domenica 10 settembre 2017

Archeologia della Sardegna. Intervista a Pierluigi Montalbano su navigazione antica, Civiltà Nuragica e Shardana. A cura di Mauro Atzei

Archeologia della Sardegna. Intervista a Pierluigi Montalbano su navigazione antica, Civiltà Nuragica e Shardana.
A cura di Mauro Atzei  mauro.atzei @comune.cagliari.it

Scrittore, studioso di Archeologia e direttore, da cinque anni, del “Quotidiano on-line di storia e archeologia”, venerdì 29 Settembre, alle 19, presenterai il tuo lavoro sul tema "Nuragici e Fenici, due mondi a confronto" nella sala conferenze Honebu in Via Fratelli Bandiera 100 a Cagliari/Pirri, già raccontato lo scorso 3 Settembre a Domus de Maria, nell'ambito della settima edizione della rassegna di archeologia "Note di Settembre", della quale sono visibili nel canale You Tube i video registrati nelle due serate da Ferdinando Atzori ai link:

Sabato 2 Settembre https://www.youtube.com/watch?feature=share&v=UkUY1jwZWfY&app=desktop  

Domenica 3 Settembre https://www.youtube.com/watch?v=VViOFTNpnvg&feature=share 

Negli ultimi due anni, l'associazione culturale cagliaritana Honebu, di cui sei fondatore, ha ospitato e patrocinato una serie di pregevoli iniziative culturali sulla storia antica della Sardegna. Vorrei, con te, approfondire alcuni aspetti degli argomenti che più hanno suscitato interesse negli ultimi anni.

D: Nell'immaginario popolare si pensa che gli antichi sardi non navigassero invece, come hai ampiamente dimostrato, addirittura frequentavano con le loro imbarcazioni le acque del Mare Mediterraneo, già dal neolitico. Quali dati archeologici disponiamo a proposito?

“La ricerca archeologica, soprattutto negli ultimi anni, ha sviluppato una serie di strumenti con i quali si è riusciti ad analizzare l’ossidiana sarda e a ricostruire la via seguita per diffondere questo pregiato materiale. Gli studi su aree e tecniche di estrazione dell’ossidiana nel Neolitico, forniscono una quantità impressionante di informazioni: quali erano le rotte di spostamento delle popolazioni neolitiche, con che velocità si diffondevano tecniche e materiali, quali reti di scambio esistevano, quali professioni specializzate, ad esempio gli intagliatori, in che epoca si sono
costituiti solidi circuiti commerciali, da quando possiamo parlare di consapevoli scambi culturali... insomma, si apre un mondo.
Nell’immediato dopoguerra, Buchner e Radmilli, analizzarono le possibilità di lavorazione offerte dalle varie ossidiane del Mediterraneo occidentale e arrivarono all’esatta definizione dei giacimenti: Pantelleria, Lipari, Palmarola e presso Monte Arci in Sardegna.
Qualche anno dopo, Puxeddu compì un’indagine dettagliata della zona del Monte Arci e identificò 4 giacimenti, 11 centri di raccolta, 74 officine e 157 stazioni preistoriche, stabilendo che il più importante centro irradiatore dell’ossidiana fu il Monte Arci.
Da qui, il prezioso vetro vulcanico si diffuse in tutta l’isola, varcò il mare e giunse nel continente italiano.
Lilliu, nel 1957, scoprì che l’isola di Santo Stefano nell’arcipelago della Maddalena, costituiva l’anello di congiunzione tra la Sardegna e la Corsica, infatti, nei pressi della Cala di Villamarina, in un riparo sotto roccia furono rinvenuti 200 oggetti litici, e quelli di ossidiana costituiscono il 71% del totale, mentre gli altri sono di quarzo, granito e porfido. Gli antichi frequentatori di Santo Stefano erano dunque i corrieri del prezioso minerale dalla Sardegna alla Corsica, attraverso le Bocche di Bonifacio, usando piroghe di legno identiche a quelle tuttora in uso presso le popolazioni indigene di Fajoute, nel Senegal, o imbarcazioni leggere di canne, simili ai fassoni con i quali i pescatori lavorano ancora oggi negli stagni di Cabras, lungo la costa occidentale sarda, a pochi chilometri in linea d’aria da Monte Arci.
Molta ossidiana sarda è stata trovata in Provenza, in Liguria, Toscana, qualche traccia nella valle del Po, ma ciò che sorprende è la presenza del pregiato materiale sardo in Bosnia, Dalmazia centrale, Croazia, Trieste, Udine, Faenza, come se la distanza non costituisse un problema per chi la commerciava. Un fenomeno importante nella diffusione dell’ossidiana fu lo sviluppo della navigazione. Naturalmente dobbiamo tener conto del diverso livello medio degli oceani alla fine dell’ultima glaciazione, fino a 150 metri più basso del livello attuale. Ciò comportò l’emersione di terre adesso sommerse. Le distanze delle isole dalla terraferma erano brevi, pertanto abbiamo uno stretto legame con il primo popolamento delle isole mediterranee. E’ noto che l’acqua è sempre stata un asse di circolazione privilegiato. Il desiderio o la necessità di spostarsi sulla superficie dell’acqua devono essere sempre stati al centro dei pensieri degli uomini, se non altro per pescare o cacciare gli animali acquatici. Muoversi rapidamente e a lungo nell’acqua deve aver costituito uno stimolo irrefrenabile nel cercare mezzi alternativi al nuoto, molto più lento e faticoso.
Le prime imbarcazioni furono tronchi d’albero scavati, ceste realizzate con rami e pelli e dotate di otri gonfi d’aria, antenati dei nostri gommoni, ma tali mezzi erano lenti, poco governabili e poco stabili. Si passò quindi alla zattera di tronchi legati tra di loro, più stabile e adatta a trasportare dei navigatori. Il concatenamento di più elementi in legno per mezzo di corde e di incastri, e l’escavazione di un tronco con l’ascia sono le due tecniche più antiche nell’arte delle costruzioni navali. Le più antiche imbarcazioni conservate sono delle piroghe monossili scavate in tronchi d’albero. I primi battelli egizi, mesopotamici e africani furono realizzati con fasci di papiro. Recentemente nel villaggio neolitico della Marmotta, nel Lago di Bracciano, non lontano da Roma, è stata trovata una piroga in ottimo stato lunga oltre 10 m ricavata da un unico tronco di quercia-rovere del diametro di 1,30 m risalente a 8000 anni fa.
Certamente in quell’epoca le popolazioni rivierasche erano già in grado di organizzare esplorazioni marittime verso le isole visibili dalla terraferma utilizzando mezzi e tecniche affidabili, e sfruttando le correnti marine di superficie e forse anche con l’ausilio di vele e di remi. Poi fu l’epoca delle navi cucite: si realizzava il fasciame e poi si legavano le travi con fibre vegetali. Infine si giunse alla tecnica di tenoni e mortase, ossia inserendo dei giunti nello spessore delle travi cosi da realizzare degli incastri.

D: I sardi dell'età del bronzo navigavano solo a vista?

"Nel II Millennio a.C., la navigazione d’altura, non a vista di costa, era praticata su larga scala in tutto il bacino del Mediterraneo. Già i minoici di Creta, e poi i micenei, avevano sviluppato tecniche navali e di orientamento, diurno e notturno, con le quali riuscirono a soggiogare gli altri popoli costieri imponendo una talassocrazia, ossia la gestione dei traffici commerciali attraverso il potere marittimo esercitato con potenti flotte.
Si arricchirono e contribuirono a diffondere idee, tecnologie e merci, fino a quando i due grandi imperi del passato, egizi e ittiti, decisero di scendere in guerra per procurarsi con la forza ciò di cui avevano bisogno, soprattutto metalli. La navigazione sotto costa, pur se più comoda per la possibilità di approvvigionamento idrico, era praticata malvolentieri perché era soggetta a dazi doganali.
Ogni città costiera imponeva tasse a chi transitava a vista. Inoltre c’erano flotte di pirati che imperversavano nel Mediterraneo, e ciò costituiva un perenne pericolo per i naviganti. La Sardegna, con i suoi giacimenti di rame e argento, era una delle mete preferite dei commercianti e certamente, con i suoi 8000 nuraghi posti a controllo capillare del territorio, non poteva essere estranea ai traffici marittimi.
Circa 1000 nuraghi costieri costituivano un potente deterrente per eventuali nemici, pertanto è verosimile che nei villaggi costieri fosse sempre presente un approdo in grado di soddisfare la domanda dei naviganti, con conseguente acquisizione delle tecniche marinaresche. I sardi poterono sempre contare sul confronto con chi possedeva tecnologie all’avanguardia poiché i porti sono l’interfaccia privilegiata di popoli distanti che si incontrano."

D: Parlaci di queste fantomatiche “rotte dei tonni”.

"Le imbarcazioni non lasciano tracce sul mare, e per capire quali rotte praticavano i marinai preistorici ho studiato il percorso che i tonni, i pregiati pesci del Mediterraneo, seguono dallo Stretto di Gibilterra fino alle coste del Vicino Oriente e ritorno. E’ un ciclo antiorario che percorre le coste nord africane fino all’Egitto per poi risalire lungo i territori cananei, girare sopra Cipro, l’altra isola del rame oltre la Sardegna, e giungere nelle isole dell’Egeo. Da lì possono risalire verso il Mar Nero attraverso lo stretto dei Dardanelli, con correnti favorevoli solo per pochi giorni ogni mese, oppure procedere verso lo Stretto di Messina, famoso proprio per le sue tonnare.
A quel punto procedono verso nord, lungo le coste campane, laziali e toscane, per giungere in Liguria e poi nel Golfo del Leone. Due correnti favorevoli li portano giù in Sardegna e infine, se passano indenni le nostre tonnare, fuoriescono dal Mediterraneo procedendo lungo la costa andalusa."

D: Perchè un rapporto così stretto tra Nuragici e Micenei, solo perché erano genti dello stesso tempo?

"Erano due potenze straordinarie che non entrarono in conflitto. Le ricche miniere sarde, e la possibilità di ospitare amichevolmente i Re micenei e i loro inviati, favorirono pacifici rapporti con vantaggi reciproci, come è testimoniato, ad esempio, nel Nuraghe Arrubiu di Orroli, un edificio alto 27 metri, con tre torri sovrapposte, che mostra chiari segni di un rito di fondazione condiviso fra le due etnie."

D: Dei Micenei ad un certo punto si è persa traccia, è successo lo stesso con i Nuragici come sostengono alcuni?

“I micenei furono travolti dalle note vicende dei Popoli del Mare verso la fine del XIII a.C. con la distruzione delle città e il rovesciamento dell’organizzazione politica, militare, economica e sociale degli imperi allora più in vista, egizi compresi.
In Sardegna, invece, la civiltà nuragica continua senza apparenti cesure la sua vita quotidiana. Solo due secoli più tardi si notano alcune novità: cambia il rituale funerario e non si costruiscono più Tombe di Giganti, preferendo le tombe singole a pozzetto, come quelle di Monte Prama; non si costruiscono più nuraghi, inizia la fase della grande statuaria in pietra e delle piccole sculture in bronzo che mostrano uno spaccato realistico dell’organizzazione sarda, e avviene una modifica sostanziale nel piano urbanistico dei villaggi: si demoliscono una serie di capanne per far posto a una piazza pubblica nella quale svolgere il mercato.

I nuragici, dunque, mantengono saldo il controllo del territorio consentendo l’integrazione pacifica dei mercanti stranieri che, nel giro di qualche generazione, diventano sardi a tutti gli effetti.”

D: Una delle navi più antiche del Mar Mediterraneo, rinvenuta in ottimo stato di conservazione è una barca egizia. Nella tua conferenza hai sostenuto però che gli antichi egizi non navigavano per mare.

"In effetti la nave di Cheope, del 2550 a.C., pur essendo simbolica, ossia voluta dal faraone per il suo viaggio nell’aldilà, era a tutti gli effetti una imbarcazione con regolari requisiti di navigabilità lungo i fiumi. Presenta il fondo piatto e non ha le caratteristiche delle navi in grado di affrontare in dorso d’onda una navigazione d’altura.
Pur essendo lunga 40 metri si sarebbe frantumata alla prima mareggiata. Gli egizi avevano necessità di barche capienti, in grado di affrontare il Nilo per trasportare materiali, bestiame e uomini. Più tardi, realizzarono anche barche adatte alle traversate marittime, diverse da quella di Cheope, ad esempio quelle della flotta della Regina Hatshepsut che, intorno al 1500 a.C., giunse fino alle coste etiopi per acquistare avorio, animali esotici e incenso.

Gli egizi non navigavano nel Mediterraneo perché si accordarono con i minoici per ottenere, acquistandolo, tutto il necessario di cui avevano bisogno. Tuttavia, a partire proprio dal 1500 a.C., una serie di faraoni guerrieri decise di cambiare questo stato di cose armando pesantemente l’esercito e prendendo con la forza tutti i materiali occorrenti. Inoltre, imposero alti tributi alle città che volevano mantenere l’indipendenza."

D: Quali erano i rapporti tra gli Egiziani e i Nuragici nell'età del bronzo?

"Penso che i nuragici avessero al loro interno una serie di guerrieri che, in certe occasioni, furono chiamati a combattere come mercenari nel Vicino Oriente.
Se, come penso, gli Sherden sono questo braccio armato, devo dire che i rapporti furono di reciproco rispetto e di collaborazione. Vediamo gli Sherden combattere al fianco del faraone Ramesse II, in qualità di guardia personale e di fanteria pesante.
Inoltre, ciò sarebbe una conferma indiretta del motivo per il quale Ramesse III, un secolo più tardi, riuscì a fermare nel Delta del Nilo l’avanzata dei Popoli del Mare, con un’epica battaglia navale che con enfasi fece scolpire nei suoi templi.
Tuttavia, sappiamo bene come funzionavano i proclami propagandistici dei sovrani dell’epoca. In realtà fu una disfatta, ma Ramesse III, in virtù del rispetto e degli accordi fra gli Sherden ormai integrati da generazioni nelle fila egizie e gli Sherden combattenti dei Popoli del Mare, che nei bassorilievi e negli scritti mai compaiono nemici fra loro, riuscì a mantenere parte dei suoi possedimenti concedendo tutte le provincie settentrionali dell’ormai ex impero egizio."

D: Perchè le teorie del Prof. Ugas sugli Sherden, che lui identifica con il popolo nuragico, non riscuotono successo tra i maggiori accademici sardi?

"Non saprei, forse ha approfondito delle questioni che sfuggono ai ricercatori sardi. C’è da dire che è un profondo conoscitore della civiltà nuragica e ha avuto modo di effettuare degli scavi nel Vicino Oriente nei quali ha individuato ceramica nuragica. Inoltre, tracce evidenti delle capacità architettoniche dei nuragici sono presenti in Bulgaria, Turchia, Micene, Tirinto."

D: Che idea ti sei fatto circa le ultime polemiche scaturite dall'utilizzo di una ruspa per effettuare i nuovi scavi nel sito di Monte 'e Prama, a Cabras?

"E’ una brutta storia, e sono certo che lascerà strascichi in futuro perché si è perso il senso di ciò che viene insegnato all’Università: il metodo scientifico.

Che fretta c’era di tirar fuori i reperti? L’archeologia contemporanea offre tanti strumenti per lavorare bene in questo campo, e la ruspa non fa parte di questi. Le giustificazioni dei responsabili non sono convincenti, e stravolgono il concetto di tutela.
C’è, poi, una contraddizione evidente: se asportavano lo strato inerte lasciato a chiusura del vecchio scavo, come è possibile che ci fosse una testa? L’ha dimenticata lì il precedente direttore dello scavo?"

D: Tu sei un infaticabile esploratore della Sardegna. Che cosa nascondono ancora il sottosuolo e il territorio sardo che i profani non possono neppure immaginare?

"Ci sono tante emergenze archeologiche ancora inesplorate. Proprio in questo periodo, coadiuvato dagli amici del luogo, sto lavorando alla ricognizione di un sito in Ogliastra, Gairo Taquisara, a quasi 1000 metri d’altezza, nel quale è stata individuata una città nuragica fortificata dotata di fonte, nuraghe polilobato, decine di capanne abitative, un quartiere artigianale, una necropoli con tombe di giganti e altre strutture, e a qualche centinaio di metri, in vetta, ci sono tracce evidenti di un santuario dedicato alle divinità dei cieli, con ripostigli e presenza di ceramiche votive. Sarebbe meglio lasciarla così, misteriosa e affascinante, una Machu Pichu sarda di 3500 anni fa, ma la ricerca non può essere privata di questi materiali. Nei prossimi mesi sapremo qualcosa di più."

Nell'immagine: una capanna-ripostiglio in vetta, a Gairo Taquisara.



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