Archeologia. La Dea Madre dopo il
Neolitico: “Dalle raffigurazioni di Hator/Iside e Horus alle dee madri nella Sardegna della Civiltà Nuragica.”
di Pierluigi Montalbano
Esiste
un filo conduttore che unisce i popoli neolitici che, con varie
caratteristiche, è ancora fortemente presente nel sentimento religioso
dell’uomo contemporaneo, ossia il culto della Dea Madre. La Sardegna, su questo
tema, è perfettamente allineata con il resto del mondo. Le belle sculture Sarde
trovano corrispondenze stilistiche e ideologiche nelle Cicladi, nella Sparta
neolitica, nel nord Europa, a Malta, in Anatolia e nella penisola balcanica. Il
culto della Grande Dea è legato all’opulenta cultura agricola del neolitico,
quella considerata l’età dell’oro, come dimostrano le statuette grasse che
rappresentano la divinità femminile nel suo ruolo di nutrice e portatrice di
fertilità. La Dea è immaginata nella sua carnalità, come nella famosa
Venere di Cuccuru s’Arriu, con attributi sessuali enfatizzati con la
rappresentazione dei grossi seni e degli abbondanti glutei.
Dall’alba dei tempi, con lo spostamento dei popoli e le
relazioni fra comunità, il simbolo della Dea Madre, ideale e artistico, si
articolò in diverse divinità femminili. Personificava l'amore sensuale, la
fertilità umana e dei campi, la caccia, e poiché il ciclo agricolo implica la
morte del seme e il suo
risorgere nella nuova stagione, grazie al sole, alla terra
e all’acqua, la grande dea era connessa anche a culti legati al ciclo
morte-rinascita, alla Luna e alla preziosa acqua.
Un carattere che permette di
riconoscere le tracce della Dea Madre nelle sue più tarde eredi, è la conservazione
di specifici attributi e simboli che ne richiamano l'origine. Negli scavi, gli archeologi
trovano vari elementi che richiamano il concetto di divinità femminile, costituiti
principalmente da piccole statuette e numerosi vasi. Questi manufatti furono
realizzati da genti arcaiche per esprimere la loro religiosità e il concetto
del divino. In effetti, il vaso è ciò che meglio rappresenta la funzione del femminile,
ossia quella di contenere e mantenere la vita (acqua),
di proteggere e nutrire (cibo).
Il vaso, inoltre, cela e racchiude al suo interno qualcosa d’invisibile e,
quindi, misterioso, proprio come accade nella gravidanza. Fra le raffigurazioni
di questa divinità, sono presenti alcuni manufatti che mostrano la Dea seduta
in trono mentre regge un bambino fra le braccia. Già gli antichi egizi
inserirono questa rappresentazione fra le loro icone con Iside, venerata come madre e
moglie ideale, patrona della natura e della magia.
E’ conosciuta anche come
Hathor, la dea vacca, e il suo nome significa “Casa di Horus”. Quando questa
divinità fu associata al regno del faraone, fu rappresentata con un trono in
testa al posto delle corna. Era la protettrice degli schiavi, dei peccatori,
degli artigiani e degli oppressi, ma ascoltava anche le preghiere dei ricchi,
delle fanciulle, dei nobili e dei governanti. Descritta come la madre di Horus,
il dio della guerra, Iside era anche protettrice dei morti e dei bambini. Intesa
come personificazione del trono, raffigurava il potere del faraone, raffigurato
fra le sue braccia. Iside era la prima figlia di Geb, dio della terra e Nut,
dea del cielo. Il culto di Iside si diffuse poi nel mondo greco-romano.
L'immagine di Iside che allatta il figlio Horus è sopravvissuta nel
cristianesimo come l'immagine della Madonna che allatta suo figlio Gesù. Originariamente
Iside veniva rappresentata come la moglie del faraone defunto, perciò acquisì
connotazioni legate ai riti funebri, infatti, il suo nome appare 80 volte nei
testi funerari dei faraoni. Inoltre, era rappresentata anche come la madre dei
quattro figli di Horus. Interessante notare che le chiese cattoliche mostrano i
simboli dei 4 evangelisti con il leone, l’aquila/falco, il bue/toro e l’uomo
alato/angelo, esattamente la personificazione dei figli di Iside. Nell'epoca
greco-romana, sacerdoti e sacerdotesse di Iside, avevano una reputazione di
saggi e guaritori, e si diceva che avessero altri poteri tra i quali
l'interpretazione dei sogni e la capacità di controllare il clima. La stella
Sirio è associata a Iside e la comparsa della stella significava l'avvento di
un nuovo anno, per questo Iside era venerata come la dea della rinascita e
della reincarnazione, oltre che come protettrice dei morti. Nell'arte, Iside
indossa una lunga tunica aderente e ha una corona con il simbolo del trono su
essa, a volte raffigurata con il fiore di loto. Quando l'immagine e i poteri di
Hathor furono trasferiti a Iside, il copricapo di Iside divenne quello della
prima dea, con corna di mucca in testa e un disco solare tra di esse, spesso
con il simbolo del trono sopra la corona. Un dipinto conservato al Vaticano,
raffigura Pietro con le corna, infatti, le corna sono sempre state simbolo di
potere e Iside ha continuato a possederle nell'immagine rimaneggiata della
Madonna, dove al posto delle corna si è chiuso il cerchio delle ramificazioni
ornandolo di stelle.
Passando
alla Sardegna, dopo il periodo delle statuine neolitiche, di bellezza
impareggiabile, trovate chiuse nella mano dei defunti adagiati nelle domus de
janas e ricoperti di ocra rossa, si passa a raffigurazioni stilizzate, magre,
eleganti, quelle della Cultura di Ozieri. Un esempio è la celebre Turriga,
trovata nel territorio di Sanluri e oggi conservata al Museo di Cagliari. Dopo
vari secoli si giunge alla Civiltà Nuragica, in piena età del bronzo, quando l’isola,
pur essendo al centro della circolazione e degli scambi del rame e dell’argento
nel Mediterraneo, sembra non mostrare particolare interesse nella
rappresentazione di divinità sotto forma di icone. Le riflessioni sul tema bronzetti
devono partire dal ritrovamento di lingotti in rame definiti ox-hide, ossia a
pelle di bue, nel 1857 a Nuragus (Serra Ilixi) e poi in altri 40 siti vari
distribuiti in tutta l’isola. Ricordiamo che i rilievi egizi sono ricchi di
raffigurazioni di lingotti ox-hide portati sulle spalle da personaggi
elegantemente vestiti o in bella mostra in testi e bassorilievi dei faraoni,
oltre a quelli accatastati nei magazzini. Questi preziosi oggetti erano
utilizzati come merce di scambio, interi o frammentati, e poi adoperati per la
fabbricazione di utensili, armi e altro, con l’ausilio di matrici in pietra,
soprattutto steatite, usando un coperchio piatto come chiusura o, nelle più
complesse bivalve, ideali per manufatti a tutto tondo, preparando le forme con
l’oggetto in negativo per poi riempirle col metallo fuso. La lavorazione più
intrigante era quella a cera persa, quella utilizzata, ad esempio, per i
celebri bronzetti, i personaggi e le barchette conservati nelle vetrine dei
musei più importanti del mondo. In Sardegna conosciamo almeno due officine
specializzate, a Sardara e a Bauladu, dove gli archeologi hanno portato alla
luce residui di imbuti di colata e canali di getto ancora affogati nell’argilla
della forma. Un’altra tecnica di lavorazione era di martellare un disco in
metallo posto in un’apposita forma in legno. Al termine si fissavano, con dei
piccoli rivetti, gli attacchi per le anse, realizzati a cera persa. Le
categorie di bronzetti comprendono capitribù, guerrieri, eroi, lottatori,
oranti, offerenti, pellegrini, musicisti, donne e tanti piccoli oggetti e
animali. Molto interessanti le barchette, dove si notano elementi di
carpenteria navale evoluta che suggeriscono rotte, commerci, organizzazione
sociale ed economica. Le navicelle sono segni del potere e del prestigio dei
nuragici, simboli del potere marittimo, e così possiamo spiegare la
conservazione in luoghi lontani ed epoche anche remote rispetto a quelle di
altri bronzetti. Ricordiamo che sono state trovate in tombe etrusche e in
santuari lontani, ad esempio a Crotone nel tempio di Hera Lacinia. Nelle
riproduzioni miniaturizzate non mancano i monumenti più significativi dei
nuragici: nuraghi e templi, come quello di Ittireddu.
Tutti i bronzetti sono
stati ritrovati in aree e monumenti sacri, caratterizzati da tre elementi:
architettura raffinata eseguita con pietre accuratamente levigate e squadrate, la
presenza dell’acqua (pozzi e fonti sacre) e la particolarità dell’offerta
perché si tratta sempre di bronzi figurati, armi e ornamenti, infatti, sono
sempre assenti gli utensili. Il rituale
prevedeva l’infissione dell’offerta in tavole in pietra, affogando un’estremità
nel piombo dopo aver realizzato dei piccoli fori sulla faccia in evidenza. La
sacralità delle offerte è testimoniata dal fatto che rimanevano nel luogo sacro
senza essere più recuperate per altri usi. D’accordo con la Lo Schiavo, riteniamo
che si tratti di offerte comunitarie, ossia rese da un gruppo a sancire un
accordo duraturo, inamovibile, fissato per sempre nella pietra. La perdurante
sacralità ne impediva l’impossessamento al di là del tempo, dell’alternanza
delle culture, delle religioni e dei secoli. Considerare i bronzetti come
tributi e offerte spiega la raffinatezza di modellato e le dimensioni, più o
meno grandi. Sempre la Lo Schiavo afferma che il tributo non era il pezzo in
sé, ma ciò che simboleggiava, la disponibilità di ciò che era raffigurato.
Capi, guerrieri, navi o arcieri rappresentavano l’accordo stesso, erano una
garanzia di un futuro tributo materiale. Il gruppo che offriva il bronzetto si
garantiva la benevolenza e la pace del ricevente, forse anche la libertà, quel
senso di autonomia che spiega una distribuzione così omogenea e ampia di questi
pregiati oggetti. Forse anche il libero transito di prodotti all’interno, come
il piombo del Sulcis di cui si trovano tracce fino alla Gallura. Fra le donne,
tutte con capelli ben pettinati, tunica e mantello, si distinguono le
straordinarie dee madri con bambino in braccio, sedute su sgabelli circolari in
legno. Sono state trovate, a oggi, 4 rappresentazioni di Dea Madre con il bimbo
fra le braccia: il primo bronzetto proviene dalla grotta Sa Domu e s’Orcu di
Urzulei, e mostra la divinità seduta su uno sgabello/trono con ancora i segni
del suo inserimento nella massa di piombo che lo saldava alla base. Il sedile è
rotondo, in legno, sorretto da 5 piedi rinforzati da traverse. Il pezzo è
mancante dei piedi della donna e della sua mano destra che saluta, mentre con
l’altra afferra e sostiene la spalla sinistra del figlio, seduto sulle gambe
della donna, con le mani e i piedi abbandonati ma il collo ben fermo. Si nota
la foggia del berretto, generalmente portato dai capitribù, e il pugnale a elsa
gammata tenuto al petto da una bandoliera in cuoio. Lei ha una tunica liscia,
con tre balze e porta una mantella che copre le spalle del bimbo. Colpiscono
gli occhi di ambedue, scolpiti a rilievo, di forma rettangolare, con profonde
incisioni che li isolano nel volto in cui spicca il rilievo a T delle
sopracciglia e del naso. I capelli ben pettinati della madre e il corto
ciuffetto del figlio testimoniano la perizia tecnica dell’artista che realizzò
il bronzetto.
Nel
Santuario nuragico di Santa Vittoria di Serri, sotto una massa di ceneri e
carboni della torre a feritoie, gli archeologi hanno trovato una statuina
doppia che mostra la madre seduta su uno sgabello ligneo a 5 piedi, identico a
quello della Dea Madre di Urzulei. La divinità mostra la mano destra alzata in
segno di saluto e la sinistra con le dita ben in evidenza poggiate sulla coscia
dopo aver avvolto il bambino sotto l’ascella. Il bimbo ha il capo dolcemente
poggiato sul suo braccio e solleva la mano destra chiusa a pugno. Anche questa
Dea Madre veste una lunga tunica liscia e una mantella. In rilievo la
pettinatura della donna e gli occhi, globulari, che spiccano sul volto di
ambedue. Lei è priva del piede destro, e lui ha la gamba sinistra spezzata
sopra il ginocchio e il braccio sinistro nel gomito.
Dall’ingresso
del pozzo di Santa Vittoria di Serri proviene un’altra statuina con la
rappresentazione della Dea Madre con il bimbo in braccio. Questa volta lo
sgabello ligneo ha sei piedi e il bronzetto è integro. La Dea saluta con la
mano destra e cinge il corpo del bimbo con il braccio sinistro. Lui è
completamente abbandonato. La tunica è uguale alle altre due viste prima ma il
mantello questa volta è corto, giungendo fino ai gomiti, tenuto al collo con
una elegante fettuccia. Ambedue mostrano occhi a globuletto e sopracciglia
appena pronunciate. La quarta statuetta
è stata trovata a Sinnai, nell’ambito di
una campagna dei carabinieri atta a stroncare un traffico di droga.
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