La cucina in archeologia: Ricettario, i prodotti degli
orti di Pompei.
In vista delle prossime festività natalizie, ho pensato di regalare alle amiche lettrici una serie di ricette antiche da collaudare per pranzi e cene diversi dal solito. Buona lettura.
Se confrontiamo i reperti
trovati nelle aree archeologiche vesuviane con l’elenco di cibi e bevande
riportati nella letteratura classica in particolare di quanti hanno scritto
ricette, non riusciamo a distinguere in maniera chiara tra alimenti, condimenti
e medicinali.
L’olio,
la farina e il vino, così come il succo di limone, la salvia o il rosmarino,
che compaiono quotidianamente sulle nostre tavole in epoca romana erano
presenti anche nelle farmacie di casa, talora unicamente come piante
medicinali. Costituivano, cioè, gli ingredienti impiegati dai profumieri e dai
farmacisti per preparare farmaci e/o cosmetici.
Piante
e resine aromatiche venivano, ad esempio, messe a macerare in olio di oliva, il
più prezioso ottenuto da olive ancora verdi, o nel vino, in alcuni casi
ricavato anche da grappoli d’ uva immaturi, utilizzando tecniche di lavorazione
comuni sia alla medicina che alla cosmesi,così che molto spesso il produttore
era unico.
La
tradizione di usare piante alimentari per curare malattie si è protratta del
resto nel tempo, tanto da essere ancora viva nella medicina popolare dei nostri
nonni e talora si è conservata intatta fino ai nostri giorni: per combattere la
nausea, ad esempio, ancora oggi si consiglia di mangiare una fetta di limone o
di bere un infuso di alloro.
Seppure
in misura minore anche i prodotti di origine animale erano usati con diversa
valenza. I pesci ed i molluschi, ad esempio, servivano a curare le più diverse
malattie: la parotite con la cenere dei murici, la malaria con il fegati di
delfino e così via.
Lo
stesso garum, la nota salsa di pesce ottenuta dalla fermentazione sotto sale
delle parti di scarto del cosiddetto pesce azzurro, era considerato un
medicamento utile a guarire le ustioni, le ulcere, i morsi dei cani e
soprattutto dei coccodrilli (sic!).
Nelle
nostre tradizioni popolari , del resto, ancora fino a qualche decennio fa il
ricostituente ideale per i ragazzi era considerato l’ olio di fegato di
merluzzo.
Questa
commistione tra cibo e medicina del resto perdura nelle comunità primitive o in
quelle tanto povere da non poter accedere all’acquisto di medicinali.
Leggendo
quindi le antiche ricette e confrontandole con quelle attuali talvolta si
rimane sorpresi per l’ uso di ingredienti, che appaiono lontanissimi dalle
nostre abitudini alimentari altre volte invece per la straordinarie continuità.
Se
i baccelli di fave e di piselli venivano ancora consumati sessanta anni fa in
tempo di guerra, appare invece impossibile che si possa mangiare quel fieno
greco o quella farina di ghiande che Apicio considerava prelibatezze.
Di
contro, la salagione dei prosciutti così come descritta da Columella, le grandi
forme di formaggio che Plinio descrive come prodotti caseari tipici dell’
attuale Emilia, i filetti di tonno conservati sotto sale e affumicati
realizzati dai pescatori calabresi e siciliani (è sempre Plinio a raccontarlo),
e lo stesso garum che in una forma molto simile è ancora prodotto dai pescatori
di Cetara, appaiono chiaramente all’origine di prodotti considerati tipici
della tradizione culinaria italiana.
Appare
quindi interessante mettere a confronto ricette distanti duemila anni per
registrare convergenze e divergenze in fatto di ingredienti e di gusto.
Gli ingredienti:
Nella
cucina degli antichi, e in particolare in quella del bacino del Mediterraneo,
prevaleva l’ uso dei prodotti vegetali che erano alla base sia delle pietanze
che delle tecniche conservative, come il pepe.
Nella
disanima degli ingredienti utilizzati nelle diverse ricette, per completezza di
informazione non possono, però, essere ignorati gli ingredienti di origine
animale.
I prodotti di origine vegetale
I cereali
e i legumi.
I cereali costituiscono una notevole fonte di energia
per l’ organismo: di ciò erano ben consapevoli gli antichi, che in tutte le
culture li posero alla base della loro alimentazione.
Lo
sviluppo della civiltà occidentale, in particolare di quella mediterranea, lo
si deve essenzialmente ai cereali, alla vite e all’olivo.
Il
loro uso fu però altrettanto importante in farmacia e in cosmesi tanto che ad
esso Ippocrate dedicò, ad esempio, un intero libro: gli effetti medici erano
ottenuti ingerendo le cosiddette “farinate”, bevendo decotti, o per contatto,
preparando con essi diversi tipi di cataplasmi.
Se
mettiamo a confronto i diversi autori classici, che hanno trattato di cucina in
un arco di poco più di due secoli, notiamo come l’ evoluzione nella coltura dei
cereali fu determinante nel cambiamento delle abitudini alimentari.
Ai
tempi di Columella prevaleva la coltivazione del farro, un frumento, cioè ,
“vestito”: per ricavarne farina bisognava prima tostare le cariossidi per
liberarle dalle reste e ciò costava tempo e fatica.
L’
orzo concorreva non poco nell’alimentazione, ma se scoppiava qualche carestia
non veniva disdegnato il miglio e la farina ottenuta dalle ghiande.
Ai
tempi di Columella e di Apicio, le varietà di frumento si erano moltiplicate
ela coltura del farro era progressivamente abbandonata a favore dei frumenti
“nudi”, che non richiedevano penose operazioni di scortecciamento. Di questi,
inoltre, si conoscevano varietà tenere e dure, che si prestavano ad usi
diversi: il frumento tenero, ad esempio, lievitava più facilmente e si prestava
meglio agli usi di pasticceria.
Una
conseguenza di ciò fu la diffusione sempre maggiore diffusione dei forni di
tipo”industriale” , dove si potevano acquistare pane e dolci.
Tra
i cereali erano considerate anche le leguminose, coltivate su ampi spazi: ceci,
lenticchie, piselli, fave, il cosiddetto “fagiolo dall’occhio”, cicerchie, che
venivano ridotte in farina o consumate cotte in zuppa.
Le
verdure.
Sia Columella che Plinio nelle loro opere descrivono
le piante che non dovevano mancare nell’ orto, in quanto utili per la tavola,
per la farmacia di casa, per i riti domestici.
Quelle
che essi enumerano sono di gran lunga più numerose di quelle citate da Catone,
a testimonianza ancora una volta del diffondersi di nuove specie.
Molte
delle piante aromatiche oggi comunemente usate in cucina, nel mondo antico
erano utilizzate prevalentemente come piante medicinali e/ o essenze da
profumi, ad esempio il basilico, la maggiorana o il timo, mentre altre, come il
cerfoglio o la santoreggia, erano solo condimentarie.
Ai
nostri giorni vengono riconosciuti l’ azione antisettica del timo e gli effetti
benefici dell’ aglio sulla pressione alta . La ruta è utilizzata non più come
pianta condimentaria, ma per aromatizzare grappe e liquori.
Sulla
tavola degli antichi Pompeiani comparivano i cavoli, le lattughe, la rucola, la
cicoria, i cardi, il crescione, il coriandolo, il cerfoglio, l’ aneto, le
carote, il sedano, l’ aglio, le cipolle, il papavero, l’agretto, la ruta, la
bietola, il porro, le rape, i navoni, l’origano, la santoreggia, l’ indivia, il
basilico, gli asparagi, la menta, la zucca, i cocomeri, i cetrioli, il rafano,
la malva per citare quelle a noi quelle più familiari.
Cominciavano
, inoltre, a diffondersi ortaggi coltivati in serra, come i cetrioli cari a
Tiberio, o di selezione, come gli asparagi: La natura aveva creato gli asparagi di
bosco, in modo che chiunque potesse raccoglierli qua e là dove spuntavano: ecco
che compaiono gli asparagi coltivati, e Ravenna ne produce tali che tre
raggiungono il peso di una libbra…... (Plinio, XIX,19).
Sul
mercato si affacciavano pure nuove specie orticole, come i meloni, che noi
consideriamo tra i frutti: Ora in Campania si ottiene una
varietà assolutamente nuova di cetrioli a forma di mele cotogne…li chiamano
melopepones. Non vengono coltivati sospesi, ma prendono a terra la loro forma
rotonda, di colore dorato. Quello che desta meraviglia in questa specie, oltre
alla forma, al colore e al profumo, è il fatto che una volta maturi, si
staccano subito dal peduncolo, sebbene non siano sospesi.(Plinio, XIX, 23)
Tra
le piante orticole ve ne’erano poi alcune che noi oggi consideriamo “piante
selvatiche”, anche se qualcuna fino a 50 anni fa era ancora utilizzata dai
nostri contadini per farne zuppe.
Tra
le più curiose ricordiamo il pungitopo (Ruscus aculeatus), la vitalba (Clematis
vitalba), la ferula (Ferula communis), il finocchio di mare (Chritmum marinum),
il sonco (Sonchus oleraceus), il ramolaccio (Rumex sp.), il lapato (…), il
tamno (Tamnus communis), la canna (Arundo donax),il macerone (Smirnium
olusatrum), la scilla, identificata con il muscari (Muscari comosum), l’ enula
o l’ elenio (Inula helenium), il blito (Amaranthus blitum), l’ atreplice
(Atriplex sp.) il nasturzio (Nasturtium officinale) l’ erba porcellana
(Portulaca oleracea): quest’ ultima viene ancora oggi raccolta dalle donne
anziane nelle campagne vesuviane, seccata e poi soffritta, così come il
muscari, più noto come “lampascione” ancora oggi è considerato una specialità
della cucina pugliese e lucana. Si è, invece, perso l’ uso del git (Nigella
sativa) o comino nero negli usi di pasticceria.
La
frutta. Tenga in dispensa ( la massaia, n.d.r.): pere secche,
sorbe, fichi, uva passa, uva in marmitte, mele stanziane in doglio e tutti gli
altri frutti che è uso conservare, anche quelli selvatici, li conservi ogni
anno con diligenza. (de agr. 144 (CLII)) scriveva Catone a proposito dei frutti
da conservare.
Veniva,
infatti, privilegiata la produzione di noci, nocciole, mandorle, pinoli, perché
protetti dal guscio, nonché di mele, pere, cotogne, sorbe e soprattutto fichi
perché potevano essere essiccati o conservati più a lungo senza guastarsi.
I
fichi in particolare non solo integravano l’ alimentazione delle classi meno
agiate, ma avevano anche una valenza condimentaria per il loro alto valore
zuccherino.
Le
pesche, che Apicio usava come antipasto, furono all’inizio importate come
specie a fini farmaceutici: Tra le pesche il primato è delle duracine…Questo
frutto innocuo è ricercato per i malati; lo si è pagato fino a 30 monete il
pezzo, più di ogni altro frutto, fatto che deve sorprendere, perché nessun
altro è più effimero. Infatti, un’ attesa di due giorni dopo la sua raccolta è
già il massimo e se ne impone lo smercio. (Plinio, XV, 11).
Tra
i frutti esotici i datteri in diverse varietà erano i più diffusi, a giudicare
anche dai ritrovamenti pompeiani: I più rinomati fra tutti i datteri sono
quelli definiti, per il loro prestigio, “reali”, poiché erano riservati
esclusivamente dai re di Persia, provenienti da Babilonia ed unicamente dal
giardino di Bagoa. (Plinio, XIII, 9)
I prodotti di origine animale:
Le carni, le uova, il latte.
Il
consumo delle carni, soprattutto di quelle bovine, era piuttosto limitato.
Se
la produzione casearia rendeva necessari sia i bovini che gli ovini, questi
ultimi fornivano anche lana , mentre i buoi costituivano una importante
forza-lavoro.
L’
allevamento dei suini assumeva quindi una particolare importanza, perché
forniva non solo carne fresca, ma anche carne che poteva essere conservata
mediante affumicatura o opportuna salagione ed utilizzando grandi quantità di
pepe: non a caso le insegne di botteghe di macellai trovate a Pompei e a
Terzigno illustravano diversi prodotti di origine suina come salsicce e
prosciutti.
I
maiali frequentemente si ibridavano con i cinghiali, perché gli allevamenti
venivano condotti in porzioni di querceti opportunamente recintati.
L’
apporto delle carni all’ alimentazione veniva integrato con selvaggina o
piccoli allevamenti di ghiri e lumache, ospitati in appositi contenitori di
solito conservati in giardino.
Tra
le classi sociali più alte era invalso però l’ uso di allevare animali esotici
con grandi ritorni economici: A Roma per primo fece uccidere un pavone per
cibarsene l’ oratore Ortensio, durante il banchetto inaugurale del suo
sacerdozio. Per primo si mise ad ingrassarli, al tempo dell’ ultima guerra
contro pirati, Marco Aufidio Lurcone, e dal suo guadagno con questi ricavò
rendite annue di 60.000 sesterzi (Plinio, X, 23).
Si
mangiavano così polpette di pavone, di fagiano e di coniglio, struzzo
lessato- Gli struzzi d’ Africa superano l’ altezza di un uomo a cavallo e lo
vincono in velocità. Hanno la straordinaria capacità di digerire quello che,
senza operare alcuna scelta, ingurgitano, ma non è meno straordinaria la
stupidità di questi animali che pensano, quando hanno nascosto la testa in un
cespuglio, di rimanere invisibili anche nel resto del corpo, così li descrive
Plinio (N. H. X,1) - pappagalli e fenicotteri in umido, di cui Apicio, il più
grande ghiottone tra tutti gli scialacquatori, ci ha informati che la lingua
(del fenicottero) è dotata di un sapore squisito. (Plinio, X,68)
L’
uso delle uova era particolarmente importante: non essendo state ancora
selezionate razze non legate alla produzione strettamente stagionale, vi era il
problema della loro conservazione, che veniva assicurata tenendole immerse
nell’argilla.
Con
il latte si realizzavano diversi tipi di formaggi, stagionati e non, di cui ci
sono arrivate diverse ricette: la ricotta fresca, ad esempio, è frequentemente
raffigurata negli affreschi pompeiani.
Un
pezzetto di formaggio, un pugno di olive e un po’ di pane costituivano di fatto
l’ alimentazione più diffusa tra le classi sociali meno abbienti.
I pesci.
I prodotti ittici erano parte integrante dell’
alimentazione delle popolazioni costiere di duemila anni fa : essi venivano
utilizzati da tutte le classi sociali, seppure in maniera differente.
Essi
insieme alle uova e ai derivati del latte apportavano proteine animali in una
dieta in cui prevalevano legumi e cereali e in cui scarseggiavano le carni,
derivanti essenzialmente dalla cacciagione.
Agli
schiavi erano destinati i molluschi meno pregiati, come le “balorde”, non a
caso conosciute nel Napoletano come le “cozze degli schiavi”.
Il
ceto medio consumava diverse qualità di pesci e molluschi. Allora come oggi vi
era la consuetudine di conservare sotto sale non solo le alici, ma anche tranci
di tonno e di pesce spada.
Pur
essendo il mare molto più pescoso di adesso, era invalsa tra i ricchi la moda
di allevare il pesce, così da avere sempre disponibili le specie più pregiate.
Furono
allestiti un po’ ovunque lungo le coste italiane allevamenti di ostriche , di
murene e financo di specie da mare aperto come l’ orata o il sarago: si ricordino
, ad esempio, le piscine di Ventotene o di Terracina , o quelle lungo la costa
flegrea di proprietà di Lucio Murena , che secondo Plinio ideò tali attività.
Reperti
relativi all’ allevamento delle ostriche sono stati ripetutamente trovati anche
nelle antiche città vesuviane: essi sono costituiti da valve di ostriche
cementate a cocci di terracotta a conferma dell’ uso di allevare le ostriche
ancorandole a frammenti di anfora.
L’
uso di allevare pesci, in particolare murene, si era diffuso anche in città:
nell’antica Pompei nei giardini di alcune case le piccole piscine che si
accompagnavano ai ninfei furono trasformate in murenai.
Così
come racconta Seneca, l’ uso sempre più diffuso del vetro portò poi questa
pratica all’ interno stesso della casa e non più solo nei giardini.
Egli
descrisse con accenti scandalizzati la moda di permettere ai commensali di
scegliere direttamente a tavola il pesce che desideravano mangiare: I pesci
nuotano all’ interno dei letti triclinari e si possono catturare addirittura
sotto le tavole per imbandirli subito sulla tavola stessa: poco fresca sembra
la triglia se non muore in mano un commensale. Vengono esibiti dentro
recipienti di vetro e mentre stanno per morire se ne osserva il colore, che la
morte durante ‘ agonia varia il molte gradazioni.
Egli
poi concludeva: Il ventre degli aristocratici è giunto a tale eccesso che
costoro non possono assaporare se non il pesce che hanno visto nuotare e
guizzare mentre sono a tavola.
I condimenti:
Il
sale compare
poco tra gli ingredienti delle ricette di duemila anni fa: era di solito
sostituito con l’onnipresente garum, che di fatto era costituito da salamoia.
Tra
i condimenti era inclusa anche l’ acqua marina utilizzata talvolta per cuocere
la carne (A. VIII, I, 2).
Condimenti di origine
vegetale:
L'olio.
Se
si confrontano i testi di Catone e di Apicio ci si rende conto di come si fosse
diffusa la coltura dell’ olivo in poco più di due secoli: il primo
espressamente diceva di essere parchi nell’ uso dell’ olio, il secondo ne
faceva un componente essenziale di molte ricette. Le olive erano conservate in
salamoia , seccate o conservate in olio.
Le
olive secche, soprattutto quelle raccolte da terra, costituivano una parte
integrante dell’ alimentazione delle classi meno abbienti, che le mangiavano
con il pane o accompagnandole con un po’ di formaggio.
Olive
ed olio furono usate abbondantemente anche in medicina e in cosmetica: le
prime, a seconda della varietà, nella cosiddetta medicina alimentare, quindi ad
uso interno, e, per uso esterno, la morchia per gli impacchi e l’ olio per
preparare gli unguenti e i lenitivi.
Il vino.
Tra le piante condimentarie, oltre all’olivo, andava
considerato anche il vino: con esso veniva realizzata anche la sapa, che aveva
grande importanza sia per la conservazione dei cibi, in particolare di alcuni
tipi di frutti, che in alcune ricette piuttosto complesse, molte delle quali
tramandate da Apicio.
L’
uso del vino duemila anni fa era diffuso in tutte le classi sociali:
nell’alimentazione degli schiavi, ad esempio, non mancava mai, seppure della
qualità più scadente.
Non
bisogna, tuttavia, dimenticare, accanto all’uso da tavola, quello dei
cosiddetti “vini medicati”, che, secondo un uso perdurato per secoli,
costituivano la farmacia di casa: venivano realizzati facendovi macerare
essenze diverse a seconda dell’uso cui erano destinati. Il cosiddetto vino di
rosmarino, ad esempio, descritto da Columella, veniva raccomandato ancora nell’
‘800 per curare la diarrea.
Seppure
non più usato oggi a fini medicinali, vengono tuttavia ancora oggi riconosciuti
al vino, se usato con moderazione, benefici effetti sull’apparato circolatorio
così come duemila anni fa .
Si
è a lungo discusso del sapore del vino che bevevano gli antichi: è molto
difficile immaginarlo, perché le diverse manipolazioni che subiva, sommate
all’uso delle spezie, lo rendevano molto diverso dal nostro.
Un
sottoprodotto del vino di non minore importanza era l’ aceto, anch’esso
determinante nella conservazione dei cibi e nelle preparazioni culinarie.
Condimenti di origine animale:
Il garum.
Era
ottenuto, come si è già detto, mettendo a fermentare in sale lo scarto dei
pesci: tra i più usati a tale scopo vi erano le “vope”. Se ne ottenevano
diverse qualità: la qualità peggiore era destinata alla razione giornaliera per
gli schiavi. Vi era inoltre la consuetudine di conservare sotto sale non
solo le alici, ma anche tranci di tonno e di pesce spada.
Ben
più elaborate erano le ricette che comparivano sulla tavola dei ricchi,
arricchite con un gran numero di spezie, di cui molte esotiche e
dall’onnipresente garum, in questo caso di eccellente qualità.
Lo strutto.
Ottenuto
sciogliendo sul fuoco il grasso del maiale, era usato come condimento o come
conservante.
I dolcificanti
Il miele.
Sebbene
Plinio abbia descritto la canna da zucchero, questa era considerata un prodotto
medicinale esotico: Anche l’ Arabia produce lo zucchero, ma quello dell’ India
è più pregiato. Si tratta di un miele che si raccoglie sulle canne, bianco come
la gomma, fragile sotto i denti, delle dimensioni, al massimo, di una nocciola,
impiegato solo in medicina. (N. H.,XII, 17). Grande importanza rivestiva invece
il miele, il cui uso era costante in gran parte delle ricette.
I fichi.
In
alcuni casi sopperivano al miele : facendoli bollire a lungo si otteneva , il
cosiddetto “miele di fichi”, che poteva essere conservato a lungo.
Le spezie
Alcune
specie di alberi e di arbusti erano comunemente usate in cucina, come ad
esempio l’ alloro, mentre altre, come la salvia, il rosmarino o il limone, che
noi consideriamo piante condimentarie erano coltivate soprattutto a fini
farmaceutici.
In
una ricetta di Apicio e in un piatto descritto nella cena di Trimalcione
compare tuttavia l’ uso delle foglie di limone come spezia.
Spezie autoctone.
Tra
le più utilizzate vi erano l’ aneto, il cumino, la maggiorana, il coriandolo e
i semi di lentisco, andati in disuso nella cucina moderna.
Spezie di importazione.
Venivano
importati dall’ Oriente lo zenzero, la cannella, i chiodi di garofano e
soprattutto il pepe in diverse qualità – il più pregiato era considerato il
“pepe lungo”-, che aiutava a conservare meglio le carni.
Metodi di cottura e attrezzi:
La cottura
Nelle
classi sociali meno abbienti, soprattutto ai tempi di Catone, era molto sentita
la necessità di consumare poca legna: venivano pertanto privilegiati quei cibi,
che richiedevano poco o niente cottura.
L’
uso del coppo, costituito da una tegola arroventata sulle braci su cui veniva
gettato l’ impasto o sotto cui venivano poste le pietanze, andava proprio in
questo senso, perché certamente era meno dispendioso del tradizionale forno.
Del
resto, se si fa una disamina dei forni ritrovati a Pompei, sono ben poche le
case cittadine che avevano un proprio forno, mentre la diffusione di quelli
pubblici al momento dell’ eruzione rispondeva probabilmente all’ esigenza di
usarli anche per la cottura delle vivande su commissione: un’ usanza questa che
si è conservata nei nostri paesi fino a pochi decenni fa.
Parecchio
diffusa risulta essere anche la cottura a bagnomaria, che permetteva di non far
attaccare il cibo sul fondo delle pentole messe a contatto diretto con la brace.
Gli attrezzi
Prima
che si diffondessero i sistemi pubblici di molitura, tra i compiti delle donne
vi era quello di macinare cereali e legumi con piccole macine manuali. Era
tanto importante questa operazione che anche i viaggiatori, che talvolta restavano
fuori per anni, portavano tra le loro cose queste piccole macine e dei modi.
Tra
gli attrezzi più usati c’ era ovviamente il mortaio, con il quale si
frantumavano gli ingredienti fino a renderli a poltiglia: anche quest’
operazione comportava tempi di cottura minori.
Nella
preparazione delle ricette venivano usati attrezzi diversi , di cui forse non
riconosciamo neppure le forme: nel Satyricon di Petronio Trimalcione si
vantava, ad esempio, di aver portato in dono al suo cuoco dei particolari coltelli
comprati all’ estero.
I
recipienti per la cottura erano prevalentemente di terracotta: l’ uso del rame
e soprattutto del bronzo era riservato alle classi sociali più alte che li
utilizzavano per la cottura del vino, per le forme da pasticceria, per cuocere
le uova, per rigirare i fritti.
Alcuni
recipienti da cottura probabilmente dalle linee elaborate erano creati per dare
agli impasti forme particolari.
E’
proprio Petronio, che pure si dilungò a descrivere gli argenti, i vetri e i
bronzi che comparivano sulla tavola di Trimalcione , ad informarci, parlando di
Enotea, sulle suppellettili e le provviste di una casa povera ricordate con
antichi versi: tazze di argilla tornite semplicemente, un catino per l’ acqua,
qualche canestro in vimine, alcune vecchie anfore e sospesi al soffitto, mazzi
di sorbe, grappoli di uva passa e fasci di origano.
Tra
quelle esibite da Trimalcione e quelle utilizzate dalla povera Enotea vanno
poste le suppellettili quotidiane e di rappresentanza così come citate da
Columella (de re agr. XI, 2) a proposito di quanto scritto da Cicerone: ….i
recipienti usuali per preparare i cibi,…, quelli che si dispongono sulla mensa
quotidiana e quelli che invece si adoperano in occasione di banchetti solenni.
Bisogna
poi ricordare tra gli attrezzi da cucina, i vasi necessari per fare conserve:
su
di essi si dilunga lungamente Columella che assegnava alla massaia il compito
di coltivare l’ orto e di conservarne i prodotti seccandoli o conservandoli in
miele, in aceto o in salamoia.
Potevano
essere in vetro o in terracotta, ma i primi dalla forma sorprendentemente
simile ai nostri, che proprio allora cominciavano a diffondersi su larga scala,
erano considerati ideali perché lavabili, riciclabili, inodori e impermeabili
all’aria.
I segreti di cucina
Forse
quello più importante, almeno per quelli che avevano necessità di vivere in
maniera oculata era quello che Columella attribuisce a Cicerone relativamente
all’ uso delle provviste: poi delle cose che si consumano giorno per giorno
abbiamo suddiviso le quantità necessarie per ogni mese, e della quantità
necessaria per tutto l’ anno abbiamo fatto pure due parti; così è meno facile
ingannarsi riguardo al tempo in cui le provviste devono finire.(ibid.). Per
quanto riguarda invece la preparazione dei cibi, era diffuso l’ uso di
mantecare con farina, sfoglie di pasta o uova battute, di ricorrere al tuorlo
rassodato e sbriciolato per decorare i piatti, di rimestare i cibi con rami di
piante aromatiche per accentuarne il sapore.
A tavola:
Le suppellettili
Se
i pasti dei ceti sociali più poveri o il pranzo di mezzogiorno degli uomini d’
affari veniva consumato frettolosamente con uno spreco minimo di stoviglie, il
banchetto costituiva il momento di esibizione di un ceto sociale detentore di
un potere economico senza limiti: Plinio, ad esempio, racconta di Gaio Irrio,
inventore e proprietario di murenai, il quale, per le cene trionfali del
dittatore Cesare, gli prestò, peso per peso , 6000 murene. (Plinio, IXI, 81).
Il
continuo sfoggio di ricchezze cominciava dalla scelta della tavola, che doveva
essere di legno pregiato, così come sempre Plinio racconta: …dalla
Mauritania, in cui abbonda l’ albero di tuia e da cui proviene la folle moda
delle tavole da pranzo che le donne rinfacciano ai mariti quando questi biasimano
le loro perle. Ne esiste ancora oggi una che appartenne a Marco Cicerone, per
la quale furono pagati, in una situazione economica personale precaria…,
500.000 sesterzi.. (Plinio, XIII, 29-30).
Non
mancava la cura nella scelta del tovagliato, prevalentemente di lino. Venivano
utilizzati anche i tovaglioli – bianco con nappe rosse quello usato da
Trimalcione- che l’ ultima moda del tempo voleva fossero fatti di asbesto,
meglio noto come amianto: E’ stato scoperto, ormai da tempo, un lino che non
brucia. Lo chiamano vivo, e abbiamo visto tovaglioli fatti con quel tessuto
ardere nei bracieri dei banchetti per venirne poi fuori, bruciata ogni traccia
di sporco, resi dal fuoco più candidi di quanto avrebbe potuto fare l’
acqua….Questa fibra nasce nelle zone desertiche e bruciate dal sole dell’
India, dove non cade la pioggia, tra serpenti dal veleno mortale. (Plinio, XIX,
4).
Le
ricche suppellettili erano in argento e in bronzo, ma non mancava il vetro e il
cristallo: un intero corredo è raffigurato in un affresco della tomba di
Vestonio Prisco.
Il
banchetto era allietato con musiche, mentre di tanto in tanto una pioggia di
petali di rose cadeva sui convitati.
Le portate
Catone
descrive l’ alimentazione dei lavoranti di una villa rustica: pane della non
migliore qualità, un po’ di cereali , olio scadente e vino diluito e come
companatico un pugno di olive tra quelle raccolte a terra, qualche fico e un
po’ di garum, non molto diversamente da quanto accadeva ai braccianti
meridionali fino a qualche decennio fa.
Se
si confrontano le ricette di Columella e di Apicio, le prime, per ammissione
dell’ autore, dedicate ai ceti sociali meno abbienti, le seconde specchio dell’
alimentazione dei ricchi, appare chiara soprattutto la complessità di queste
ultime determinata dall’uso nella maggior parte dei casi di un gran numero di
ingredienti, di cui talora alcuni poco comunì.
In
tutte dominava l’ uso del garum probabilmente usato soprattutto per sostituire
il sale, all’ epoca molto costoso.
Il
pranzo descritto da Apicio consisteva in più portate: si apriva con gli
antipasti e si concludeva con il dolce.
Alcune
ricette erano fatte per strabiliare: l’uso delle lingue di pappagallo, ad
esempio, sembra rispondere più all’esigenza di rappresentare la propria
ricchezza con una strage di uccelli esotici che a quella di un particolare
gusto.
Era
invalso anche l’uso di creare artifici, che erano parte integrante della
ricetta così come racconta Petronio, descrivendo la cena di Trimalcione nel
Satyricon ricetta ed “artifici” si confondevano: l’ uso delle prugne e dei
chicchi di melograno per dare l’ impressione delle braci accese poste sotto una
griglia con salsicce sfrigolanti, salsicce ed uccelletti utilizzati per
riempire la pancia di vitelli e maiali, lepri che con l’ aiuto di ali di pasta
si trasformavano in rappresentazioni del cavallo alato Pegaso.
Ancor
più che nella complessità delle ricette e nel numero delle portate, era nel
servizio che appariva costante la ricerca dell’ artificio per strabiliare i
commensali.
Trionfi
di pietanze poggiati su piatti da portata figurati, come ad esempio asinelli di
bronzo con le bisacce piene di olive, venivano portati in tavola con
teatralità: Improvvisamente entrarono due schiavi che pareva avessero litigato
andando a prendere acqua, perché avevano ancora sulle spalle le anfore.
Trimalcione fece da arbitro tra i due contendenti, ma né l’ uno né l’ altro
accettò la sentenza del giudice e la loro lite riprese a suon di bastonate che
finivano sulle anfore. Mentre , costernati dalla tracotanza di quegli ubriachi
seguivamo la contesa, notammo che dai vasi panciuti che reggevano, sgorgavano
ostriche e molluschi. Un valletto li raccolse e li portò in giro sopra un
piatto.
Tra
le bevande, a parte l’ uso dei vini più pregiati, era invalso l’ uso di bere
anche acqua ghiacciata: Gli uni bevono la neve, gli altri il ghiaccio,
trasformando in piaceri della gola i tormenti delle montagne. Si conserva il
freddo nella stagione calda, e i trovano procedimenti per mantenere gelata la
neve nei mesi che non le sono propri; altri fanno bollire l’ acqua e poi subito
la ghiacciano .(Plinio, XIX,19).
Ricettario:
Sono
molti gli elementi che concorrono a rendere di fatto inimitabili le ricette
degli antichi: taluni ingredienti da sostituire necessariamente con succedanei,
come ad esempio l’ uso della “colatura di alici” al posto del garum, il tipo di
cottura, i recipienti usati, ma la combinazione dei diversi sapori può darci
un’ idea del gusto dei nostri antenati, spingendoci ad andare al di là dei
nostri schemi ed aprendoci nuovi orizzonti..
Tra
le molte ricette che Catone, Columella e soprattutto Apicio ci hanno
tramandato, se ne ripropongono (in corsivo nel testo) alcune di più facile
realizzazione, seppure in guidando in taluni casi il lettore nella loro
realizzazione: il fine è quello di permettere di “provare” i sapori degli
antichi senza lasciarli per quanto è possibile alle sole interpretazioni
letterarie.
Il
criterio adottato nella scelta è stato quello da una parte di avere la
disponibilità degli ingredienti, dall’ altra di poterli realizzare mediante
procedimenti ripercorribili: quando qualche ricetta di epoca romana si avvicina
molto a quella della tradizione popolare italiana, quest’ ultima viene
riportata precisandone la fonte, così come gli eventuali suggerimenti (in tondo
nel testo).
Se
la ricetta antica non presenta particolari difficoltà viene riproposta senza
commento alcuno.
Antipasti
Per
le zucche lessate. Condire con salsa di pesce, olio e vino puro.(A. III, IV,4)
Per
i cocomeri (A. III, VI,4); per i poponi e i meloni .(A. III, VII). Pepe,
puleggio, miele o passito, salsa di pesce, aceto.
Mondare
delle pesche molto dure. Tagliarle a pezzetti, lessarle, disporle in un tegame.
Stillarvi sopra un po’ d’ olio e servirle con salsa di comino. (A. IV, II, 34).
Primi
Preparerai
il “libum”
in tal modo: si tritino bene nel mortaio 2 libbre [6 etti] di formaggio; quando
le avrai tritate bene, vi verserai 1 libbra [3 etti] di farina di grano tenero
o, se vorrai che sia più morbido, appena mezza libbra [1 etto e mezzo] di
semola, e mescolerai bene il tutto. Con questo impasto farai una pagnotta, la
poggerai su foglie di lauro e cuocerai col coppo lentamente, in forno caldo.
(Cat. 75)
Usare
come formaggio la ricotta, preferibile, il “primo sale” o un caprino.
Ricetta per il sugo d’ orzo o di spelta.
Ammollare
ceci, lenticchie, piselli; manipolare, lavandoli, l’ orzo e la spelta messi a
bagno il giorno prima e lessarlo con i legumi. Quando ha ben bollito, versarvi
olio a sufficienza, e gettare nella pentola erbaggi verdi , cioè porri,
coriandolo, aneto, finocchio, bietole, malva, cavolo tenero. Lessare a parte
dei cavoli e tritare dei semi di finocchio a sufficienza, origano, silfio e
ligustico. Tritarli, stemperare con salsa di pesce e versare sopra i legumi.
Tagliarci sopra anche ritagli sottili di cavolo.(A. V, V, 2).
La
prima parte della ricetta antica ricorda in maniera impressionante la “cuccìa”
della cucina lucana: Mettere a bagno ceci, cicerchie, fave, fagioli, orzo,
piselli: cuocerli separatamente e non completamente in acqua salata, quindi
scolateli e completate la cottura con aggiunta di aglio, sedano e olio. ( da La
cucina in Basilicata). Quest’ ultima può essere rivisitata con l’ aggiunta
delle erbe suggerite da Apicio.
Carni
Polpette involtate nell’omento.
Tritare
della polpa sminuzzata con mollica di pane di siligine ammollata nel vino.
Pestare insieme pepe e salsa di pesce; se si vuole anche bacche di mirto prive
di semi. Confezionare piccole polpette mettendovi dentro dei pinoli e del pepe.
Si avvoltolano nell’ omento e si scottano leggermente con vino dolce. (A. II,
I, 7)
La
ricetta può essere provata utilizzando carne di maiale trita. E’ interessante
l’ uso di mescolare la carne trita con la mollica di pane spugnata, così come
si fa ancora oggi. L’ omento è la cosiddetta “rete di maiale”.
Ammorssellato
di frutte primaticce. Mettere in un tegame olio, salsa di pesce (colatura di
alici), vino. Tagliare uno scalogno secco e della spalla di maiale cotta e
tagliata a dadi. Una volta cotto tutto ciò, tritare pepe, comino, menta secca,
aneto. Bagnare con miele, salsa di pesce, vino passito, un po’ di aceto e il
sugo stesso del tegame. Temperare. Unire delle frutta primaticce senza nocciolo
e far bollire fino a completa cottura. Rompere una sfoglia di pasta e con essa
legare. Cospargere di pepe e servire. (A. IV, III, 6)
Soffriggere
in un tegame olio con cipolla o scalogno ed aggiungere la carne a pezzi e
bagnare con un po’ di colatura di alici e del vino. Aggiungere pepe,
comino,menta e aneto. Continuare la cottura allungando con un po’ di miele,
ancora un poco di colatura, del vino e dell’ aceto.
Quando
la carne è cotta aggiungere la frutta primaticcia senza nocciolo e a cottura
completata legare il tutto con un po’ di farina.
Prosciutto di maiale in crosta.
Lessare
il prosciutto con moltissimi fichi secchi e 3 foglie di lauro, togliergli la
cotenna e inciderlo in superficie a tasselli in cui spalmare il miele.
Preparare
una sfoglia con olio e farina, avvolgerlo dentro, metterlo in forno fin quando
la crosta non è cotta (A. VII, IX,1)
Lardone:
cuocerlo
con molto aneto e condirlo con olio e sale. (A. XI, XI)
Capretto o agnello:
strofinare
con olio e pepe, cospargere di sale e molto coriandolo e infornare. (A. VIII,
VI, 8).
Fegato.
Affettare
il fegato e metterlo nella salsa di pesce (colatura di alici). Tritare pepe,
ligustivo, due bacche di lauro; avvolgere nell’ omento (rete di maiale). Fare
arrostire sulla graticola e servire (A.VII, III, 2).
Il
ligustico si riferisce probabilmente al Levisticum officinale, pianta aromatica
attualmente poco usata, che può essere sostituita con i semi di finocchio,. La
ricetta, a parte la presenza di salsa di pesce sostituibile con poche gocce di
colatura di alici, è uguale a quella dei fegatelli di maiale arrosto alla
fiorentina (da Carnicina e Veronelli) .
Arrosto.
Servirlo
semplice, cotto nel forno e cosparso di moltissimo sale e miele. (A. VII, V, 1)
Pesci:
Aragoste:
aprirle
e condirle con pepe e coriandolo. Metterle sulla graticola. (A. IX, I, 2).
Pesce lesso:
metterlo
a bollirlo con semi di coriandolo e aneto. Condire con aceto. (A. X, I, 3).
Piselli indiani.
Cuocere
i piselli. Quando hanno fatto la schiuma, tagliare porri e coriandro e farli
bollire in una pentola. Prendere delle piccole seppie, così come sono, con il
loro inchiostro, e metterle a cuocere insieme. Aggiungere olio, salsa di pesce
(colatura di alici) e vino, un mazzetto di porri e di coriandro, e far cuocere.
A cottura ultimata, tritare pepe, ligustico, origano e un po’ di carvi; bagnare
con il sugo stesso della pentola, temperare con vino e passito. Tagliare le
seppie a pezzi e versare sui piselli, cospargendoli di pepe; quindi servire.
(A. V, III, 3).
La
ricetta è molto simile a quella delle seppie con piselli. Alle seppie fatte
saltare nell’ olio insieme all’ aglio, alla colatura di alici e a un po’ di
vino bianco vanno aggiunti i piselli di cui si è già avviata la cottura con
olio e cipolla. Alla fine si aggiunge un po’ di pepe e del prezzemolo tritato.
Ricetta per la sarda farcita.
Diliscare
la sarda, e tritare puleggio (mentuccia), comino, grani di pepe, menta, noci,
miele. Riempire la sarda e cucirla. Avvolgerla nella carta e cuocerla sotto
coperchio a piccolo fuoco. Condire con olio, vino dolce cotto e salsa di pesce.
(A. IX, X, 1).
Questa
ricetta ricorda quella delle sarde ripiene alla palermitana. Le sarde diliscate
vanno riempite con un trito di pinoli, uva sultanina, acciughe, pepe mescolato
a del pangrattato e ad un po’ di zucchero. Allineate in una teglia vanno spruzzate
di olio e passate in forno.
Per
conservare a lungo i pesci fritti. Nel momento stesso in cui si friggono e si
tolgono dal fuoco, cospargerli di aceto caldo (A. I, IX, 1). E’ la ricetta
napoletana delle alicette fritte alla scapece.
Verdure
Lessare
i fusti
di cavolo e
tagliarli a metà; tritare le sommità delle foglie con le foglie tritate insieme
a coriandolo, cipolla, comino, pepe, passito o vino dolce cotto e poco olio.
(A. III, IX, I)
Le bietole
lesse si
possono servire bene con senape, olio e aceto. (A. III, XI, 2)
Lessare
e servire (le rape o i navoni).
Versare sopra goccia a goccia dell’ olio. Aggiungere aceto a volontà. (A. III,
XIII, 2)
Lessare
le zucche,
friggerle e disporle nel tegame. Bagnare con salsa di comino, aggiungendovi
poco olio. Far bollire e servire. (A. IV, II, 10).
Salse
Salsa per le sarde:
pepe,
ligustico, menta, cipolla cotta, miele, aceto e olio oppure pepe origano,
menta, cipolla, un po’ d’ aceto e olio (A. IX, X, 3 )
Salsa per carne lessa:
pepe,
prezzemolo, salsa di pesce, aceto, datteri, cipolle, olio. (A. VII, VI, 2)
Salsa
bianca per carni sminuzzate
pepe, prezzemolo, salsa di
pesce, aceto, datteri, cipolle, olio. (A. VII, VI, 2)
Salsa bianca per carni sminuzzate:
pepe,
comino, ligustico, semi di ruta, prugne di Damasco. Bagnare con vino melato e
aceto. Agitare il tutto con timo e origano.(A. VII, VI, 6)
Altra salsa bianca per carni sminuzzate.
Pepe,
timo, comino, semi di sedano, finocchio, menta, bacche di mirto, uva passa.
Temperare con vino melato. Agitare con un ramo di santoreggia.(A. VII, VI, 7)
Salsa di comino
Pepe,
ligustico, prezzemolo, menta secca, un po’ di comino, miele, aceto e salsa di
pesce. (A. I, XV, 2).
Salsa per la sarda.
Pepe,
origano, menta, cipolla, un po’ d’ aceto (A. IX, X, 3)
Condimento piccante.
Menta,
ruta, coriandro, finocchio, tutto fresco; ligustico, pepe, miele, salsa di
pesce. Al bisogno, aggiungere aceto. (A. I, XXI)
Uova
Uova lesse.
Con
salsa di pesce, olio, vino puro oppure con salsa di pesce, pepe, laser. (A.
VII, XIX, 2)
Per uova tenere.
Pepe,
ligustico, pinoli in fusione; bagnare con miele e aceto; temperare con salsa di
pesce (A. VII, XIX, 2).
Formaggi
Ricetta per fare il moretum.
Metti
nel mortaio della santoreggia, della menta, della ruta, del coriandolo, del
sedano, del porro da taglio oppure, in mancanza di questo, una cipolla fresca,
foglie di lattuga, di ruchetta, di timo verde o di nepitella e anche del
puleggio verde e del cacio fresco e salato; pesta insieme tutte queste cose,
aggiungendovi un pochino di aceto piperato; quando avrai disposto questa
composizione in un piatto piccolo, versavi sopra dell’olio.
Altra ricetta.
Quando
avrai messo nel mortaio le verdure che ho detto sopra, pesta insieme con esse
anche delle noci sgusciate, nella quantità che ti sembrerà opportuna, metti
qualche goccia di aceto piperato e condisci con olio (Col. XII, 59).
Aggiungere
a quanto sopra anche dei semi di sesamo tostati o delle mandorle o dei pinoli o
delle nocciole tostate. (Col.ibid.)
I
formaggi più adatti per riproporre questa ricetta sono la ricotta o il caprino.
Condire
il cacio con puleggio (mentuccia) o timo o origano o santoreggia e con aceto,
un po’ d’ olio e un po’ di pepe. (Col. XII, 59)
Si
ritiene che questo tipo di condimento si adatti bene al cosiddetto “primo sale”.
Dolci
Prendere
dei datteri snocciolati;
farcirli di noci, di pinoli o di pepe tritato. Salarli e figgerli nel miele. (
A. VII, XIII, 1)
Cuocere
nel latte i sedani a
pezzi; sgocciolarli e metterli brevemente nel forno: appena tolti punzecchiarli
e cospargerli di miele e un po’ di pepe. (A. VII, XIII, 2).
Bagnare
del pane
raffermo nel
latte, friggerlo nell’ olio e cospargerlo di miele . (A. VII, XIII, 3).
Pane
“ indorato”. Immergere delle fette di pane raffermo in una pastella dolce
preparata con farina stemperata nel latte, uova e zucchero. Friggerle quindi in
olio bollente e portarle in tavola cosparse di zucchero. (da Le ricette
contadine, 1988).
Dolci in altro modo.
Prendere
fior di farina e cuocerla in acqua calda, in modo da farne una polta durissima.
Poi distenderla nel tegame. Quando si è raffreddata, tagliarla a mò di dolciumi
e friggerla in olio del migliore. Quindi levarla e bagnarla con miele;
cospargere di pepe e servire. Meglio, se si userà latte invece di acqua.
Cuocere
la farina nel latte caldo fino a quando diventa molto consistente. Quando è
raffreddata tagliarla a pezzi, friggerla e condirla con miele e pepe. (A. VII,
XIII, 6).
Piatto di formaggio.
Prendere
tanto latte quanto si pensa ce ne sta nel tegame; temperare il latte con il
miele, a guisa di latticini; per un sestario di latte mettervi cinque uova, ma
per un’emina, tre. Sciogliere bene nel latte, per ottenere un tutto omogeneo.
Colare in un vaso di Cuma, e cuocere a fuoco lento. Quando il tutto si è bene
rappreso, cospargere di pepe e servire. (A. VII, XIII, ).
Budino
di latte della campagna veneta. Preparare in una ciotola delle uova sbattute
(circa 4 ogni mezzo litro di latte. Aggiungervi un pizzico di vaniglia in
polvere, mezzo etto di zucchero e la scorza grattata di limone, poi versare il
composto in una ciotola da fuoco e cuocere a bagnomaria il budino fin quando
non si sarà rappreso. (da Le ricette contadine, 1988).
Frittata con latte.
Sciogliere
insieme quattro uova, un’emina di latte, un’oncia di olio, in modo da ottenere
un tutto omogeneo. Versare un po’ di olio in una padella sottile e farlo
bollire. Poi aggiungere il composto già preparato. Quando è cotto da una parte,
rivoltarlo in un piatto rotondo, bagnare con miele, cospargere di pepe e
servire.
Fare
una pastella con un quarto di latte, quattro uova e un po’ d’ olio. Versare il
composto in una padella con un po’ d’ olio caldo, ritirarli, cospargerlo di
miele e con un po’ di pepe. (A. VII, XIII, 8).
Preparerai così i “globi”.
mescolerai
in parti uguali formaggio e farina di farro. Con questo impasto farai tutti i
“globi” che vuoi. Verserai dello strutto in una padella calda. Ne friggerai uno
o due per volta, e li rigirerai con due palette: quando saranno fritti li
toglierai, li spalmerai di miele, ci gratterai sopra del papavero. Li servirai
così.
Mescolare
ricotta e farina: con l’ impasto formare delle palline o delle ciambelline e
friggerle nell’ olio bollente o nella sugna. Cospargerli di miele e di semi di
papavero. (Cat. 79)
Encytum.
Preparerai
l’encytum allo stesso modo dei globi, ma ci si dovrà fornire di un imbuto
largo. Con questo verserai l’impasto nello strutto bollente. Darai ad esso la
forma di spirale, alla perfezione. Lo rigirerai con due palette e lo tirerai
su. Come i “globi”, lo spalmerai di miele e lo farai colorare quando non è troppo
caldo. Li servirai con miele o con vino melato.
Come
sopra, ma fatto cadere a spirale nell’ olio caldo, per poi condirlo con il
miele. (Cat. 80)
Savillum.
Mescolare
1 etto e mezzo di farina con 7etti e mezzo di formaggio, 70 g di miele e 1
uovo. Metterlo al forno e una volta cotto spalmarlo di miele e di semi di
papavero. (Cat. 84)
Lavorare
la ricotta con la farina, il miele, le e lo zucchero fino a renderla cremosa.
Porre il composto in una teglia imburrata e cuocerlo nel forno (da “La cucina
pugliese”).
Mostaccioli
mescolare
il mosto con 800 g di farina, semi di aneto e di cumino, 60 g. di strutto, 30
g. di ricotta. Poggiare l’ impasto su foglie di lauro e infornare. (Cat. CXXI)
Conserve
Giuncata.
Farai
la giuncata in questo modo: prendi un’olla nuova e facci un buco vicino al
fondo; poi tura il buco che hai fatto con un legnetto e riempi il vaso con
latte di pecora freschissimo, e aggiungi dei mazzetti di erbe odorose, origano,
menta, cipolla coriandolo. Metti nel latte queste erbe, in modo che i fili che
legano i mazzetti sporgano di fuori. Dopo cinque giorni togli il legnetto con
cui hai otturato il buco e lascia uscire il siero. Appena comincerà a uscire il
latte, richiudi il buco con lo stesso legnetto e, lasciati passare tre giorni,
fa uscire di nuovo il siero, nello stesso modo che si è detto sopra; togli
anche e getta via i mazzetti di erbe odorose; poi spolverizza sopra il latte un
pochino di timo secco e di maggiorana secca e aggiungi quanto porro da taglio
vuoi; dopo due giorni lascia di nuovo uscire il siero, richiudi il buco e
aggiungi tanto sale pestato quanto sarà sufficiente, rimescola e, messo il
coperchio, chiudilo con la cera e non aprile il vaso che quando ce ne sarà
bisogno.
La
“giuncata” trova un corrispettivo nella “cagliata “ pugliese ottenuta separando
il siero dal latte (da La cucina pugliese).
Giardiniera.
Preparati
l’aceto e la salamoia nel periodo dell’equinozio di primavera, bisognerà
raccogliere e conservare le erbe: come cime e cavoli, capperi, steli di sedano,
ruta, fiori di macerone con il loro stelo avanti che escano dalla capsula, e
ancora piantine di ferula appena spuntate e tenerissime col loro stelo, fiori
appena in boccio di pastinaca selvatica o coltivata col loro stelo, di vitalba,
di asparago, di pungitopo, di tamno, di digitale, di puleggio, di nipitella, di
ramolaccio, di battide col suo stelo: questo viene anche chiamato piede di
nibbio; e ancora teneri steli di finocchio. Tutte queste erbe si conservano
molto bene con un solo tipo di conditura, cioè con due parti di aceto e una di
salamoia forte mescolate insieme ( Col. XII, 7).
Nella
cucina popolare italiana molte delle erbe citate sono ingredienti delle zuppe
“povere”.
Conservazione della cipolla.
Scegli
le cipolle pompeiane o quelle di Ascalona o anche le cipolle carsiche semplici,
che i contadini chiamano unio cioè quelle che non sono andate in seme né hanno
dei getti aderenti Lasciale prima seccare al sole, poi tienile in fresco
all’ombra e finalmente disponile in vasi, su un letto di timo e di maggiorana;
dopo aver versato nel recipiente del liquido formato da tre parti di aceto e
una di salamoia forte, sovrapponi un fascetto di maggiorana, in modo che le
cipolle rimangano compresse; quando esse si saranno bene imbevute di salamoia,
riempi il vaso con lo stesso miscuglio.
In
questo modo si preparano pure, per conservare, le corniole, le prugne color
d’onice, le prugne selvatiche e le varie qualità di pere e di mele (Col.
XII,10) .
Conservazione
delle corniole e delle prugne. Si raccolgono dunque le corniole, di cui ci
serviamo come olive, e così le prugne selvatiche e quelle di color d’onice,
ancora compatte e non troppo mature, ma nemmeno troppo acerbe: Per un giorno si
lasciano seccare all’ombra; poi si mescola in parti uguali l’aceto e del vino
cotto o della sapa e si versa sopra. Sarà bene aggiungervi un po’ di sale,
perché non vi nascano dentro i vermi o qualche altro piccolo animale. Ma si
conservano meglio se si mescolano due parti di sapa con una di aceto (Col.
ibid.).
Ricetta per conservare le pere, le mele e gli altri tipi di
frutta.
Dopo
di aver colto immature, ma non eccessivamente acerbe, le pere, esamina i i
frutti uno per uno con diligenza, per assicurarti che siano integri, senza
vermi né difetti; poi disponili in un recipiente di terracotta e riempi il vaso
di vino passito o di vino cottto, in modo che il frutto sia interamente
coperto, e sigilla poi con gesso il coperchio.
Ma
soprattutto mi preme insegnare che non vi è tipo di frutta che non si possa
conservare nel miele. E siccome si tratta di un cibo che spesso è salutare per
gli ammalati, penso che almeno qualche frutto vada conservato nel miele, ma
bisogna disporre ogni specie per conto suo perché, mescolandole, accade che l’
una rovina l’altra (Col. ibid.).
Una
analoga ricetta è in Apicio:
Per conservare fichi freschi, mele, prugne, pere, ciliegie per lungo
tempo.
Scegliere
accuratamente i frutti con il proprio picciolo e immergerli nel miele, facendo
in modo che non si tocchino (A. I, XII, 4).
Per conservare a lungo le more.
Spremere
dalle more il succo, mescolarlo con mosto cotto e versarlo in un vaso di vetro
insieme alle more. Dureranno a lungo (A. I, XII, 6).
Come
si conservano la porcellana e la battide. Ci sono poi alcune erbe che si
possono preparare nel periodo in cui si avvicina la vendemmia, come la
porcellana e l’ortaggio tardivo che alcuni chiamano battide da giardino. Queste
erbe, dunque, si puliscono diligentemente e si stendono all’ombra; al quarto
giorno si mette del sale sul fondo dei vasi e ognuna delle erbe si ripone per
conto suo, si versa nei vasi dell’aceto e poi si mette di sopra del nuovo sale,
perché ad esse non si addice la salamoia. (Col. XII, 13)
La
porcellana (Portulaca oleracea) è l’ erba porcellana, dalle foglie grassette,
che viene ancora oggi seccata nelle campagne vesuviane, per poi consumarla
saltata nell’ olio. La battide si riferisce probabilmente al radicchio
selvatico (Rhagadiolus stellatus).
Come far seccare al sole le pere e le mele.
In
questo stesso tempo, o anche nella prime metà del mese di agosto, si scelgono
le pere e le mele di sapore più dolce, mediocremente mature, si dividono in due
o tre parti con una canna o con un coltello d’osso e si mettono al sole a
seccare. Se c’è una grande quantità di pere e mele, durante l’inverno servono
in non piccola parte per il sostentamento degli schiavi; possono stare,
infatti, al posto della pietanza, come i fichi, che quando sono stati messi via
secchi, aiutano la tavola dei contadini durante l’inverno (Col. XII, 14).
Come far seccare i fichi:
I
fichi si devono cogliere nè troppo acerbi né passati e stendere in una
posizione che riceva sole tutto il giorno. Si infiggono in terra dei pali alla
distanza di quattro piedi uno dall’altro e vi si sovrappongono delle pertiche a
modo di giogo. Sopra questi gioghi si mettono dei graticci di canna fatti
appositamente, che distino almeno due piedi da terra, perché non debbano
assorbire l’umidità che, in genere, durante la notte esala; poi vi si
distendono i fichi. Da una parte e dall’altra si dispongono orizzontalmente i
terra dei graticci da pastore, intrecciati di paglia o di carici o di felci, in
modo che, quando il sole tramonta, si possono drizzare e, appoggiati l’uno
all’altro, possono difendere i fichi dalla rugiada e qualche volte dalla
pioggia (l’una e l’altra li rovinano), formando una specie di tetto a
testuggine come quello delle capanne. Quando i fichi sono secchi, bisognerà
riporli in vasi ben spalmati di pece, durante un pomeriggio, quando sono caldi;
in questi vasi i fichi vanno pigiati con cura, ma sul fondo si prepari prima
uno strato di finocchio secco in cima, quando il vaso è pieno; poi i vasi si
debbono chiudere con coperchio, sigillare e riporre nel granaio, perché i fichi
si conservino meglio.
Altro modo.
Altri
ancora scelgono dei fichi verdi bel grossi e polputi, li tagliano in due con
una canna o con le mani, li aprono e li lasciano appassire al sole; poi, quando
sono ben asciutti, durante un pomeriggio, quando per il calore del sole sono un
po’ rammolliti, li raccolgono e, secondo l’uso degli Africani e degli Spagnoli,
li avvicinano gli un agli altri e li comprimono per far loro assumere
La
figura di stelle o di fioretti, oppure li confezionano a forma di pane; poi li
mettono di nuovo a seccare al sole e finalmente li ripongono in vasi (Col. XII,
15).
Questo
modo di conservare i fichi è ancora in uso nelle campagne e costituiscono una
specialità tipicamente cilentana.
Come si confeziona l’enula.
Quando
nel mese di ottobre, che è l’epoca migliore della sua maturazione, strapperai
dalla terra le radici di enula, puliscile bene da tutta la terretta che rimane
loro attaccata, per mezzo di un panno ruvido oppure di un tessuto grezzo di
peli di capra; raschiale poi superficialmente con un coltello molto affilato e
taglia in pezzi della lunghezza di un dito le radici di una certa grossezza;
cuocile poi a fuoco lento in aceto entro una pignatta di rame, in modo che non
rimangano semicrude. In seguito per tre giorni lasciale seccare all’ombra e
riponile in un vaso impeciato, versandovi sopra del passito o del vino cotto,
che le ricopra abbondantemente; poi metti sopra un tampone di steli di
maggiorana, chiudi il vaso e coprilo con una pelle (Col. XII, 48).
Ricetta per condire le olive.
Schiaccia
delle olive acerbe raccolte a settembre o ad ottobre, prima che si concluda la
vendemmia; lasciale macerare un pochino in acqua calda, spremile e finalmente
mettile in vaso, mescolandovi con moderazione dei semi di finocchio e di
lentisco con sale tostato e versandovi sopra del mosto appena spremuto. Forma
poi un tappo di finocchio verde, immergilo nel liquido sopra le olive sopra le
olive, in modo che le comprima e il liquido le ricopra. (Col XII, 49)
Per fare l’epytyrum.
Si
colgano le olive quando appena diventano giallicce e le si schiaccino fino a
spaccarne la buccia: si versa di sale tostato e polverizzato nella proporzione
di un sestario per ogni moggio di olive; si mescola pure il lentisco e foglie
di ruta e di finocchio seccate all’ ombra e minutamente tritate, nella quantità
che sembrerà opportuna; così lasceremo le olive per tre ore , perché assorbano
il sale. Verseremo , poi, dell’ olio buono, in modo che le ricopra
completamente, e copriremo con un tappo di finocchio secco, per fare che il
sugo salga sopra.(Col XII, 49)
Le
ultime due ricette sono condensate nell’ antica ricetta calabrese che si
riporta di seguito:
Prendete
olive verdi e dure, schiacciatele con un sasso e toglietene i noccioli. Tenete
la polpa delle olive in salamoia per alcuni giorni, ricoperta con un piatto
capovolto e pressata con un peso.
Lessate
leggermente le olive, conditele con aglio e peperoncino rosso in pezzetti e
conservatole in barattoli ricoperte di olio. (da La Calabria a tavola)
Olive nere in salamoia forte.
Su
ogni moggio di olive si aggiungano un sestario di seme maturo di lentisco e tre
ciati di semi di finocchio ,o, non essendovi del seme, del finocchio trito
nella quantità che sembrerà sufficiente; poi si mescoli sale tostato ma non
polverizzato, tre emine per moggio di olive e così preparate si ripongano le
olive in anfore, turandole con fascetti di finocchio secco; si voltolino tutti
i giorni per terra queste anfore; ogni tre o quattro giorni si faccia uscire
quel po’ di morchia che si è formato. Dopo quaranta giorni in un catino e si
separino semplicemente dal sale, senza detergere le olive con la spugna; ma
così , come saranno state levate, si mettano in anfore con grani grossi di
sale, si chiudano con tappi e si ripongano in cantina, pronte all’ uso (Col.
XII, 50)
Olive
in serbo. Per conservarle a lungo si fanno dapprima appassire al sole e poi si
sistemano , premendole, in un vaso di creta cosparso di sale fino, seme di
anice o di finocchio (dalla Cucina pugliese).
La macellazione e la salatura del maiale.
Tutti
gli animali, ma specialmente il maiale, devono essere tenuti senza bere il
giorno prima della macellazione, perché la carne risulti più asciutta. Se
bevesse, la carne salata non finirebbe mai di trasudare acqua, Quando dunque
avrai ucciso il maiale tenuto senz’acqua per un giorno, disossalo
accuratamente; con questo si rende la carne salata meno soggetta a decomporsi e
più durevole. Quando lo avrai disossato, salalo con del sale torrefatto e non
troppo sminuzzato, ma solo spezzato sotto la mola tenuta sospesa, e soprattutto
riempio di sale con tutta abbondanza quelle parti in cui sono state lasciate
delle ossa; dopo aver disposto le pacche o i pezzi sopra dei tavolati,
mettetevi sopra dei larghi pesi, in modo che scolino bene. Al terzo giorno
rimuovi i pesi e strofina diligentemente con le mani la carne salata; quando
poi la vorrai rimettere a posto, aspergila di sale sminuzzato e ridotto in
polvere, e riponila così; non tralasciare di strofinare tutti i giorni la
salata finchè sarà matura.
Se
mentre si strofina la carne ci sarà bel tempo, la lascerai sotto sale per nove
giorni; ma se il cielo sarà nuvoloso o piovoso, bisogna portare la salata alla
vasca solo dopo undici o dodici giorni: dopo i quali, prima di tutto si scuote
il sale, poi si lava accuratamente con acqua dolce, in modo che da nessuna
parte rimanga attaccato del sale e, dopo averla lasciata asciugare un poco, la
sospenderemo nella dispensa della carne, dove giunga un po’ di fumo, che possa
asciugarla del tutto, nel caso che contenesse ancora un po’ d’acqua.
Questo
tipo di salata si potrà fare molto bene durante l’epoca del solstizio
invernale, ma anche nel mese di febbraio, prima però delle idi (Col. XII, 55).
Altro modo…
Poi
la carne si fa in pezzi del peso di una libbra; si prende quindi un botticello
e sul fondo si dispone uno strato di sale torrefatto e, come ho detto sopra,
appena spezzettato: vi si dispongono poi i pezzi di carne in modo che stiano
molto stretti, e a ciascuno strato si sovrappone del sale. Quando si sarà
arrivati al collo del botticello, l’ ultima parte si riempie di sale , e si
copre il recipiente ponendovi sopra dei pesi. Di questa carne si prenda pure
continuamente; si conserva nella sua salamoia con il pesce sotto sale. (Col.
XII, ibid.).
Le
ricette che seguono, tipiche della cucina calabrese, ricalcano , tranne per l’
uso del peperoncino che ha origine più recente, quelle di epoca romana sopra
riportate.
Carne
‘cartarata. Mettete la carne a strati in un vaso cilindrico di terracotta e
cospargete abbondantemente ogni strato di sale grosso e di peperoncino pestato,
comprimendo l’ ultimo strato con un disco di legno pressato con una grossa
pietra circolare, di quelle che si trovano lungo il greto delle fiumare.
Alici
salate. Pulite le alici eliminandone la testa e disponetele a strati(tre strati
di alici e uno di sale in un vaso cilindrico di terracotta. Coprite con un
ultimo strato abbondante di sale e ponete sotto un peso consistente. Lasciatele
così per ameno tre mesi , controllando di tanto in tanto che siano coperte
dalla salamoia. (da La Calabria a tavola).
GLOSSARIO
Specie
vegetali
Atreplice = Atriplex sp.;
Blito = Amaranthus blitum;
Canna = Arundo donax;
Enula o elenio = Inula
helenium;
Erba porcellana Portulaca
oleracea;
Ferula = Ferula communis;
Finocchio di mare = Chritmum
marinum;
Macerone = Smirnium
olusastrum;
Nasturzio = Nasturtium
officinale;
Porcellana = vedi “erba
porcellana”;
Puleggio = Mentha pulegium;
Pungitopo = Ruscus aculeatus;
Ramolaccio = Rumex sp.;
Scilla = muscari = Muscari
comosum;
Sonco = Sonchus oleraceus;
Tamno = Tamnus communis;
Vitalba = Clematis vitalba.
Termini
Colatura di alici: prodotto
tipico di Cetara (SA) ottenuto filtrando la salamoia prodotta dalle alici messe
sotto sale. Somiglia al garum.
Coppo: tegola cilindrica
usata per cuocere.
Garum: salsa di pesce
ottenuta filtrando la salamoia in cui erano immersi scarti di pesce,
prevalentemente “azzurro”.
Miele di fichi: liquido
zuccherino ottenuto dalla lenta bollitura dei fichi maturi.
Mosto cotto o sapa: succo d’
uva messo lungamente a bollire fino a ridurlo rispettivamente a un terzo e a un
quarto del volume iniziale.
Salamoia: sale sciolto in
acqua in diverse proporzioni. Nella salamoia forte veniva raggiunta la
saturazione.
Unità di misura
Capacità:
Ciato = 0,046 l = cica mezzo
bicchiere da vino;
Acetabolo = 0,068 = circa tre
quarti di bicchiere da vino;
Emina = 0, 274 l = poco più
di un quarto di litro;
Sestario = 0, 547 l = poco
più di mezzo litro;
Modio = 8,6 l.
Peso:
Scrupolo = gr. 1, 137;
Dramma = gr. 4 circa;
Oncia = gr. 28,75;
Libbra = gr. 327 circa.
Fonte: www.Beniculturali.it
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