Da Atlantide ai Giganti di Monte Prama: i nodi al pettine nella ricostruzione di un dibattito.
di Federico Francioni
«Per noi è secondario
affermare che la Sardegna sia l’isola sacra di Esiodo, la Tartesso della Bibbia
o l’Atlantide di Platone. Queste ipotesi sono secondarie rispetto alla
grandiosità del lascito che è davanti ai nostri occhi e in gran parte ancora
sotto terra o ricoperto dalla macchia mediterranea. L’eccezionalità
dell’evidenza non ha necessità di forzare alcun processo di mitopoiesi: le
diecimila torri sono comunque una realtà […]» (Anonimo, Un sogno
chiamato Nurnet, Condaghes, Cagliari, 2014, p. 10). Si può concordare con
queste affermazioni, ma occorre ricostruire alcuni passaggi di accese polemiche
che non riguardano solo il mondo degli archeologi. L’esposizione mediatica
della Sardegna – dalle polemiche sul bestseller di Sergio Frau sino alle recenti
notizie di cronaca sugli scavi archeologici nella penisola del Sinis e in
particolare a Monte Prama – mostrano che temi e problemi di carattere
storico-culturale ed archeologico vanno oltre l’area degli addetti ai lavori,
dotati di competenze scientifiche da cui, sia ben chiaro, non si può e non si
deve assolutamente prescindere. Infatti le scoperte illustrate fin dal 1977
nella monografia di Giovanni Lilliu, Dal betilo aniconico alla
statuaria nuragica possono costituire un banco di prova per le tesi di
Frau. Oggi si tende, mi pare, a trascurare quest’opera di Lilliu; per alcuni
versi abbiamo assistito a critiche aperte, da parte di
studiosi vecchi e
giovani: una delle più valide eccezioni è però costituita dalla cospicua
produzione scientifica di Raimondo Zucca, archeologo e docente nell’Università
di Sassari, che anche di recente ha riconosciuto la fondamentale rilevanza di
quel testo di Lilliu.
Il successo della principale
opera di Frau si può spiegare con l’aura di mistero che ha sempre circondato i
miti, compresi quelli inventati da un filosofo come Platone che, non
dimentichiamolo, era anche scrittore e narratore di eccezionali qualità. Inoltre
Frau, conoscitore dei mass-media e del mondo editoriale italiano, ha creato una
sua casa editrice, la Nur Neon per divulgare al meglio le sue proposte. Le
ricadute di ciò che va emergendo dalle ricerche in corso saranno di notevole
rilievo per storici, intellettuali, operatori culturali, per la società isolana
nel suo insieme. Da una rivisitazione del mito platonico di Atlantide può
scaturire non solo e non tanto una “verità storica” – espressione che si
dovrebbe risolutamente abbandonare – quanto elementi che potrebbero servire, in
primo luogo, alla ridefinizione del problema delle Colonne d’Ercole.
Tuttavia, come discende dalla
citazione iniziale di Un sogno chiamato Nurnet, i kolossoi
di Monte Prama si possono toccare materialmente, mentre l’identificazione
della Sardegna con Atlantide può diventare anche la base di un progetto di
ricerca, come quello delineato dal geologo Mario Tozzi, estimatore di Frau.
Proprio quest’ultimo sembra credere, più o meno consapevolmente, che la grande
statuaria nuragica possa privarlo dell’attenzione dei mass media – così
decisiva (e non solo per lui) – e sembra fare di tutto (ma posso
sbagliarmi) per non menzionare mai e poi mai nei suoi libri i kolossoi ed
il fondamentale contribuito di Lilliu del 1977. Si badi bene: in un contesto
nel quale, quando si parla di Giganti, il riferimento di chiunque è a Monte
Prama, Frau, riferendosi solo ed esclusivamente ai nuraghi come Giganti, gigantesche
torri di pietra, sembra voglia evitare con cura l’accostamento della
parola alle statue del Sinis.
Le posizioni di Frau sono
abbastanza note, ma è giusto esporle sinteticamente, con critiche e riserve che
occorre formulare pacatamente, evitando i toni esasperati, come quelli, per
esempio, che hanno contrapposto lo stesso autore all’antropologo e scrittore
Giulio Angioni, nonché all’archeologo Alfonso Stiglitz. Pare sinceramente
brutto rivolgersi con l’espressione “quel tizio” a colui contro il quale si può
sviluppare una polemica magari dura, che però deve mantenersi sul piano dei
contenuti, della battaglia ideale, della polemica teorico-scientifica, senza
mai scadere nella rissa personale. Com’è noto, secondo Frau le Colonne d’Ercole vanno collocate nel Canale
di Sicilia, non nello Stretto di Gibilterra. Andando, diciamo così, alla
preistoria del mito, la Sardegna, collocata oltre questo limite estremo, doveva
essere l’Atlantide del testo platonico. Al riguardo si può muovere una prima
obiezione a Frau. L’identificazione della nostra isola con l’ultimo lembo
emerso di un continente inghiottito dal mare si deve dapprima al sardista
Egidio Pilia che formulò questa tesi nel primo dopoguerra. Nel 1946 essa fu
ripresa e sviluppata in termini nuovi e diversi da Camillo Bellieni, autore di
articoli comparsi nel settimanale “Riscossa”, diretto da Francesco Spanu Satta.
Occorre ribadire che l’impatto
del mito di Atlantide si esercita anche attraverso i mezzi di comunicazione di
massa ormai da decenni, come dimostra la produzione al riguardo: in questo
ambito è indispensabile ricordare almeno 5 film, soprattutto quello di Georg
Wilhelm Pabst (del 1932), un classico nell’intera storia del cinema. Su
Atlantide si esercitò anche la genialità di un narratore come sir Arthur Conan
Doyle (sì, proprio lui, il creatore del personaggio di Sherlock Holmes), capace
di passare dalla metodologia investigativa di matrice positivista, tipica del
celebre amico di Watson, all’irrazionalismo più spinto: lo scrittore inglese,
che stupì al riguardo non poche persone, credeva fermamente nelle pratiche
spiritiche, cui partecipò tante volte, organizzando inoltre in proposito un
organismo internazionale; sulla ricerca del continente sommerso scrisseThe
Maracot Deep (1927-28). Si tenga presente che Bellieni – ideologo,
storico, organizzatore, fondatore e dirigente del Partito sardo d’azione – era
intellettuale colto, erudito e aggiornato (lo sapeva bene Piero Gobetti che fu
in corrispondenza con lui e che lo apprezzava), al corrente di produzioni
librarie e cinematografiche sul tema, che non a caso ha avuto un certo rilievo
nel mondo politico sardista: non sembra dunque corretto ignorare il precedente
costituito, nella ricerca su Atlantide, dagli scritti di Pilia e Bellieni; non
si trattava solo di aggiungere qualche titolo ad una sterminata e pressoché
indomabile bibliografia; più semplicemente, era giusto fare opera di
riconoscimento, attribuendo ad un autore quanto è riuscito effettivamente a
scrivere. Per non parlare di coloro che il polacco Jerzy Topolski, in un suo
libro sulla storiografia contemporanea, ha definito, con una punta di
sufficienza, “amatori” della ricerca: il riferimento può essere, in questo
caso, a Paolo Valente Poddighe (ringrazio Sergio Serratrice per avermelo
segnalato): anche questo autore, come Bellieni, ha scritto sul rapporto
Sardegna-Atlantide ben prima di Frau. Ciò non significa escludere che
quest’ultimo si sia mosso su un terreno, in qualche misura, nuovo e originale.
La civiltà nuragica, secondo
Frau, sarebbe stata in parte distrutta da una “onda pazza e assassina”, un
maremoto, uno tzunami che, per fare solo un esempio, avrebbe
seppellito sotto trenta metri di fango la reggia di Su Nuraxi, a
Barumini, scavata da Lilliu. Si sarebbero salvate invece le costruzioni
nuragiche poste su alture non raggiungibili dal tremendo “schiaffo di
Poseidone”.
Il disastro avrebbe dato luogo
ad un esodo forzato di schiere di nuragici verso l’attuale Toscana: ciò, con
buona approssimazione, avrebbe dato origine alla civiltà etrusca. Altra
obiezione, a questo punto, riguarda il silenzio di Frau verso il debito che
tutti gli studiosi, sardi e non, hanno contratto con Massimo Pittau. Le sue indagini
sono rimaste dapprima abbastanza isolate e prive di echi, ma hanno avuto in
seguito una certa ricezione. Un durissimo attacco contro Frau è stato messo a
punto in un documento (apparso sul sito dell’Istituto Italiano di Storia e
Protostoria) che ha raccolto le firme di circa 250 tra archeologi, geologi,
storici, filologi, glottologi, antropologi ed altri professionisti di varie
discipline, tutti vicini alle Soprintendenze archeologiche. Chi scrive non
appartiene al mondo dei paludati accademici, ma piuttosto ad un’intellettualità
“diffusa” e, diciamo così, “scalza”. L’atteggiamento più immediato sarebbe
quindi quello di una sana diffidenza verso “l’appello-pregone” (così lo ha
qualificato Frau) e di solidarietà con il giornalista de “La Repubblica”.
Tuttavia, leggendo i 21 punti in cui il documento è articolato – e le risposte
dello stesso Frau – è difficile sottrarsi all’impressione che egli non sempre
sia riuscito a replicare in modo soddisfacente; anzi, sembra proprio che
talvolta si sottragga all’inderogabile necessità di decostruire in modo
puntuale ed efficace le argomentazioni altrui. In ogni caso queste virulente
polemiche non devono impedire una discussione seria e aperta delle posizioni
avanzate da Frau, alla luce, ripeto, delle scoperte che da un trentennio a questa
parte stanno letteralmente sconvolgendo radicati convincimenti sulla Sardegna
non solo nuragica. In estrema sintesi: quanto sta emergendo dalle viscere del
Sinis suona conferma o smentita delle tesi di Frau? Alle Colonne
d’Ercole ha fatto seguito Atlantikà. Sardegna Isola Mito,
un testo articolato che ha reso conto,
fra l’altro, di un’importante esposizione a Parigi, voluta e patrocinata
dall’Unesco. La lettura di Colonne d’Ercole è resa difficile
da una struttura che il giornalista ha costruito con intenti prettamente
divulgativi e didascalici, ma che risulta infine abbastanza complicata; è un
po’ fastidioso, fra l’altro, il continuo ricorrere dell’autore ad un
intercalare come “mica”. Questo punto di vista, assolutamente personale, è però
smentito dal grande successo di vendite del libro. Anche in queste pagine, nel
ricco apparato iconografico e fotografico, fra i tantissimi riferimenti a
bronzetti, costumi sardi, dolci tipici, la Sartiglia e tante altre
manifestazioni isolane, spicca la sintomatica e sintomale assenza non solo di
un’immagine, ma del sia pur minimo accenno alla grande statuaria nuragica:
eppure essa segna una svolta, una rottura paradigmatica, che riguarda tutta la
preistoria e la storia fino ai nostri giorni.
La scienza – ce lo ha
insegnato Galileo Galilei col suo cambio di paradigma epistemologico – richiede
di partire dall’osservazione del fenomeno per elaborare ipotesi da sottoporre
quindi ad esperimento e a verifica: verificare nel senso di rendere, di fare
vero un qualcosa che può essere trasformato in tesi plausibile, pena
l’abbandono dell’ipotesi prima adottata per puntare decisamente su un’altra.
Insomma: a Monte Prama, nell’heroon-santuario è
possibile riscontrare qualche traccia di uno tsunami? Si tratta di
quella sorta di mostro marino che, intorno al 1100 a.C., sarebbe stato capace
di sollevare sulla nostra sventurata isola onde alte 500 metri, secondo una
delle tesi qualificanti di Frau. Evidentemente la risposta al quesito è legata
anche agli estremi cronologici entro i quali si può ragionevolmente pensare di
racchiudere tutta la straordinaria parabola dell’esperienza nuragica che ha
prodotto, fra l’altro, i Giganti del Sinis.
Occorre precisare, in ogni
caso, che le statue vennero fatte letteralmente in pezzi dalle schiere dei
vincitori, grazie anche al contributo più o meno determinante di sarditeracos.
Si può leggere in proposito quanto ha scritto il già citato Zucca il quale istituisce
una stretta correlazione fra la fine di Monte Prama e Tharros la quale fu
dapprima insediamento indigeno; in seguito “i gruppi gentilizi egemoni
paleosardi (con i loro clientes)” furono assorbiti in un nuovo
assetto urbano, riplasmato poi in forme monumentali secondo la
programmazione propria della civiltà cartaginese. Un «”popolo in armi” di
Tharros, composto da opliti con la spada e l’arco e da soldati con la lancia e
con i puntali da lancio, poté essere quello sardo-fenicio in conflitto con l’esercito
di quel principato sardo che aveva eretto, lungo l’unica via di collegamento
tra il porto e le fertili piane del Campidano settentrionale e le miniere del
Montiferru, i kolossoi di Monte Prama». Dunque Tharros si
sarebbe ribellata alle esose riscossioni imposte dai sardi nuragici sulle merci
che giungevano nel porto. Al riguardo – e ciò va sottolineato con forza – si è
aperto nel mondo accademico ed archeologico un conflitto, più o meno esplicitato
dai diretti interessati. Infatti nello stesso volume Alessandro Bedini e Carlo
Tronchetti hanno formulato tesi che negano non solo queste distruzioni, ma
anche l’esistenza di una civiltà nuragica originale, pienamente autonoma, da
loro considerata, invece, come una specie di vaso riempito dalle tecniche e
dalle culture esterne: provenienti, di volta in volta, dall’Etruria, da Cipro,
dall’Anatolia e dalla Mesopotamia. In ultima analisi il nodo più
controverso riguarda il ruolo svolto in Sardegna da quello che è stato chiamato
l’Orientalizzante. La sua influenza sul contesto sardo – cui Bedini e
Tronchetti attribuiscono solo una certa capacità di retroazione e di
rielaborazione – non viene tuttavia negata da Ugas e Zucca. In ogni caso
bisogna fare in modo che il conflitto su questo terreno della ricerca prenda
sempre più corpo. Nel mondo scientifico negare o minimizzare contraddizioni ed
antagonismi può impedire il dispiegarsi pieno di una nuova stagione di studi. Il
grande rilievo, che soprattutto i mass-media hanno assicurato
all’identificazione della Sardegna con il continente sommerso evocato da
Platone, sembrava spingere in secondo piano la grande statuaria nuragica,
qualcosa che si può comunque toccare con mano, oltre la diversità delle
interpretazioni. Ma le indagini condotte presso Cabras, dopo un parziale
oscuramento dovuto all’enfatizzazione mediatica dei testi di Frau, sono tornate
prepotentemente alla ribalta: il georadar utilizzato dal
professor Gaetano Ranieri e posseduto dall’Università di Cagliari, unico nel
mondo accademico-scientifico italiano, ha già condotto a scoperte decisive e
altre ne promette.
Di recente “La Nuova” ha dato
spazio alle indagini di Tozzi che sembrerebbero suonare come conferma dello
“schiaffo di Poseidone”, la marea di fango, insomma, lo tzunami che
avrebbe investito una gran parte del tessuto dei nuraghi. Sembrava che Frau ed
Atlantide potessero riconquistare la prima pagina dei quotidiani sardi, ma è
stato solo un momento. All’indomani, si può dire, i kolossoi hanno
invaso di nuovo, prepotentemente, la scena. Anche tale aspetto della dialettica
Atlantide-Monte Prama richiederebbe un adeguato approfondimento nella
dimensione della ricerca massmediologica.
Sul versante psicoanalitico e
dell’inconscio di massa sarebbe essenziale approfondire le cause ed i motivi
dello straordinario successo incontrato dalla riproposizione di Atlantide nel
suo legame con la Sardegna. Non basta ricordare l’aura di “mistero” del racconto
platonico, sempre così attrattiva, che conduce l’immaginario verso il sogno e
la speranza, o esaminare un’operazione che ancora una volta, per mezzo del
mito, vorrebbe restituire dignità ad una terra che si considera negletta o
espropriata di qualcosa. Ormai sappiamo bene che la società isolana, ben lungi
dal paludarsi con il mantello dell’orgoglio, risulta piuttosto afflitta da
complessi di inferiorità, da sensi di colpa e vergogna, da un problema di
autostima, soprattutto per le pesanti responsabilità di ceti dirigenti
subalterni, asserviti, corrotti mentalmente e culturalmente (quando non
lo sono sul piano economico-finanziario). Non parliamo poi del “tradimento dei
chierici”.
Di qui la necessità di fare
ricorso a quello che si può definire un “romanzo di sostituzione” per ovviare
al disagio, alle frustrazioni derivanti da una visione del passato, cui non si
riesce a dare il debito valore. La Carta de Logu di Eleonora è
un grande monumento storico-giuridico, ma la sottovalutazione del passato,
l’incapacità, la non volontà di riconoscere quanto questo popolo, anzi, questa
nazione ha effettivamente prodotto (non c’è assolutamente bisogno di ricorrere
al mito o alle mitizzazioni) condusse nell’Ottocento all’operazione dei falsari
che confezionarono le Carte, le pergamene ed i codici cartacei cosiddetti
d’Arborea. Meccanismi sedimentatisi nei secoli in cui la Sardegna è stata un
“laboratorio di storia coloniale” (la definizione è dello storico
franco-americano John Day), una dimensione postcoloniale in cui si avvertono le
conseguenze, le devastazioni ambientali, economiche e storico-culturali di
questo tipo di dipendenza: tutto ciò ha pesantemente condizionato la nostra
società, le ha impedito di pervenire ad un’adeguata auto-valorizzazione, di
cogliere e comprendere quanto è riuscita effettivamente a produrre, senza
bisogno di ricorrere al mito, di cui, è opportuno ripeterlo, non abbiamo alcun
bisogno; soprattutto se pensiamo ai chierici sempre pronti a lanciare l’accusa
di “mitizzare” contro una comunità che invece, in un passato anche prossimo,
tendeva quasi sempre all’autodenigrazione. In tale ambito sarebbe utile
approfondire i testi della psichiatria ad indirizzo fenomenologico, i
contributi della psichiatra Nereide Rudas sull’identità della Sardegna, nonché
i saggi etnoantropologici e filosofici di Bachisio Bandinu e del compianto
Placido Cherchi. Le torri di Atlantide. Identità e suggestioni storiche in
Sardegna (con prefazione di Marcello Madau), opera del giovane e
valente studioso Fabrizio Frongia, ha preso di mira le tesi di Frau; allo
stesso tempo, ha tributato un omaggio, prudente – assai prudente! – a Lilliu,
lodato come maestro, di cui però non viene mai ricordato l’impegno, sviluppatosi
dagli anni settanta, volto ad illustrare la statuaria nuragica (nel libro di
Frongia la classica opera Dal betilo aniconico non è mai
citata). Ancora una volta, non si tratta di citazioni erudite o di bibliografie
più o meno lunghe: Frongia è attrezzato e dimostra di padroneggiare la materia.
Ma dalle sue pagine, come da quelle di altri giovani studiosi, emerge
infine una presa di distanza da Lilliu, più o meno velatamente accusato di
“mitizzare” il passato: rilievo formulato anche da diversi intellettuali
isolani, sempre impegnati a minimizzare, se non a cuare, a
nascondere quanto la civiltà della Sardegna è riuscita effettivamente a
produrre. Al libro di Frongia infine si può contrapporre quanto ha scritto
Alberto Contu, curatore attento e critico di pagine in cui peraltro viene
riconosciuta la grandezza dell’accademico dei Lincei, la forza di un lascito
sempre valido ed attuale. Certo, neanche la più fervida immaginazione
dell’accademico dei Lincei avrebbe potuto ipotizzare l’esistenza di un giacimento
di tale portata nella penisola del Sinis. Diventa allora decisivo un serrato
confronto che riguarda archeologi, storici, scienziati, intellettuali ed ognuno
di noi, come cittadini dotati di una coscienza civile, se non nazionale, in
su sentidu sardu de sa paràula. Occorre andare oltre il secolare spirito di
terachia e la tendenza a cuare, a nascondere certe
scoperte per approdare alla disamina non reticente di una società, quella
nuragica, complessa, dove vigeva una determinata divisione del lavoro, che ha
consentito la realizzazione del grandioso progetto di Monti Prama: sì, perché
si deve parlare – in sintonia, del resto, con quanto aveva scritto Lilliu –
anche e soprattutto di progettualità, non solo di “costante resistenziale”.
Se si legge attentamente e con
spirito filologico il decisivo saggio di Lilliu che reca questo titolo, si
evince che la “resistenzialità” comincia a palesarsi non, si badi bene, durante ma dopo la
fine della stessa civiltà nuragica. Essa dunque non si limitava a “resistere”,
ma era invece in grado di pensarsi, di costruirsi, di progettarsi, addirittura
di proiettarsi nel mondo mediterraneo; aveva stabilito un certo tipo di
interscambio con la natura; ad una base, ad una determinata struttura
socioeconomica si abbinavano fattori sovrastrutturali di tipo
politico-culturale (aristocratico), militare e religioso. Nessuna popolazione
infatti può vivere di sola religione, come vogliono farci credere coloro che
rimproverano a Lilliu un’indebita enfatizzazione – in chiave “militarista” –
dei nuragici, con abbinata trascuratezza della dimensione religiosa. Lilliu era
“militarista” a tal punto che senza il suo fondamentale apporto non si potrebbe
ricostruire il ruolo – tutt’altro che secondario, si badi bene! – della donna
nuragica: lo hanno dimostrato gli studi di Elisabetta Alba, segnalati, fra
l’altro, da Tronchetti. Si deve sempre a Lilliu la posizione, da lui
esplicitata già nell’immediato secondo dopoguerra, di una civiltà giunta alle
soglie all’urbanesimo: ciò è stato di recente confermato dallo stesso Zucca e
dal già ricordato Ugas, dell’Università di Cagliari. Tutto questo potrebbe
ricevere una significativa conferma dagli scavi in corso. Ribadiamo: accusato
di “mitizzare” anche da coloro che, più o meno formalmente, gli rendono infine
omaggio, Lilliu potrebbe risultare profeta – almeno in parte smentito! – se si
dimostrerà, ancor più marcatamente, che sotto terra, nel Sinis, si trova un
giacimento dalle dimensioni fino a pochi anni fa, per tutti noi, impensabili,
il quale, in parte, attende di tornare alla luce.
Insomma occorre “tornare” a
Lilliu, ripartire dalla sua opera per andare avanti, per proiettarsi verso il
futuro, per condurre a compimento una vera e propria rivoluzione storiografica
col fine di cambiare l’immagine, la percezione e la coscienza della Sardegna.
Le scoperte di Monte Prama, infatti, non riguardano solo gli archeologi, ma
tutti gli storici, gli studiosi e, infine, ognuno di noi.
Fonte: http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?p=11022
I love Lilliu.
RispondiEliminaIo ringrazio Frau per aver scritto quel libro "Le colonne d'Ercole" che ha portato tanti sardi (e non solo) come il sottoscritto ad appassionarsi all'archeologia locale ed a conoscere ed approfondire le tesi ufficiali e quelle non ufficiali. Sembra quasi un sacrilegio che queste esistano, ma ciò succede esattamente riguardo l'Egitto, i Maya, i Sumeri etc.. (senza scomodare liste di proscrizione-pregoni da nessuna parte). Anzi, ovunque queste cose hanno portato turismo, ricchezza ed, in Sardegna, fatto conoscere la civiltà nuragica nel "continente" portando più attenzione ai nostri siti archeologici (vera o non vera la teoria Sardegna-Atlantide).
RispondiEliminaIl fatto che "i saggi" scrivano ancora articoli dopo ben 16 anni su Frau, per me significa che ha colpito nel segno, al di la di appigli per screditare le sue tesi che spesso hanno la stessa validità scientifica delle stesse supposizioni di Frau. E sia chiaro che io non credo alla tesi dello Tsunami, ma ritengo invece sensata la tesi delle colonne d'Ercole in Sicilia.
Non ti conosco, ma se stai leggendo, grazie Sergio Frau!
(dovrebbero dirtelo anche "i saggi" ufficiali spesso divenuti popolari ed autori di libri, proprio grazie a te!)