Archeologia della Sardegna. Basilica di Porto Torres: San
Gavino (ante 1065-ante 1111).
Giudicato di Torres, curatoria di Flumenargia
Articolo di Roberto Coroneo
La basilica di S. Gavino turritano è parrocchiale del
moderno abitato di Porto Torres, che occupa il sito della colonia romana di
Turris Libisonis, sede episcopale dal 484 (quando Felix è fra i cinque vescovi
sardi al sinodo di Cartagine convocato dal re vandalo Unerico) sino al 1441,
quando fu trasferita a Sassari. La cattedrale romanica sorge alta sul mare fra
due cortili, “atrio Comita” e “Metropoli”, nell’area della necropoli orientale
e in particolare nel monte Agellu, dalla voce latina “agellus”, «cimitero
all’aperto per la sepoltura dei poveri» (G. Spano).
Gli scavi seicenteschi
identificarono una piccola struttura cruciforme, probabilmente una memoria
divenuta ipogeica quando fu incorporata nell’edificio romanico, la cui navata
settentrionale si sovrappone a una basilica trinavata con abside a occidente.
Da questa proverrebbero i marmi di spoglio individuabili nell’edificio: due
altari a cippo e un pilastrino da recinzione di età bizantina, un
frammento di
transenna e i tre capitelli con colombe, rilavorati per l’impiego nell’aula
romanica.
La prima menzione del titolo è contenuta nel “Condaghe di S. Pietro
di Silki” e risale al 1065 circa. Dallo “Pseudocondaghe di S. Gavino” si ricava
la notizia della costruzione della basilica in due tempi: iniziata da
Gonnario-Comita (giudice di Torres e Arborea) ad adempimento votivo, fu ripresa
e ultimata dal figlio Torcotorio-Barisone I de LaconGunale, giudice turritano
nel 1065. L’indagine archeologica ha confermato l’esattezza della fonte
apografa. Nella navata settentrionale l’allestimento delle fondamenta si è
arrestato in corrispondenza dei primi due pilastri da levante, quando nella
navata mediana i lavori erano stati condotti sino alla coppia di pilastri
mediani; dunque la fabbrica procedette a partire dall’abside orientale.
La
basilica preesistente venne rasa al suolo e il terreno fu ricolmato,
risparmiando la struttura martiriale, con funzione di confessio o cripta (oggi
nella versione seicentesca a corridoio) sotto l’altare maggiore in medio, cioè
al centro della navata e non nell’abside, così mantenutosi fino al secolo
scorso, «isolato in mezzo della gran nave» (A. Della Marmora). La basilica è
frutto di un progetto unitario, con pianta trinavata ad absidi contrapposte
lungo l’asse nordestsudovest. Tuttavia la ripresa dei lavori comportò un
avvicendamento di maestranze, distinte nelle consuetudini di taglia anche se
nell’alveo della stessa formazione pisana. Di questa rimane memoria nello
“Pseudocondaghe”, secondo cui il giudice affidò la fabbrica a undici maestri
architetti, i migliori che potessero chiamarsi da Pisa. Al maestro che poco
prima del 1065 progettò e impiantò la basilica si devono abside e corpo
orientale, dove sull’alto zoccolo poggiano paraste con basi marmoree innalzate
da un dado che interrompe la scarpa, mentre sul paramento in grandi cantoni
calcarei si incavano alloggi per bacini ceramici e si profilano specchi
conclusi da un archetto, come nel timpano del frontone, dove però gli archetti
hanno doppia ghiera a spigolo vivo. Le monofore sono di tipo arcaico, con
strombo gradonato a spigolo vivo, come nell’oculo del timpano di levante e
nella prima luce sinistra del fianco settentrionale.
Alla ripresa dei lavori,
nell’abside e nel corpo occidentale le monofore gradonate vengono sostituite
dal tipo a sguanci lisci, mentre gli archetti sono filettati a listelli
sottili. L’unità architettonica è assicurata dal ritmo degli specchi che, fra
larghe paraste d’angolo, rifasciano il paramento dei fianchi con archetti
impostati su una parasta o su un peduccio in asse con una monofora.
L’interno è
trinavato da ventidue colonne e tre coppie di pilastri cruciformi, oggi senza
funzione strutturale ma probabilmente destinati, nel progetto originario, a
reggere archi-diaframma tra i muri della navata mediana, così da definire uno
spazio concamerato e non bidirezionale, com’è ora che le opposte direttrici
conducono alle absidi con arco frontale a leggero rincasso. Le colonne sono di
spoglio, in granito e in marmo, con abachi a tavoletta. Dei capitelli, perlopiù
di età romana, tre con colombe furono rilavorati in età altomedioevale, mentre
due sono romanici.
La navata mediana ha tetto ligneo, esternamente in lastre di
piombo; ogni navatella è voltata a crociera. La divisione fra le campatelle è
segnata da un arco trasverso, impostato su mensole altomedioevali o
d’imitazione romanica. L’ultima coppia di campatelle verso occidente duplica
l’ampiezza dell’arcata per marcare un transetto, che si pronuncia anche
all’esterno con la maggiore altezza dei muri. La costruzione dovette completarsi
entro il 1111, come attesta l’iscrizione funeraria nella base della parasta del
fianco allo spigolo nord.
Al 1492 risale un’epigrafe, relativa al restauro
aragonese dell’unico portale romanico superstite. Ubicato sul fianco nordovest,
centrato nello specchio fra paraste e dunque in situ (a differenza degli altri,
aperti in età aragonese con forme gotico-catalane), si compone di elementi
marmorei: architrave istoriato con motivi geometrici, stipiti a più risalti,
capitelli con aquile imperiali, figure zoo-antropomorfe. Nella lunetta
campeggia a rilievo bassissimo una scena di combattimento fra cavalieri; si
direbbe il programma iconografico di una “porta regia”, da connettere all’alta
committenza giudicale.
Fonte: R. Coroneo, Architettura romanica dalla metà del
Mille al primo ‘300, collana “Storia dell’arte in Sardegna”, Nuoro, Ilisso,
1993, sch. 1
da
Wikipedia:
La
città di Turris Libisonis fu sede
episcopale dal 489 al 1441, anno in cui la sede si trasferì
a Sassari. La basilica di San Gavino, ex cattedrale, sorge nel
monte Agellu, area in cui gli scavi archeologici hanno attestato la
presenza di una necropoli paleocristiana e due antiche basiliche
(una delle quali, a pianta centrale, era il Martiryon costruito sulla
tomba di san Gavino, i cui resti furono inglobati nella cripta della basilica) databili
al V - VII secolo.
La
prima menzione documentaria della chiesa di San Gavino è databile intorno
al 1065 ed è contenuta nel Condaghe di San
Pietro di Silki. Lo Pseudocondaghe di San Gavino, documento
apografo del XVII secolo, riporta l'inizio dei lavori alla prima metà
dell'XI secolo e si deve a Gonnario Comita, giudice di Torres e
di Arborea, che commissionò l'opera a maestranze pisane. La
costruzione proseguì sotto Torchitorio Barisone I de Lacon-Gunale, figlio
di Gonnario Comita, e venne inaugurata dal giudice Mariano di Torres e
dall'arcivescovo Costantino di Castra nel 1080.
Nel
prospetto settentrionale della basilica, due epigrafi incise sulla base
marmorea della prima parasta a partire dall'abside orientale attestano la
presenza nei pressi di altrettante sepolture privilegiate: un titulus,
recante la data 1211, fa riferimento ad un
defunto del quale non si è conservato il nome e invoca con decisione
l'inviolabilità della tomba mentre l'altra iscrizione, antecedente alla prima,
ricorda un personaggio di nome Guido de Vada. Ancora un'epigrafe,
datata 1492 e presente sul portale romanico, attesta i lavori
compiuti nel XV secolo che introdussero nella costruzione elementi
dello stile gotico-catalano.
Nel
XVII secolo venne sistemata la cripta che
accolse le reliquie dei martiri turritani rinvenute nel 1614 in
seguito agli scavi voluti dall'arcivescovo Gavino Manca de Çedrelles.
Esterno
La
basilica è situata tra due cortili, detti "atrio Comita" e
"atrio Metropoli", su cui si affacciano i due lati lunghi
dell'edificio. Nel fianco meridionale si apre l'ingresso principale, costituito
da un pregevole portale gemino del XV
secolo in stile gotico-catalano; il grande arco a tutto sesto che
sovrasta il portale è retto da colonnine e presenta la cornice dell'estradosso che
poggia su due capitelli scolpiti con la raffigurazione di due angeli
che reggono uno stemma ciascuno. La chiesa è biabsidata con
absidi contrapposte su entrambi i lati corti della basilica. Il paramento
esterno, in pietra calcarea, è scandito da lesene e archetti
pensili. La copertura del tetto è in lastre di piombo.
Interno
L'interno
è a pianta rettangolare, diviso in tre navate tramite
due serie di archi a tutto sesto retti da ventidue colonne di spoglio,
in granito rosa e marmo grigio, e da tre coppie di pilastri cruciformi.
I capitelli sono quasi tutti di epoca romana. La pianta a sviluppo
longitudinale è conclusa su ambo i lati minori da un'abside. La navata
centrale, molto più larga di quelle laterali con un rapporto di 3:1, è coperta
a capriate lignee che riportano diverse scritte in colore rosso
risalenti al XVII secolo, mentre le campate delle navatelle laterali
sono voltate a crociera. L'altare maggiore, fino alla metà del XX
secolo collocato al centro della navata entro una quinta in stile gotico
catalano, si trova ora nell'abside situata a sud ovest, ridotto a semplice
mensa (è stato demolito anche il pregiato coro e altri altari secondari) mentre
l'abside contrapposta, a nord est, ospita un catafalco ligneo del
XVII secolo con le statue policrome dei santi martiri Gavino, Proto e
Gianuario, raffigurati in posizione giacente. Dalle navate laterali si accede
all'anticripta e alla cripta, dove sono custoditi artistici sarcofagi romani,
dentro i quali si conservano le reliquie dei martiri turritani. L'anticripta è
un ambiente in stile classico rinascimentale, caratterizzato da numerose
nicchie entro le quali si collocano statue marmoree di martiri locali.
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