Sardegna archeologica. Aspetti della religiosità
nuragica tra archeologia, letteratura ed etnografia
di Francesca Cadeddu
La religione, intesa come
manifestazione sociale, cultuale e culturale del rapporto con il sacro, nasce
con l’uomo e permea tutta la sua vita ed in tal senso è momento fondamentale
per la comprensione della storia umana. Si può conoscere un popolo attraverso i
suoi miti e le sue divinità, nei suoi bisogni, nella vita quotidiana, nei
moventi che spingono ad agire. Permette perciò di avere una visione più completa
della civiltà in cui viene creata, dall’organizzazione politica a quella
sociale ed economica: d’altronde in ogni tempo e in ogni luogo società e
religione sono strettamente legati, si condizionano a vicenda e interagiscono
fra loro. La religione è, però, un tema “sensibile”, soprattutto in contesti
protostorici privi di documentazione scritta: i soli dati archeologici, spesso
frammentari, a volte non sono sufficienti a ricostruire realtà estremamente
articolate e complesse, quali quelle relative alla sfera del sacro e al mondo
spirituale e religioso. Risulta quindi di grande efficacia inquadrare
l’argomento in una visione di più ampio respiro e integrare il dato materiale
con la documentazione ricavata da altri ambiti di ricerca, quali lo studio
delle fonti storiche e delle tradizioni popolari: le prime tramandano ciò che è
rimasto impresso nelle menti di chi, dall’esterno, è entrato in contatto con
una determinata realtà; le seconde conservano ciò che
rimane radicato
all’interno, nelle culture locali successive. Entrambe non solo forniscono
notizie aggiuntive, ma danno spesso la misura della portata di determinati
fenomeni che sono rimasti nell’immaginario comune, contemporaneo e successivo.
Il presente contributo nasce da queste considerazioni, allo scopo di fornire
un’ipotesi di ricostruzione per una diversa e, per certi versi, più articolata
interpretazione della documentazione disponibile sulla religiosità durante
l’età del Bronzo in Sardegna, argomento per certi versi trascurato. Ma voglio qui
presentare anche una proposta metodologica che evidenzi l’importanza di una
ricerca multidisciplinare e integrata attraverso l’analisi di alcuni aspetti
della religione nuragica, a partire dalla testimonianza archeologica che, nella
sua evidenza e materialità, è l’unico dato certo disponibile. Si tratta
evidentemente di un argomento vastissimo e di ampia portata, considerando le
cospicue manifestazioni architettoniche e artistiche appartenenti alla sfera
del sacro, i diversi tipi di culto comunemente riconosciuti all’interno della
religione protosarda e i numerosi problemi che l’analisi di questi aspetti ha
fatto e fa nascere all’interno del dibattito accademico e della ricerca.
Risulta quindi necessario in questo contesto focalizzare l’attenzione su alcuni
aspetti, che evidenzino bene non solo il carattere della religiosità nuragica,
ma anche lo stretto legame fra i suoi diversi aspetti e la necessità, quindi,
del metodo multidisciplinare per esaminarli e interpretarli al meglio. A questo
scopo è di grande interesse l’analisi delle tipologie funerarie e del culto dei
morti, unitamente al loro percorso evolutivo, come si manifesta quindi non solo
nella civiltà nuragica ma anche nelle epoche precedenti. Nel Neolitico Medio la
cultura di Bonu Ighinu mostra una spiccata preferenza per la sepoltura
ipogeica, in consonanza con quanto accade nel resto del Mediterraneo.
Successivamente in ambito Ozieri, la tomba ipogeica (Tanda, 2000), chiamata nel
linguaggio locale domus de janas, si diversifica dal periodo precedente negli
accessi e nella scelta ubicativa, oltre ad assumere forme e planimetrie sempre
più complesse e articolate, confrontabili con le planimetria di alcune
abitazioni contemporanee. Le tombe sono ora corredate da un ricco patrimonio di
sintassi decorative, altamente simboliche, come si vede nella tomba grande
della necropoli di S’Adde ‘e Asile (Ossi - SS), nella Tomba del Capo nella
necropoli di Sant’Andrea Priu (Bonorva - SS) o nella tomba di Mandra Antine
(Thiesi-SS). Nel primo Eneolitico, all’interno dell’orizzonte culturale
Filigosa - Abealzu, oltre al riutilizzo degli ipogei di cultura Ozieri
testimoniato dal ritrovamento di materiali appartenenti ad entrambi gli
orizzonti culturali, si diffondono gli ipogei a dromos: si tratta di tombe ancora
una volta scavate nella roccia ma a sviluppo longitudinale, con varie
planimetrie come le domus ma tutti dotati di un lungo corridoio d’accesso a
cielo aperto, ben visibile nella tomba 1 della necropoli eponima di Filigosa
(Macomer-OR). Nel corso dell’Eneolitico si ha nell’isola il pieno sviluppo del
megalitismo, riscontrabile in ambito funerario nei dolmen e nelle allées
couvertes che saranno utilizzate, in concomitanza con altre tipologie
sepolcrali, fino a tutto il Bronzo Antico e che rappresentano il punto di
partenza per il passaggio successivo. Questo percorso, infatti, si conclude nel
Bronzo medio all’interno della cultura di Sa Turricula, con la comparsa delle
tombe di giganti, tipologia funeraria dal nome fortemente evocativo e che
caratterizza profondamente la civiltà nuragica. Si tratta di sepolture plurime
che mostrano un’evoluzione nel corso del tempo, oltre ad una varietà di forme
architettoniche, che in questa sede non è il caso di esaminare. Ciò che qui
preme sottolineare è che la planimetria di base rimane sostanzialmente la
stessa, come si evince da tombe quali Thomes (Dorgali - NU), Oridda (Sennori -
SS) o Domu ‘e s’Orcu (Siddi-MC): si tratta di edifici megalitici aerei composti
da un vano funerario racchiuso in un corridoio rettangolare absidato, di forma
allungata, e da una parte frontale, formata da un prospetto monumentale che si
allarga il più delle volte in due ali laterali, racchiudenti uno spazio
chiamato esedra; l’ingresso è costituito da un piccolo portello
“miniaturistico” che si apre nel centro esatto della struttura. A questa
tipologia si affiancano coerentemente le cosiddette domus a prospetto
(Castaldi, 1975b), spesso una riutilizzazione delle domus neolitiche che
vengono rimodernate, se così si può dire, in consonanza con il gusto e
soprattutto le esigenze rituali dell’epoca: alle camere ipogeiche infatti viene
aggiunto un prospetto architettonico che richiama la facciata delle tombe di
giganti. Questa tipologia si trova diffusa quasi esclusivamente nella Sardegna
nord-occidentale, come negli esempi della necropoli di Ittiari (Osilo – SS) e
dell’ipogeo di Mesu ‘e Montes (Ossi- SS). L’analisi delle diverse tipologie
tombali permette una prima importante considerazione di tipo diacronico: è
infatti evidente, nel corso del tempo, un aumento dello spazio cerimoniale
nelle strutture funerarie e il suo passaggio dall’interno all’esterno della
tomba. Nel Neolitico il culto ed i riti in onore dei defunti vengono praticati
all’interno delle sepolture, come si ricava dal dato archeologico: la presenza
di numerose decorazioni simboliche, probabilmente espressione della o delle
divinità poste a protezione dei morti; il ritrovamento all’interno degli ipogei
delle offerte ai defunti, fra le quali spiccano le statuine di Dea Madre che
spesso accompagnano gli inumati; infine particolari funzionali alla ritualità
come le coppelle, profondamente incise e i focolari risparmiati nei pavimenti
delle anticelle o delle camere funerarie. È quindi un culto che ha nei defunti
il suo centro e si definisce come culto dei morti, con una dimensione
essenzialmente privata in cui le tombe sono prima di tutto tombe di famiglia.
Questo in consonanza con la struttura sociale che vede nel nucleo familiare la
sua cellula primaria di riferimento, pur nel quadro complessivo di un’economia
(e quindi di una società) ben articolata, in cui non solo trovavano posto le
attività produttive primarie (agricoltura e pastorizia) e le attività
sussidiarie (caccia, pesca), ma anche attività artigianali specializzate, quali
la tessitura, l’attività mineraria e la stessa costruzione degli ipogei (Tanda,
2009 p. 70). Tale aspetto sembra anche confermato dal numero di inumati
presenti nelle sepolture che, quando si tratta di sepolture collettive, arriva
fino ad un massimo di trenta individui, connotandosi quindi come il sepolcro di
un gruppo familiare, seppur allargato. Alla fine del Neolitico e con l’inizio
dell’Eneolitico lo spazio rituale, sebbene ancora connesso con il sepolcro,
viene portato verso l’esterno e ampliato, per essere fruibile da un maggior
numero di persone. Questo fatto si collega ad una progressiva complessità
dell’organizzazione economica, politica e sociale, dovuta alla definitiva
acquisizione della tecnologia metallurgica, le cui prime sperimentazioni risalgono
alla fine del periodo precedente (Melis, 2009 p. 85). L’accresciuta importanza
dei manufatti in metallo nelle sepolture, in consonanza con quanto testimoniato
in altri contesti funerari coevi fuori dall’isola, sembra testimoniare la
nascita di una classe differenziata, con una posizione di prestigio all’interno
delle comunità. Mi sembra lecito supporre che tale spostamento indichi anche un
cambiamento nella ritualità e nel culto stesso: il luogo dedicato alla
sepoltura è come uno spazio altro, appannaggio degli spiriti dei defunti e
separato dalla realtà. È portando lo spazio cerimoniale all’esterno che i vivi
trovano una zona addetta alla celebrazione dei riti, connessi ora con un culto
degli antenati: i morti sono diventati patrimonio della comunità, non più solo
defunti ma anche antenati e capostipiti. Il culto dei morti diventa un momento
di coesione sociale e di definizione di un’identità in rapporto alle proprie
origini e al territorio, in un momento in cui non solo aumentano le istanze
difensive ma il controllo delle aree di produzione assume un significato
diverso, se messo in relazione con l’attività metallurgica e con la progressiva
diminuzione della distanza degli insediamenti dalle zone minerarie (Melis,
2000). L’elemento principale della società ora è il clan, inteso e definito
come un gruppo di persone che trova nella affermazione delle origini da un
antenato comune la propria identità : “la camera trasforma la tomba nella
casa-tempio dell’antenato di uno specifico ceppo familiare e, più tardi, di
un’intera comunità, assegnandole un valore semantico-territoriale duraturo”
(Ugas, 2000 p. 890). Durante l’età del Bronzo questo processo assume forme
sempre più evidenti e monumentali: nelle tombe di giganti e negli ipogei a
prospetto l’esedra è un luogo allo stesso tempo reale e simbolico, posto
all’esterno del sepolcro, quasi uno spazio teatrale a sé stante destinato allo
svolgimento dei rituali, caratterizzato da grandi dimensioni, atte ad ospitare
ora l’intera collettività. Anche in questo caso il rituale funerario si fa
specchio del cambiamento nella struttura politica e sociale: pur esistendo
ancora il nucleo familiare come cellula produttiva primaria, si assiste alla
comparsa di un’organizzazione a livello più alto con sistemi produttivi
comunitari, se non gerarchizzati e controllati. L’assetto organizzativo del
territorio, ormai pienamente definito nel procedere dell’età enea, mostra una
società ormai pienamente strutturata e una divisione gerarchizzata fra le
comunità e all’interno di esse, per il quale è stata formulata l’ipotesi di una
struttura cosiddetta “cantonale” (Ugas, 1992a e 1992b; Ugas, 1998; Ugas, 2005),
di tipo tribale. Il carattere collettivo dei rituali è inoltre presente in
altri aspetti formali della religione, come sembrano testimoniare strutture
comunitarie funzionali al culto all’interno dei contesti insediativi, che
preludono a forme che si svilupperanno meglio nella fase successiva, come la
presenza di sedili perimetrali e di focolari centrali (Depalmas, 2009 p. 139).
Nell’età del Ferro questo processo ha il suo punto di arrivo nella creazione di
veri e propri santuari funerari, come quello di Monti Prama (Cabras – OR) dove
circa trenta tombe di alto rango ad inumazione singola, sono incluse in
completate da un enorme spazio che, racchiuso da un temenos, si identifica tout
court con un tempio: uno spazio sacro un edificio che ospita i simulacri degli
antenati, diventati eroi divinizzati, e diventa luogo di incontro per l’intera
comunità che in esso li venera e compie riti in loro onore. La monumentalità
del sito è chiaramente testimoniata, oltre che dalle note statue di guerrieri,
dai seppur frammentari ritrovamenti di numerosi elementi architettonici, sia
portanti sia decorativi, quali rottami di colonne, numerosi capitelli a tamburo
cilindro-conico decorati con fasce a zig-zag e con un spartito decorativo a
“penne” trapezoidali e infine numerose lastre e lastroni, di diversa misura e
forma, finemente lavorati (Lilliu, 1978 p. 49). Tale percorso cammina in
parallelo con l’evoluzione della società: durante la fine dell’età del Bronzo i
caratteri delle strutture politiche, sociali e territoriali subiscono un
evidente mutamento che trova la sua testimonianza più concreta nella
progressiva perdita della funzione civile del nuraghe e nell’affermarsi di
forme sempre più articolate nel sistema insediativo dei villaggi che ora si
sviluppano non più soltanto attorno alla fortezza ma anche sovrapponendosi alle
sue stesse strutture murarie. È in questo periodo che nasce la maggior parte
dei luoghi di culto comunitari, fra i quali spiccano i cosiddetti santuari
federali che, mutatis mutandis, offrono un quadro coerente della nuova
ritualità che coinvolge territori e gruppi umani sempre più ampi. Questo lungo
processo si conclude nell’età del Ferro con la cosiddetta stagione delle
aristocrazie (Lilliu, 1988), in cui la società appare controllata da gruppi
elitari che detengono il potere, gli aristoi, che trovano nella mitizzazione
del passato la giustificazione alla loro autorità: il nuraghe diventa ora un
luogo di culto. Tale trasformazione è documentata sia dai ritrovamenti nelle
tholoi, non più legati alla vita quotidiana ma alla sfera del culto, sia dalla
comparsa di numerosi simulacri a forma di torre, a testimoniare la progressiva divinizzazione
di una mitica “età dell’oro” e di un edificio che, persa la sua funzione
originaria, ne acquista una sacrale. In concomitanza di ciò la nuova classe
dirigente costruisce per sé stessa veri e propri santuari funerari, nei quali
seppellire le proprie spoglie accompagnate da corredi sempre più prestigiosi,
che ne denotano il carattere elitario. Esempi di questa ritualità sono, allo
stato attuale delle ricerche, ancora poco numerosi ma sufficientemente
significativi da costituire un valido supporto: oltre al già citato santuario
di Monti Prama, si ricordano le tombe a pozzetto del tempio di Antas
(Fluminimaggiore) (Ugas & Lucia, 1987) e il sepolcreto di Is Aruttas
(Cabras - OR) (Santoni, 1977). È evidente come il progressivo ampliamento dello
spazio cerimoniale sia strettamente legato alla struttura sociale, politica ed
economica. In tal senso sarebbe di grande rilevanza effettuare analisi più
approfondite e studi territoriali relativi al rapporto spaziale fra sepolture e
insediamenti, soprattutto per quanto riguarda la civiltà nuragica, nel corso
della quale è evidente un profondo mutamento non solo a livello politico ma
anche nell’organizzazione territoriale. Una maggiore comprensione di questi
aspetti permetterebbe una ricostruzione più accurata della società nuragica e,
di conseguenza, anche degli aspetti funerari e religiosi6 . Pertanto ad un
evidente processo di trasformazione nell’architettura funeraria corrisponde un
cambiamento nelle forme di organizzazione politica e sociale. È possibile che
in concomitanza di ciò cambi anche, in età nuragica, il carattere stesso del
culto? Aristotele, nella Fisica, ricorda che presso i Sardi vigeva il costume
di dormire presso le tombe degli eroi per guarire da incubi e visioni che
potessero disturbare i loro sonni. Sin dall’antichità questi eroi furono
identificati con i Tespiadi, giunti in Sardegna insieme all’eroe greco Iolao:
rimasti nell’isola sarebbero caduti addormentati in un sonno secolare. Così
Simplicio, commentatore di Aristotele, sulle orme di Alessandro di Afrodisia:
«ἐννέα γὰρ τῷ Ἡρακλεῖ γεγονότων παίδων ἐκ τῶν Θεσπίου τοῦ Θεσπιέως θυγατέρων ἐν
Σαρδοῖ τελευτησάντων ἒλεγον ἕως Ἀριστοτέλους, τάχα δὲ καὶ Ἀλεξάνδρου τοῦ
ἐξηγητοῦ τῶν Ἀριστοτέλους, ἄ σηπτά τε καὶ ὁλόκληρα διαμένειν τὰ σώματα καὶ
φαντασίαν καθευδόντων παρεχόμενα· καὶ οἱ μὲν ἐν Σαρδοῖ ἥρωες οὗτοι» (Simplicius
in Aristotele, Phisic., IV, 11). Philoponus specifica che i Sardi convenivano
presso queste tombe per giacervi addormentati fino a cinque giorni, immersi in
un sonno senza tempo e privi di conoscenza. Tertulliano, infine, nel De Anima,
afferma che “Aristoteles heroem quondam Sardiniae notat, incubatores fani sui
visionibus privantem” (Tertulliano, De Anima, 49). In Tertulliano compare per
la prima volta il termine che sarà poi usato per identificare questo rituale,
testimoniato al momento solo dalle fonti classiche. Si tratta di quello che
oggi viene definito rito dell’incubazione che, stando alla documentazione
presentata, doveva essere praticato presso le tombe, ossia fuori da esse, e
queste tombe erano sepolture di eroi o di un eroe, qualificato da Tertulliano
come sardo. Il passo successivo è cercare nei documenti archeologici una
testimonianza di questo rito o, quantomeno, dell’esistenza di luoghi adatti al
suo svolgimento. 6 In seguito all’analisi effettuata sugli spazi cerimoniali
delle sepolture, è sicuramente forte la suggestione data dalle tombe di giganti
e dagli ipogei a prospetto che mostrano uno spazio particolarmente adatto
all’incubazione: oltre all’evidente intenzione di monumentalità si nota infatti
la presenza di particolari costruttivi che sembrano funzionali a questo
rituale, fra i quali soprattutto le banchine poste alla base dell’esedra:
“l’immagine di eroi dormienti (…) era evocata dal carattere delle tombe, a
deposizione collettiva, con numerosi defunti. In ogni sepoltura megalitica
dormiva una piccola comunità, un piccolo popolo, un pugno di Tespiadi nella
trasfigurazione mitologica”(Lilliu, 1963 p. 5). Riprendiamo quindi le fila del
discorso: dai morti delle domus de janas siamo passati per il culto degli
antenati delle tombe a corridoio fino ad arrivare al culto di “eroi” sepolti
nelle tombe di giganti. Che le fonti greche parlino di eroi suona familiare e
non stupisce affatto; si può però parlare di culto eroico, o almeno di una
trasformazione degli antenati in eroi divinizzati, per la Sardegna nuragica?
Risulta ancora una volta necessario dare uno sguardo alla documentazione
archeologica e più precisamente a quella interpretabile come rappresentazione
del sacro. Nel Neolitico le domus de janas sono associate ai menhir, grandi
massi infitti verticalmente nel terreno posti a protezione sia dei contesti
funerari sia dei villaggi, in un continuo legame fra vivi e morti. Queste
pedras fittas sono totalmente aniconiche e sono comunemente interpretate come
simboliche rappresentazioni degli spiriti dei defunti, dimore di δαίμονες senza
volto né nome. Nell’Eneolitico prosegue il culto dei menhir, nell’ambito di una
litolatria che appare molto radicata nelle popolazioni locali. In questo
periodo si nota un progressivo processo di antropomorfizzazione, ben
evidenziato dalla seriazione evolutiva compiuta da Enrico Atzeni nel corso dei
suoi numerosi studi sull’argomento: dai menhir aniconici del Neolitico ai
menhir protoantropomorfi e poi ai menhir antropomorfi, che si differenziano per
una più esplicita raffigurazione della testa e di tratti essenziali del volto.
Si arriva infine alle cosiddette statue menhir, di forma tendenzialmente
ogivale e perfettamente lavorati, che presentano delle decorazioni ripartite
sulla superficie ventrale della stele in tre registri.
1. Il registro superiore è
occupato dal volto umano, nel caratteristico schema a T, con un’iconografia
estremamente caratteristica di tutta la civiltà protosarda
2. Il registro mediano è
caratterizzato dalla presenza del cosiddetto capovolto, uno schema antropomorfo
in forma di tridente o candelabro
3. Il registro inferiore mostra
infine la rappresentazione di un’arma o comunque di uno strumento, che può
essere comunque considerato un emblema di potere.
Essi mostrano una precisa
iconografia, a metà strada fra l’antropomorfismo e il forte simbolismo, ed
interpretata come segue. Lo schema a T connota la statua come rappresentazione
di un individuo. Il capovolto, che ben caratterizza lo stato di chi si trova
nell’Aldilà, considerato in moltissime culture e in diversi periodi storici
come un mondo alla rovescia, può essere la raffigurazione del defunto; la
presenza dell’arma, che nella maggior parte dei casi è rappresentata da un
doppio pugnale, qualifica questo defunto come guerriero e capo, quindi
protettore del clan e della comunità; in certi esemplari è raffigurato un objet
(Atzeni, 1988 p. 201), la cui sommità è raffrontabile con le teste di mazza,
ritrovate in diversi contesti neolitici (Atzeni & Cocco, 1989 p. 211;
Puglisi, 1941-1942). Penso che questo oggetto possa essere interpretato come
una sorta di scettro, un bastone del potere che qualifica ancora una volta gli
antenati come personaggi di spicco all’interno della comunità nella loro vita
passata, forse non a caso appartenente ad un’epoca precedente (Ugas, 1990, 1998
e 2005). Questo momento segna probabilmente il passaggio, seppur labile e
fluido, fra il culto dei morti in quanto defunti cari alla comunità al culto
degli antenati, come capostipiti mitici posti a protezione dell’intero clan,
con un ruolo ormai “istituzionalizzato”: non a caso non sono più associati ai
contesti funerari, ma collocati sul territorio a presidio della comunità che
trova in essi il motivo di coesione e di unità di gruppo. Nell’età del Bronzo
si trovano, a dire il vero, poche rappresentazioni della divinità, ad
esclusione dei betili. La loro funzione può non essere dissimile da quella dei
menhir delle età precedenti, come dimore dei mana dei defunti-antenati. La
differenza si nota soprattutto nella rappresentazione, sostanzialmente
aniconica, fatto che non stupisce, visto che l’aniconismo è un carattere che
sembra distintivo dell’età nuragica. L’età del Ferro mostra invece una nuova
concezione figurativa. ben rappresentata nei bronzetti e soprattutto nelle
statue di Monti Prama (Bernardini & Tronchetti, 1990; Lilliu, 1997;
Tronchetti, 1986 e 2005), guerrieri ad altezza maggiore del naturale, ben noti
anche ai non addetti ai lavori e al momento in lungo restauro lontani da casa.
Il contesto di ritrovamento sembra avere avuto una funzione sacrale e sembra
lecito supporre che le statue stesse fossero collegate in qualche modo al mondo
religioso e spirituale. Sono guerrieri e, per definizione, difendono il
territorio ma sono legati a sepolture di alto rango: a mio avviso non è forzato
vedere in essi la rappresentazione idealizzata degli inumati che, per il loro
ruolo di potere e prestigio da vivi, sono diventati, da morti, protettori di un
intero territorio, sede di una numerosa comunità che in essi venera i propri
capostipiti. Essi, dotati di un vero e proprio tempio, sono stati ormai
divinizzati, seppure nell’ambito di una precisa ideologia e strategia politica,
quale quella delle èlite di potere dell’età del Ferro: la loro funzione è la
stessa delle statue menhir ma è cambiato il modo di rappresentarli, coerentemente
con “l’ambito ideologico delle aristocrazie” (Bernardini & Tronchetti, 1990
p. 214). Il codice stilistico dei guerrieri di Monti Prama richiama da vicino
quello “stile geometrico” che, nei bronzi figurati, si contrappone allo stile
“libero” o “barbaricino-mediterraneizzante”, meno rigoroso e tecnicamente
raffinato. In riguardo al primo stile Giovanni Lilliu parla addirittura di
“arte di regime”: seppur non si possa avere certezza dell’esistenza di veri e
propri “artigiani di corte”, è invece altamente probabile che lo stile
geometrico venga utilizzato soprattutto in certi contesti e per iconografie
riferite a particolari classi sociali, che appaiono quelle elitarie. E se, come
spesso avviene, la religione doveva essere utilizzata per giustificare e
ufficializzare un ruolo di potere, si possono individuare tanto nelle statue
quanto nei bronzetti delle connotazioni sacrali e religiose. Ciò sembra
confermato anche dal contesto di ritrovamento della maggior parte di essi,
presso edifici interpretati come luoghi di culto. È giunto il momento di
cercare di rispondere alla domanda posta in precedenza: camminavano gli eroi
nelle ampie pianure del Campidano e nelle scoscese alture della Barbagia? O, in
termini meno poetici e più concreti, si può parlare di un culto di tipo eroico
per la Sardegna nuragica? In effetti la tradizione classica collega alla
Sardegna numerose figure eroiche; queste notizie sono state tramandate da
diversi scrittori antichi in un grande arco di tempo, dall’VIII secolo a.C. fino
al VI secolo d.C.. La più antica testimonianza relativa alla Sardegna si trova
nell’Odissea di Omero; nel VI secolo a.C. alcuni accenni vengono restituiti
dall’opera di Simonide di Ceo, tramandate dalla Suda; ancora ne parla Erodoto,
nel V secolo a.C., nelle sue Historie, mentre Aristotele, già citato nel corso
di questo lavoro, lascia nella Fisica, diverse notizie databili al IV secolo
a.C.; ancora la Suda conserva la testimonianza di Timeo, riferibile al III
secolo a.C., mentre il secolo successivo è rappresentato dalle informazioni
raccolte nella Bibliotheca di Apollodoro e dalle citazioni di Varrone apud
Servio; nel I secolo a.C.; seguono Diodoro con la Bibliotheca Historica,
Sallustio con le Historie, Strabone con la Geographica oltre ai riferimenti in
versi alla Sardegna nella VII Egloga di Virgilio. Di età imperiale sono i
Punica di Silio Italico, mentre già del II secolo d.C. sono le informazioni
conservate nel De Anima di Tertulliano, nel De mirabilibus auscultationibus
dello Pseudo Aristotele e quelle della Perieghesis di Pausania. Con Solino si
entra nel III secolo d.C. mentre le notizie più tarde sono offerte, nel V
secolo d.C., da Prisciano in un’altra Perieghesis, da Isidoro con le
Etymologiae e nel VI secolo d.C. da Filipono e Simplicio nell’Aristotelis
physicorum. Una prima forma di organizzazione di tutte queste testimonianze si
trova, già in antico, nel decimo libro della Perieghesis di Pausania che
tramanda un quadro abbastanza completo dell’intera vicenda mitica legata alla
Sardegna, sebbene la modifichi in alcuni punti rispetto a quanto tramandato
dagli altri scrittori antichi e menziona alcuni eroi che vorrei esaminare qui
più approfonditamente. I primi a giungere in Sardegna sarebbero stati i Libii,
guidati da Sardus, figlio di Maceride, nome che la tradizione egizia e libica
dà al famoso eroe greco Eracle. Questi avrebbe dato un nuovo nome all’isola,
che precedentemente veniva chiamata «isola dalle vene d’argento»: Sardus
Hercule procreatus cum magna multitudine a Lybia profectus Sardiniam occupavit
et ex suo vocabulo insulae nomen dedit (Isidoro, Origines, 14, 6, 39) e ancora:
Inde Ichnusa prius Grais memorata colonis, mox Libyci Sardus generoso sanguine
fidens Herculis, ex sese mutavit nomina terrae (Silio Italico, Punicae, XII, vv.
355 ss). Non fondò città, ma si insediò con i suoi compagni in ripari e
capanne, dopo essersi unito alla popolazione locale. A questa prima
colonizzazione seguì, secondo Pausania, quella di Aristeo (Sallustio II, fr.4;
Silio Italico, XII, vv. 366-370; Pausania, X, 17, 3), figlio di Apollo e della
ninfa Cirene, giunto nell’isola su consiglio della madre, insieme ad un gruppo
di Greci fuggiti dalla Beozia; partì dalla Grecia, sconvolto per la morte del
figlio Atteone15. Dopo aver liberato l’isola dai molti e terribili uccelli che
la infestavano (Pseudo Aristotele 100), l’eroe introdusse la pratica
dell’agricoltura (Sallustio, Historiae, II, fr. 6; Pausania, X, 17; Silio
Italico, Punic., XII, 368) e della coltivazione degli alberi da frutto e
nell’isola gli nacquero due figli dal nome parlante, Charmo e Callicarpo.
Secondo Pausania neppure Aristeo fondò città, mentre Solino afferma che egli fu
l’ecista della città di Carales16. Quest’ultimo colloca anche l’arrivo di
Aristeo in un momento successivo, dopo cioè l’arrivo di Norax nell’isola,
mentre Silo Italico lo fa arrivare per ultimo dopo tutte le altre
colonizzazioni. La terza ondata fu guidata da Norax, figlio di Ermes e di
Erizia, la figlia del mitico Gerione, mostro a tre teste sconfitto e ucciso da
Eracle. Norax arrivò in Sardegna alla guida degli Iberi provenienti da Tartesso
e, sempre secondo Solino, fondò la città di Nora, diventando quindi il primo
eroe ecista della tradizione riferita alla Sardegna. L’ultima spedizione fu
quella di Iolao, figlio di Ificle e quindi nipote, oltre che amico
inseparabile, dell’eroe Eracle. Le fonti raccontano che giunse in Sardegna in
conseguenza di un oracolo e portò con sé i Tespiadi, figli di Eracle e delle 50
figlie di Tespi. L’importanza di questa spedizione è rilevata dalla notizia,
tramandata da Pausania, che questo è il primo gruppo di coloni partiti dalla
Grecia. Iolao è anche l’eroe che più si opera per il benessere della Sardegna,
almeno stando alla tradizione: porta la pace fra gli indigeni, divisi da tante
discordie (Solino, I, 61); fonda le città di Olbia e di Ogryle o Agryle, oltre
al fatto che al suo nome sono collegate anche le non precisate alia graeca
oppida, ricordate da Solino e “le nobili città” ricordate da Diodoro; dà il
nome ad una stirpe, quella degli Iliensi dopo aver colonizzato e reso fertile
la pianura che da lui prese il nome di Iolea o Iolaia; infine «τὸν Δαίδαλον ἐκ
τῆς Σικελίας μεταπεμψάμενος, κατεσκεύασεν ἔργα πολλὰ καὶ μεγάλα μέχρι τῶν νῦν
καιρῶν διαμένοντα καὶ ἀπὸ τοῦ κατασκευάσαντος Δαιδάλεια καλούμενα· ᾠκοδόμησε δὲ
καὶ γυμνάσια μεγάλα τε καὶ πολυτελῆ καὶ δικαστήρια κατέστηεσε». Pausania dà
notizia della morte dell’eroe, avvenuta nell’isola, come altri scrittori
antichi sembrano confermare: Solino (Solino, I, 61) ricorda che gli Iolei
sepulchro eius templum addiderunt, per onorare la sua memoria e le grandi
imprese che egli aveva compiuto per l’isola; alla sua tomba e a quella dei
Tespiadi fanno riferimento anche i commentatori di Aristotele, in relazione
appunto al rito dell’incubazione, associato secondo Simplicio (Simplicio,
IV,11) e Tertulliano proprio alla tomba degli eroi greci figli di Eracle.
Questa congerie di notizie mitiche sulla Sardegna formano un insieme abbastanza
ben definito e compiuto. È probabile che in esso si possa rispecchiare il
ricordo, in chiave mitica, dei contatti che la Grecia instaurò con il
Mediterraneo occidentale e, più specificamente, con la Sardegna. Diversi
studiosi hanno pensato di individuare la nascita del nucleo fondamentale di
questa saga mitica sulla Sardegna intorno al VI-V secolo a.C. allo scopo di
incoraggiare altri tentativi di colonizzazione da parte dei Greci in quella
parte del Mediterraneo, così preziosa per i contatti e i commerci, oltre che
per le sue risorse naturali. Oltre all’intento puramente politico, si può
scorgere in questi miti un sottofondo di leggende più antico che tramanda in
chiave mitica il ricordo di antichi contatti fra i Micenei e i Sardi. La
ricerca archeologica ha ormai definitivamente accertato l’esistenza di continui
contatti e scambi fra i Sardi dell’età nuragica e la civiltà micenea, oltre che
con molte altre popolazioni egee contemporanee: il ritrovamento di oggetti e
merci di scambio in Sardegna, in Sicilia, sul continente greco e a Creta,
dimostra che esistevano delle rotte commerciali ben precise utilizzate sia dai
Sardi nuragici che dai Micenei, in un continuo traffico di import/export dal
lontano Egeo fino al Mare Sardo che dovette svolgersi sin dalla fine del Bronzo
Medio. E, come è naturale, insieme alle merci e ai prodotti dell’artigianato
dovettero viaggiare anche idee, tradizioni e modelli culturali. È noto che il
grande e complesso corpus leggendario greco d’età classica andò formandosi nel
corso dei secoli, ad iniziare proprio dal periodo miceneo. È questo il periodo
descritto nella mitologia classica dove in chiave leggendaria, è ritratta
quella civiltà micenea che conobbe la Sardegna nuragica. È possibile che sia
rimasto, nell’immaginario greco, il ricordo dell’esistenza di alcuni eroi-antenati
mitici venerati dalle genti nuragiche come divinità, che si confrontavano con
alcune figure della mitologia greca, fino ad essere identificate con esse,
nell’ambito di una “grecizzazione” abbast anza frequente e usuale per la
cultura ellenica. È inoltre forte lo squilibrio nella tradizione letteraria fra
il numero relativamente basso delle notizie riguardanti la Sardegna in generale
e, al contrario, la grande prevalenza di figure eroiche e mitologiche, per lo
più maschili, che sono connesse con l’isola. Una tale quantità di eroi potrebbe
quindi essere il segnale dell’esistenza di un culto di tipo eroico all’interno
della religiosità protosarda. Assunta questa ipotesi come punto di partenza si
deve cercare, per quanto possibile, di focalizzare meglio queste figure
eroiche. Ancora una volta il confronto fra le fonti e la documentazione
archeologica permette di formulare alcune ipotesi. Una testina bronzea,
proveniente da Decimoputzu si confronta con l’iconografia presente in circa
cento monete che portano nel verso l’immagine di un volto maschile con
copricapo piumato o meglio una corona di piume, in alcuni casi dotato di barba,
e recante poggiata su una spalla una lancia con cuspide. Tale immagine è
identificata dalle parole Sard. Pater, cioè Sardus Pater e tutte le monete sono
datate al 60-59 a.C., grazie al recto delle monete che reca l’iscrizione di
Atius Balbus, nominato propretore di Sardegna nel 59 a.C.. A queste
testimonianze si aggiunge una statuina bronzea di epoca romana che mostra la
stessa iconografia. Già da diverso tempo ormai l’eroe Sardo viene identificato
con il Sardus Pater, divinità presente nell’isola cui è anche dedicato il
tempio di Antas (Fluminimaggiore). Il tempio che oggi si vede è di età romana
imperiale, sovrapposto ad un luogo di culto punico, a sua volta costruito su
una precedente area sacra nuragica. L’iscrizione incisa sul frontone della
facciata testimonia che il santuario fu dedicato in età imperiale ad una
divinità detta Sardus Pater, mentre appare cancellato il nome della divinità
punica che sappiamo essere Sid Babay, letteralmente “Padre Sid”. Diversi
studiosi hanno voluto vedere nel Sardus Pater una creazione artificiale dei
Romani che cercarono di rendere più semplice e accettabile il giogo della
conquista nell’isola, creando un grande santuario per il quale gli indigeni
sentissero un forte legame di appartenenza. È però difficile immaginare tale
legame con un nume creato appositamente dagli invasori romani. Forse i Romani
assimilarono e riportarono in auge una divinità che aveva nell’isola una lunga
tradizione, una figura indigena senza nome cui venne affidato quello di Sardo,
in quanto padre e capostipite della popolazione locale. Una testimonianza
interessante è quella congiunta di Pausania (Περιήγησις τῆς Ἐλλάδος, IX, 17) e
di Tolomeo (Geografia, III, 3, 2): il primo descrive la statua che “i Barbari
abitanti all’Occidente della Sardegna” avevano dedicato al dio Sardus e donato
al famoso santuario di Delfi; il secondo ricorda che la statua di Delfi era la
copia del simulacro conservato nel Sardopatoris fanum situato alla foce del
fiume sacro, individuato da molti studiosi nella zona dello stagno di Marceddì,
vicino alla città di Neapolis (Santa Maria de Nàbui). Si può ipotizzare, sulla
scorta dei dati esaminati, che in epoca nuragica ci fu un eroe divinizzato con
particolari caratteristiche e funzioni, il cui culto rifiorì enormemente
durante l’occupazione romana, sia al tempo del primo impero, nel I secolo d.C.
in concomitanza con la politica augustea e in generale della famiglia
GiulioClaudia di restaurare i culti ancestrali delle terre colonizzate, sia nel
III secolo d.C. quando, al tempo dell’imperatore Caracalla, fu restaurato il
tempio di Antas e fu posta in posizione acroteriale l’iscrizione dedicatoria al
dio. Due bronzetti che raffigurano un personaggio maschile recante sulle spalle
tre orci potrebbero essere invece l’immagine di Aristeo, in quanto portatore
dell’agricoltura e della coltivazione degli alberi da frutto nell’isola; gli
orci conterrebbero il miele, il latte e l’olio come in una raffigurazione
simile presente in un vaso protoattico (Ugas, 1985 p. 211). Egli appare
caratterizzato da due fattori di grande importanza. Il primo è la sua qualifica
di eroe culturale come appare dalle notizie relative all’introduzione da parte
sua dell’agricoltura specializzata in Sardegna; il secondo è la sua qualifica
di οἰκιστής dal momento che, secondo Diodoro, egli fonda la città di Carales e
diventa signore della Sardegna dopo aver portato la pace fra popolazioni
discordi. In aggiunta si può considerare il suo possibile legame con la caccia,
dal momento che le fonti ricordano la strana notizia di una liberazione
dell’isola da grandi e feroci uccelli che la popolavano anticamente. Si
tratterebbe pertanto di un eroe legato ai riti e ai culti di una civiltà
agricola e pastorale, come poteva essere quella protosarda, sebbene la figura
di Aristeo, rispetto a Sardo, “appare meglio qualificata da connotati e valenze
specifiche, ma è meno evidente sul piano storico” (Ugas, 1985 p. 210). Durante
l’età del Ferro compaiono in diversi contesti i già citati modellini di torri.
Essi nascono in un periodo in cui il nuraghe, ridottasi l’importanza della sua
funzione difensiva, a causa dei cambiamenti nell’organizzazione politica e
sociale, diventa il simbolo astratto del potere e si lega al passato mitico, a
quella età dell’oro di cui questi eroi sarebbero protagonisti. In essi si può
vedere un collegamento con l’eroe Norax, attraverso il nome stesso. Si nota
infatti una forte connessione con l’antica radice protosarda o, meglio,
mediterranea nur- di cui restano tracce in numerosissimi toponimi della
Sardegna, delle coste dell’Africa settentrionale e anche in una delle isole
baleariche, che viene chiamata Nura. Tale radice sembra essere anche alla base
del nome del monumento che caratterizza e individua la civiltà nuragica: il
nuraghe. Norax sarebbe l’eroe eponimo del nuraghe stesso e “il nome e la cosa
si tramandarono insieme nei secoli, espressione linguistica ed espressione monumentale
dell’anima perpetua della stirpe” (Pettazzoni, 1912 p. 81). Perciò questa
figura, come già Sardo e come Iolao, potrebbe riflettere una divinità del culto
eroico indigeno, il cui nome si fa specchio della sua identità di nume legato
strettamente al simbolo del potere civile: il palazzo del re e dei governanti,
il nuraghe. Non sembra perciò strano che, anche nella tradizione greca, sia un
eroe che viene da Occidente e più precisamente da quella zona del Mediterraneo
occidentale dove è diffusa la radice nur-30. Se così fosse avremmo, all’interno
della religione nuragica e del culto eroico più nello specifico, un nume le cui
prerogative sono legate a doppio filo con la vita politica delle genti
nuragiche, protettore e garante del potere costituito. Egli dovette trovare la
sua sede ideale nel nuraghe e successivamente nelle Sale del Consiglio, dove
trovano posto le raffigurazioni betiliche della stessa torre nuragica, forse
una rappresentazione simbolica e schematizzata di questo eroe divinizzato, trasformatosi
con il tempo in un processo analogo a quello che subisce lo stesso edificio
civile. Infine Iolao (Pauly, A. & Wissowa, G. 1920), collegato dalle fonti
ai Tespiadi e alle tombe – tempio degli eroi, può essere visto suggestivamente raffigurato
con i suoi compagni nella grande statuaria in pietra rappresentata dagli
esemplari dell’heroon di Monti Prama di Cabras. Questo eroe è anche la figura
che più di tutte riassume in sé “tutti i caratteri del capostipite eroe-padre
di un popolo” (Ugas, 1985 p. 211). Raffaele Pettazzoni (Pettazzoni, 1912) vide
in lui l’equivalente greco del Sardus Pater giunto nell’isola per il tramite
dell’influsso cartaginese; ancora altri studiosi, fra i quali Piero Meloni
(Meloni, 1942-44 p. 53), lo interpretarono come una divinità cartaginese il cui
nome deriverebbe dalla radice libico-punica Jol, ritrovata in diverse
iscrizioni nord-africane. Ma Iolao nelle fonti appare strettamente connesso con
le genti indigene della Sardegna: è l’eroe eponimo di una delle tante popolazioni
dell’età del bronzo che secondo la tradizione avrebbero abitato l’isola, gli
Iolei o Iliensi; inoltre risulta in rapporto diretto con “ben conosciuti
fenomeni sociali dell’età nuragica” (Ugas, 1985 p. 211) come la costruzione
delle tholoi nei nuraghi e nei templi a pozzo, l’istituzione di ginnasi e
dicasteri tutti costruiti all’antico modo greco, come riporta la tradizione
tramandata da Diodoro; l’esistenza di tombe tempio e heroa costruiti in suo
onore; infine furono proprio gli Iolei a guidare la rivolta, sempre secondo la
tradizione letteraria, contro le truppe di Malco, giunto a conquistare l’isola
in nome di Cartagine e furono sempre loro a rifugiarsi nell’interno quando i
Cartaginesi riuscirono a impossessarsi definitivamente della Sardegna e a scegliere
i migliori (aristoi) fra gli indigeni per diventare capi dei Sardi che, pur
imbarbaritisi nel loro rifugio montano, rimasero liberi. Pausania ci conferma
che egli veniva venerato dai Tespiadi come padre e dice che, ancora ai suoi
tempi, la Sardegna era costellata di centri chiamati iolei dove l’eroe veniva
fatto oggetto di culto. Non si conosce l’iconografia di questa divinità e non
si possono attribuire ad essa caratteristiche ben precise, ma appare
sicuramente connesso con tutte le manifestazioni architettoniche presenti
nell’isola, da quelle politiche a quelle religiose a quelle civili e
soprattutto mostra un forte legame con il culto dei morti e degli antenati.
Sulla base di queste considerazioni la creazione di queste leggende sarebbe da
collocare al tempo della seconda età del Ferro, intorno all’VIII secolo a.C. e
si tratterebbe della rivisitazione mitizzata dell’età nuragica, ritratta nel
momento di massimo splendore. La linea evolutiva fin qui delineata permette di
individuare,sulla base dei dati fin qui esaminati, un percorso che da un culto
naturalistico di età prenuragica porta ad un politeismo antropomorfo ormai
pienamente avanzato, con la possibilità di ipotizzare, seppur in via
preliminare, l’esistenza di un culto di tipo eroico. Si tratta ovviamente di
un’ipotesi e come tale vuole essere presentata. Perché se è vero che ogni
leggenda ha in sé un fondo di verità è anche vero che testimonianze come quelle
letterarie, per di più esterne, devono essere prese con tutte le cautele del
caso, non potendo sempre trovare un immediato e puntuale riscontro con il dato
materiale. Ma quale divinità veniva invocata dalle genti protosarde all’interno
dei riti legati a questo culto funerario fin qui delineato? Per quanto riguarda
l’età prenuragica la risposta è nota: le sepolture nelle domus de janas,
ricchissime di decorazioni simboliche, fra le quali le spirali, i denti di
lupo, le protomi taurine, sono spesso accompagnate dalle già citate statuine di
Dee Madri, la cui seriazione a lungo studiata è ormai ben definita (anche se
non definitiva). Queste statuine si ritrovano nella forma di idoli cruciformi
anche nelle sepolture eneolitiche, alle quali si aggiungono alcuni esemplari di
statue menhir connotati come femminili dalla presenza di probabili bozze
mammillari. Si tratta di rappresentazioni della Dea Madre, divinità curotrofa
diffusa in molte aree del Mediterraneo, dal cui grembo tutto nasce e nel cui
grembo vengono accolti i defunti per essere riportati a nuova vita: il binomio
nascita/vita – morte, sempre presente nella figura di questa divinità, è
evidente in questa associazione con i contesti funerari. In tal senso forse può
essere interpretato anche un suggestivo elemento di corredo ritrovato
nell’ipogeo di Padru Jossu, caratterizzato da tre fasi di utilizzo, a partire
dalla cultura di Monte Claro fino ad arrivare alla prima età del Bronzo: si
tratta di un grande pendaglio di collana a forma discoidale ornato da 28 occhi
di dado: su una faccia mostra 13 cerchielli e sull’altra 1534, dei quali tre
sono collocati al centro. Questa offerta funebre può essere legata ad un
cambiamento del volto di questa divinità che da Madre Terra si trasforma
progressivamente in dea lunare e uranica: il numero 28 si lega alla durata del
mese lunare e, nello stesso calendario, sono 13 i mesi che formano un intero
anno; i tre cerchielli centrali potrebbero rappresentare, con la loro
disposizione centrale, le tre fasi del ciclo lunare (Ugas, 1998). Le offerte di
zanne di cinghiale, l’uso insistente di pendagli a quarto di luna e l’uso del
colore bianco in quasi tutti gli ornamenti presenti nella tomba possono essere
coerentemente collegati al simbolismo relativo a questa divinità mediterranea.
E in seguito? Si è a lungo parlato dell’esclusivo carattere patriarcale e
guerriero della civiltà nuragica e, di conseguenza, della religione ad essa
connessa: nell’età del Bronzo la Dea Madre scomparirebbe per lasciare il posto
ad una divinità maschile uranica, che occupa il posto centrale nella
religiosità dell’epoca. Seppure questo aspetto si possa evincere da certa
documentazione archeologica, rischia d’altro canto di apparire come una estrema
semplificazione di una civiltà che dovette avere molteplici sfaccettature e
mutamenti nel corso del tempo, anche volendo ammettere che una società
guerriera debba per forza avere una caratterizzazione esclusivamente maschile.
L’età del Bronzo, come si è detto, è un’età sostanzialmente aniconica; l’unico
dato archeologico riconducibile ad una possibile rappresentazione simbolica collegata
alla sfera del sacro sono i betili, pietre confitte verticalmente nel terreno
come i menhir ma con sezione circolare, ritrovati soprattutto in contesti
funerari, presso le tombe di giganti. Si è soliti dividerli in tre tipologie:
betili aniconici, completamente lisci, betili caratterizzati da bozze
mammillari e betili con un’incisione in cima. Anche se a volte le pietre ci
parlano non sempre lo fanno chiaramente: l’unico dato che mi sembra si possa
affermare con un certo grado di sicurezza è che i betili mammellati
rappresentino simbolicamente delle figure femminili; il fatto, invece, che si
tratti della raffigurazione di divinità non può essere dichiarato con
altrettanta sicurezza. Si tratta ad ogni modo dell’unica rappresentazione
disponibile per l’età nuragica e, la sua associazione con contesti funerari che
dovevano avere un valore quantomeno cultuale, è comunque un dato da valutare.
Un’altra considerazione da fare a questo proposito riguarda il fatto che, allo
stato attuale delle ricerche, non sembra esistere nemmeno alcuna prova certa
dell’esistenza di una divinità maschile che da sola domina le sorti dell’intera
civiltà nuragica. E anche questo ritengo sia un elemento di grande importanza.
Se si analizza la produzione artistica più peculiare della civiltà nuragica, si
può notare la presenza di infinite varietà di personaggi e scene, quotidiani e
non, sia maschili che femminili, sia di stile geometrico sia di stile libero.
All’interno di questa produzione voglio però richiamare l’attenzione su alcuni
personaggi che, per le loro caratteristiche, sono altamente suggestivi e
richiamano alla mente alcune associazioni iconografiche interessanti. Ci sono
molti bronzetti che rappresentano figure femminili in posa ieratica e con vesti
particolari e particolareggiate, che si distaccano nettamente dalle
raffigurazioni di sapore più “popolare”; di grande impatto visivo risulta
sicuramente la donna, interpretata comunemente come “sacerdotessa” trovata nel
pozzo di Santu Millanu a Nuragus e quella del pozzo di Seleni a Lanusei, alle
quali aggiungerei la statuina di offerente dal villaggio santuario di Abini -
Teti. La gonna indossata da queste, e da altre figure femminili della
bronzistica nuragica, trova una certa somiglianza con le vesti di alcune
rappresentazioni della dea dei serpenti della religione minoico – micenea, in
parte coeva a quella nuragica. La stessa veste si ritrova nella cosiddetta
“Madre dell’Ucciso”, dalla grotta sacra di Pirosu – Su Benatzu. La veste
potrebbe pertanto avere un valore cerimoniale, anche perché non si ritrova in
tutte le iconografie femminili (cfr. Lilliu, 1966 pp. 145, 151, 226, 227, 255,
305, 306). La particolarità di queste raffigurazioni mi sembra inoltre possa
essere ritrovato nell’associazione con un tipo di sedile che si ritrova
rappresentato in altri contesti sicuramente non quotidiani, interpretati come
luoghi sacrali, quali il cippo ritrovato nella cosiddetta Sala del Consiglio
del nuraghe Palmavera di Alghero e il modellino miniaturistico in bronzo ritrovato
nella tomba di un capo etrusco nella necropoli Osteria a Cavalupo (Vulci), a
cui si aggiunge l’insegna votiva nuragica ritrovata in località sconosciuta che
mostra in cima lo stesso tipo di sedile. Sembra quindi plausibile formulare
l’ipotesi, in attesa di ulteriori dati, relativa all’esistenza di una divinità
che, dalla Madre Terra neolitica passando per la divinità lunare eneolitica,
continua il suo percorso in età nuragica, sia nell’età del Bronzo sia nell’età
del Ferro, probabilmente con caratteristiche diverse, in consonanza con le
accresciute esigenze di una società ormai pienamente strutturata. È probabile
che in consonanza con il sostrato religioso mediterraneo questa dea mostri un
volto triforme, come lo stesso astro lunare che, nelle sue tre fasi,
rappresenta le tre funzioni principali di questa divinità, e viceversa. Ai dati
fin qui esaminati voglio ora aggiungere la suggestione data dalla testimonianza
delle tradizioni popolari: sono infatti diverse le leggende e i racconti
popolari, in cui si ravvisa l’eco di tempi lontani, e che ricordano numerose
figure femminili. Anche in questo caso si sente la necessità di precisare che
pur risultando di grande interesse e importanza il confronto con le tradizioni
popolari, si deve cercare quanto possibile di tenere nettamente distinte queste
due sfere cognitive: non solo per un diverso grado di concretezza, che nel dato
materiale permette un appoggio più solido, ma anche e soprattutto dal punto di
vista cronologico, trattandosi indiscutibilmente di fenomeni largamente
distanziati nel tempo. Fatta questa indispensabile premessa metodologica,
voglio iniziare citando una delle figure più famose della tradizione isolana:
la jana, o fada, birghine, bajana, bazana, è un essere fatato che abita nelle
grotticelle artificiali che numerose costellano i costoni rocciosi sardi, nei
nuraghi, nei templi, insomma nei ruderi degli antichi edifici costruiti dai
protosardi. Essa viene variamente descritta: può avere piccole dimensioni o
essere una gigantessa; può essere bellissima o mostruosa; dolce, affabile e
generosa nei confronti degli uomini oppure crudele e portatrice di morte,
capace di ogni maleficio. Spesso le janas sono ritratte a custodia di
incredibili tesori o intente a tessere su minuscoli telai i fili d’oro con i
quali intessono le loro vesti, che poi espongono ad arieggiare al sole. Il loro
forte collegamento nell’immaginario collettivo con i luoghi del remoto passato
dell’isola potrebbe far pensare ad una sorta di riduzione della figura divina femminile,
secondo un processo per cui da domina, vertice del pantheon divino, è diventata
una semplice fata, uno spirito che abita gli antichi ruderi. Anche la
molteplicità dei comportamenti e dei volti delle janas, ora buone ora crudeli,
potrebbe nascondere il ricordo della pluralità dei volti della Dea, buona nel
suo volto di fanciulla e donna, crudele nel volto di megera e portatrice di
morte. Il nome stesso di questi esseri fantastici sembra ricollegarsi nella sua
derivazione, a questa realtà: sarebbe il declassamento del termine Diana,
divinità lunare del pantheon romano, così come ipotizzato fra gli altri dal
Wagner (Wagner, 1950 pp. 141-142; Wagner, 1960 p. 706). È anche possibile che
le janas ricordino l’esistenza di veri e propri collegi sacerdotali femminili
votati alla dea: come nel mondo classico le sacerdotesse dovevano essere
vergini, birghines appunto; inoltre esse gestivano le ricchezze del tempio, che
accoglieva le offerte e le proprietà dei fedeli in una sorta di funzione di
raccolta e di tesaurizzazione dei beni della collettività, ed è forse a queste
che fa riferimento l’idea che le janas custodiscano tesori ricchissimi. Persino
la tessitura sembra associarsi a questa idea: il ritrovamento, ad esempio, di
numerosi pesi da telaio reniformi nella cosiddetta capanna dello stregone di
Mone D’Accoddi, ambiente funzionale al santuario, fa pensare che tale attività
non dovesse essere estranea agli addetti (o addette) al culto. Un’altra figura
è quella di Luxia, Giorgia o Orgia Rabiosa (o Arrabiosa), diffusa in tutta la
Sardegna e per cui esiste una ricca e complessa tradizione narrativa. Secondo
le località può essere una donna ricchissima ma molto avara, pietrificata dal
Signore per la sua cattiveria e avidità d’animo, oppure una gigantessa che trasporta
enormi massi sulla testa e nello stesso tempo fila e regge in braccio il
proprio figlio; infine può genericamente indicare una fata benefica. Di essa si
ricorda la dimora che sorgerebbe presso il tempietto a megaron di Esterzili,
detto appunto Sa domu de Orgìa. Il suo nome è legato a diversi menhir (Lilliu,
1957 p. 84; Losengo, 1967 pp. 13 ss.): su 55 attestazioni di pietrificazioni,
leggende che riguardano spesso e volentieri le pedras fittas sarde, raccolte da
Rita Rosa Losengo, ben 27 riguardano Luxia Arrabiosa. Si delinea inoltre già
nei ricordi popolari, come strettamente connessa al periodo protostorico, al
tempo dei nuraghi, come per esempio a Nuragus dove era ritenuta della razza dei
gentili, coloro che avevano costruito i nuraghi: il suo volto ambivalente,
simile a quello delle janas, ancora una volta si può ricollegare alla duplice
identità della divinità lunare femminile. Essa, infatti, viene anche vista come
una delle janas che popolano la mitologia popolare sarda, l’unica che abbia un
volto e un nome. Una figura labile ed eterea, ma non per questo meno
affascinante, è sa mamma ‘e funtana, diventata ormai spauracchio per spaventare
i bambini, ma nella quale si può intravedere il ricordo sbiadito di un’antica
divinità delle fonti, una dea ctonia. Essa è accompagnata da altre figure,
alcune delle quali hanno lasciato tracce solo in alcuni relitti linguistici e
hanno addirittura perso la connotazione di personaggi, seppur fantastici, come
sa mamma ‘e su entu e sa mamma ‘e su sole, forse a tramandare il ricordo (o il
desiderio) di una figura femminile che governava ogni elemento naturale. Concludendo,
in accordo con quanto accade nel resto del Mediterraneo nello stesso periodo,
in cui numerose culture anche diverse fra loro sono accomunate da simili tratti
nella mitologia, nelle leggende e nelle forme del culto, mi sembra si possa
parlare anche per la Sardegna di una religione complessa in cui trovano posto
non una ma due divinità che governano un culto fertilistico-naturalistico di
stampo agro-pastorale, in consonanza con il tipo di società che si può
immaginare anche per l’età nuragica. In essa ha un ruolo di primo piano, se non
esclusivo, la divinità femminile, a lungo rinnegata per quest’epoca, che
sovrintende all’eterno ciclo di vita morte e rinascita, unitamente ad un culto
degli antenati che diventa un culto di tipo eroico e nel quale è forte la
tentazione di intravedere una figura più volte ricordata per la religiosità
panmediterranea, quella del Re Sacro. Ma questa è sicuramente un’altra storia.
Non è infatti possibile trattare approfonditamente i numerosi problemi e le
domande che un argomento come questo fa sorgere: ho qui voluto soprattutto
mettere l’accento sull’importanza di una corretta impostazione metodologica,
derivante dal continuo confronto fra i dati provenienti da discipline diverse,
a partire sempre da dati certi e noti, e soprattutto fornire alcuni spunti di
riflessione, sperando che essi possano successivamente trovare se non risposte
almeno una più compiuta elaborazione, possibile solo nel momento in cui si farà
maggiore chiarezza anche sulla società nuragica, così strettamente legata a
quell’idea universale e trascendente ma così spiccatamente umana quale quella
della spiritualità e della religione.
Fonte: https://www.academia.edu/1513828/Aspetti_della_religiosit%C3%A0_nuragica_tra_archeologia_letteratura_ed_etnografia
Articolo interessantissimo... Che fine ha fatto il do toro? Se guardiamo l'elmo dei bronzetti e la forma delle tombe dei giganti, potrebbe essere sopravvissuto anche in epoca nuragica ?
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