Archeologia. Porti e Approdi della Sardegna Nuragica: Tharros
di Pierluigi Montalbano
Il Padre dell’archeologia sarda, il
Canonico Giovanni Spano, nel 1861, riteneva di identificare il porto di
Tharros, all’interno del golfo di Oristano, tra la Torre Vecchia del Capo San
Marco e l’area urbana, allora non ancora riportata alla luce. Un secolo dopo,
nel 1965, dopo l’avvio nel 1956 degli scavi del centro urbano, il Generale
Giulio Schmiedt, sulla base delle fotografie aeree scattate nel 1957,
ipotizzava l’esistenza di un complesso di banchine portuali sommerso, posto fra
le terme meridionali e quelle settentrionali di Tharros.
Nel 1979 la prima ricognizione
subacquea dei fondali di Tharros, per opera di Luigi Fozzati e di Piero
Bartoloni, cattedratico di archeologia fenicio-punica dell’ateneo sassarese,
identificava una possibile presenza di strutture sommerse presso il Mare Morto,
fra il colle più settentrionale di Tharros (loc. Murru Mannu) e le baracche dei
pescatori. Nel triennio 1984-1987 l’israeliano Elisha Linder, autore di
eccezionali scoperte nel porto di Cesarea, costruito da Erode il Grande,
identificò dei moli frangiflutti, sommersi, in corrispondenza dell’area
compresa fra il battistero paleocristiano tharrense e il colle di Murru Mannu.
Nel 1985 il Fioravanti riteneva probabile una ubicazione del porto in un’antica
area lagunare oggi interrata, a nord di Murru Mannu.
Nel 1999 un volumetto a cura di
Acquaro, Marcolongo, Vangelista, Verga, dal titolo “Il porto buono di Tharros”,
presentava l’ipotesi di una strada di collegamento fra il centro monumentale di
Tharros e il porto, localizzato a nord di Murru Mannu, fra due linee difensive
della città.
Nel 2005 Attilio Mastino, Pier
Giorgio Spanu e Raimondo Zucca, nel volume Mare Sardum, a proposito del porto
antico di Tharros scrivono: “Le indagini geomorfologiche hanno dimostrato
che la palude che si frappone tra il Porto Vecchio e lo stagno di Mistras è il
risultato di un fenomeno dinamico di interrimento, che ha lasciato
testimonianza nei vari cordoni dunari che testimoniano un progressivo
spostamento verso oriente della linea litorale. Si può ricavare l'esistenza di
un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente, a lambire
l'area dell'abitato odierno di San Giovanni di Sinis, successivamente ridotto a
specchio lagunare e ancora a palude”.
L'esistenza di una necropoli fenicia
arcaica nella fascia costiera di San Giovanni, distinta dall'altra necropoli
fenicia di Torre Vecchia, a mezzogiorno dell'abitato punico e romano di
Tharros, potrebbe forse essere posta in rapporto con il centro portuale
tharrense di Porto Vecchio.
L’ipotesi formulata nel libro Mare
Sardum di “un braccio di mare insinuantesi originariamente verso occidente”,
in direzione di San Giovanni di Sinis, ha portato gli studiosi a effettuare
ricerche mirate alla risoluzione del problema. Le foto aeree del Golfo mostrano
uno spazio lunato delimitato dal colle di San Marco e dal promontorio della
Frasca. Sullo sfondo si trovano progressivamente i monti dell’Arcuentu, del
Monte Linas, la piana del Campidano con il baluardo di Monreale e, infine, il
Monte Arci. Un golfo che appare chiuso perché appena 6 miglia nautiche separano
i due capi. Questo golfo può ben prestarsi ad accogliere navi.
L’archeologo Zucca, riporta
testimonianze, soprattutto di età spagnola, relative alla possibilità per
flotte cospicue di stazionare nel Golfo, il cui fondale è sabbioso e non
presenta ostacoli particolari, come secche o scogli affioranti, poiché la
profondità rilevabile oggi è di circa 50 metri. Lo studioso prende in esame i
dati delle correnti e del vento, simili a quelli che dovevano rilevarsi anche
in età antica.
Il vento prevalente è quello da Nord
Ovest, il maestrale, e il Sinis, pur essendo poco riparato perché
prevalentemente pianeggiante, riesce in alcuni tratti a offrire riparo da questo
forte vento. Il ridosso si può ottenere nel settore oggi occupato dalle barche
dei pescatori. Altri venti influenti, anche se meno rilevanti, dall’ostro al
libeccio e al ponente, portano nuvolosità persistente e pioggia, e riescono a
penetrare nel Golfo di Oristano. C’è un gioco di correnti che fa si che il
vento di libeccio sia il più grave per le navi che si trovano alla fonda.
Il Golfo di Oristano non è dunque un
riparo sicurissimo per le navi, comporta dei problemi e si sente la necessità
di attrezzare approdi più riparati per evitarli. La barriera del promontorio
della Frasca offre riparo al libeccio, e l’approdo delle navi è favorito. La
laguna circolare di Santa Giusta è interna, dotata di un canale che la mette in
comunicazione con il fiume Tirso. Ma non sappiamo quando è avvenuto lo
sbarramento della laguna. Zucca afferma che inizialmente era una grande
insenatura interessata dal moto ondoso e dal gioco delle correnti, ma solo la
ricerca interdisciplinare potrà fare chiarezza sulla situazione passata.
Tharros è il porto principale del
Golfo di Oristano, posto a nord con il promontorio di San Marco sormontato
dalla torre di San Giovanni. Zucca indica una serie di punti fermi:
Sa Mistra Manna o cordone dunario di
Su Siccu, che separa il bacino orientale di Mistras dal golfo di Oristano, è
formazione recente, non esistente al tempo di Tharros. In quell’epoca il mare
entrava con le sue ondate, sospinte dai venti del secondo e terzo quadrante (in
particolare scirocco e libeccio), fino a una spiaggia fossile sul versante
orientale della lingua di terra detta Sa Mistraredda. In questa spiaggia
fossile (beach rock) si sono individuati moltissimi materiali archeologici punici
e romani.
La lingua di terra di Sa Mistraredda
era più sottile sul lato occidentale, e si notano due linee di spiagge fossili,
una delle quali, leggibile per circa ottocento metri, restituisce solo
materiali fenici, punici e greci.
Dunque il bacino più occidentale di
Mistras era più esteso, almeno in età cartaginese, e tale bacino dovette
fungere da porto della città di Tharros. Questa ipotesi si basa non solo su
rinvenimenti archeologici ceramici all’interno di questo specchio d’acqua, ma
soprattutto sulla scoperta di un probabile bacino portuale scavato nella
roccia, all’estremità meridionale di Mistras, non lontano da San Giovanni di
Sinis.
Questo porto scavato, secondo Zucca,
potrebbe essere il cothon (secondo la denominazione semitica) di Tharros. Il
bacino si presenta con una fronte rettilinea di 225 m e con un grande molo
lungo 190 m, che lascia un canale di avvicinamento delle navi di circa 50 m. Forse
si tratta di una cava riutilizzata per creare tale bacino, connesso agli assi
viari che, lungo il margine meridionale e occidentale di Mistras, collegavano
Tharros a Othoca e Cornus, mettendo in connessione il territorio destinato alla
cerealicoltura.
Il grano e altre risorse erano
destinate al consumo interno e all’esportazione marittima. Presso San Giovanni
di Sinis, non lontano da questo settore, si è individuato il “Ceramico”, l’area
dove gli artigiani di Tharros producevano vasellame e anfore destinate anche a
contenere le derrate da inviare all’estero.
La ricerca ha infine evidenziato due
grandi argini che s’incontrano ad angolo retto e che servivano il bacino
portuale. Altri argini minori sembrerebbero collegati alla coltivazione di
saline in età antica. Il porto s’interrò progressivamente a causa della grande
quantità di detriti portati a valle dal Tirso, forse già in età altomedievale.
La fine della città di Tharros e il
trasferimento dei tharrensi a Oristano potrebbe mettersi in relazione alla
decadenza del porto e alla ricerca di un nuovo porto, trovato a Torre Grande e
denominato Cuchusio (Cuguzzu). Nel medioevo l’approdo di Capo San Marco va
ricercato nella caletta che distava mezzo miglio (615 metri) dal Capo, mentre
resta da individuare l’approdo a ridosso di una scogliera, all’interno del
golfo, a due miglia dal capo segnalato nel 1520-1521 nel portolano turco di
Piri Reis.
La ricerca è appena agli inizi e solo
future indagini sulle linee di riva, databili con mezzi archeometrici,
consentiranno di definire dettagliatamente la dinamica dei paesaggi costieri di
Tharros, la nascita, la crescita e la morte del primitivo porto.
La città di Tharros, così come si
presentava negli scavi del 1956, condotti da Gennaro Pesce, era limitata tra il
settore di Murru Mannu e la falda orientale del colle della torre di San
Giovanni. La zona è protetta dal vento di maestrale, perciò i primi studi
archeologici erano mirati all’individuazione del porto di Tharros, proprio nel
settore del mare morto (Golfo di Oristano), distinto dal mare vivo, ossia il
Mare Sardo. Si pensava a un centro abitato, monumentalizzato e dotato di porto.
I dati acquisiti dalla ricerca archeologica e dallo studio della morfologia
della costa hanno dimostrato che quella visione era sbagliata.
L’analisi delle foto aeree del sito,
fatte dal generale Schiemdt, di fronte al secondo edificio termale mostrano strutture
che potevano rappresentare i moli del porto. L’indagine è andata avanti, e nel
1985 Fioravanti ha esaminato l’area di Murru Mannu, il colle settentrionale di
Tharros, dove si trova la cortina muraria dell’antica città che ci fa capire la
linea di costa nel periodo cartaginese, circa 2500 anni fa. Lo studioso ritenne
che il porto si trovasse in una insenatura a nord, ai piedi del tofet, in
vicinanza dell’unica via d’accesso naturale a Tharros, che si estende proprio
in quella zona.
L’unica fonte antica che parla del
porto è del 170 d.C. quando il geografo Tolomeo riconosce Tharros lungo il
fianco occidentale della costa sarda. Altre notizie le troviamo in un codice
cinquecentesco della passione di Sant’Efisio in cui il santo è fatto sbarcare
nel Portus Tharrensis, presso la foce di un fiume, forse il Tirso. Successivamente,
nella cartografia medievale e postmedievale è riportato un porto di San Marco,
ma non siamo certi che si tratti proprio del porto della città di Tharros. Oggi
sappiamo che la variazione della linea di costa nella zona di Tharros è stata
notevole, e siamo certi che il porto medievale non sorgeva dove c’era il porto
antico.
La portualità di Tharros risale
almeno al periodo nuragico perché abbiamo documentazione di scambi
internazionali fra nuragici e altri popoli mediterranei. La colonizzazione commerciale
del Sinis nella prima Età del Ferro, ossia intorno al IX a.C., trasforma la
struttura urbana sarda con una diminuzione del numero degli insediamenti e un
aumento della densità abitativa.
I traffici transmarini nel Sinis sono
testimoniati dal mercato ceramico molto florido che durò fino alla prima metà
del VII a.C. Il maestoso nuraghe S’Uraki di San Vero Milis catalizzava i
commerci, ed era collegato con una strada che aggirava le lagune del Golfo e
giungeva a Tharros. Proprio a metà di quel sentiero è stato individuato il
viale funerario nuragico dell’VIII a.C. nel quale giacevano i frammenti dei
giganti di Monte Prama, le più antiche statue in arenaria a tutto tondo
dell’occidente mediterraneo. Lungo questa via i ritrovamenti sono stati cospicui
perché c’erano numerosi piccoli villaggi.
Nel nuraghe edificato a Murru Mannu è
stato trovato un frammento di ceramica micenea del 1400 a.C., sbarcato da una
nave proveniente forse dalla Argolide (Tirinto), a dimostrazione di commerci a
largo raggio. Gennaro Pesce, nel suo libro dedicato a Tharros, si chiedeva come
fosse possibile che i navigli micenei ponessero le ancore a Tharros, ma negli
scavi del 1990 nel nuraghe Arrubiu di Orroli, è stato trovato un contenitore di
profumi (alabastròn) che, insieme al frammento miceneo, sono i reperti più
antichi, di area egea trovati in Sardegna.
Fra i reperti importati, Bernardini
ha trovato un vaso a corpo globulare decorato con un uccello e una pianta,
proveniente forse da Cipro, databile al 900 a.C. Iniziava l’età fenicia ma i
traffici dei sardi erano già floridi e i nuragici gestivano gli approdi. Quando
i fenici arrivano a Tharros trovano una situazione ben avviata commercialmente,
e progressivamente si integrano.
I sardi vivono a Tharros almeno fino
ai primi decenni del VII a.C., ciò è testimoniato dai materiali ritrovati, ad
esempio un bronzetto con rappresentati una coppia di buoi aggiogati che
proviene dalla zona di San Marco.
Nel 1979 Zucca scavò la 25° tomba di
Monte Prama trovando uno scarabeo di produzione levantina, forse cipriota o di
Tiro, che secondo lo studioso Stiglitz è di riutilizzo e che ancora nell’VIII a.C. circolano scarabei (e scaraboidi) di questa classe. Un recente lavoro di Cinzia Olianas lo pone nel Nuovo Regno, ossia nel periodo 1150 - 950 a.C. Evidentemente
nel porto di Tharros, ancora nuragico, arrivavano questi oggetti e arrivò anche
l’idea della statuaria monumentale, una tradizione tipicamente orientale. I
centri nuragici del territorio oristanese, come S’Uraki e Sa Ruda,
restituiscono materiali di ispirazione fenicia realizzati dai nuragici. Zucca
ritiene che la distruzione delle statue di Monte Prama sia avvenuta per mano di
genti che volevano affrancarsi dai nuragici che imponevano pedaggi per l’uso di
un porto che deve essere ancora individuato sul piano topografico. Tuttavia, la
distruzione del sito funerario potrebbe essere avvenuta anche nel corso delle
guerre puniche per opera di Roma.
Nuove ricerche, arricchite da foto
aeree, hanno messo in luce l’allineamento di una gigantesca struttura sommersa.
Quando la portualità era svolta nella zona settentrionale, il cordone non
esisteva ancora. Analizzando gli elementi funzionali alla descrizione delle
fasi dell’evoluzione del porto, Zucca dubita che la Tharros fenicia fosse
autonoma prima del 630 a.C. perché il tofet e le due necropoli, settentrionale
e meridionale, restituiscono materiali che partono da questa data. Ipotizza che
la Tharros fenicia iniziò la sua vita indipendente nella seconda metà del VII
a.C., mentre in precedenza a gestire i traffici erano i nuragici, con
all’interno una comunità fenicia la cui localizzazione è ancora dubbia.
L’area di necropoli fenicia più importane
che conosciamo è settentrionale, e suggerisce che il primitivo insediamento
fenicio fosse nato proprio in corrispondenza dello scalo portuale del settore
di Mistras. Il centro punico, e poi quello romano, sono invece nella zona in
cui ancora oggi possiamo ammirarli. Zucca propone che il porto antico fosse,
invece, nella zona a nord, nel mare vivo.
Nel Golfo di Oristano, quindi nel
mare morto, i cordoni dunali di Sa Mistra Manna e Su Siccu, si sono formati in
successione di tempo. La linea di costa del mare interno ha visto la
costituzione del primo cordone e di nuove linee di riva più avanzate. Le
analisi di archeologia subacquea hanno rivelato che la linea retta lunga circa
150 metri che si nota dalle foto aeree è costituita da blocchi di arenaria
quadrati. Proprio in corrispondenza della linea di riva più antica abbiamo
quindi una struttura che sembra intagliata e, facendo i saggi di scavo sulle
linee di riva fossili, si sono trovati materiali coerenti cronologicamente: in
sequenza gli archeologi hanno trovato i materiali fenici, quelli cartaginesi, e
i materiali romani.
In età punica abbiamo un porto
intagliato e scavato, come a Cartagine e in altri siti. Altri studi propongono
un sistema di portualità di Tharros all’interno della laguna di Mistras, che si
è progressivamente spostata fino all’età romana. Ebbe il suo ruolo principale
in età cartaginese, quando Tharros era probabilmente la capitale della
provincia punica di Sardegna. In età romana il porto aveva un ruolo minore
perché si trovava nella sponda opposta alla costa laziale. Zucca ritiene che
questo dato della variazione della linea di costa, e il progressivo
interrimento del porto punico, sia stato un fattore determinante, ma non
esclusivo, dello spostamento del porto. Probabilmente si aggiunsero decisioni
di carattere politico volute da Roma. Secondo l’archeologo Stiglitz, ciò avvenne
anche a Cagliari: la variazione della linea di costa, con la creazione della
barra di Sa Scafa, decise il destino del porto della Cagliari punica a Santa
Gilla, con il passaggio alla nuova zona della darsena.
Lo scarabeo della tomba 25 non è del viii secolo, ma è uno scarabeo Egizio appartenente al nuovo regno, quindi sicuramente dell'età del bronzo.
RispondiEliminaQuesto fatto è certificato dall'analisi scientifica del reperto, pensavo lo sapesse signor. Montalbano, il reperto è ascrivibile alla produzione del nuovo regno 1550-1050 a.c, come mai le è sfuggito questo dettaglio?
RispondiEliminaNe desumo che l'articolo deve essere vecchio di un pò di anni ma se è così non può modificare quella parte così fuorviante?
tutto sommato l'articolo è molto interessante ma un errore così non può rimanere!
Grazie per la segnalazione. Mi sono affidato alla datazione che conoscevo. Ho letto la recente pubblicazione di Cinzia Olianas e lei parla di un range 1150 - 950 a.C. Ecco il link: http://www.fcsh.unl.pt/~kubaba/KUBABA/k_3_2012_texts/OLIANAS_2012.pdf
RispondiEliminaCaro Luigi
RispondiEliminaPermettimi due chiarimenti uno al tuo testo e l’altro all’intervento di Giacomo Pozza. Io non ho datato lo scaraboide all’VIII sec., ho detto che è di riutilizzo e che ancora nell’VIII sec. circolano scarabei (e scaraboidi) di questa classe. La datazione mia e di Cinzia Olianas è sempre stata concorde e condivisa.
A Giacomo Pozza vorrei chiarire che le indagini “scientifiche”, credo che si riferisca a quelle chimiche, non hanno datato lo scaraboide, visto che non è databile con quelle tecniche. Gli autori si sono semplicemente riferiti al fatto che l’utilizzo della steatite invetriata è prevalente nel Nuovo regno. La datazione è sempre e solamente stata fatta per via tipologica da Cinzia e da me ed è a quella che si riferiscono gli autori dell’articolo sulla natura materiale dello scaraboide. Vorrei anche precisare che nel mio ultimo lavoro, riporto l’opinione di Daphna Ben Tor, un’esperta di glittica di questo periodo che propone una origine cananea e non egizia del motivo decorativo e una possibile localizzazione dell’area di produzione nella striscia di Gaza.
Per il più recente lavoro sullo scaraboide, con tutti i riferimenti precedenti: https://www.academia.edu/10275417/50_2014_Lo_scaraboide_della_tomba_25
Cordialmente
Alfonso Stiglitz
Grazie Alfonso, ho provveduto a correggere.
RispondiEliminaSono d'accordo con Alfonso Stiglitz e Cinzia Olianas per la datazione dello scaraboide, ed anche per l'attribuzione a fabbrica cananea data da Daphna Ben Tor.
RispondiEliminaFino alle sue ricerche si attribuivano sempre all'Egitto tutti gli scarabei e scaraboidi, mentre oggi si sa che c'erano fabbriche non egiziane che copiavano ed esportavano. Io stesso ho uno scaraboide incastonato in oro, frutto di una eredità lontana, in steatite, con falsa iscrizione in geroglifico (messi a caso) e di epoca romano-imperiale, per i seguaci di Iside probabilmente.
Buon lavoro questo sulla storia delle ricerche del porto, anzi dei porti tharrensi, anche se con qualche piccola imprecisione
Mi permetto di segnalare un errore circa il nome del generale dell'IGM, che si chiamava Giulio Schmiedt e non Schiemdt, lo conobbi personalmente a Firenze ed ho i suoi lavori, l'Atlante delle sedi umane in Italia (1967), Il livello antico del Mar Tirreno (1972) e Antichi porti d'Italia (1975). Il primo è un opera in due volumi in folio che oggi sul web costa dagli 800 ai 1550 euro a seconda dello stato, ma anche gli altri non scherzano.
Grazie Mario, con queste informazioni mi aiutate.
EliminaMa il fatto che sia di riutilizzo e databile al VIII secolo a.c è una sua ipotesi, signor Stiglitz e la ipotesi che sia di produzione Cananea non mi sembra più probabile di quella che l'oggetto sia ascrivibile alla produzione del nuovo regno, poi perchè VIII secolo a.c se le ossa dell'inumato sono ben più antiche? da quello che sò poi quelli rinvenuti a Tiro sono in osso quindi di diverso materiale, personalmente non mi convince come ipotesi e credo che il signor Montalbano dovrebbe riportare più punti di vista.
RispondiEliminaGentile Giacomo
RispondiEliminaLo scaraboide lo abbiamo datato (Cinzia Olianas e io) al 1130 e il 945 a.C. (in termini di cronologia convenzionale e non calibrata) su basi iconografiche per i confronti con gli esemplari rinvenuti in oriente. Che sia di riutilizzo, se mi consente, non è una mia opinione, ma si basa sull’analisi attenta del pezzo dal vero, che presenta un foro passante e due placchette alle estremità che servivano per il suo inserimento in un castone metallico; mentre il defunto di M. Prama lo portava in collana.
Che si tratti di una tipologia iconografica cananea di lontana ascendenza dal secondo periodo intermedio (la cosidetta epoca Hyksos) è affermato e discusso dalla maggiore esperta di quel tipo di produzioni Dapha Ben-Tor ai cui lavori la rinvio (i riferimenti e il prototipo del secondo periodo intermedio lo trova nel mio articolo di cui ho citato il link).
Quanto all’VIII sec. (ribadisco che non è la datazione che io ho proposto per lo scaraboide) tenga presente che è una cronologia convenzionale (con metodo archeologico) mentre quelle a cui fa riferimento lei sono con il C14 calibrato; due sistemi di cronologia che non possono essere accostati, se non tenendo conto del divario esistente tra i due (e delle discussioni in merito che coinvolgono gli studiosi dell’intero Mediterraneo). Personalmente rimango dell’idea che il fenomeno M. Prama rientri nella fase culturale nota con il termine (convenzionale e per molti versi inadeguato) di “geometrico”, lo ipotizzava già Lilliu e lo confermano le cronologie assolute (sia di tipo convenzionale, con una forbice IX-VIII, che calibrato, con una forbice fine X-IX sec.). Quello che è importante, quando utilizziamo una cronologia assoluta, è che ci atteniamo sempre allo stesso metodo nel comparare due contesti, o solo cronologia convenzionale o solo cronologia calibrata, mescolare i due comporta un grave errore metodologico.
Cordialmente
Alfonso Stiglitz
P.S. Non capisco cosa ci sia di male nell'eventualità che sia cananeo invece che egizio.
Niente di male (anche se faccio una sospensione di giudizio), solo sono molto confuso perchè su praticamente ogni reperto "esotico" rinvenuto in contesto Nuragico leggo sempre due posizioni contrastanti, mi interessa sentire entrambe le campane per questo visito diversi blog, siti e fonti e la ringrazio per avermi risposto.
RispondiElimina