domenica 4 settembre 2016

Archeologia. La Dea Madre dopo il Neolitico: “Dalle raffigurazioni di Hator/Iside e Horus alle dee madri nella Sardegna della Civiltà Nuragica.”

Archeologia. La Dea Madre dopo il Neolitico: “Dalle raffigurazioni di Hator/Iside e Horus alle dee madri nella Sardegna della Civiltà Nuragica.”
di Pierluigi Montalbano

Esiste un filo conduttore che unisce i popoli neolitici che, con varie caratteristiche, è ancora fortemente presente nel sentimento religioso dell’uomo contemporaneo, ossia il culto della Dea Madre. La Sardegna, su questo tema, è perfettamente allineata con il resto del mondo. Le belle sculture Sarde trovano corrispondenze stilistiche e ideologiche nelle Cicladi, nella Sparta neolitica, nel nord Europa, a Malta, in Anatolia e nella penisola balcanica. Il culto della Grande Dea è legato all’opulenta cultura agricola del neolitico, quella considerata l’età dell’oro, come dimostrano le statuette grasse che rappresentano la divinità femminile nel suo ruolo di nutrice e portatrice di fertilità. La Dea è immaginata nella sua carnalità, come nella famosa Venere di Cuccuru s’Arriu, con attributi sessuali enfatizzati con la rappresentazione dei grossi seni e degli abbondanti glutei.
Dall’alba dei tempi, con lo spostamento dei popoli e le relazioni fra comunità, il simbolo della Dea Madre, ideale e artistico, si articolò in diverse divinità femminili. Personificava l'amore sensuale, la fertilità umana e dei campi, la caccia, e poiché il ciclo agricolo implica la morte del seme e il suo
risorgere nella nuova stagione, grazie al sole, alla terra e all’acqua, la grande dea era connessa anche a culti legati al ciclo morte-rinascita, alla Luna e alla preziosa acqua.

Un carattere che permette di riconoscere le tracce della Dea Madre nelle sue più tarde eredi, è la conservazione di specifici attributi e simboli che ne richiamano l'origine. Negli scavi, gli archeologi trovano vari elementi che richiamano il concetto di divinità femminile, costituiti principalmente da piccole statuette e numerosi vasi. Questi manufatti furono realizzati da genti arcaiche per esprimere la loro religiosità e il concetto del divino. In effetti, il vaso è ciò che meglio rappresenta la funzione del femminile, ossia quella di contenere e mantenere la vita (acqua), di proteggere e nutrire (cibo). Il vaso, inoltre, cela e racchiude al suo interno qualcosa d’invisibile e, quindi, misterioso, proprio come accade nella gravidanza. Fra le raffigurazioni di questa divinità, sono presenti alcuni manufatti che mostrano la Dea seduta in trono mentre regge un bambino fra le braccia. Già gli antichi egizi inserirono questa rappresentazione fra le loro icone con Iside, venerata come madre e moglie ideale, patrona della natura e della magia. 

E’ conosciuta anche come Hathor, la dea vacca, e il suo nome significa “Casa di Horus”. Quando questa divinità fu associata al regno del faraone, fu rappresentata con un trono in testa al posto delle corna. Era la protettrice degli schiavi, dei peccatori, degli artigiani e degli oppressi, ma ascoltava anche le preghiere dei ricchi, delle fanciulle, dei nobili e dei governanti. Descritta come la madre di Horus, il dio della guerra, Iside era anche protettrice dei morti e dei bambini. Intesa come personificazione del trono, raffigurava il potere del faraone, raffigurato fra le sue braccia. Iside era la prima figlia di Geb, dio della terra e Nut, dea del cielo. Il culto di Iside si diffuse poi nel mondo greco-romano. L'immagine di Iside che allatta il figlio Horus è sopravvissuta nel cristianesimo come l'immagine della Madonna che allatta suo figlio Gesù. Originariamente Iside veniva rappresentata come la moglie del faraone defunto, perciò acquisì connotazioni legate ai riti funebri, infatti, il suo nome appare 80 volte nei testi funerari dei faraoni. Inoltre, era rappresentata anche come la madre dei quattro figli di Horus. Interessante notare che le chiese cattoliche mostrano i simboli dei 4 evangelisti con il leone, l’aquila/falco, il bue/toro e l’uomo alato/angelo, esattamente la personificazione dei figli di Iside. Nell'epoca greco-romana, sacerdoti e sacerdotesse di Iside, avevano una reputazione di saggi e guaritori, e si diceva che avessero altri poteri tra i quali l'interpretazione dei sogni e la capacità di controllare il clima. La stella Sirio è associata a Iside e la comparsa della stella significava l'avvento di un nuovo anno, per questo Iside era venerata come la dea della rinascita e della reincarnazione, oltre che come protettrice dei morti. Nell'arte, Iside indossa una lunga tunica aderente e ha una corona con il simbolo del trono su essa, a volte raffigurata con il fiore di loto. Quando l'immagine e i poteri di Hathor furono trasferiti a Iside, il copricapo di Iside divenne quello della prima dea, con corna di mucca in testa e un disco solare tra di esse, spesso con il simbolo del trono sopra la corona. Un dipinto conservato al Vaticano, raffigura Pietro con le corna, infatti, le corna sono sempre state simbolo di potere e Iside ha continuato a possederle nell'immagine rimaneggiata della Madonna, dove al posto delle corna si è chiuso il cerchio delle ramificazioni ornandolo di stelle.

Passando alla Sardegna, dopo il periodo delle statuine neolitiche, di bellezza impareggiabile, trovate chiuse nella mano dei defunti adagiati nelle domus de janas e ricoperti di ocra rossa, si passa a raffigurazioni stilizzate, magre, eleganti, quelle della Cultura di Ozieri. Un esempio è la celebre Turriga, trovata nel territorio di Sanluri e oggi conservata al Museo di Cagliari. Dopo vari secoli si giunge alla Civiltà Nuragica, in piena età del bronzo, quando l’isola, pur essendo al centro della circolazione e degli scambi del rame e dell’argento nel Mediterraneo, sembra non mostrare particolare interesse nella rappresentazione di divinità sotto forma di icone. Le riflessioni sul tema bronzetti devono partire dal ritrovamento di lingotti in rame definiti ox-hide, ossia a pelle di bue, nel 1857 a Nuragus (Serra Ilixi) e poi in altri 40 siti vari distribuiti in tutta l’isola. Ricordiamo che i rilievi egizi sono ricchi di raffigurazioni di lingotti ox-hide portati sulle spalle da personaggi elegantemente vestiti o in bella mostra in testi e bassorilievi dei faraoni, oltre a quelli accatastati nei magazzini. Questi preziosi oggetti erano utilizzati come merce di scambio, interi o frammentati, e poi adoperati per la fabbricazione di utensili, armi e altro, con l’ausilio di matrici in pietra, soprattutto steatite, usando un coperchio piatto come chiusura o, nelle più complesse bivalve, ideali per manufatti a tutto tondo, preparando le forme con l’oggetto in negativo per poi riempirle col metallo fuso. La lavorazione più intrigante era quella a cera persa, quella utilizzata, ad esempio, per i celebri bronzetti, i personaggi e le barchette conservati nelle vetrine dei musei più importanti del mondo. In Sardegna conosciamo almeno due officine specializzate, a Sardara e a Bauladu, dove gli archeologi hanno portato alla luce residui di imbuti di colata e canali di getto ancora affogati nell’argilla della forma. Un’altra tecnica di lavorazione era di martellare un disco in metallo posto in un’apposita forma in legno. Al termine si fissavano, con dei piccoli rivetti, gli attacchi per le anse, realizzati a cera persa. Le categorie di bronzetti comprendono capitribù, guerrieri, eroi, lottatori, oranti, offerenti, pellegrini, musicisti, donne e tanti piccoli oggetti e animali. Molto interessanti le barchette, dove si notano elementi di carpenteria navale evoluta che suggeriscono rotte, commerci, organizzazione sociale ed economica. Le navicelle sono segni del potere e del prestigio dei nuragici, simboli del potere marittimo, e così possiamo spiegare la conservazione in luoghi lontani ed epoche anche remote rispetto a quelle di altri bronzetti. Ricordiamo che sono state trovate in tombe etrusche e in santuari lontani, ad esempio a Crotone nel tempio di Hera Lacinia. Nelle riproduzioni miniaturizzate non mancano i monumenti più significativi dei nuragici: nuraghi e templi, come quello di Ittireddu. 

Tutti i bronzetti sono stati ritrovati in aree e monumenti sacri, caratterizzati da tre elementi: architettura raffinata eseguita con pietre accuratamente levigate e squadrate, la presenza dell’acqua (pozzi e fonti sacre) e la particolarità dell’offerta perché si tratta sempre di bronzi figurati, armi e ornamenti, infatti, sono sempre assenti gli utensili.  Il rituale prevedeva l’infissione dell’offerta in tavole in pietra, affogando un’estremità nel piombo dopo aver realizzato dei piccoli fori sulla faccia in evidenza. La sacralità delle offerte è testimoniata dal fatto che rimanevano nel luogo sacro senza essere più recuperate per altri usi. D’accordo con la Lo Schiavo, riteniamo che si tratti di offerte comunitarie, ossia rese da un gruppo a sancire un accordo duraturo, inamovibile, fissato per sempre nella pietra. La perdurante sacralità ne impediva l’impossessamento al di là del tempo, dell’alternanza delle culture, delle religioni e dei secoli. Considerare i bronzetti come tributi e offerte spiega la raffinatezza di modellato e le dimensioni, più o meno grandi. Sempre la Lo Schiavo afferma che il tributo non era il pezzo in sé, ma ciò che simboleggiava, la disponibilità di ciò che era raffigurato. Capi, guerrieri, navi o arcieri rappresentavano l’accordo stesso, erano una garanzia di un futuro tributo materiale. Il gruppo che offriva il bronzetto si garantiva la benevolenza e la pace del ricevente, forse anche la libertà, quel senso di autonomia che spiega una distribuzione così omogenea e ampia di questi pregiati oggetti. Forse anche il libero transito di prodotti all’interno, come il piombo del Sulcis di cui si trovano tracce fino alla Gallura. Fra le donne, tutte con capelli ben pettinati, tunica e mantello, si distinguono le straordinarie dee madri con bambino in braccio, sedute su sgabelli circolari in legno. Sono state trovate, a oggi, 4 rappresentazioni di Dea Madre con il bimbo fra le braccia: il primo bronzetto proviene dalla grotta Sa Domu e s’Orcu di Urzulei, e mostra la divinità seduta su uno sgabello/trono con ancora i segni del suo inserimento nella massa di piombo che lo saldava alla base. Il sedile è rotondo, in legno, sorretto da 5 piedi rinforzati da traverse. Il pezzo è mancante dei piedi della donna e della sua mano destra che saluta, mentre con l’altra afferra e sostiene la spalla sinistra del figlio, seduto sulle gambe della donna, con le mani e i piedi abbandonati ma il collo ben fermo. Si nota la foggia del berretto, generalmente portato dai capitribù, e il pugnale a elsa gammata tenuto al petto da una bandoliera in cuoio. Lei ha una tunica liscia, con tre balze e porta una mantella che copre le spalle del bimbo. Colpiscono gli occhi di ambedue, scolpiti a rilievo, di forma rettangolare, con profonde incisioni che li isolano nel volto in cui spicca il rilievo a T delle sopracciglia e del naso. I capelli ben pettinati della madre e il corto ciuffetto del figlio testimoniano la perizia tecnica dell’artista che realizzò il bronzetto.
Nel Santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri, sotto una massa di ceneri e carboni della torre a feritoie, gli archeologi hanno trovato una statuina doppia che mostra la madre seduta su uno sgabello ligneo a 5 piedi, identico a quello della Dea Madre di Urzulei. La divinità mostra la mano destra alzata in segno di saluto e la sinistra con le dita ben in evidenza poggiate sulla coscia dopo aver avvolto il bambino sotto l’ascella. Il bimbo ha il capo dolcemente poggiato sul suo braccio e solleva la mano destra chiusa a pugno. Anche questa Dea Madre veste una lunga tunica liscia e una mantella. In rilievo la pettinatura della donna e gli occhi, globulari, che spiccano sul volto di ambedue. Lei è priva del piede destro, e lui ha la gamba sinistra spezzata sopra il ginocchio e il braccio sinistro nel gomito.
Dall’ingresso del pozzo di Santa Vittoria di Serri proviene un’altra statuina con la rappresentazione della Dea Madre con il bimbo in braccio. Questa volta lo sgabello ligneo ha sei piedi e il bronzetto è integro. La Dea saluta con la mano destra e cinge il corpo del bimbo con il braccio sinistro. Lui è completamente abbandonato. La tunica è uguale alle altre due viste prima ma il mantello questa volta è corto, giungendo fino ai gomiti, tenuto al collo con una elegante fettuccia. Ambedue mostrano occhi a globuletto e sopracciglia appena pronunciate.  La quarta statuetta è stata trovata a Sinnai,  nell’ambito di una campagna dei carabinieri atta a stroncare un traffico di droga.


Nessun commento:

Posta un commento