Il latino dei primi secoli (IX-VII a.C.) e l'etrusco (Giovanni Rapelli)
di Massimo Pittau
È un fatto certo e anche abbastanza noto che gli Etruschi hanno contribuito in maniera enorme al processo di incivilimento delle popolazioni dell’Italia antica, in senso civico, economico, tecnico, culturale ed artistico. Sia sufficiente ricordare che essi hanno insegnato a tutte le popolazioni dell’Italia, escluse quelle della Magna Grecia e della Sicilia, l’uso di quello strumento importantissimo di diffusione della cultura che è la scrittura. Ma gli Etruschi nella loro storia non sono stati affatto fortunati; in effetti essi sono stati travolti da quel poderoso strumento di guerra e di conquista che fu l’esercito di Roma, cioè proprio di quella città che molto probabilmente essi avevano proceduto a fondare come nucleo urbano. Di fronte alla conquista dei Romani, prima militare e dopo politica, la civiltà degli Etruschi si estinse e si estinse del tutto, nei primi tempi dell’Impero, anche l’uso e la conoscenza della lingua etrusca.
Ma gli Etruschi e soprattutto la loro lingua non sono stati fortunati neppure in epoca moderna, soprattutto in Italia, ossia nella terra e nella nazione in cui si era affermata quella splendida civiltà. Per colpa della potente scuola archeologica italiana, la lingua etrusca è stata boicottata per piú di mezzo secolo. Questa scuola infatti proclamò ed impose quasi un diktat, sostanziato nella frase e nella considerazione che «la lingua etrusca non è comparabile con nessun’altra lingua».
Ed è stata, questa, una frase e una considerazione che in pratica imponeva ai linguisti di non entrare nel tema della lingua etrusca, a restarne fuori del tutto. È infatti certo che il primo e principale strumento e metodo di ricerca della glottologia o linguistica storica è proprio la “comparazione”, ragion per cui l’invito e l’imposizione effettuata dagli archeologi italiani a “non comparare” la lingua etrusca con nessun’altra nella pratica effettiva consisteva nell’escludere del tutto i linguisti o glottologi dall’interessarsi di questa lingua. E questa finí nelle mani esclusive e gelose degli archeologi, i quali praticamente hanno bloccato lo studio dell’etrusco per piú di mezzo secolo.
E per ovvia conseguenza è avvenuto che i linguisti che non si sono adattati a sottostare al diktat della potente casta degli archeologi sono stati da questi isolati e boicottati, mai invitati a partecipare ai loro congressi, a scrivere nelle loro riviste e perfino ostacolati nelle loro pubblicazioni proposte alle varie case editrici.
Gli archeologi hanno invece accolto e coccolato i linguisti che hanno accettato il pronunciamento della “lingua etrusca non comparabile con nessun’altra” e a questi hanno assegnato relazioni nei loro congressi, accettato studi nelle riviste di archeologia e perfino interi libri, nei quali essi hanno parlato a lungo della lingua etrusca, senza però quasi mai dire nulla di nuovo su di essa.
Poi si sono cimentati proprio gli archeologi a scrivere sulla lingua etrusca ed alcuni di loro hanno perfino composto e pubblicato manualetti, sui quali è senz’altro mortificante sapere che centinaia di allievi delle Università italiane apprendono sulla lingua etrusca autentiche banalità.
Insomma, per colpa degli archeologi italiani l’ultimo mezzo secolo è passato senza che lo studio e la conoscenza della lingua etrusca facesse qualche importante passo in avanti.
Giovanni Rapelli è uno di quei linguisti italiani che non hanno accettato il pronunciamento della “lingua etrusca non comparabile con nessun’altra” ed invece ha esercitato sempre e con grande cura la “comparazione” dell’etrusco con numerose altre lingue antiche, soprattutto quelle documentate nell’Anatolia od Asia Minore. E ciò ha fatto anche perché — come numerosi altri storici e linguisti — ha sempre accettato come vera la tesi del padre della storiografia occidentale, Erodoto, della trasmigrazione degli Etruschi dall’Asia Minore in Italia.
Giovanni Rapelli ha cominciato con lo studio intenso ed approfondito della lingua dei Reti, ottenendo senz’altro risultati almeno discreti; ma poi ha allargato la sua attenzione e il suo studio alla lingua etrusca, soprattutto nei suoi rapporti con altre lingue dell’Italia antica.
Nella “comparazione dell’etrusco con altre lingue”, mandata avanti dal Rapelli, mi sembra di dover segnalare i seguenti procedimenti di studio e di lavoro: I) Grandissima cura ed insistenza nello stabilire raffronti di vocaboli, sia raffronti fonetici sia quelli semantici; II) Piena consapevolezza e decisione nel rifiutare raffronti da lui giudicati errati, anche se effettuati da altri linguisti pure di chiara fama; III) Grande onestà di studioso nel rinunziare a sue tesi personali, alla fine respinte perché risultate errate. Potrebbero sembrare, questi dello studioso Rapelli, procedimenti del tutto ovvi in uno scienziato, ma io mi sento di doverli sottolineare, posto che si constata non di rado che questi procedimenti vengono disertati da altri linguisti, i quali invece si lanciano in vedute di ampio respiro, talvolta però di scarsa consistenza scientifica.
I principali risultati ottenuti dal Rapelli e proposti nella sua presente opera mi sembrano che siano questi tre: I) Aver dimostrato che la lingua originaria latina era molto povera sul piano lessicale ed essa si è arricchita parecchio in virtú dei numerosi apporti ricevuti dalla lingua etrusca. II) Aver ampiamente dimostrato che la lingua latina è stata influenzata da quella etrusca non solamente sul piano lessicale, ma anche su quello fonologico. III) Aver ampiamente dimostrato che la lingua etrusca ha influenzato parecchio, sia sul piano lessicale sia su quello fonologico, anche la lingua dei Sabini e quella degli Umbri. E, mentre per la prima questione dell’influsso lessicale dell’etrusco sul latino il Rapelli è stato anticipato dallo scrivente, per l’influsso lessicale e fonologico sul sabino e sull’umbro il Rapelli è stato in assoluto il primo e finora unico studioso.
Su quest’ultimo fatto è importante precisare che, mentre fino al presente, la lingua umbra delle Tavole Igubine veniva usata per tentare di spiegare la lingua etrusca, d’ora in avanti gli studiosi dovranno invertire la direzione di studio: fare gli opportuni approcci alla lingua delle Tavole Igubine procedendo dalla lingua etrusca, cioè da quanto ormai sicuramente conosciamo su questa non piú del tutto sconosciuta lingua antica.
Per tutte queste importanti ragioni a me sembra di poter concludere che la presente opera di Giovanni Rapelli sui rapporti fra la lingua etrusca da una parte e quelle latina, sabina ed umbra dall’altra, costituisce una importante e imprescindibile tappa negli studi sulle lingue dell’Italia antica.
È una circostanza ovvia che io non condivida tutte le tesi dell’amico Giovanni Rapelli, ed è ugualmente ovvio che egli non condivida tutte le mie. In particolare a me sembra che alcuni accostamenti o raffronti etimologici fra vocaboli di differenti lingue siano talvolta troppo allentati e perciò azzardati, per cui io li avrei tralasciati in un mio scritto. Ma il Rapelli si è saputo difendere rispondendomi in maniera sensata, anche se non del tutto convincente, che anche altre volte raffronti e accostamenti etimologici che all’inizio apparivano troppo allentati e aleatori, alla lunga sono risultati essere stringenti ed esatti. Ed io auguro di cuore che questo avvenga anche per tutte le ipotesi qui prospettate dall’egregio amico e collega.
Franco Bernardini:
RispondiEliminaArticolo molto interessante. Non sono un esperto in materia, ma foneticamente ho sempre avuto la sensazione che i dialetti toscani includano un primo strato etrusco ( la C aspirata ne è una spia) e altri dialetti circostanti (laziale-umbro) abbiano avuto contributi importanti, lo stesso latino conserva e tramanda termini etruschi. L'Arno e il Tevere, credo, siano stati un limes linguistico, costituendo un'isola ben distinta da altri idiomi italici. Mentre la scrittura etrusca andò oltre i confini della Tuscia antica...vedi iscrizioni presenti in Lunigiana su alcune statue stele più tarde e in tutta la penisola fino alle Alpi.
Franco Bernardini:
RispondiEliminaLa gorgia toscana è un fenomeno fonetico che caratterizza, in modo più o meno pronunciato, i dialetti toscani.
Più precisamente, la gorgia riguarda le consonanti occlusive sorde (scempie) /k/ /t/ e /p/, che passano a fricative (o, più precisamente, approssimanti) in posizione postvocalica (e in assenza di raddoppiamento sintagmatico). Molti usano ancora il termine spirantizzazione.
[k] → [h]
[t] → [θ]
[p] → [ɸ]
[g] → [ɣ]
Un esempio: la parola identificare /identifiˈkare/ verrà pronunciata [iˌdentifiˈhaːre] e non [iˌdentifiˈkaːre]. La gorgia è bloccata dal raddoppiamento sintagmatico: /akˈkasa, komekˈkɔrvi, parlerakˈkarlo; dakˈkapo/ (a casa, come corvi, parlerà Carlo, da capo/daccapo). La sequenza [hh] è inesistente nei dialetti italiani.
La consonante che subisce il cambiamento più evidente è /k/, il cui indebolimento è diventato il simbolo più importante dei dialetti parlati in Toscana. In alcune zone della Toscana occidentale arriva al dileguo totale [«zero»]). La /t/ e la /p/ subiscono un cambiamento meno diffuso nel territorio toscano settentrionale.
La gorgia è un fenomeno fonetico, cioè di semplice accento regionale. Non è un fatto fonologico, perché non coinvolge i suoni a livello di sistema: il fiorentino non ha meno consonanti dell'italiano neutro (anzi, ha esattamente gli stessi fonemi dell'italiano). È errato pensare che la /k/ sparisca in fiorentino, dunque è errato scrivere un apostrofo in grafia dialettale, come per indicare che sia caduta la /k/, o la /t/, in tutti casi in cui venga invece pronunciata una [h]. Nei casi delle altre consonanti affette dalla gorgia, /t/ → [θ] e /p/ → [ɸ], è sconsigliabile tentare di rappresentarne la pronuncia, se non in IPA. In grafia dialettale, si dovrà scrivere semplicemente "capitani" per [kaɸiˈθaːni].
In sillaba accentata, [k p t] preceduti da un'altra consonante possono realizzarsi come (veri) aspirati [kʰ pʰ tʰ], specie se il contoide è lo stesso, es. [apˈpʰun:to] (appunto), [akˈkʰa:sa] (a casa, con raddoppiamento sintagmatico dovuto alla preposizione 'a(d)').
Il fenomeno si presenta più evidente nella città di Firenze. Di qui, passando nella alta valle toscana dell'Arno, perde forza con l'avvicinarsi alla costa. In area costiera la gorgia influisce raramente su /p/ ed è più debole anche su /t/. La spirantizzazione di /k/ rappresenta invece un continuum linguistico per tutta la valle dell'Arno, nella città di Prato, Pistoia, Lucca, Pisa, Livorno e dintorni e in Versilia. Il confine settentrionale del fenomeno è rappresentato dagli Appennini, mentre il confine meridionale è per lo più indistinto. Tassativamente presente in area senese, ancora forte a San Quirico d'Orcia, tende a scemare nei dialetti toscani più meridionali, come l'aretino, dove il fenomeno è presente come realizzazione minoritaria. Ad Est il fenomeno è presente in alternanza con realizzazioni occlusive piene [k t p] e forme lenite (semi-sonorizzate) nel Casentino (Poppi, Bibbiena, Subbiano), occorre saltuariamente persino ben oltre il Pratomagno (e.g. Pieve Santo Stefano), e si estende più a sud in Valdichiana. Nota di costume: in passato la gorgia è stata combattuta e corretta perché considerata un “vizio” volgare dai toscani stessi.
Franco Bernardini:
RispondiEliminaDue sono le principali ipotesi in discussione:
la gorgia toscana sarebbe un fenomeno derivante dal sostrato etrusco. Si tratterebbe di un adattamento della fonetica propria della lingua etrusca al volgare latino ed al latino tardo, soprattutto ecclesiastico, che si evolverà poi nel toscano e nell'italiano. In Toscana l'etrusco con i suoi dialetti, soprattutto nelle campagne, rimase lingua madre almeno fino alla fine del II secolo d.C.,[1] seppure corrotto dalla lunga convivenza con il latino che veniva imparato come seconda lingua. Successivamente le forme etrusche furono sempre più abbandonate e sostituite da quelle latine, ma l'antica pronuncia lasciò traccia nelle famose “aspirate toscane”. Principali esponenti di questa ipotesi sono Merlo, Agostiniani, Alinei, Durante, Maestrelli, Pellegrini, Pittau, ed altri.
la gorgia toscana sarebbe una compensazione strutturale dovuta a un'intervenuta mancanza di opposizione - anche in posizione iniziale - tra [k] e [g], (ad esempio nella coppia callo - gallo, pr. ['gallo]).[2] Principali esponenti di questa ipotesi sono Rohlfs, Cravens, Fiorelli, Franceschi ed altri.