Archeologia. I micenei, principi, aristocratici e re guerrieri di stirpe greca che si sostituirono ai minoici nella gestione dei commerci nel Mare Mediterraneo nel Bronzo Medio.
Articolo di Pierluigi Montalbano
I
micenei prendono il nome dalla città greca di Micene, nell’Argolide, e la loro
presenza nel Mare Mediterraneo è attestata per tutta l’età del Bronzo. Alcuni
studiosi li associano agli Achei, ma le tracce lasciate da queste genti, ad
esempio le tavolette con il sistema sillabico della scrittura Lineare B e la
descrizione che ne fa Omero nei suoi poemi, non chiariscono la questione. Le
città principali coinvolte nell’orbita micenea sono Pilo, Cnosso, Argo, Tirinto
e Tebe, luogo in cui la tradizione fa nascere Ercole, Dioniso e Demetra. La
storia dei micenei è legata a doppio filo con quella dei
minoici, genti di
stirpe greca che li precedettero e, per tutto il XVI a.C., li affiancarono
nelle attività commerciali, pur se le tracce portate alla luce dagli archeologi
descrivono una differenza sostanziale: i minoici erano pacifici, i micenei,
invece, erano strutturati con un’aristocrazia guerriera che dominava. Con la decadenza minoica, originata
dall’esplosione del Vulcano Santorini, i micenei sfruttarono le conoscenze e le
rotte commerciali in uso all’epoca, adattando la scrittura minoica, il Lineare
A, ancora non decifrato, e introducendo una serie di modifiche fino a creare la
Lineare B, in parte decifrata e simile al greco antico. Il rituale di sepoltura
miceneo vedeva la costruzione di grandi tombe circolari ipogeiche coperte a
volta semisferica denominata thòlos, rivestite internamente con lastre e
arricchite di corredi funerari straordinariamente ricchi di oggetti preziosi,
ambra, armi, maschere in oro e diademi. I defunti erano sistemati in posizione
seduta, alcuni mummificati, e altri cremati, come descrive Omero nell’Iliade, e
deposti in urne d’oro. L’organizzazione sociale era strutturata con il sistema
di palazzo, e le città sono fortificate, a differenza di quelle minoiche che
erano prive di mura. L’epoca d’oro di questa civiltà è inquadrabile fra
l’inizio del XV e la fine del XIV a.C., il periodo palaziale, denominato anche
Tardo Elladico, caratterizzato da una produzione ceramica ricca di forme e
decorazioni, utilizzate per il trasporto e la conservazione di derrate alimentari,
olio e vino.
Nemici
giurati degli ittiti, i micenei condussero una serie di guerre contro le città
costiere occidentali e meridionali dell’Asia Minore, come riferisce la Lettera
di Tawagalawa, scritta intorno al 1300 a.C. dal re degli ittiti Muwatalli II al
re di Ahhiyawa (gli Achei)
con riferimento ad attività cruente svolte a Wilusa (la città di Troia) mentre
lui (il re ittita) si trovava a Mileto (Millawata) per riscuotere i tributi. In
quell’occasione i micenei si allearono con il re di una città del Regno di
Arzawa, nelle coste occidentali turche, governate da re Piyama-radu,
principe ereditario del trono Arzawa del defunto re Uhha-ziti che perse il
regno nel 1319 a.C. per mano del sovrano ittita Mursili II e fuggì con i propri
figli, riparando proprio nelle isole di Ahhiyawa.
Alcuni studiosi associano i micenei a un altro popolo citato
da Omero nelle sue opere: i Danai che regnarono ad Argo, citati anche dal
faraone Ramesse III nelle iscrizioni del tempio di Medinet Habu in cui celebra
la vittoria contro i Popoli del Mare. Altri studiosi parlano del popolo di Dan
confluito in quello ebraico. Con varianti di tale nome compaiono anche in documenti risalenti al
faraone Amenoteph III nel 1385 a.C. e nella lettera 151 del 1350 a.C. trovata a
El Amarna riferibile al regno del faraone Amenoteph IV, dove si menzionano i
Danai, divisi in molte città, tra cui Micene, Cnosso e Tebe. Ancora prima,
all’epoca del faraone Tuthmosis III, intorno al 1450 a.C. si fa riferimento a
tributi pagati, sotto forma di doni, da ambasciatori dei Danaju (Tanaju)
provenienti da Creta, suggerendo un legame con gli ultimi minoici.
Intorno
al XVI secolo a.C., nel Peloponneso e in Grecia, grazie al clima favorevole,
nelle terre fertili crescevano viti, olivi, fichi, mandorli e si coltivavano
granaglie e orzo, ma l'eccessiva concentrazione demografica nelle zone coltivabili
provocò fenomeni migratori e la volontà di ripristinare le rotte marine
commerciali già frequentate dai minoici. La civiltà micenea si riferiva a una
serie di città indipendenti, a volte in conflitto tra loro, con caratteristiche
sociali, culturali ed economiche simili.
Il
declino di questa civiltà avvenne introno al 1200 a.C. nel periodo delle
scorribande dei Popoli del Mare, con l’invasione dei Dori, un popolo
indoeuropeo difficilmente inquadrabile per ciò che riguarda la sua origine, ma il
ritrovamento di alcune tavolette nel Palazzo reale di Pilo, cotte a causa di un
incendio, che raccontano i concitati preparativi militari per proteggere le
coste, è probabile l’arrivo dal mare. Fino al crollo del sistema palaziale, l'organizzazione
sociale dei Micenei era basata sulla centralizzazione del potere, con
un’organjizzazione gerarchica comandata dal re (wanax). Con lui operava il lawaghetas a capo dell’esercito
mentre l’aristocrazia era divisa in heros (carristi),
hequetas (guerrieri) e sacerdoti. Le
terre erano gestite dal basileus, che assegnava le terre al villaggio e
riscuoteva tributi. Alla base del sistema c’era il popolo e, sotto, gli
schiavi. Al wanax e
al lawaghetas spettava
un lotto di terreno confiscato agli sconfitti, mentre il resto della terra
veniva venduto ai dignitari che lo facevano gestire da funzionari minori. Le
terre donate agli aristocratici per le vittorie in battaglia, non potevano
essere vendute o trasmesse in eredità. Sacerdoti e sacerdotesse, custodi del
tesoro del tempio, avevano poteri e ricchezze superiori a quelli della nobiltà.
Le rivolte e le guerre civili erano frequenti, infatti, le fortificazioni costruite
intorno alle città micenee avevano il duplice scopo di difendersi da invasori
esterni, da regni vicini e da famiglie rivali. Una caratteristica di questa
civiltà è di divinizzare i sovrani e gli eroi, e di conservare un culto
attraverso un sacrificio (enagisma)
dedicato ai sovrani defunti. Negli
archivi di Pilo è citato un ekeryawon,
forse la persona forse più ricca del regno, proprietario di una nave
privata composta di 40 vogatori, primo nelle donazioni al tempio di Poseidone e
nella distribuzione a palazzo di olio e incensi profumati. Potrebbe essere il
principe ereditario, oppure un governatore che deteneva il potere politico.
Aristotele racconta una struttura sociale divisa in quattro gruppi: sacerdoti,
guerrieri, operai e contadini, a imitazione delle quattro stagioni, e ogni
tribù era divisa in tre parti, e queste 12 suddivisioni rappresentavano i 12
mesi dell'anno. I documenti in Lineare-B parlano di un ceto contadino libero
con terre in proprietà o usufrutto, che paga tributi al palazzo e decime al
tempio, controllato da esattori delle imposte e nobili di provincia. Le
comunità agricole erano tenute a versare una tassa (a-ma) in natura (granaglie,
cereali, lino, olio, frutta) in cambio di strumenti di lavoro o servizi che il
palazzo forniva, come il prestito dei buoi per l'aratura, la sistemazione dei
canali d’irrigazione e il prestito di sementi. I marinai avevano agevolazioni
fiscali perché erano decisivi per il buon funzionamento della flotta. Gli
ufficiali superiori appartenevano all’alta nobiltà (rawaketa). Gli artigiani e i mercanti vivevano in città e nei borghi
agricoli e, fra loro, particolarmente importanti erano i fabbri e gli armaioli,
a stretto rapporto con il palazzo che provvedeva ai rifornimenti di metalli e
combustibile. Alcuni di loro erano itineranti, e negli archivi di Pilo risulta
che un terzo circa dei 400 fabbri e armaioli censiti nel regno ha nomi
stranieri. Altri artigiani privilegiati erano gli orafi e i vasai, spesso
uomini liberi che grazie alla loro arte riuscivano ad arricchirsi notevolmente,
specie i maestri. La manodopera di palazzo comprendeva pittori, artigiani dell’avorio,
falegnami e operai tessili che producevano grandi quantità di lana, lino e
coloranti per l’esportazione. Generalmente la retribuzione era in natura, e nei
quartieri artigianali, posizionati all’estrema periferia delle città per
limitare il disturbo provocato da odori,
fumi, rumori e scorie di lavorazione c’erano tintori e conciatori di pelli,
oltre ai produttori di unguenti, profumi e cosmetici. La burocrazia era
dettagliata, perché il palazzo controllava la produzione, l’esportazione, la
distribuzione delle materie prime e la riscossione di tributi. Naturalmente, l’agricoltura
e l’allevamento erano assai praticate. Fra le divinità troviamo Poseidone,
Proteo, Ares, Dioniso, Atena, Persefone, Demetra, Artemide e Tiresia. L'organizzazione
religiosa è legata al palazzo e il re (wanax) era anche il capo religioso che
dirigeva le offerte e i riti essendo visto come intermediario tra il mondo
umano e quello degli dei.
Il palazzo miceneo è completamente diverso da quello
minoico. Innanzitutto, era caratterizzato dall’assoluta semplicità rispetto
all’intreccio di stanze, corridoi e terrazze del palazzo cretese. Inoltre,
sorgeva su un’acropoli protetta da mura ciclopiche, fatte di enormi massi
sovrapposti e adattati fra loro a secco. La concezione architettonica era
costituita da un grande salone con focolare al centro e quattro colonne a
sostegno del soffitto. Questa tipologia è detta a mégaron, ed era funzionale ai
banchetti di corte e come sala del trono, per le udienze del sovrano e come luogo
per il suo soggiorno privato. Intorno ci sono le stanze della servitù, i
magazzini, i corpi di guardia, le dispense e, a volte, un secondo mégaron per
la regina. La diversità con i palazzi cretesi stava anche nei materiali
impiegati per la costruzione. Le mura ciclopiche e le sale costruite con pietra
dal colore simile al ferro, pressoché spoglie di decorazioni, indicavano una
concezione di vita diversa, dalla quale era bandita la fantasia e predominava
la necessità di ostentare il proprio potere e la propria forza. Importanti sul
piano architettonico sono le cosiddette tombe a tholos nelle quali venivano deposti
i re e i funzionari più importanti. Sono enormi locali sotterranei foderati con
cerchi sovrapposti di grandi pietre lavorate, ognuna delle quali sporge
leggermente all’interno rispetto a quella sottostante (tecnica ad aggetto). Si
crea così una sorta di grande cupola, sopra la quale viene posto un masso di
grandi dimensioni che, con il suo peso, tiene compatte le pareti.
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