anse di
bacini in lamina bronzea, spilloni, idrie con anse conformate a mano aperta,
grappe in piombo, scalpelli, punteruoli, martelli, incudini, una imponente
quantità di asce di varia tipologia, falci, lance in ferro, spade con lama
foliata, spade del tipo Monte Sa Idda, punte di lancia e fibule; infine, dal
ripostiglio n. 3, bacili in lamina bronzea, raffinate brocche (oinochoai)
in bronzo con attacchi d’ansa a palmetta e a rotella, una navicella e ancora
scalpelli, punteruoli, martelli, tripodi e lance in ferro e in bronzo (si veda
il contributo di Maria Ausilia Fadda in questo volume). Abbondano, sia in
rapporto ai megara che agli spazi abitativi e di produzione, forni di
fusione, a testimonianza del ciclo produttivo e di trasformazione che riguarda
una gran quantità di materiali che sono originariamente entrati nel santuario
come ex-voto e quindi della straordinaria valenza economica che riveste questo
tipo di insediamento. Va inoltre sottolineata la presenza, spesso illustrata da
manufatti di estrema raffinatezza, di oggetti di produzione orientale,
arrivati, insieme ai sofisticati esempi di metallotecnica villanoviana ed
etrusca, attraverso la mediazione
fenicia; quest’ultima, cui si devono i bronzi figurati di Santa Cristina,
quelli del nuraghe Nurdole e dello stesso S’Arcu ’e Is Forros, è significativamente
testimoniata in quest’ultimo sito dalla grande anfora fenicia con iscrizione su
più righe la cui recente attribuzione al milieu filisteo non si può
condividere. Ci si è interrogati sulle possibili modalità di accumulo di questa
ricchezza all’interno degli insediamenti di santuario che, a detta di alcuni,
deriverebbe dalla consuetudine di una reiterata offerta di un set di oggetti,
spesso di prestigio, da parte di un singolo, il quale, attraverso l’alienazione
rituale di tali beni destinati alla divinità ricaverebbe prestigio sociale e
visibilità all’interno della dimensione del culto pubblico. Se l’offerta del
singolo è ovviamente importante nel contesto cerimoniale, altrettanto
significative sembrano essere le attività di “dono” o di alienazione di risorse
importanti – non più accessibili poiché assegnate al dio – da parte di gruppi
eminenti della comunità o di corporazioni o gilde od anche, di nuovo, di
particolari personaggi socialmente emergenti in occasioni di speciali eventi
cerimoniali; sotto questo punto di vista, l’articolata casistica che anima la
circolazione delle offerte nei santuari del mondo greco a partire dai primi
secoli dell’età del Ferro, sia di importanza regionale che “internazionale”,
offre una ricca messe di dati su cui sarà bene riflettere. Il fenomeno della
concentrazione di beni – utilitari e di prestigio – nei santuari presenta in ogni
caso dati di maggiore interesse se esaminato alla luce del controllo su questi
insediamenti esercitato dalla élite locale e dalla strategia economica
che tale controllo elabora in rapporto con la gestione del potere. I gruppi
elitari possono infatti decidere, attraverso il meccanismo dell’accumulo
santuariale, il livello di circolazione dei beni di prestigio all’interno delle
comunità che controllano, graduare la qualità e la quantità della
redistribuzione, utilizzare l’esibizione della ricchezza come fonte di
prestigio personale o di gruppo, influire sui meccanismi sociali e sulle
gerarchie che frammentano (e lacerano) il tessuto sociale, contenere e
orientare elementi di competizione e di protagonismo. Né va dimenticato il
valore aggiunto straordinario che tale strategia economica realizza nell’agire e
nel concretarsi entro la dimensione codificata dai riti e dalla liturgia del
sacro; la divinità, evocata nei riti e nelle cerimonie, è anche collante del
consenso sociale e garanzia della legittimità del potere acquisito ed
esercitato in forme che, se non fisicamente coercitive, sono in ogni caso
ideologicamente condizionanti. Questo processo, che nella sostanza è di natura
essenzialmente politica, si sviluppa nel corso di circa duecento anni; intorno
alla metà-terzo quarto dell’VIII secolo a.C. esso perde stabilità e coerenza e
si avvia a cedere il passo ad un’altra realtà, condizionata dalla graduale
messa a punto della rete economica fenicia che ha avuto anch’essa circa cento
anni di sperimentazione e di messa a punto (850-750 a.C.). È verosimile che lo
scambio commerciale e il traffico internazionale che sostituisce in parte le
tradizionali forme di accumulo e di redistribuzione delle risorse abbiano
creato forme di lacerazione e di precarietà negli antichi assetti e che i
gruppi di potere locale abbiano ricercato – così come avviene dalle coste
calabresi a quelle tirreniche del continente – nuove espressioni di
affermazione di status e nuove forme di esercizio del potere attraverso il
rapporto con i mercanti, i coloni e i prospectors levantini. È certo che
gli anni intorno alla metà dell’VIII secolo sono quelli del consolidamento
delle fondazioni fenicie sull’isola, alcune già di natura urbana e con il ruolo
dirigenziale di centralplaces come avviene per Sulci. Sarà forse una
semplice suggestione, ma la disposizione della struttura nuragica di
Sant’Imbenia, nel Golfo di Alghero (si veda il contributo di Marco Rendeli et
alii in questo volume), che riprende modelli di aggregazione che
caratterizzano alcuni impianti degli insediamenti di santuario, sembra
raccontare di una fase di mutamento e di trapasso; la grande piazza, area di mercato
su cui si aprono vani produttivi, di raccolta e di conservazione, e spazi forse
adibiti al culto, indica la via dei tempi nuovi e i rituali in onore di nuove
potenti divinità: il traffico e lo scambio, la merce e le equivalenze, il
potere, per chi sappia coglierlo e adeguarvisi, del mercato. La Sardegna entra
nella seconda fase del Primo Ferro e si accinge a percorrere un nuovo capitolo
della sua storia millenaria.
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