Archeologia in Sardegna. Due giorni fra i menhir del Sarrabus.
di Lorenzo Toni
Nessuna indicazione stradale che aiuti a individuare il sito. Inoltrandosi per un
chilometro e mezzo in una proprietà privata, su uno sterrato che si inerpica
verso bastioni di granito. Mollo l’auto prima di rimetterci sospensioni e
semiasse e giungo a Cuili Piras. Una piana rialzata e tutt’ora coltivata,
dove una cinquantina di Menhir di medie dimensioni sono disposti lungo vari
assi, a indicare solstizi e equinozi, il fluire delle stagioni e le fasi della
luna. In un silenzio irreale e in totale solitudine.
Sono lì da oltre cinquemila anni.
Chissà, forse quei campi sono stati tra i primi a
essere coltivati da queste parti del Mediterraneo. Poco lontano, verso est, le
meravigliose spiagge della Costa Rei dove forse sbarcarono cinquemila anni fa
popolazioni lontane e dove adesso, un turismo ignaro, si gode le ferie. Vastità
e silenzio, profumo di rosmarino e finocchio selvatico.
Ai
lati della piana, bastioni di granito con segni di fortificazioni, si stagliano
imponenti. Sorrido e percorro quelle linee. Tra i cardi, le
pietre cullano il mio cuore.
Il giorno seguente sono solo. È mattino e mi inerpico oltre
la discarica di Piscina Rei, su per una strada semiasfaltata che abbandona le
lottizzazioni turistiche e giunge in una piana arsa dal sole. Qui, l’unico
segno umano è l’impianto di un acquedotto. Sulla provinciale, un cartello
marrone indica “Nuraghe Scalas”. Lì sono diretto, benché non sia quello che
cerco. Nell’acquedotto, un addetto in tuta blu e maglia a maniche lunghe lavora
sotto il sole. Sudo solo a guardarlo.
«Mi scusi, saprebbe indicarmi il sito archeologico?».
Sorride. Non beffardo.
«Devi tornare indietro di 300 m e lo trovi a destra».
Ringrazio, saluto e parcheggio l’auto sotto l’unico olivastro che ombreggia una pozzanghera verde di erbetta tenera; dominio incontrastato di uno sciame di vespe.
Sono le nove e trenta del mattino e sono attrezzato bene: jeans lunghi, scarpe comode, maglietta bianca, cappello di paglia, zainetto con cartina, macchina fotografica e borraccia.
Giungo dove l’operaio mi ha indicato e trovo un doppio bivio perpendicolare alla strada. A sinistra l’insegna: “Azienda Agricola”; a destra un logoro pezzo di legno reca incisa la parola: “Scalas”. Seguo il sentiero e dopo duecento metri di pietraia un muro sulla destra incornicia una porta, ben serrata da un grosso catenaccio. Niente paura.
I muri, le reti e i catenacci nei siti archeologici sardi e italiani in generale, spesso servono solo a scoraggiare i turisti della domenica. Il muro, del resto, è scavalcabile senza difficoltà, ma oltre vi è solo una distesa di arbusti di lentisco (ben riconoscibili dalle bacche rosse), ginepro, e lunghi cardi secchi dalle grosse spine. Seguo ancora il sentiero e, dopo pochi metri, il muro lascia intravedere tra gli arbusti, alcune file di menhir di medie dimensioni. Sì, ancora menhir.
Del resto, Scalas e Cuili Piras sono solo a pochi chilometri di distanza in linea d’aria. In pratica guardano, opposti, la stessa valle e lo stesso meraviglioso mare, ma qui i campi intorno sono incolti, segnati dai mille sentieri degli ovini al pascolo. Dominio di grandi cardi secchi che ti guardano in faccia.
Del nuraghe Scalas, usato – pare – come antica fonderia dalle genti nuragiche di 3000 anni fa, ormai non rimane praticamente nulla. Ma i menhir, assai più antichi, sono quasi tutti ancora in posizione, nascosti tra gli arbusti spinosi. Ne cerco soprattutto due, riconoscibili per la forte e parallela, inclinazione, dovuta non all’età ma ai calcoli astronomici equinoziali per i quali erano adibiti. Le mie informazioni dicono che hanno caratteristiche di sculture proto-umanizzate.
Grazie alla forte inclinazione li trovo subito, ma lì per lì, guardandoli di lato, non mi dicono granché. Poi mi metto di fronte ed è come se il mio sguardo fosse ricambiato da sguardi privi di occhi. Forme appena sbozzate.
«Che vuoi Lorenzo? Cosa sei venuto a cercare? Lasciaci in pace. Qui non ci sono risposte».
Pietre, spine, salsedine sulle labbra. Il sole comincia a picchiare e bevo.
I menhir anche qui sono tanti, svariate decine, disposti in file precise. Affiorano tra il verde e il giallo di fiori pungenti e profumati.
Raggiungo un altro gruppo di pietre sacre e osservo frontalmente il più grande dei quattro, incorniciato dall’orizzonte lontano dei monti intorno a Cuili Piras, direzione nord. Sotto questo, proprio lungo il suo asse, una pietra infissa, più bassa, mi guarda con un’orbita vuota.
È all’incrocio delle diagonali del quadrilatero che i quattro menhir descrivono. Benché quello a cui sono più vicino, si discosti leggermente, probabilmente a causa di un motivo astronomico che mi sfugge.
Quella pietra-menhir bassa così particolare ha una cosìddetta “coppella”: un incavo semisferico che a volte si nota su queste pietre sacre. Si ipotizza un significato sia astronomico, l’asse con il menhir posto dietro è evidente, sia sacrificale, e forse venivano dipinti di ocra rosso o bagnati con unguenti e sangue degli animali sacrificati affinché la pietra “accogliesse” il sacrifico stesso.
Sale la tachicardia, e non è dovuta al caldo, che al contrario dovrebbe mandare giù la pressione.
Questa cosa non l’avevo letta in nessuna delle informazioni rimediate in giro su questo sperduto luogo. Interrogo le pietre: “Qualcosa da dirmi, alla fine, lo avete. Non ho bisogno di altro”.
Infilo la mano nella coppella e la sento liscia, molto più liscia del resto della pietra. Come certi particolari di alcune statue cristiane che il tocco della devozione umana ha levigato nel corso del tempo.
«Siamo come l’acqua».
Immerso in questi pensieri, l’occhio cade su una pietra posta sulla destra, a poche decine di centimetri dal piccolo Polifemo accecato che sto osservando. È concava come un grosso piatto e cerco, con affanno, di raddrizzarla. Niente da fare. Piccola ma pesantissima. Immagino i sacerdoti e le sacerdotesse prepararvi i sacrifici, gli unguenti, i colori che in parte il menhir con la coppella “mangiava”. Accidenti, il sole inizia a picchiare forte.
Bevo ancora, e inizio a vagare un po’ in trance finché un Suv con a bordo un milanese, con infradito, pantaloncini corti e due figli che sembrano i miei, si materializza. Vorrebbe far vedere il nuraghe ai figli dopo aver visto la segnalazione sulla provinciale. E’ gentile, e suo figlio ha il mio stesso nome. Gli spiego la situazione e lo accompagno per vedere un paio di menhir senza che ci rimettano brandelli di pelle dei piedi e delle gambe. Mi presto volentieri a fargli la foto di rito di fianco alle pietre.
Ringraziano e scompaiono, come sono apparsi. Prima che il sole suggerisca la ritirata, mi rimane il tempo per vagare ancora un po’ e imbattermi in una meravigliosa pianta che ha un fiore bello come lo zafferano, ma sembra una specie di pomodoro selvatico con le spine.
Non ho capito il senso del report,io ho viaggiato parecchio nei paesi della nostra Isola e quando andavo alla ricerca di funghi nella piana di Goni,rimanevo sbalordito nel vedere queste cose,poi ,in seguito,alla diffusione dei media ho capito l'importanza di certe cose che non riuscivo a decifrare.
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