giovedì 18 gennaio 2018

Archeologia della Sardegna. Il mondo dei defunti nell'età del Ferro. Fenici e punici a confronto. Il rito religioso funerario: incinerazione e inumazione Riflessioni di Piero Bartoloni

Archeologia della Sardegna. Il mondo dei defunti nell'età del Ferro. Fenici e punici a confronto. Il rito religioso funerario: incinerazione e inumazione
Riflessioni di Piero Bartoloni



Nel mondo fenicio e punico il rituale funebre era caratterizzato da alcune pratiche che trovano i loro antecedenti nell’area del Levante e che hanno origini riscontrabili fin dal Medio Bronzo e dunque fin dagli inizi del secondo millennio a.C. L’ingresso nell’Età del Ferro nell’area del Vicino Oriente viene sancito tra l’altro dall’utilizzo del rito funerario dell’incinerazione, caratteristico dei popoli transumanti, che viene a sostituire il rito dell’inumazione, proprio di tutta la regione fin dall’età neolitica. Come era in uso fin dalle origini, in Fenicia le necropoli erano distanti dal centro abitato di riferimento, talvolta anche oltre un chilometro. Eloquente è il caso della necropoli di Tiro, ubicata in
località El Bass (Núñez Calvo, 2004a: 281-373; Aubet, 2010: 143-155), lungo quella che un tempo era la costa libanese di fronte alla città. Tale consuetudine rimase in atto anche nei centri fenici occidentali più antichi di Sardegna e di Spagna, come dimostrano tra l’altro i siti di San Giorgio di Portoscuso (Bernardini, 2000: 29-61) e di Ayamonte e di La Rebanadilla, presso Malaga (Arancibia Román - Escalante Aguilar, 2006: 333-360; Garcia Teyssandier - Marzoli, 2013: 89-158), per poi perdersi a partire dagli ultimi anni del VII a.C. A partire dal VI secolo, nelle necropoli della costa siro-palestinese tornò temporaneamente in auge il rito dell’inumazione, soprattutto per quanto riguarda la classe dominante, legato probabilmente alle consuetudini in voga nel vicino regno di Egitto, che aveva dominato la zona costiera del Vicino Oriente fin dalla metà del II millennio a.C. Se si prescinde dalle necropoli della prima Età del Ferro, quali ad esempio quella già citata di El Bass, tutte con tombe monosome, o quelle costituite da piccole cavità ipogee durante l’VIII a.C., come quelle di Rashidieh (Doumet - Bordreuil, 1982: 89-148), in Libano sono state rinvenute alcune sepolture collettive in tombe a pozzo, riferibili ai secoli VI e V a.C., che costituiscono una situazione paradigmatica che proseguirà fino all’età ellenistica. Mi riferisco in particolare alle tombe regali di Sidone, venute in luce attorno alla metà del XIX secolo e nei decenni successivi, nelle quali viene enfatizzato l’aspetto ipogeo. Nel 1855, alcuni cercatori di tesori avevano individuato presso Sidone, nella località di Magharat Tabloun o Magharat Abloun, cioè la Caverna di Apollo, una tomba regale contenente il sarcofago egiziano in basalto usurpato, appartenuto al sovrano Eshmunazor II, figlio di Tabnit, che regnò sulla città di Sidone tra il 535 e il 520 a.C. Il sarcofago fu recuperato da Ernest Renan e attualmente è esposto presso il Musée du Louvre (Renan, 1964). Sempre prossima a Sidone, la necropoli di Ain el-Helwé fu rinvenuta nel 1888 in un terreno di proprietà della American Presbyterian Mission e fu esplorata dalla American School of Jerusalem nel 1901. Le tombe della necropoli sono del tipo a pozzo con due camere ipogee diametralmente opposte tra di loro. Nelle sepolture ipogee della necropoli sono stati rinvenuti numerosi sarcofagi antropoidi di scuola grecoionica, ma di fabbrica certamente fenicia, databili tra la fine del V e gli inizi del IV a.C., ora conservati almeno in parte nel museo di Beirut (Jidejian, 1995). Agli inizi del 1887, Mehmed Chérif Effendi, proprietario di un terreno nella località di Ayaa, in prossimità del modesto rilievo denominato Bostan el Magara, cioè “Collina delle grotte”, distante poco più di un chilometro dalla città, aveva chiesto all’autorità locale di Sidone di poter estrarre della pietra da costruzione dal suo terreno (Hamdi Bey - Reinach, 1892). Iniziati i lavori di estrazione, il proprietario rinvenne un pozzo e si rese subito conto di essere in presenza di una tomba. Informate le autorità locali, il governatore ricevette l’incarico di sgomberare l’enorme quantità di terra per controllare se vi erano altre tombe e, infatti, scoprì altri due pozzi. Intervenne l’ingegnere capo della Sublime Porta e aprì una dopo l’altra sette tombe ipogee. Della scoperta fu informato Sua Maestà Imperiale Abdul-Ha-mid II che incaricò Osman Hamdi Bey, Direttore Generale del Museo Archeologico di Istanbul nel 1881, di recarsi immediatamente a Sidone e di procedere allo scavo delle tombe e al recupero dei preziosi sarcofagi. Appena giunto sul luogo, Hamdy Bey si rese conto che, appena scoperte, le tombe erano state visitate da numerose persone, che, invitate dal governatore di Sidone, in alcuni casi si erano appropriate di souvenirs. Ma, come si sa, con il passare del tempo i ricordi si affievoliscono e Osman Hamdy Bey trovò alcuni di questi oggetti in vendita sul mercato antiquario. Come si evince dalla pianta della necropoli, lo scavo fu effettuato con il sistema delle trincee, che era in auge in quel periodo, grazie anche alla mano d’opera a basso costo. In realtà Hamdi Bey si rese conto che si trattava di due tombe adiacenti, con accessi a pozzo separati. Con una rapidità encomiabile – solo cinque anni separarono lo scavo dalla sua pubblicazione – fu data alla stampe la relazione contenente i dati salienti dell’indagine. È una pubblicazione figlia del suo tempo, ma, non perquesto, meno apprezzabile e meno utile. Oltre a Osman Hamdy Bey, firmò anche Théodore Reinach, direttore della Revue d’Etudes Grecques. Fin dalla prima visita, Osman Hamdy Bey accertò che le tombe erano state violate da lungo tempo dai cercatori di tesori. Ma si rese anche conto che molti tra i sarcofagi erano quasi intatti ed erano di una qualità eccezionale. In seguito individuò l’accesso principale e constatò che si trattava di una tomba di famiglia, utilizzata nel corso di circa due secoli. La tomba più antica, separata dalle altre e somigliante alle tombe regali di Biblos, era quella del re Tabnit, padre del re Eshmunazor II. La sua tomba era costituita da un sarcofago antropoide egiziano di stile saitico in basalto nero. Il manufatto era proveniente dalla necropoli di Menfis, dalla quale era stato rubato al momento della conquista persiana (525 a.C.). Il sarcofago era appartenuto a Peneptah, generale egiziano al servizio di un faraone della XXVI dinastia, quindi defunto qualche anno prima. Alla base del sarcofago fu inciso in lingua fenicia l’epitaffio del re Tabnit: «Io, Tabnit, sacerdote di Ashtart, re dei Sidonii, giaccio in questo sarcofago. Chiunque tu sia, qualsiasi uomo, che trovi questo sarcofago, non aprire il suo coperchio e non disturbarmi, perché non hanno accumulato presso di me oro, né qualsiasi altra cosa preziosa … Non aprire il suo coperchio e non disturbarmi, perché questa cosa è un abominio per Ashtart. E se proprio apri il suo coperchio e mi disturbi, non vi sarà per te discendenza nella vita sotto il sole, né dimora con i defunti». La parte superiore della mummia reale era conservata distesa su una tavola di legno di sicomoro. Questo albero dall’ampia chioma era considerato sacro nell’area vicino-orientale, poiché si riteneva che fosse simile alla volta celeste. La sua ombra tutelava i vivi e si credeva che proteggesse i defunti. Il re Tabnit è deceduto giovane, confermando quanto detto dal re Eshmunazor II, che a sua volta riferisce di essere orfano e di essere morto giovane, all’età di circa quattordici anni. L’unico oggetto di corredo contenuto nel sarcofago era costituito da una benda d’oro, che doveva essere fissata sul capo, sulla fronte o sulla bocca, assieme al mantello di porpora, costituiva il simbolo della regalità. In tal senso suona l’iscrizione di Batnoam, regina di Byblos nel 350 a.C.: «In questo sarcofago, io Batnoam, madre del re Azbaal re di Biblo, figlio di Paltibaal, sacerdote di Baalat, riposo avvolta nella porpora e con un copricapo sopra di me e con una lamina d’oro sopra la mia bocca come le donne di stirpe regale che furono prima di me» (Magnanini, 1973: 31). La tomba del re Tabnit era stata realizzata verso il 540 a.C., mentre quella adiacente, anch’essa regale e fornita di ben sette camere ipogee, sembra più tarda almeno di qualche anno. Tra i sovrani sepolti nella tomba si ricordano la regina Ummiashtart, moglie di Tabnit e madre di Eshmunazor II, reggente nel 539 a.C., il cui corpo era contenuto in un sarcofago egizio anepigrafe, il re Baalshillem I, sovrano attorno al 450 a.C., inserito nel sarcofago del cosiddetto del Satrapo, il re Banaa, che regnò attorno al 410 a.C., sepolto nel sarcofago di tipo licio, e infine il re Abdalonim, che regnò dal 332 al 312 a.C., contenuto nel sarcofago cosiddetto di Alessandro. Sembra evidente la duplice valenza di questa seconda tomba a pozzo, nella quale probabilmente sono state raccolte le spoglie dei re di Sidone deceduti nel corso del tempo tra V e III a.C. Da un lato traspare il desiderio di raccogliere i re defunti accanto alla tomba del re Tabnit, loro predecessore, in una sorta di collocazione ad Santos, dall’altro ciò costituisce una protezione contro i reiterati tentativi di spoliazione dei singoli sepolcri, disseminati nel territorio. Per quel che riguarda il mondo fenicio di Occidente, limitando, per ovvi motivi di spazio, la trattazione sui riti funerari fenici soprattutto alle necropoli del Mediterraneo centrale, si ricordaquella di San Giorgio, che, assieme a quelle di Sulky (Bartoloni, 2013: 29-74), anch’essa nella Sardegna sud-occidentale, di Byrsa, a Cartagine (Lancel - Thuillier, 1982: 263-364), e di Mozia (Tusa, 1972: 7-81 e 1973: 35-56), nell’estremo lembo occidentale della Sicilia, può essere considerata una delle più antiche alle quali si rimanda per i confronti e per la bibliografia relativa. Ciò che occorre notare fin dall’inizio è che tutti i recipienti utilizzati nelle tombe come contenitori di ossa nella loro funzione primaria dovevano verosimilmente contenere vino o avevano un’attinenza con questa bevanda e quindi anche in questo caso se ne riconferma il valore sacro e magico (Milano, 1997: 125-126; McGovern, 2005; Bartoloni, 2012: 8-19), nonché la precoce produzione del vino nel Mediterraneo centrale, e dunque la volontà di inserire i resti ossei in un contenitore prossimo al sacro. Del resto ciò non costituisce una novità, poiché, ad esempio, i contenitori da trasporto sono stati utilizzati in funzione secondaria per le necropoli arcaiche di Mozia (Spanò Giammellaro, 2000: 303-331) e di San Giorgio, nonché, in qualche caso, in quella di Cartagine (Benichou-Safar, 1982: 239-240). Inoltre, la stretta connessione con il vino e quindi con la valenza simbolica e sacra del simposio e della marzeah (Menichetti, 2002: 75-99) è confermata da ulteriori recipienti quali i crateri, rinvenuti in altre necropoli (Aubet, 2004: 31-55), anche in Sardegna (Bartoloni, 1996: 109-110), nonché, ad esempio, negli stessi tofet di Cartagine (Benichou-Safar, 2004: 40-43, fig. 4) e di Sulky (Bartoloni, 1991: 648-649), ove, per altro, esistono alcuni esemplari miniaturistici di anfora oneraria, utilizzati come contenitore di ceneri (Benichou-Safar, 1982: 40-43, figg. 6-7; Bartoloni, 1991: 648, 650). Per rafforzare il concetto, si ricorda che la quasi totalità degli ossuari della necropoli di al Bass, presso Tiro, era composta da crateri (Núñez Calvo, 2004b: 63-203). Le stesse sepolture a enkytrismós, tanto diffuse nel mondo punico (Benichou-Safar, 1982: 65-67; Bartoloni, 1989: 74-78), se si prescinde dagli aspetti puramente utilitaristici, rappresentati dalle dimensioni del contenitore in rapporto con il corpo dell’infante da contenere, forse possono alludere ad una connessione con il vino contenuto all’origine nelle anfore e al suo valore sacro. L’anfora, pertinente alla tomba 10 della necropoli di San Giorgio, conteneva i resti ossei combusti di un individuo adulto, evidentemente raccolti da un ustrinum e inseriti nel recipiente. Lo stato di forte combustione e di frammentazione dei resti ossei contenuti sia nell’anfora del tofet che in quella della necropoli di San Giorgio permettono di introdurre una problematica appena riaffiorata nella necropoli di Monte Sirai. Infatti, sempre nell’area della necropoli fenicia di Monte Sirai, era già stata segnalata la presenza di una tomba contenente un individuo il cui corpo era palesemente in stato di semicombustione (Bartoloni, 2000: 72). I recenti lavori di Michele Guirguis, effettuati in un’area a est della zona indagata da Paolo Bernardini negli anni precedenti, più prossima all’abitato, hanno posto in luce una serie di tombe, tutte attribuibili ad un arco di tempo compreso tra la fine del VI e i primi anni del V secolo a.C., contenenti una serie di corpi in buono stato di conservazione, recanti tracce di semicombustione. L’esame autoptico dei resti ossei, tutti composti, quindi apparentemente in stato di deposizione primaria, presentava tracce di annerimento della parte superiore, ma non la caratteristica frammentazione dei resti o il tipico colore grigio-azzurro delle ossa dovuti alla forte combustione sul rogo. La particolare situazione imponeva misure più rigorose di quanto non permettesse un semplice esame autoptico e a tal fine si predisponevano alcune analisi chimiche (grazie alla collaborazione di Stefano Enzo e di Giampaolo Piga). A titolo di anticipazione si può dire che i risultati delle analisi mostrano come, in alcune tombe, i corpi siano effettivamente semicombusti e abbiano subito un processo di combustione quantificabile in una temperatura di circa 400°-600° per un periodo non superiore ai 18- 36 minuti. I risultati ottenuti costituiscono dunque un concreto indizio di un rituale diverso da quello della incinerazione, che invece, come si è potuto constatare nell’ambito delle stesse analisi, prevedeva una combustione del corpo ad una temperatura tra i 600° e gli 800°, con punte prossime ai 1000° (Bartoloni, 1985: 249), e la conseguente calcinazione e frammentazione dei resti ossei di maggiori dimensioni e la parziale distruzione di quelli minori. Come in precedenza era stato intuito empiricamente, sulla base dello stato di conservazione dello scheletro, e successivamente rilevato anche dalle analisi chimiche e fisiche, è molto probabile che il fuoco, destinato a distruggere le parti molli e a bruciare le ossa, fosse spento repentinamente con getti di liquido, forse acqua, probabilmente con lo scopo di conservare parte delle ossa e in un duplice intento purificatore con l’intervento prima del fuoco e poi dell’acqua (Bartoloni, 2000: 69). È evidente come il probabile scopo della parziale combustione fosse volto alla distruzione delle parti molli, quindi del grasso e dei muscoli. Tuttavia, il rituale in questione pone non pochi problemi, poiché, come detto, i corpi sottoposti a questo tipo di rituale appaiono tutti indifferentemente composti in posizione primaria, ma le fosse che li contengono, praticate nel tufo vulcanico, apparentemente non conservano la sia pur minima traccia di combustione. Occorre aggiungere che spesso, all’interno delle singole sepolture, sono stati rinvenuti due corpi sovrapposti, entrambi nel medesimo stato di semicombustione. Occorre comunque precisare che nelle immediate adiacenze dei sepolcri sono state rinvenute zone di tufo che presentano in superficie vistose tracce di combustione, attribuibili verosimilmente ad ustrina, probabilmente utilizzati più volte, ma apparentemente non si comprende come i corpi, sottoposti sia pure per breve tempo a combustione, siano stati poi traslati all’interno delle singole fosse in stato di perfetta composizione anatomica. In realtà i corpi dovevano essere collocati sulla catasta, che veniva accesa e lasciata ardere per non più di mezz’ora. Nel frattempo i tessuti, i muscoli e l’adipe venivano “cotti” ma non totalmente distrutti, perché il corpo rimaneva in connessione anatomica. Il fuoco veniva spento con getti d’acqua e il corpo veniva rimosso e traslato nella fossa. Un particolare che può sembrare fuorviante, ma che ha trovato una spiegazione logica è la constatazione che la parte superiore delle ossa dei defunti sottoposti a questo tipo di rituale presentava un colore brunastro dovuto agli esiti della combustione, mentre la parte inferiore mostrava un colore biancastro e apparentemente privo di tracce di bruciatura, tanto da far ritenere che la combustione fosse avvenuta ponendo il corpo sul rogo in posizione prona. In realtà, si è potuto provare che la posizione del corpo sul rogo era supina e dunque analoga a quella all’interno della fossa, poiché la differenza di colore delle ossa era dovuta unicamente a una reazione chimica e più precisamente all’azione basica del tufo che costituiva la pavimentazione della tomba, mentre la parte superiore delle ossa veniva coperta di terra e quindi non sia pure parzialmente erosa. La basicità del terreno di Monte Sirai è dedotta dalla presenza di notevoli contributi di rocce calcaree, ovvero ad alto tenore di CaCO3 (carbonato di calcio). Con la presenza di acqua il calcare del terreno può dare luogo alla reazione CaCO3 + H2 O ->Ca(OH)2 + H2 CO3 più le altre reazioni collaterali. A seguito di questa reazione risulta un contributo da una base relativamente forte [il Ca(OH)2 ] e un acido relativamente debole, l’acido carbonico H2 CO3. (Queste indicazioni sono dovute alla cortesia del Collega Stefano Enzo del Dipartimento di Chimica dell’Università di Sassari). D’altra parte, i corpi inumati rinvenuti nel passato nelle tombe a fossa della necropoli fenicia di Monte Sirai presentavano tutti costantemente i resti ossei quasi completamente sfarinati e distrutti dalla forte basicità del terreno, tanto da non destare equivoci in rapporto con l’unico caso di supposta combustione citato più sopra. Altrettanto si può sostenere per quanto riguarda la necropoli punica, che, come è noto, era costituita da tredici tombe a camera ipogea (Bartoloni, 2000: 72-73). Infatti, i corpi degli inumati, deposti all’interno delle camere ricavate nello strato di tufo, erano tutti indistintamente quasi completamente distrutti (Barreca, 1964: 47; Amadasi - Brancoli, 1965: 98-101; Fantar, 1966: 66-67). La stessa situazione si verifica nella necropoli ipogea di Sulky, anch’essa praticata nello spessore della coltre di tufo vulcanico, ove i resti ossei relativi agli inumati risultano anch’essi conservati in minima quantità (Bartoloni, 1987: 59-61; Bernardini, 1999: 133-146) o, addirittura, scomparsi senza lasciare la minima traccia. In questo centro il rito dell’inumazione primaria è presente fin dal periodo immediatamente successivo all’annessione cartaginese della Sardegna. Tra l’altro, costituiscono una prova incontrovertibile di questa situazione le tombe ipogee n. 1 Belvedere e n. 9 PGM (indagate da Paolo Bernardini), che sono state utilizzate unicamente tra il 500 e il 475 a.C., poiché all’interno delle camere non sono state rinvenute le sia pur minime tracce di ossa umane. Ne è ulteriore prova, sempre nella stessa necropoli, la tomba ipogea n. 1 Steri, esplorata nei primi mesi del 2007, nel cui interno sono state rinvenute tracce di venti sepolture, ma la maggior parte delle ossa rinvenute è stata quella relativa a due incinerazioni di età ellenistica. Invece, le uniche ossa di inumato superstiti sono state quelle relative a un cranio, conservatosi unicamente poiché avvolto nelle bende di lino. Il numero dei corpi inumati è stato rilevato sulla base dei resti lignei dei sarcofagi presenti all’interno dell’ipogeo. Dunque, nel caso esposto sembra di essere di fronte a un rituale non nuovo, ma di utilizzo limitato nel tempo e forse anche nello spazio e dunque praticato probabilmente solo nell’insediamento di Monte Sirai negli anni attorno al 500 a.C. In letteratura non sembrano risultare esempi simili nelle necropoli del mondo fenicio e punico (Benichou-Safar, 1982: 237-248; Rodero Riaza, 2001: 79-90) e apparentemente l’unica testimonianza di questa pratica funeraria al di fuori di Monte Sirai e in genere delle necropoli fenicie è quella fornita da una sepoltura della necropoli di Bitia (Bartoloni, 1996: 53), che, tuttavia, non sembra appartenere allo stesso arco temporale. Con la diffusione capillare della civiltà ellenistica, che abbracciò tutte le regioni rivierasche del Mediterraneo fin dal III a.C., anche nel mondo punico penetrò il nuovo rito dell’incinerazione, secondo l’immagine proposta dalla koiné greca: gli antichi ipogei divennero il rifugio permanente delle urne contenenti i resti combusti dei defunti più recenti, anche in connessione della ricerca di protezione e di tutela e quindi della deposizione presso gli antenati o ad Santos.

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Fonte: La morte e i morti nelle società euro mediterranee - Atti del Convegno internazionale Palermo, 7-8 novembre 2013 a cura di Ignazio E. Buttitta e Sebastiano Mannia - Fondazione Ignazio Buttitta

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