Artisti o artigiani?
Considerazioni sul saper fare “arte” nella preistoria
di Vincenzo Stasolla.
Ciò che viene convenzionalmente
identificato come arte preistorica, sulla base di una sovente critica stilistica,
basata sulla percezione visiva di rappresentazioni esaminate con fare artistico
contemporaneo, è invece inquadrabile in aspetti funzionali e quindi simbolici
ben precisi che si discostano dall'arte in quanto tale, ma che tecnologicamente
si accosterebbero a una produzione rituale legata a un fare artigianale. Se per
le grandi pitture parietali in grotta possiamo recepire l'attività di uno o più
abili operatori probabilmente riconosciuti dalla comunità per il loro saper
fare, difficile è quello delle incisioni per le rappresentazioni aniconiche (un
saper fare alla portata di più operatori indistinti?). Il grado di delega non
doveva essere complesso quanto quello di un'attuale commissione distinta da
precise categorie riconosciute, ma condivisa da tutto il gruppo, operatore
compreso che probabilmente si compenetrava nel significato stesso della
tradizione, in ogni caso legato a diversi livelli alla caccia e alla raccolta.
È difficile infatti pensare che
uomini indistinti si siano cimentati per propria
banale iniziativa a dipingere le pareti di una cavità. Anche l'artista è un
artigiano (conoscenze di tecniche, condivise con l'artigiano, per saper fare
arte), ma l'artigiano non è un artista, o meglio, usufruisce degli espedienti
professionali per dare un tocco estetico a supporti di tipo prettamente
funzionale. L'arte può diventare artigianato nel momento in cui di un'opera se
ne attua la riproducibilità con la conseguente perdita della sua originaria
aura, oppure se resta vincolata dalla commissione (in entrambe, il cosiddetto
artigianato artistico); ciò che differenzia l'arte dall'artigianato è la
tecnica artistica (personale) rispetto a quella produttiva (condivisa). Non si
esclude che in entrambe viga la creatività, l'inventiva, l'idea, un progetto
alla base di uno schema operativo. Oggigiorno con “arte”, rispetto al passato
(la Téchne e l'Ars, il saper fare degli antichi fino al rinascimento, il
mestiere: impara l'“arte”..., ruba l'“arte”..., etc. La radice del sostantivo
artigiano è dopotutto la medesima di arte), intendiamo l'espressione di valori
non altrimenti rappresentabili, che vanno al di là della loro funzionalità,
spesso legata all'esternazione di un sentimento (un messaggio profondo reso
simbolico) e all'esposizione che accoglie sempre una fruizione di massa , col
fine ultimo di comunicarne (o nascondere l'intimo comunicabile) quel medesimo
sentimento individuale, moto del saper fare arte. Esiste una condivisione
artistica, ma non sempre l'esatta interpretazione del significato, spesso
personale di ogni utente, quasi fosse stato quest'ultimo a realizzarne l'opera.
A questo punto quale differenza
sussiste tra il pittore della grotta di Altamira e Michelangelo? In entrambi i
casi i soggetti presi in considerazione hanno un valore comunicativo non intimo
(semmai, personale per lo stile?) rivolto alla comunità (entrambi i luoghi dove
sono situati sono santuari, l'uno in grotta, l'altro in un edificio), che
raccolgono un linguaggio simbolico rivolto a tutti, appannaggio di tutti, con valori
condivisi da tutti su richiesta di una rappresentanza e tradizione politica e/o
religiosa. Stesse considerazioni furono fatte in merito all'“arte” greca e
romana. Una comunicazione scrittoria dal tono artistico è invece quella dei
contemporanei murales metropolitani, messaggi estemporanei, destinati cioè a
non restare per sempre (e proprio per questo il più delle volte sovrapposti),
non di occasione, spesso declassati dai più come atti vandalici, ma che in
realtà sono espressione di arte pura, irripetibile, variabile e priva di
committenza, contestazione comunicata, codificata e condivisa da una
determinata categoria di destinatari, ma anche dalle masse alle quali il
messaggio risulta incomprensibile, non sempre codificato e condiviso: la lettura
artistica e testuale in gradi differenti è insomma destinata a tutti perchè
visibile a tutti (una letteratura in tal caso artistica di strada, come direbbe
un epigrafista o un paleografo). Sembrerebbe davvero azzardato e fuori luogo,
ma un confronto alla praticità preistorica (e non del significato della
ritualità, totalmente distinto e distante per ambiente, tecniche e funzioni) è
quello dei Raves, sopratutto quelli databili agli anni '90 del secolo scorso:
si tratta di manifestazioni musicali e danzanti pirata, nascoste in eremi
isolati e suggestivi che emulano rituali “primitivi” -la festa-trance,
un'esperienza di sacro-selvaggio - di evasione dalla società dei consumi,
organizzati da vere e proprie Tribe in chiave futurista e occidentale, dove il
fulcro fondamentale resta l'arte della musica elettronica. Mark Harrison, in
arte Spiral Tribe (nome in seguito dato all'intero suond system, fu il primo Dj
che introdusse in questi raduni Acid House e Techno (o Tekno) opere d'arte
fluorescenti influenzate dall'Op art (Optical art) che ritraevano geroglifici e
immagini pagane su sfondo nero; una consuetudine protrattasi fino ad oggi e che
fa si che l'osservatore entri in sintonia con le immagini e ne condivida il
messaggio, riconoscendone l'appartenenza alla Tribe e alla festa: egli sa che
quelle rappresentazioni sono tipiche del movimento raver e talvolta le associa
rapidamente a questa o quell'altra tribe. Un suggerimento di natura
etnoarcheologica potrebbe venire dal solo fatto che per una festa (un “rituale”
del XX secolo) si produca “arte”: in tal caso non siamo di fronte ad una vera e
propria arte (spesso ricalcante modelli precolombiani), ma a messaggi visivi,
spesso commissionati a componenti della tribe riconosciuti per le loro capacità
creative, che hanno il compito di trasportare l'utente del raduno, e che
addobbano la festa per darne un tono cibernetico, psichedelico e alieno, con
propaganda a volte spiccatamente antisistema. In sostanza, un valore funzionale
che oscilla tra il murale metropolitano, il manifesto, il totem e il messaggio
d'apparato che resta condiviso e apprezzabile da una particolare cerchia di
persone sentitesi rappresentate da quei messaggi visivi, e dove il bilancio
artistico è si presente ma inferiore rispetto a quello artigianale (il fenomeno
dell'artigianato artistico e d'occasione). Non chiameremmo mai artista, bensì
artigiano, un mastro vetraio che decora con “fare artistico” i vetri destinati
ad una comune o lussuosa abitazione, nonostante la sua dilezione nel decorare
secondo un proprio stile (piuttosto che la stereotipia di cataloghi su larga
scala, ma non mancano neanche casi di albi o prontuari per originali prodotti
dall'artigiano medesimo). In sostanza, ciò che rende l'arte differente
dall'artigianato, e viceversa, è la sua destinazione (e quindi le intenzioni
dell'operatore) che prende le mosse da un sentimento profondo. Motivo per il
quale l'artista riesce più difficilmente a separarsi dalla sua creazione,
rispetto all'artigiano. Può essere la religione quel principio tale da condurre
il pittore a dipingere attraverso le proprie sensazioni ed esigenze? Questo è
solo possibile qualora non sia condizionato dalla committenza! E se il pittore
è profondamente partecipe a quelle sensazioni ed esigenze, come poteva esserlo
quello di un gruppo del Paleolitico sup.? In tal caso il messaggio unanime di
più persone è affidato a colui che sa disegnare e che produce un artigianato
artistico comunque al servizio di un gruppo che usufruiva quei disegni
parietali destinati a un “santuario” in grotta: agli occhi del resto della
comunità l'opera sarebbe apparsa meravigliosa, ma la sua destinazione
principale non era quella d'essere goduta nel presente e in eterno, avendo
piuttosto una funzione probabilmente temporanea e non fine a se stessa, ma
legata a scopi rituali ben precisi e funzionali nel vero senso della parola
(cioè strumentali), e dei quali oggi ci sforziamo a dare diverse
interpretazioni spesso tra loro discordanti. La funzione di un contemporaneo
murale metropolitano è quello di lasciare il segno. La comunicazione
underground di questo tipo riflette l'esigenza di evadere e di contrapporsi
mediante un messaggio temporaneo, ma lo spirito di esecuzione resta
fondamentalmente diverso rispetto al resto dell'ambiente: il messaggio è una
considerazione, piuttosto che un atto di perorazione e pro o ex voto di un
santuario; è un sentimento di avversione o approvazione che ne regola
l'equilibrio artistico. Ciò che c'è di straordinario e identico nei due
confronti resta la sintonia di più menti nei risultati di un'attività svolta.
Anche i prodotti dell'arte sono strumenti di comunicazione ma fine a se stessa
(è sovente che l'autore non espliciti i reali sentimenti spesso diversamente
decodificati dall'osservatore e che ruotano intorno al reale significato, come
al contrario accade per la pubblicità. La difficile interpretazione funzionale
delle rappresentazioni preistoriche, invece, non viene dal fatto che siano
arte, ma perchè rappresentano il residuo di una coscienza di gruppo ormai
perduta nel passato, tra l'altro molto distante, e che merita di essere
lentamente ricostruita purtroppo nella sua superficialità, nel contesto di
appartenenza). Eppure il rappresentare in un modo piuttosto che in un altro,
esponendo i soggetti rappresentati alla poetica autonoma dell'autore (in altre
circostanze condizionata da “motivi ricorrenti”), è propria della produzione
artigianale e artistica nonostante le committenze e le riproduzioni: ecco una
definizione di stile (esemplare è la suddivisione in pittori dei recipienti a
figure rosse di V e IV sec. a.C., che erano artigiani). Al contrario,
l'artigianato dei grandi pittori rinascimentali, commissionati dal potere,
diventa un comportamento opportunistico per fare arte (ne colgono cioè l'occasione
personale), facendosi “quasi” arte assoluta nel momento in cui essi stessi
esternano in quell'artigianato la loro opinione personale politica, sociale e
intellettuale, scientifica e naturalistica (pensiamo alle tele di Leonardo),
coronata dalla personale tecnica artistica: è qui che il bilancio artistico è
di poco maggiore rispetto all'artigianato. I motivi a grata e a fasci incisi su
ossa, pareti, lamine calcaree e ciottoli attribuiti (e attribuibili) alle fasi
recenti del Paleolitico sup., sono la diretta sintetizzazione delle grandi
pitture parietali realistiche del Paleolitico sup. antico; di queste ultime se
ne osserva la pura ritualità della dipintura all'interno di cavità carsiche
frequentate come santuari in grotta, dipinti da capaci individui di bande di
cacciatori-raccoglitori, stessi fruitori delle pitture esposte, a scopo rituale
(la perorazione alla convenzionale Grande Madre, attraverso la rappresentazione
della stessa mediante il loro modo di vedere l'ambiente circostante, ben differente
da quello che si potrebbe dire dell'arte impressionista, dove “l'impressione” è
la reazione a una sensazione tutta personale che sollecita l'artista nel vedere
la realtà). I motivi a grata su supporti mobili (ciottoli e lamine litiche)
delle fasi più recenti, assumono finalità usufruite pur sempre dal gruppo
(funzionalità), ma destinate a essere non sempre fruibili visibilmente come
avrebbero invece fatto le grandi superfici immobili dipinte delle pitture
rupestri realistiche e anche a sintassi geometrica (dove comunque si suppone
una funzionalità rituale anche per gli autori medesimi, valida probabilmente
per quel momento, ma non spontanea: motivo per cui molte delle rappresentazioni
figurative risultano spesso sovrapposte, escludendone tra queste le
sovrapposizioni intenzionali come i grandi mammiferi sottoposti al motivo a
grata o a tratti). Cambiano gli usi rituali, rafforzandone ulteriormente un
valore funzionale rappresentato con sempre più sintetizzazione, a proposito di
un linguaggio simbolico legato a ritualità ben precise: in una comunicazione
verbale, Donato Coppola esprime questo concetto esemplificando con il segno
della croce che ogni fedele cristiano fa entrando in una chiesa o in intimità,
o che riproduce sulle pareti di un santuario, o che porta sospeso sul petto
(riferendosi soprattutto alle sole rappresentazioni Epigravettiane dell’Italia
meridionale). Non può esistere un'unica interpretazione oggettiva che abbia
validità universale, come dimostra quella di figure semicircolari campite da un
motivo a linee parallele (probabilmente una resa delle superfici?),
rappresentate sul neocortice di un ciottolo e interpretate come un insediamento
capannicolo di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico sup. di Molí del Salt
(Spagna). In tal caso il supposto valore artistico, privato dell'aura del
bello, viene del tutto annullato, lasciando spazio a rappresentazioni
(paragonabili ad un vero e proprio messaggio scritto) effettuate dalla mano di
un artigiano, che incide (e/o dipinge) a nome del gruppo. Ridurre questi
fenomeni ad artigianato non convince la nostra mente condizionata dal bello
come arte, o dallo sgradevole o incomprensibile come forma d'intima espressione
ermetica e di contestazione. Una convinzione tale da spingerci ad accostare ai
simbolismi preistorici le opere di artisti contemporanei, dove il concettuale
ha ben altri contesti, indirizzi e intenzioni (un Vassilly Kandinsky, un Mirò o
Kate Haring, per taluni aspetti figurativi ispiratisi ai modelli preistorici,
non avranno di certo dipinto per ingraziarsi Madre Natura garantendosi
protezione, caccia e raccolta in abbondanza, ma per esprimere concetti ben al
di là dal condivisibile, come lo può essere al contrario il simulacro di un
santo di gesso nella nicchia di una cappella). O al contrario, siamo soliti a
mitizzare figure di artisti, distintisi per aver curato vere e proprie opere
d'arte, tanto da dichiarare “oggetti d'arte” ben altre di artigianato
attribuite al medesimo autore (i simulacri in un tempio, in un cimitero, l'erma
di un illustre personaggio, etc., alla pari di una foto scattata dal
fotoreporter, rispetto ad un'altra che ritrae una dimensione intenzionalmente
artistica). La sottile differenza tra arte e artigianato può comunque
assottigliarsi ancora di più nel momento in cui le identifichiamo entrambe in
riproduzioni di uno schema mentale, entrambe con un sostrato di immancabile
diletto e inventiva, medesima condizione di falso/copia distinti
dall'intenzionalità del produttore. Purtroppo le convenzioni ci condizionano nel
proseguire a individuare “un'arte” preistorica nel timore di offendere
l'ingegno umano, ribassandolo ad una più esatta forma di linguaggio simbolico
di fattura artigianale, legata a qualcosa di davvero profondo, ma che coinvolge
non il singolo ma un'intera comunità. Come visto per alcuni casi, non sempre è
possibile fare una netta distinzione tra arte e artigianato, optando per
bilanci. Questa suddivisione di semplificazione razionale non è peraltro
discriminante nei confronti dell'artigianato rispetto all'arte. Entrambe sono
pregevole strumento per soddisfare, chi più e chi meno, la volontà dell'uomo di
comunicare qualcosa, ed è proprio questo che differenzia noi dalle altre specie
animali diffuse sul pianeta Tutt'oggi siamo inibiti dal timore dei confronti
etnografici per ricostruire e interpretare determinati processi archeologici. A
ragione, non possiamo dare le medesime interpretazioni, che offrono le attuali
comunità primitive ai loro simbolismi, ai segni rinvenuti dalla ricerca
archeologica, cadendo nella tentazione di uniformare il fenomeno in una sua
continuità nello spazio e nel tempo, trascurando la contestualizzazione dei
singoli fenomeni. Se attualmente però interpretiamo i segni della nostra
preistoria con termini e locuzioni quali “dea madre o grande madre, santoni o
sciamani, invocazione alla fertilità, all'abbondanza, simboli propiziatori,
reti e gabbie, etc.” lo dobbiamo soprattutto all'influenza dettata proprio da
una lunga tradizione antropologica che ne osserva il comportamento umano di
etnie contemporanee. Come avremmo interpretato questo fenomeno archeologico se
queste etnie contemporanee non fossero mai esistite? Avremmo relazionato quelle
immagini ad altre, magari ai dipinti dei cavalli di un Michele Cascella, o
all'attuale cultura erotica? O ancora, come il prodotto di “raves” della
preistoria? In questa sede non si intendono annullare tutte le interpretazioni
date sino a oggi, a volte divergenti, ma di certo non possiamo parlare di
certezze, in presenza di raffigurazioni lasciateci da un uomo ormai scomparso
da millenni, e con lui la sua tradizione: solo con una buona ricostruzione
archeologica dei contesti è possibile offrire un'interpretazione che si
avvicini a quella del passato. In realtà l'approccio del confronto etnografico è
usufruito come utile e riconosciuto metodo di ricerca per la ricostruzione di
processi archeologici: non avrebbe alcun senso parlare di Etnoarcheologia. Ma
si resta del parere che il confronto passato/presente resti giustamente tale,
privo di legami e interpretazioni affrettate e magari dal tono
fantarcheologico. Un confronto in tal senso ha l'obiettivo di ricostruire il
modus operandi et vivendi dell'uomo preistorico del passato mediante
suggerimenti provenienti dall'osservazione diretta di comunità allo stato
primitivo nel loro contesto e nel loro tempo. E vale la pena rimarcare “nel
loro contesto e nel loro tempo”. La letteratura etnoarcheologica del Sudafrica
paragona i segni del motivo a grata locali alle rappresentazioni di forme
fosfeniche, fenomeni entoptici raggiunti da alcuni sciamani, autorità garanti
delle aspettative della comunità, durante la cosiddetta prima fase di
alterazione dello stato di coscienza, mediante l'intensa concentrazione, il
movimento ritmico e la fame, e presso ulteriori realtà primitive con
l'assunzione di prodotti derivati da piante psicotrope o la deprivazione
sensoriale, l'iperventilazione, il dolore e l'emicrania, come documentano le
comparazioni neuropsicologiche applicate dall'archeologia ed etnologia in
merito all'arte rupestre di moderne e contemporanee comunità dell'Amazzonia,
Sudafrica. Suggestivo e altrettanto distante è il curioso accostamento che del
motivo a tratti paralleli può farsi rispetto ai dipinti corporali presso la
tribù brasiliana dei guerrieri Kayapó; non a caso il nero e il rosso della
“pelle sociale” sono rispettivamente «i simboli della repressione e
accentuazione sensoriale», e rappresentano «l'accentuazione della sessualità e
procreatività al servizio della riproduzione sociale», una contrapposizione
equilibrante nella vita politica, sociale e rituale. Qui non siamo in presenza
di arte, ma di una comunicazione visiva sociale per mezzo di simboli. Simboli
non dissimili li ritroviamo nei motivi a sintassi astratta su ciottoli o lamine
calcaree dell'Epigravettiano pugliese e lucano, a tratti paralleli disposti a
tappeto e a bande scalariformi, ottenuti mediante l'incisione di linee
raggruppate in fasci ortogonali, con o meno risparmi campiti di pigmenti rossi,
attribuibili ai riti di perorazione rivolti alla Grande Madre. Espressione
simbolica che ben potrebbe accostarsi alle raffigurazioni femminili europee,
sulle quali può sovrapporsi il motivo a grata. Siamo di fronte a due interpretazioni
per certi aspetti simili e che sfociano entrambe nell'istanza simbolica di
fertilità, l'una ambientale, l'altra umana: e la riproduzione sociale, d'altro
canto, è lo strumento più efficace per la sopravvivenza del gruppo e della
propria stirpe. Come accade per la pittura vascolare di età classica, che
indirettamente ci propone l'iconografia delle Pìnakes scomparse, allo stesso
modo è possibile ipotizzare la diffusione dei medesimi motivi geometrici
paleolitici su diversi supporti deperibili, pelle compresa (ipotesi avanzate
per le Pintaderas del Neolitico antico. Ma è ovvio si tratti di confronti che
non determinano una diretta continuità simbolica e culturale nello spazio e nel
tempo, del Paleolitico europeo con quello Brasiliano. È opportuno quindi
prendere in considerazione anche l'interpretazione sciamanica, con le altre, a
un livello imparziale, in assenza di quei dati archeologici collaterali che in
Europa rammenterebbero di sciamani, se non mediante alcune raffigurazioni
parietali interpretate come “stregoni” o “testimoni”, dipinti da comunità
oramai scomparse e lontane nel tempo, rispetto a quelle persistenti in un
contesto preistorico per esempio sudafricano, abbastanza a noi recente e
geograficamente ben più distante da quello Europeo, nonostante simile sotto
taluni aspetti, senza quindi generalizzarne un modello di comportamento
applicabile a taluni contesti preistorici moderni, qualora documentati, e
soprattutto contemporanei. È quindi inappropriato giungere a conclusione che le
raffigurazioni del Paleolitico di tutto il pianeta siano esito di fenomeni
entoptici e psicogrammi: ciò non spiegherebbe affatto la ripetitività
tradizionale della sintassi geometrica (e anche della resa tecnica: sulla
trasmissione del sapere artigianale cfr. ) in precisi contesti come la Puglia e
la Basilicata! Donato Coppola scrive che «la riproduzione e l'interpretazione
visiva della realtà si concettualizzano nell'elaborazione dei segni che
esprimono la consapevolezza universale di qualcosa di immateriale, metafisico,
comunicato attraverso un linguaggio semplice, immediato, comune. Un vero e
proprio linguaggio simbolico». Attualmente, se da un lato questi segni sono
interpretati, come sarà per le figure femminili del Maddaleniano V e del
Neolitico, un linguaggio simbolico accostato a probabili immagini divine,
dall'altro se ne ipotizza la riproduzione di motivi geometrici la cui
interpretazione alla comunità (essenza della forza generatrice visibile e
agognata dall'uomo di tutti i tempi, quindi una decodificazione del motivo
geometrico in un animale, ovvero in un elemento naturale richiesti dalla
comunità, o ancora, aspettative, totemismo, desiderio di forza identificata
nell'animale, prestanza nell'attività venatoria, etc.) spettava a pochi eletti
rispettati dalla comunità stessa.
Fonte: http://www.archeomedia.net/wp-content/uploads/2015/12/Artisti-o-artigiani-Stasolla-2015.pdf
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