sabato 31 gennaio 2015

L'espansionismo dei sardi nuragici nel Mare Mediterraneo Occidentale (versione aggiornata)

L'espansionismo dei sardi nuragici nel Mare Mediterraneo Occidentale (versione aggiornata)
di Massimo Pittau


La peregrina e perfino strana tesi dei nuraghi interpretati come “castelli” e “fortezze” per mezzo secolo ha impedito che in Sardegna si intravedesse una sia pure pallida idea di che cosa sia stata effettivamente la “civiltà nuragica”, sia rispetto alla sua caratteristica interna o civile e culturale, sia rispetto a una sua eventuale politica esterna di espansione fuori dell'isola.
Si consideri che, rispetto a queste due prospettive, interna ed esterna, se si accettava come valida la tesi dei nuraghi intesi come “castelli” e “fortezze”, si era costretti a concepire la Sardegna come un immenso “campo trincerato”, guarnito e difeso da circa 7 mila fortilizi, cioè da una immensa quantità di fortificazioni, che probabilmente il “Vallo Atlantico” messo su da Hitler nella II guerra mondiale contro il previsto sbarco degli Anglo-Americani in Europa, non riusciva a equiparare. E dietro il “Vallo Mediterraneo” messo su dai Sardi Nuragici contro le eventuali invasioni dei nemici esterni, essi se ne stavano continuamente intanati nei “castelli” e nelle “fortezze” in attesa del “nemico che viene dal mare”, oppure vivevano in una perpetua guerra fratricida tra una tribù e l'altra, combattuta nei e dai rispettivi nuraghi.
Invece in realtà il nuraghe non era altro che l'“edificio pubblico cerimoniale” per eccellenza di ogni tribù o di ogni piccolo insediamento umano, edificio entro e attorno al quale si svolgevano tutte le funzioni principali che scandivano la vita degli abitanti: cerimonie e riti di nascita, della pubertà, dei matrimoni, di incubazione, di vaticinio e di oracolo, stipula di contratti e di patti, rimedi contro le calamità naturali, rimedi contro le malattie degli uomini e delle bestie, riti e cerimonie per la morte degli abitanti. In effetti il nuraghe corrispondeva insieme e contemporaneamente alle odierne “casa comunale” e “chiesa parrocchiale” di ogni centro urbano, edificio entro e attorno al quale si svolgevano - in perfetta sintonia laico-religiosa, come avveniva dappertutto in quei secoli - tutte le citate funzioni comunitarie.
Caduta e ormai quasi del tutto abbandonata la tesi della destinazione militare dei nuraghi, adesso finalmente siamo in grado di mostrare e dimostrare che invece una loro “politica esterna od estera” i Sardi Nuragici l'hanno indubbiamente attuata e addirittura nella forma di un “espansionismo” esplicato a 360 gradi in tutte le terre del Mediterraneo occidentale che circondavano la Sardegna. Appunto procediamo adesso a mostrare in quali terre si è svolto questo “espansionismo nuragico” e lo facciamo secondo le linee di un movimento che risulterà essere circolare o a raggiera.
Premettiamo che d'ora in avanti i Nuragici o Sardi Nuragici li chiameremo anche Sardiani in virtù della loro origine dalla Lidia, nell'Asia Minore o Anatolia, dalla cui capitale Sárd(e)is avevano derivato il loro nome. E li chiameremo anche Tirreni o Tirseni, che significava «costruttori di torri» (týrrhis, týrsis «torre») e tali erano in primo e principale modo per l'appunto i Nuragici, mentre

venerdì 30 gennaio 2015

Archeologia. Vino, scoperto in Sardegna il vitigno più antico del Mediterraneo occidentale

Vino, scoperto in Sardegna il vitigno più antico del Mediterraneo occidentale
di Monica Rubino

Semi di vernaccia e malvasia risalenti al 1000 a.C. ritrovati nella cisterna di un nuraghe nelle vicinanze di Cabras. La prova del carbonio 14 effettuata dal Centro conservazione biodiversità dell'Università di Cagliari conferma la datazione e fa ritenere che la coltura della vite nell'Isola fosse conosciuta sin dall'età del bronzo.
Il ritrovamento degli archeosemi di vite è avvenuto nell'Oristanese da parte dell'équipe del Centro Conservazione Biodiversità dell'Università di Cagliari 
Una scoperta che riscrive la storia della viticultura dell'intero Mediterraneo occidentale. A farla gli studiosi dell'Università di Cagliari. L'équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), guidata dal professor Gianluigi Bacchetta, ha rinvenuto semi di vite di epoca Nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa, e  ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono. 
Sino a oggi, infatti, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che frequentarono l'isola attorno all'800 a.C., e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticoltura in Sardegna era già conosciuta, quindi ebbe un'origine locale e non fu importata dall'Oriente. A supporto di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili parentele tra le diverse specie di vitigni.
 

Nel sito nuragico di Sa Osa, nel territorio di Cabras, nell'Oristanese, nei pressi della necropoli monumentale nuragica di Monte Prama, la squadra di archeobotanici ha trovato oltre 15.000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a una cisterna che manteneva freschi gli alimenti. "Si tratta di vinaccioli non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli reperibili da acini raccolti da piante odierne, spiega Bacchetta. Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati dal 1300 al 1100 a. C., età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica.
 

Gli archeosemi ritrovati e analizzati sono quelli della Vernaccia e della Malvasia, varietà a bacca bianca coltivate proprio nelle aree centro-occidentali della Sardegna. Più che un fenomeno di importazione da parte dei fenici, in Sardegna si sarebbe verificata una domesticazione in loco di specie di vite selvatiche, che ancora oggi sono diffuse ampiamente in

giovedì 29 gennaio 2015

Musica e danza fra i fenici nel Vicino Oriente e fra i punici in Occidente

Musica e danza fra i fenici nel Vicino Oriente e fra i punici in Occidente
di Anna Chiara Fariselli











Dalle più antiche fasi della civiltà fenicia in contesto siro-palestinese alle più tarde espressioni di quella punica nel Mediterraneo occidentale, la musica sembra esercitare un ruolo assai significativo rispetto a diversi momenti della vita pubblica. A fronte della scarse e poco puntuali informazioni ricavabili dalle fonti letterarie antiche, è il versante delle immagini, rintracciabili su vari supporti materiali, a fornire molteplici indizi in merito. Piccole orchestre, formate per lo più da personaggi femminili, solo raramente integrate da suonatori, documentano su manufatti eburnei e coppe metalliche la consuetudine dell’utilizzo di lire, timpani o cimbali e oboi. Spesso coinvolti in processioni e teorie che includono talora soggetti danzanti, i musici riprodotti sulle manifatture di provenienza orientale dovevano rappresentare una componente essenziale per il corretto svolgimento di cerimonie e liturgie connesse all’apparato regale.
Il re o la coppia sovrana, in alcuni casi manifestamente sostituiti da alter ego divini, sono i principali destinatari delle performance degli orchestrali, in grado di sottolinearne le vittorie militari, allietarne i banchetti festosi, accompagnarne i rituali di offerta e le attività

mercoledì 28 gennaio 2015

Videocorso di archeologia, settima lezione: I nuraghi a corridoio e il Sistema Onnis.

Videocorso di archeologia, settima lezione: I nuraghi a corridoio e il Sistema Onnis.



Università di Quartu Sant'Elena
Riprese di Fabrizio Cannas
Relatore Pierluigi Montalbano

In questa settima lezione si parla dell'insediamento di gruppi di famiglie nei territori che offrivano caratteristiche di vivibilità grazie alla presenza dell'acqua e di terre coltivabili. Si propone, inoltre, una teoria sul posizionamento dei nuraghi a corridoio e sulle varie funzioni ad essi attribuibili.

Il corso dell'anno accademico 2014/2015 si svolge nell'aula magna dell'Università di Quartu Sant'Elena, ogni martedì alle ore 17.00, in Viale Colombo 169.
Con la collaborazione dell'istituto, del videomaker Fabrizio Cannas e del docente, Pierluigi Montalbano, saranno offerte sul canale Youtube tutte le lezioni di archeologia previste nel programma. L'accesso è libero e gratuito.
I lettori sono invitati a proporre suggerimenti per migliorare la fruibilità o altre caratteristiche.
Se qualcuno fosse interessato a collaborare, ad esempio inserendo i sottotitoli in inglese, sarebbe il benvenuto. Per visionare le lezioni è sufficiente cliccare sui link sotto.
Buon ascolto e buona visione.


7° Lezione: I nuraghi a corridoio e il Sistema Onnis

6° Lezione: L'alba della Civiltà Nuragica

5° Lezione: Le Domus de Janas e il culto dei defunti


4° Lezione: Dall'età della pietra all'età dei metalli

3° Lezione: Le prime civiltà del Mediterraneo


2° Lezione: scavo, stratigrafia, fonti e materiali

martedì 27 gennaio 2015

Nuragici, cartaginesi, focesi e la battaglia del Mare Sardo

Nuragici, cartaginesi, focesi e la battaglia del Mare Sardo
di Rolando Berretta



Un piccolo evento si era svolto ai tempi di Ciro il Grande (559-530).
Paolo Orosio Historiarum adversus paganos libri septem IV 6 6/7:
“Itaque Carthaginienses...sicut Pompeius Trogus et Iustinus fatentur... cum in Sicilia diu infeliciter dimicassent , traslato in Sardiniam bello iterum infelicius victi sunt. Propter quod ducem suum Mazeum et paucos qui superfluerant milites exulare iusserunt ».
Senza perderci in discorsi dotti possiamo dire che i Cartaginesi, comandati da Mazeo, provarono a sbarcare in quel di Mozia, dove erano state edificate delle mura che risalgono alla metà del VI a.C. Gli abitanti si aspettavano un attacco da parte di Cartagine?
In seguito, Mazeo provò nuovamente con la Sardegna ma fu di nuovo sconfitto. Escludiamo subito che fosse il padre di Cartalone perché, dopo due sconfitte, non aveva nessun bottino da mandare a Tiro. Evitiamo di confonderlo con quel Malco che

lunedì 26 gennaio 2015

Archeologia. La Sardegna e la Grecia nel Bronzo del II Millennio a.C.

Archeologia. La Sardegna e la Grecia nel Bronzo del II Milennio a.C.
di Riccardo Locci


In Sardegna e in Grecia, nel II Millennio a.C. si nota l’impiego di soluzioni architettoniche condivise. Fra queste, la diffusione delle camere di raccolta idrica circolari. I passaggi a luce ogivale delle riserve idriche a Tirinto e Micene e dei probabili ponti micenei, invece, trovano confronti nel XIII secolo a.C. nel mondo ittita e nuragico. A contatti fra le due aree in esame, infine, sembra ricondurre la copertura ad architravi digradanti nelle scalinate dei pozzi egei e dei templi dell’acqua nuragici.
1. La circolarità e la tholos negli edifici dell’acqua
Con il termine “edificio dell’acqua” si denota un manufatto incentrato su una camera di raccolta voltata o ipetrale, atta a convogliare l’acqua di vena, sorgiva o celeste. Tale genia di monumenti è, come noto, caratteristica della Sardegna nuragica, e presenta una diffusione ben definita geograficamente e cronologicamente nel continente e nelle isole greche. Non mancano, inoltre, testimonianze architettoniche affini e coeve nelle altre regioni mediterranee, a completare un quadro d’insieme ampio e complesso quanto confuso e disarticolato, nel quale è arduo isolare gli elementi architettonici utili a delineare i tratti essenziali del fenomeno. Fra questi possiamo annoverare la circolarità della camera di raccolta e la volta a tholos o a forma tendenzialmente emisferica, soluzioni architettoniche che sembrano essere, in associazione o meno, una tradizione costruttiva diffusamente attestata negli edifici dell’acqua mediterranei. Tale tematica, analizzata in particolare negli studi di P. Belli (1990; 1992; 1996), suscita numerose suggestioni, le quali difficilmente trovano conferma o falsificazione nel dato archeologico, poiché le informazioni che quest’ultimo ci fornisce sono spesso troppo frammentarie e non ancorate a dati stratigrafici certi.

domenica 25 gennaio 2015

Sodoma e Gomorra distrutte da un asteroide? Sulla mitica città una palla di fuoco equivalente a quattro bombe atomiche.

Sodoma e Gomorra distrutte da un asteroide? Sulla mitica città una palla di fuoco equivalente a quattro bombe atomiche.


Con tutte le cautele del caso, vi propongo oggi un articolo che ho "pescato" sul web. Personalmente sono scettico, ma la ricerca in questione dovrebbe essere vagliata da una commissione scientifica per verificare se è plausibile.

Una tavoletta svelerebbe il segreto: fu un asteroide a distruggere Sodoma e Gomorra, o almeno a dare origine alla storia biblica che riguarda le due città punite per i comportamenti sessuali disinibiti degli abitanti. Com’è noto, alcuni di loro minacciarono gli angeli del Signore mandati ad ammonirli, poi passarono a vie di fatto fracassando l’ingresso della casa di Lot, l’unico uomo giusto che aveva accolto i messaggeri. L’impresa non riuscì, e la punizione celeste si abbatté come un maglio, spianando col fuoco le due città e gli altri tre centri che costituivano la Pentapoli. Forse non ricostruiremo mai i fatti realmente accaduti, ma ora la spaventosa scena avrebbe una data precisa nel nostro calendario: il 29 giugno 3123 a.C., poco prima dell’alba.
L’hanno calcolata due scienziati inglesi, Alan Bond (membro di un centro ricerche di Abingdon) e Mark Hempsell, dell’Università di Bristol, che hanno tradotto una tavoletta sumera conservata al British Museum. I risultati delle loro ricerche sono stati pubblicati nel libro “A sumerian observation of the Köfels's impact event” (Un’osservazione sumera dell’impatto su Köfels).
Köfels è una località dell’Austria, dove un’intera montagna fu spianata dall’impatto di un asteroide. Secondo i due studiosi Köfels avrebbe uno stretto rapporto con Sodoma e Gomorra. Proprio decifrando la tavoletta (una copia risalente al 700 a.C.) hanno stabilito che il testo racconta la descrizione del cielo fatta da un astronomo sumero. I due scienziati hanno ricostruito la mappa del cielo come appariva nella notte fatale quando le genti di quei luoghi videro un grande oggetto luminoso che attraversava l’atmosfera a folle velocità, da est a ovest.
Era diretto a Köfels, e innescò un’apocalittica carambola di catastrofi. Secondo questa ricostruzione  l’asteroide, una gigantesca palla infuocata, si disintegrò sulla montagna austriaca. L’enorme potenza liberata fece rimbalzare un pennacchio di fuoco che risalì verso il margine dell’atmosfera per poi rientrare verso il Vicino Oriente e scaricare sulla Pentapoli qualcosa come l’equivalente di quattro bombe atomiche ad altissimo potenziale.



Immagine di http://www.aprenderebom.com.br/

sabato 24 gennaio 2015

Fenici e Punici in Sardegna, di Paolo Bernardini

Fenici e Punici in Sardegna 
di Paolo Bernardini



























Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).

Fenici e Punici in Sardegna


La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume

venerdì 23 gennaio 2015

Archeologia. La lente di Nimrud: parte di un telescopio antico o sfera di cristallo per vedere il futuro?

Archeologia. La lente di Nimrud: parte di un telescopio antico o sfera di cristallo per vedere il futuro?
di Pierluigi Montalbano

La Lente di Nimrud, oggi conservata al British Museum, è un pezzo di cristallo di rocca molato scavato da Austen Henry Layard nel 1850 nel complesso del palazzo di Nimrud, nell'Iraq settentrionale. La sua funzione più probabile è  quella di lente d'ingrandimento. Gli artigiani assiri creavano complesse incisioni, e potrebbero aver utilizzato questa lente nei loro lavori. C'è una discussione in corso fra gli accademici sulla natura della Lente di Nimrud poiché una piccola minoranza, sostenuta dallo studioso Giovanni Pettinato, la propone come prova dell'esistenza di antichi telescopi, che potrebbero spiegare la grande accuratezza dell'astronomia assira, ma gli specialisti di archeologia assira dubitano che una tale lente avesse una qualità ottica sufficiente per un uso di tipo astronomico. Gli antichi Assiri affermavano che il pianeta Saturno fosse circondato da un anello di serpenti; Pettinato vede in questo una delle prove che gli anelli di Saturno furono osservati attraverso un telescopio. Altri studiosi ribattono però che la figura del serpente ricorre spesso nella mitologia assira e che non esiste menzione alcuna di un oggetto simile a un telescopio negli scritti di astronomia assira.
Nimrud divenne capitale dell’Assiria nell’880 a.C. per opera di re Assurnasirpal, e tale rimase fino al 706 a.C. allorchè Sargon II riportò la capitale a Ninive. Inizialmente si pensò a una lente utilizzata per accendere fuochi sfruttando la luce solare, ma poi si aggiunse l’ipotesi di una lente di ingrandimento parte di uno strumento astronomico creato 3000 anni fa. L’oggetto dispone di superfici convesse, di forma lievemente ovale, con dimensioni di 35×4 1 mm, per uno spessore di circa 6 millimetri, e ha una lunghezza focale di circa 10 cm.
David Brewer pensò che uno strumento di ingrandimento sarebbe stato utile per la stesura e la lettura delle minuscole incisioni cuneiformi sulle tavolette di argilla usate dagli scribi assiri. Anche un impiego come accendino solare  è una ipotesi plausibile, e non sarebbe il primo caso nella storia: nell’antichità venivano usati perfino frammenti di ghiaccio per innescare piccoli fuochi, sfruttando il loro effetto lente per concentrare i raggi solari su un mucchietto di erba secca o di ramoscelli.
Se queste due ipotesi risultano essere accettabili per l’archeologia ufficiale, molto più difficile e problematico da accettare è invece il possibile utilizzo della lente per la costruzione di uno strumento astronomico. Il professor Giovanni Pettinato (1934-2011) pone tuttavia la seguente obiezione: com’è possibile che gli Assiri abbiano descritto il pianeta Saturno come un dio circondato da un anello di serpenti? Saturno è infatti visibile, pur con difficoltà, a occhio nudo sulla volta celeste nelle limpide notti che in quei tempi non erano ancora turbate dall’inquinamento visivo dei giorni nostri. E’ visibile solo come un puntino luminoso indistinguibile dalle stelle che lo circondano, e solo l’osservazione con un telescopio permette di far notare la serie di anelli che avvolgono il gigante gassoso.
Gli studiosi del mondo mesopotamico tuttavia negano che tale descrizione di Saturno rappresenti una prova di tale eventualità, sostengono che gli Assiri vedevano serpenti dappertutto (dato il significato simbolico-mistico connesso all’immagine del serpente) e, soprattutto, nelle tavolette di argilla ritrovate e tradotte non si farebbe cenno ad alcuno strumento astronomico.
Nell’antichità si utilizzavano rudimentali strumenti astronomici, quali ad esempio tubi di legno o di carta utilizzati per ridurre la luminosità delle stelle circostanti, ma la qualità di questo cristallo non è adeguata perché la rifrazione della luce è imprecisa e sono presenti almeno due fuochi, il più luminoso dei quali è osservabile a una distanza di circa 11 centimetri. L’analisi al microscopio ha inoltre rivelato che la molatura della lente è rozza, con numerosi graffi che ne diminuiscono notevolmente la trasparenza. Altri studiosi propongono che la lente fosse usata come strumento divinatorio, cioè come le attuali sfere di cristallo che, per chi ci crede, forniscono indicazioni sul passato, sul presente e sul futuro. 

giovedì 22 gennaio 2015

Videocorso di archeologia, sesta lezione: L'alba della Civiltà Nuragica

Videocorso di archeologia, sesta lezione: L'alba della Civiltà Nuragica



Università di Quartu Sant'Elena
Riprese di Fabrizio Cannas
Relatore Pierluigi Montalbano

In questa sesta lezione si affronta un nodo cruciale della storia della Sardegna preistorica, ossia la fusione fra genti di Monte Claro, residenti nell'isola, e gruppi di cercatori di metallo provenienti prevalentemente dalla penisola iberica, portatori della cultura beaker (vaso campaniforme). Queste genti sono facilmente distinguibili attraverso il corredo funerario composto da punte di freccia, brassard, ornamenti in avorio (denti e conchiglie), bicchieri in ceramica (beaker) e scheletro possente (brachimorfo), differente da quello dolicomorfo delle culture precedenti. Si tratta di un fenomeno culturale che caratterizza gran parte dell'Europa e trova le sue manifestazioni più monumentali nell'utilizzo dei dolmen come camere funerarie. Queste sepolture megalitiche, realizzate dalle culture precedenti, accolgono anche i nuovi arrivati e suggeriscono un'integrazione pacifica con i locali, dettata forse dall'interesse suscitato da questi prospector del metallo lucente (il rame).   Attraverso le coste iberiche orientali e il ponte delle isole Baleari, le genti del vaso campaniforme giungono nella Sardegna nord occidentale e nel sito di Monte Baranta (nella zona di Alghero/Olmedo) intrecciano relazioni con i locali, con benefici reciproci oggi visibili nella possente muraglia che caratterizza il promontorio che domina sul golfo. Proprio in questo luogo si possono ammirare i primi corridoi passanti che saranno la matrice di quei primi tentativi di edificazione di strutture monumentali che oggi conosciamo con il nome di nuraghi a corridoio.

Il corso dell'anno accademico 2014/2015 si svolge nell'aula magna dell'Università di Quartu Sant'Elena, ogni martedì alle ore 17.00, in Viale Colombo 169.
Con la collaborazione dell'istituto, del videomaker Fabrizio Cannas e del docente, Pierluigi Montalbano, saranno offerte sul canale Youtube tutte le lezioni di archeologia previste nel programma. L'accesso è libero e gratuito.
I lettori sono invitati a proporre suggerimenti per migliorare la fruibilità o altre caratteristiche.
Se qualcuno fosse interessato a collaborare, ad esempio inserendo i sottotitoli in inglese, sarebbe il benvenuto. Per visionare le lezioni è sufficiente cliccare sui link sotto.
Buon ascolto e buona visione.


6° Lezione: L'alba della Civiltà Nuragica

5° Lezione: Le Domus de Janas e il culto dei defunti


4° Lezione: Dall'età della pietra all'età dei metalli

3° Lezione: Le prime civiltà del Mediterraneo


2° Lezione: scavo, stratigrafia, fonti e materiali

mercoledì 21 gennaio 2015

Archeologia. L'evoluzione parallela di linguaggio e tecnologia

Archeologia. L'evoluzione parallela di linguaggio e tecnologia

La produzione delle schegge di pietra che i nostri antichi antenati usavano come lame ha favorito lo sviluppo del linguaggio. A dimostrarlo è uno studio sperimentale sull'efficienza di diverse modalità di trasmissione culturale delle tecniche di scheggiatura per produrre quegli strumenti.
Capacità tecnologiche e linguaggio si sono coevoluti nel corso di un lungo processo iniziato fra i nostri antenati 2,5 milioni di anni fa, durante il periodo Olduvaiano, e acceleratosi circa 1,7 milioni di anni fa, agli inizi del periodo Acheuleano. E' la conclusione di un gruppo di ricercatori dell'Università di St. Andrews, in Gran Bretagna, dell'University College di Londra e del Max Planck Intitut per l'antropologia evoluzionistica di Lipsia, autori del più vasto studio sperimentale mai condotto sulla trasmissione culturale nell'età della pietra, descritto in un articolo su “Nature Communications.
Osservare un altro che lavora non basta a imparare bene la tecnica che usa. Prodotti probabilmente da Homo abilis (ma forse anche da Australopithecus garhi), gli strumenti litici olduvaiani sono i più antichi che si conoscano e sono costituiti da schegge e ciottoli taglienti (chopper) ottenuti dalla percussione di due pietre. La loro struttura è poco elaborata, ma si può notare la scelta del materiale adatto e l'intenzionalità delle operazioni che li hanno prodotti.
Questo tipo di scheggiatura rimase invariato per circa 700.000 anni, e fu poi

martedì 20 gennaio 2015

Linguistica e lingua sarda. Castro e castrare, di Massimo Pittau

Linguistica. Castro e castrare
di Massimo Pittau


Nella varietà logudorese della lingua sarda è molto usato l'appellativo castru, crastu, gastru, grastu coi significati di «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione». Esso compare molto di frequente nella toponimia col significato prevalente di «macigno, roccia, roccione».
Max Leopold Wagner, nel suo Dizionario Etimologico Sardo (DES I 316) ha fatto derivare l'appellativo sardo dal lat. castrum «luogo fortificato» (diminutivo castellum «castello»; suff. -ell-; Norme 5). Senonché egli non si è accorto, nel prospettare la sua tesi, di una grossa difficoltà: lo sviluppo semantico «ciottolo, sasso macigno roccia rocca roccaforte castello luogo fortificato» è senz'altro concepibile, quello inverso è del tutto inverosimile.
Il Thesaurus Linguae Latinae (ThLL) presenta l'appellativo latino come di "origine dubbia" e il Dizionario Etimologico Italiano (DEI 801) come "probabilmemte mediterraneo".
A parere dello scrivente il lat. castrum è derivato dalla lingua etrusca, nella quale infatti esistono sia il gentilizio CASTRECE, al quale corrisponde chiaramente il gentilizio lat. Castricius, documentato in Sardegna (CIL X 7808, 7885, Sardinia), sia il lessema CASTRU (ThLE²). Questo potrebbe significare «castrone», adoperato come soprannome (cognomen; e infatti esisteva il gentilizio lat. Castronius e il cognomen Castricus; RNG) (alternanza e/i; suff. -on-/-ů; Norme 1, 7).
Sempre a parere dello scrivente il sardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocca, roccia, roccione» non può derivare dal corrispondente latino, a causa della suddetta grande difficoltà semantica, ma è un vocabolo protosardo o paleosardo, che risale cioè alla lingua che parlavano gli antichi Sardi Nuragici, prima della loro latinizzazione linguistica, effetto della conquista romana dell'isola.
La conferma viene da questa serie di toponimi che sono chiaramente protosardi, come dimostrano i vari suffissi e suffissoidi da cui sono caratterizzati: nuraghe Castrachesu (Cuglieri), Casturre (Ovodda), Crastaduresu (Bono), Crastadulesu (identico) e Crastorra (Orotelli), Crastalói (Sarule), Crastanile (Dualchi).
A. Ernout e A. Meillet, autori del Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine (DELL, IV édit., IV tirage, Paris 1985) hanno mostrato di non trovare alcuna difficoltà a connettere l'appellativo lat. castrum «luogo fortificato, castello» col verbo castrare «castrare, tagliare i testicoli a un animale e pure all'uomo»; e ciò hanno fatto con il richiamo e con la connessione al sanscrito çastrám «coltello». Sta però di fatto che questa connessione non abbia convinto – come abbiamo già visto – gli autori dei ThLL e DEI.
Per parte mia faccio notare che il salto semantico dal significato di «tagliare» a quello di «luogo fortificato» nel latino e soprattutto a quello sardo di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è eccessivo, non è condivisibile e pertanto va respinto.
Nel sardo castru il significato di «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione» è una singolarità linguistica, la quale trova riscontro in un'altra singolarità e pure arcaicità, questa etnografica: nelle zone appartate della Sardegna fino a un secolo fa circa la castrazione degli animali non si effettuava affatto col “taglio” dei testicoli, ma si effettuava col loro “schiacciamento” effettuato con “sassi” (uno grosso faceva da incudine e uno piccolo faceva da “martello”; con quale sofferenza per i poveri animali noi maschi umani possiamo facilmente immaginare!). Anticamente a Nùoro il dare un colpo i testicoli di un individuo si diceva tirare una crastada.
Ebbene, con tali arcaicità, una linguistica e l'altra etnografica, documentate in quella terra fortemente conservatrice che è la Sardegna, siamo in grado di riscotruire la esatta trafila semantica e linguistica dei vocaboli e dei fatti citati: protosardo castru «ciottolo, sasso, macigno, rocc(i)a, roccione», etr.-lat. castrum «luogo fortificato, castello», castra «accampamenti»; castrare «schiacciare i testicoli coi sassi».

  





lunedì 19 gennaio 2015

Dallo spazio la scoperta archeologica del secolo: i satelliti scoprono un secondo Egitto sepolto da 3000 anni.

Dallo spazio la scoperta archeologica del secolo: i satelliti scoprono un secondo Egitto sepolto da 3000 anni.
di Roberto Mattei

Un team diretto dall’egittologa Sarah Parcak, assistente presso la University of Alabama a Birmingham, scopre un tesoro inestimabile da secoli sprofondato nelle aride sabbie egiziane: più di 1000 tombe, 3100 insediamenti, 17 piramidi e intere reti stradali.
Una scoperta incredibile che ha fatto saltare dalla sedia i ricercatori della University of Alabama a Birmingham quando, Sarah Parcak, professoressa e assistente egittologa presso il prestigioso ateneo statunitense, ha mostrato ai loro occhi estasiati e quasi increduli, le immagini satellitari all’infrarosso di immensi tesori nascosti sotto il suolo egiziano. E invece, quel deserto di sabbia arido e rovente sul quale nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo, celava più di 1000 tombe, 3100 antichi insediamenti e, udite, udite, ben 17 piramidi! Nel corso dei secoli, le strutture erano sprofondate tra strati di limo e sabbia, un terreno incapace di sorreggere il peso dei materiali di costruzione con cui tali opere erano state realizzate. La ricerca, finanziata dalla BBC, la più grande e autorevole società radiotelevisiva del Regno Unito,  ha visto al lavoro un’equipe di studiosi guidati dalla Parcak che, per più di un anno, ha scandagliato in lungo e largo la repubblica araba con l’ausilio di satelliti geostazionari termografici, forniti in comodato d’uso dalla NASA e da alcuni partner commerciali. Si tratta di veicoli orbitanti muniti di termo-camere a tecnologia infrarossi, posizionati a 700 chilometri dalla superficie terrestre, in grado di valutare la temperatura di un corpo senza entrarvi in contatto, ma semplicemente sfruttando la sua caratteristica di emettere radiazione infrarossa. Il principio è semplice. Qualsiasi corpo con una temperatura maggiore dello zero assoluto (-273,14°C), emette energia sotto forma di radiazione elettromagnetica nelle frequenze dell’infrarosso, non visibili dall’occhio umano. Lo strumento in grado di convertire l’energia emessa da questi corpi in un segnale digitale è la termo-camera. La “visione dell’energia” rivelata dall’apparecchiatura viene rappresentata da un’immagine, ottenuta abbinando una scala di temperature a una palette di colori. L’insieme dei punti che rappresentano la temperatura superficiale del soggetto fotografato, da luogo a una mappatura termica. L’elevato grado di precisione della differenza di temperatura tra punto e punto, in genere di 0.05°C, permette, tramite elaborazione software, di ottenere preziose informazioni sul mondo invisibile che ci circonda. Non appena è stata effettuata la scoperta, la dottoressa Parcak non ha perso tempo: ha preso il telefono e ha informato Zari Hawass, il ministro egiziano per le antichità di Stato, concordando con lui le operazioni preliminari a conferma del ritrovamento. Sul posto, sono stati subito inviati degli escavatori e un team di archeologi francesi per assistere agli scavi. Poi, quando a Tanis sono venuti alla luce i primi contorni di un’abitazione sepolta dalla sabbia da più di 3000 anni, l’euforia è stata grande, con grida di gioia e applausi che si levavano al cielo da parte di tutti gli addetti ai lavori. Poco dopo, da Saqqara, la vasta necropoli situata 30 chilometri a sud del Cairo, un’altra conferma che attestava la presenza di due piramidi laddove il satellite aveva fatto click. L’aria di festa che si respirava in quel frangente sembrava non dovesse più finire. L’interpretazione dell’analisi termografica effettuata dai ricercatori non solo era perfetta ma apriva la porta allo sviluppo di nuove tecnologie nel campo dell’archeologia.
Piena di entusiasmo, la Parcak si è lasciata andare ai microfoni della BBC: «non potevo credere che avremmo trovato così tanti siti in tutto l’Egitto. Rinvenire una piramide è sempre stato il sogno di ogni archeologo. A Tanis, il sito archeologico reso famoso dal film di Steven Spilelberg “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta”, è stata rinvenuta un’antica rete stradale e abitazioni completamente invisibili da terra. Questa tecnologia apre senz’altro la strada a nuove scoperte per gli anni a venire. Sono entusiasta per la mia generazione e per quelle future. Ce n’è abbastanza per le prossime 50 generazioni».
Per tutti i curiosi e gli appassionati al mondo dell’archeologia, infine, una bella notizia: tutte le scoperte fatte dalla professoressa Sarah Parcak sono state raccolte in un documentario della BBC intitolato “Egitto lost cities” (Egitto paese perduto) trasmesso nel Regno Unito, in anteprima mondiale su BBC One e BBC one HD.  Ecco il link: http://www.bbc.co.uk/programmes/b011pwms


English
From space the archaeological discovery of the century: the satellites discovered a second Egypt buried for 3,000 years.
From space the archaeological discovery of the century: the satellites discovered a second Egypt buried for 3,000 years.
of Roberto Mattei

A team led dall'egittologa Sarah Parcak, an assistant at the University of Alabama at Birmingham, discovers a priceless treasure for centuries collapsed in the arid sands of Egypt more than 1,000 tombs, 3100 settlements, 17 pyramids and entire road networks.
An incredible discovery that blasted from the chair

domenica 18 gennaio 2015

Archeologia. Scoperta una ricca sepoltura del 2000 a.C. contenente oro e un sacrificio umano.

Archeologia. Scoperta una ricca sepoltura del 2000 a.C. contenente oro e un sacrificio umano.

In Georgia, nel Caucaso meridionale, è stata scoperta un'antica sepoltura contenente carri, manufatti in oro e resti di un probabile sacrificio umano. La sepoltura apparterrebbe ad un capo guerriero e risale a circa 4000 anni fa, a quella che gli archeologi chiamano prima Età del Bronzo.
La sepoltura, in legno, di quest'antico capo giace all'interno di una camera sepolcrale chiamata kurgan, a forma di monticello, alta 12 metri. All'interno del kurgan vi erano i resti di due carri, ciascuno con quattro ruote in legno, vasi in argilla e in legno, punte di freccia in selce ed ossidiana, tessuti e manufatti in pelle, una sorta di trono in legno, perle di corniola ed ambra e ben 23 manufatti in oro, tra i quali alcuni rari gioielli artigianali.

La tomba, purtroppo, era stata già saccheggiata in epoca antica e conteneva, oltre ai resti del capo guerriero anche quelli di altre sette persone, forse membri della sua famiglia, schiavi o servi sacrificati alla morte del loro padrone. Poiché la sepoltura risale ad un periodo precedente all'addomesticamento dei cavalli, gli archeologi ritengono che i carri ritrovati in essa fossero trainati da buoi. Altre ricche sepolture in kurgan sono state ritrovate nel Caucaso meridionale.
La comparsa di queste ricche tombe sembra essere collegata alle interazioni esistenti tra le popolazioni nomadi delle steppe euroasiatiche e le comunità agricole all'interno e nei pressi del Caucaso meridionale. Queste interazioni hanno portato alcuni individui, soprattutto gli esponenti più in vista delle comunità, a costruirsi tombe fastose.

sabato 17 gennaio 2015

Archeologia. Trovata un’ascia preistorica integra

Trovata un’ascia preistorica integra


Gli archeologi in Danimarca hanno effettuato una rara scoperta: un’ascia dell’Età della pietra con ancora il suo manico di legno intatto.
L’ascia neolitica di 5.500 anni è stata trovata durante gli scavi archeologici precedenti alla costruzione di un grande tunnel: il Collegamento Fisso Fehmarn Belt, che costerà miliardi di euro e unirà l’isola danese di Lolland con l’isola tedesca di Fehmarn.
L’ascia si trovava in posizione verticale dentro il fondale marino, forse come parte di un’offerta rituale.

La mancanza di ossigeno nel terreno argilloso ha aiutato la conservazione del manico di legno. Il ritrovamento è stato effettuato sull’isola danese di Lolland.
“Trovare un’ascia col manico così preservato è piuttosto emozionante”, dice Soren Anker Sorensen, archeologo presso il Museo di Lolland-Falster in Danimarca.
Gli scavi archeologici hanno portato alla luce altro materiale organico, anch’esso in buone condizioni. Tra i reperti vi sono dei paletti di legno eretti, una pala, archi e altri manici di ascie.
Le ascie erano strumenti vitali per le persone dell’Età della pietra, che le usavano per lavorare il legno. Furono anche importanti durante l’introduzione dell’agricoltura in Europa, quando la maggioranza della terra era coperta da dense foreste.

Durante gli scavi, gli archeologi avevano già scoperte delle orme di 5.000 anni fa nei pressi della cittadina di Rodbyhavn.

Fonte: www.ilfattostorico.com




venerdì 16 gennaio 2015

Offerte commerciali. Auto della settimana nell'autosalone di Cagliari

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Gli indoeuropei nell'antica Cina

Gli indoeuropei nell'antica Cina 
di Giovanni Monastra



Nel terzo libro del suo famoso Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, pubblicato negli anni cinquanta del secolo scorso, Arthur de Gobineau, descrivendo i flussi migratori dei popoli indoeuropei in Oriente, rileva che "verso l'anno 177 a.C. si notano numerose nazioni bianche dai capelli biondi o rossi e gli occhi azzurri, acquartierate sulle frontiere occidentali della Cina. Gli scrittori del Celeste Impero ai quali dobbiamo la conoscenza di questo fatto nominano cinque di queste nazioni.
Le due più celebri sono gli Yüeh-chi e i Wu-suen. Questi due popoli abitavano a nord dello Hwang-ho, al confine col deserto del Gobi...cosicché il Celeste Impero possedeva, all'interno delle province del sud, nazioni ariane-indù immigrate all'inizio della sua storia" (Nota 1).
Il de Gobineau traeva le sue informazioni dagli studi di Ritter (Erdkunde, Asien) e von Humbolt (Asie centrale), che si basavano sugli annali cinesi della dinastia Han, iniziata nel 206 a.C. Di fatto oggi sappiamo che già nel IV secolo a.C. le documentazioni storiche del Celeste Impero parlavano di popoli biondi, dallo spirito guerriero, presenti nelle zone di confine, in quello che oggi si chiama Turkestan cinese o Xinjiang (Cina occidentale).

A parere del de Gobineau questi fatti indicavano la potenza espansiva e, implicitamente, civilizzatrice, delle popolazioni "bianche". Ma, al di là delle interpretazioni unilaterali e talora inaccettabili dello studioso francese, quasi nessuno prese in considerazione il significato che tale informazione avrebbe potuto rivestire per tracciare una storia della cultura e delle influenze culturali dal profilo meno banale e lineare di quella in voga nell'Ottocento.
Piuttosto si tendeva a essere increduli sulla attendibilità degli annali, in base ai pervicaci pregiudizi eurocentrici, secondo cui i popoli di colore sarebbero bambini fantasiosi, privi di concretezza storica. Inoltre non si poteva verificare la presenza di tali popolazioni "bianche": ammesso che fossero esistite, per quel che se ne sapeva erano da tempo scomparse nel mare delle preponderanti popolazioni gialle circostanti. Quell'area geografica, una volta attraversata dalla "leggendaria via della seta", e ormai da tempo diventata in gran parte deserto, risultava quasi inaccessibile agli europei per cui erano improponibili eventuali studi archeologici seri e approfonditi.
Come sottolinea Colin Renfrew, ben noto per

giovedì 15 gennaio 2015

Videocorso di archeologia, quinta lezione: Le Domus De Janas e il culto dei defunti

Videocorso di archeologia, quinta lezione: Le Domus De Janas e il culto dei defunti



Università di Quartu Sant'Elena
Riprese di Fabrizio Cannas
Relatore Pierluigi Montalbano

Il corso dell'anno accademico 2014/2015 si svolge nell'aula magna dell'Università di Quartu Sant'Elena, ogni martedì alle ore 17.00, in Viale Colombo 169.
Con la collaborazione dell'istituto, del videomaker Fabrizio Cannas e del docente, Pierluigi Montalbano, saranno offerte sul canale Youtube tutte le lezioni di archeologia previste nel programma. L'accesso è libero e gratuito.
I lettori sono invitati a proporre suggerimenti per migliorare la fruibilità o altre caratteristiche.
Se qualcuno fosse interessato a collaborare, ad esempio inserendo i sottotitoli in inglese, sarebbe il benvenuto. Per visionare le lezioni è sufficiente cliccare sui link sotto.
Buon ascolto e buona visione.

2° Lezione: scavo, stratigrafia, fonti e materiali

3° Lezione: Le prime civiltà del Mediterraneo

4° Lezione: Dall'età della pietra all'età dei metalli

5° Lezione: Le Domus de Janas e il culto dei defunti

mercoledì 14 gennaio 2015

Gli Illiri e la loro denominazione, di Massimo Pittau

Gli Illiri e la loro denominazione
di Massimo Pittau


Gli Illiri erano un antico popolo, composto di parecchie tribù, che dalla metà del primo millennio avanti Cristo viveva lungo le coste della Penisola Balcanica prospicienti al Mare Adriatico, dall'Istria all'Albania.
Siccome le testimonianze antiche di questo popolo sono molto poche e brevi, la ricostruzione, anche semplicemente a grandi linee, della sua storia è molto controversa. E pure molto controversa è la questione della “lingua illirica”, dato che di essa abbiamo solamente alcune glosse tramandateci da autori greci e latini e inoltre alcuni reperti onomastici, cioè antroponimi e toponimi. Sembra però quasi certo che la lingua illirica appartenesse alla famiglia delle “lingue indoeuropee” e che in conseguenza anche il popolo illirico appartanesse alla famiglia dei popoli indoeuropei.
Questo mio breve studio ha un esclusivo carattere linguistico, ma non investe per nulla la questione della “lingua illirica”, mentre si limita al tentativo di prospettare una spiegazione plausibile dell'etnico “Illiri”: è possibile chiarire che cosa effettivamente significasse in origine “Illiri”? A me sembra che sia senz'altro possibile e inoltre con notevole grado di verosimiglianza.
In Toscana esiste il fitonimo édera, il quale può derivare direttamente dal lat. hedera (Hedera helix L.). Questo finora risulta di origine ignota (DELL, DEI, GDLI, DELI², NPRA). In Toscana, però, e anche in altre zone centro-settentrionali della Penisola italiana, esiste la variante èllera ed èllora (REW 4092). Ed esiste pure in Corsica come éddara, lénnora, al quale corrisponde

martedì 13 gennaio 2015

Corso di archeologia: Riprendono le lezioni con le Domus De Janas

Corso di archeologia: Riprendono le lezioni con le Domus De Janas.

Oggi, martedì 13 Gennaio 2015, alle ore 17.00, nell’aula magna dell’Università di Quartu, in Viale Colombo 169, riprenderà il corso di archeologia strutturato in 25 lezioni. La quinta lezione avrà come tema il culto dei defunti e le domus de Janas, gli edifici preistorici realizzati in Sardegna 5000 anni fa. I video delle prime lezioni sono visibili ai seguenti link:





Per centinaia di migliaia di anni l’uomo si è evoluto lentamente: sopravviveva cacciando e accumulando provviste. Poi, al termine dell’ultima glaciazione, l’evoluzione subisce una brusca accelerata. Nel corso degli ultimi 10 millenni, l’uomo passa dall’Età della Pietra allo sbarco sulla Luna. Che cosa causò un cambiamento così radicale delle abitudini di vita? Andare sulla Luna non è stato un avvenimento che ha cambiato il nostro modo di vivere. La scintilla che determinò l’evoluzione è stata l’idea di coltivare la terra per produrre alimenti. Si è passati a un’economia produttiva. L’agricoltura ha permesso all’uomo di diventare stanziale, di sviluppare relazioni sociali, ideare le religioni e costruire templi e città. Senza dover cacciare per nutrirsi, l’uomo aveva il tempo per pensare, inventare e uscire dall’Età della Pietra. La Turchia, da sempre, è il ponte che collega l’Europa e l’Asia, e si trova nel cuore della Mezzaluna Fertile, una regione che comprende gli attuali Egitto, Israele, Siria e Iraq. Qui sorsero i primi insediamenti umani, e fiorirono le prime grandi civiltà. Gli edifici dedicati al culto contengono, generalmente, rappresentazioni simboliche di divinità. Animali e altri simboli sono presenti su pareti, pavimenti, pilastri e altri elementi architettonici, e possono essere scolpiti, incisi o, semplicemente, dipinti. La costruzione di questi edifici richiedeva un’organizzazione sofisticata: spaccare e trasportare le pietre, scavare, realizzare le fondamenta, ed erano necessari tanti uomini. A quale scopo furono costruiti?
I primi templi presentano un portale che rappresenta l’ingresso al mondo ultraterreno, come se il tempio avesse a che fare con i morti o con le divinità del cielo. La mancanza di simboli, rilievi o incisioni, aumenta le difficoltà per gli archeologi di interpretare i siti. A volte i simboli sono compresi solo presso le comunità che li realizzano, e ciò pone problemi agli studiosi di storia antica, poiché si ha a che fare con edifici costruiti nei millenni scorsi. Ogni luogo di culto ha un’iconologia che è compresa solo da chi la frequenta. Lo scopo delle immagini è di unire la congregazione in una fede comune, condivisa con i rituali a essa legati. Le immagini, i colori, le funzioni e gli elementi architettonici sono spesso incomprensibili a chi pratica altre fedi.
All’inizio i popoli vivevano di caccia e di raccolta, e condividevano il cibo all’interno di piccoli gruppi, prevalentemente familiari. In seguito divennero stanziali, nacquero più bambini e le comunità crebbero rapidamente. A quel punto ogni comunità dovette imparare a rapportarsi e a vivere in pace. Queste situazioni richiesero l’applicazione di un codice morale, e convinzioni comuni. I templi sono progetti di costruzione condivisi, che mantengono la coesione fra comunità, anche all’interno della stessa. Allo stesso tempo consentono di celebrare riti che richiamano la comunità all’unità di pensiero. Chi vuole far parte di una comunità deve comportarsi secondo

lunedì 12 gennaio 2015

Offerte commerciali. Auto della settimana

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