Papa Francesco a Cagliari. 2000 anni fa nasceva il Cristianesimo
di Pierluigi Montalbano
Foto di Gianni Romolino Piras
Gli Atti degli Apostoli ci informano sugli inizi della fede. La Chiesa, che al momento dell'Ascensione superava appena le cinquecento persone, il giorno di Pentecoste, giorno della sua nascita vera e propria, vide ben 3000 persone farsi battezzare; fra costoro, molti erano abitanti di Gerusalemme, una città che allora contava appena 50.000 abitanti. Alla fine del I secolo si calcola che i cristiani fossero mezzo milione, diffusi in Palestina, Asia minore, Italia meridionale centrale e insulare (Sicilia e Sardegna), area costiera Nord-africana. Nel II sec. erano saliti a 2 milioni; zona di espan¬ione, Spagna, Gallia, isole britanniche. Nel III sec. i cristiani erano saliti a cinque milioni, mentre la popolazione dell'impero romano era stimata sui cinquanta milioni. Nel IV secolo -quando la Chiesa ottenne la libertà di esistenza pubblica con l'imperatore Costantino- il numero dei cristiani in tutto l'impero si ritiene che sia stato di circa dieci milioni.
La diffusione del cristianesimo avvenne mediante la predicazione orale eattraverso la propaganda degli scritti. Il cristianesimo a differenza dell'ebraismo è missionario, portate l’annuncio di Cristo risorto, di questo siete testimoni fino agli estremi confini del mondo, questo è un atteggiamento che nell’ebraismo non esiste. Nessun ebreo dice: «devi fare discepoli fino ai confini del mondo». La logica ebraica è un’altra: noi siamo il popolo eletto e dobbiamo conservare la fedeltà alle tradizioni tramandate dai nostri padri. Il cristianesimo, invece, ha uno slancio missionario sin dalle origini. Molta di questa evangelizzazione fu fatta da Paolo, l’apostolo delle genti, ossia dei “non ebrei”. Il mondo, nella prospettiva ebraica si divideva in due parti: noi, cioè gli ebrei, il popolo eletto; e poi le genti: il resto del mondo, i pagani. San Paolo riconosce di essere stato mandato ad annunciare il cristianesimo ai pagani e diffonde il cristianesimo in Turchia, in Grecia e poi a Roma. In Italia la propagazione della fede seguì il corso delle vie militari e commerciali. A spingere alla conversione furono il fervore della fede dei primi cristiani, il loro amore fraterno, l'eroismo dei martiri.
Nel 70 avviene la distruzione del Tempio perciò una parte della religione che si fondava sulla legge, le prescrizioni, i rituali del Tempio, i pellegrinaggi, viene cancellata. Il giudaismo oggi è diverso perché ha dovuto rinunciare ai riti del Tempio e reimpostare in modo diverso tutta la sua religiosità. I primi cristiani andavano spontaneamente in sinagoga perché erano si sentivano ebrei, andavano al tempio (quando Pietro guarì uno storpio alla porta del tempio, vuol dire che lo frequentava) anche se gradualmente alcune pratiche dell’ebraismo furono considerate meno importanti e poi abbandonate, e proprio ciò creò lo scontro. Nel 70 la separazione è ormai netta, gli ebrei non sopportano più questa setta e maledicono i cristiani che, tuttavia, non porgono l'altra guancia e rispondono con anatemi, d'altronde l'astio è ben visibile nei vangeli dove le parole di Gesù contro i farisei sono sempre molto dure.
Viventi gli apostoli, esisteva una doppia gerarchia, una universale e una locale. La prima era esercitata dagli apostoli in comune (concilio apostolico), o singolarmente (Giovanni e Pietro che si recano in Samaria; Paolo che fonda una serie di chiese nell'Asia minore), o con collaboratori al servizio di un apostolo (Barnaba viene inviato ad Antiochia in qualità di plenipotenziario). La giurisdizione locale veniva esercitata da sovrintendenti locali, messi dagli apostoli a capo delle singole comunità. Con la morte dell'ultimo apostolo si estingue la gerarchia universale e i sovrintendenti locali diventano automaticamente dei veri vescovi diocesani.
Il compito dell'ufficio divino di Pietro continua nei suoi successori, è la communio fra le chiese, inizialmente costituite da piccolo comunità con un vertice gerarchico. Numerose le testimonianze esplicite del primato romano (Ignazio di Antiochia, Ireneo di Lione, Cipriano di Cartagine). Dal III sec. si sviluppa anche una dottrina sul primato, ma è nel IV secolo che si evidenzia in maniera chiara l'autorità del vescovo di Roma. A lui si fa ricorso in grandi controversie in quanto è riconosciuto suprema istanza di giudizio e partecipa, tramite delegati, ai concili convocati dall'imperatore.
Le prime comunità cristiane furono fondate nelle città e si chiamavano parrocchie, cioè comunità di forestieri. Loro capi erano i vescovi. Nelle città maggiori le comunità si divisero in più chiese. Case private divennero abitazioni dei presbiteri e centri di attività pastorali.
Al tempo di papa Cornelio, mandato in esilio a Centumcellae (Civitavecchia), dove morì nel 255, Roma contava “46 preti, 7 diaconi, 7 suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e portinai, più di 1500 vedove e indigenti che la grazia e la filantropia del Signore nutrono tutti”. Una rigida gerarchia con in testa il vescovo che era amministratore e pastore della comunità, coadiuvato dai preti incaricati della cura dell’anima. Seguivano i diaconi, collegio dove generalmente si sceglieva il vescovo eletto da tutto il popolo cristiano; quindi venivano i sette gradi del chiericato, chiudendo la lista le vedove le quali, al pari degli altri ordini, ricevevano dal vescovo l’imposizione delle mani. All’epoca il numero dei fedeli si aggirava intorno ai 5000, mentre la città poteva contare fra un milione di abitanti.
Ai tempi di Cornelio, nell’Italia c’erano 60 vescovi distribuiti in varie diocese. Conosciamo solo quelle settentrionali: Milano, Aquileia, Ravenna, Verona e Brescia. Verso il 300 le chiese erano già una ventina.
Le diverse parrocchie costituivano una provincia ecclesiastica i cui confini coincidevano con quelli delle provincie dell'impero romano. A capo di queste eparchie si trovavono vescovi di capoluoghi di provincia che, dal IV secolo, presero il nome di metropoliti.
Sin dal II secolo i vescovi di una provincia erano soliti riunirsi in sinodi dove rinsaldavano l'unità delle chiese e vigilavano sull'ortodossia dei fedeli. Al di sopra dell'organizzazione provinciale, il concilio di Nicea del 325 sancì l'ordinamento patriarcale, già in atto da tempo. Tre i patriarcati allora riconosciuti: Roma, Alessandria d'Egitto e Antiochia, definita da San Girolamo “metropoli di tutto l'Oriente”, con giurisdizione sulle diocesi dell'Asia.
Con la fondazione di Bisanzio-Costantinopoli, la sede episcopale di Costantinopoli, in forza dell'autorità che le veniva dal fatto che la città era la Nuova Roma, acquistò il grado corrispondente alla posizione raggiunta e divenne così patriarcato. Con Costantinopoli fu elevata di grado anche la sede di Gerusalemme, “madre di tutte le chiese” e fino ad allora soggetta al metropolita di Cesarea, in Palestina. I vescovi di alcune sedi esercita¬rono poi una specie di potere patriarcale su un vasto territorio: così la chiesa di Cartagine nell'Africa Nord-orientale; quella di Milano dell'Italia settentrionale; quella di Arles nella Gallia meridionale e quella di Tessalonica nell'Illiria orientale. In seguito alla controversia dei Tre Capitoli sorsero in Occidente altri due patriarcati titolari, quello di Grado che poi si riconciliò con Roma e quello della vecchia Aquileia che, per significare la sua indipendenza, prese il nome di patriarca. Nel 1451 il patriarcato di Grado venne trasferito a Venezia, mentre l'altro, dopo la distruzione di Aquileia (terremoto 1348), fu trasferito a Udine finché, nel 1751, venne soppresso.
Le Chiese d'Oriente godettero fin dall'inizio di una forte autonomia, a motivo della loro origine apostolica, tuttavia l'indipendenza delle Chiese d'Oriente fu limitata dall'imperatore, riconosciuto come sacerdote-re, secondo il modello di Melchisedec, unico rappresentante di Dio che esercita l'autorità anche sulla Chiesa, per quanto gli affari interni rimasero riservati alla gerarchia.
Obbedendo al comando del Salvatore gli Apostoli si fecero missionari, annunciando il Vangelo di salvezza, in ambito giudaico, prima e poi anche tra i pagani. Due di loro, Pietro, "fondamento della Chiesa" e Paolo, "apostolo dei Gentili", giunsero a Roma, capital del mondo e luogo del loro martirio.
I primi contatti dell'apostolo Paolo con i cristiani di Roma ci sono noti, grazie alla Lettera loro inviata, circa l'anno 56/57, con la quale comunicava la sua intenzione di recarsi presso di loro. Per sopravvenute difficoltà, Paolo giunse a Roma solo nella primavera del 61, non più da libero, ma da prigioniero per esservi giudicato. Era appena sbarcato in Italia, a Pozzuoli, e l'Apostolo fu salutato da alcuni fratelli di fede, che là risiedevano. Pozzuoli era uno dei porti secondari dove facevano capo le rotte provenienti dall'Oriente, con destinazione Roma e la presenza di cristiani locali è una delle prove che l'attività missionaria aveva seguito le vie commerciali, per terra e per mare.
Pietro giunse a Roma poco dopo l'arrivo della Lettera di San Paolo ai Romani, forse nel 41 ma nulla sappiamo sulla convivenza dei due apostoli a Roma. Di certo erano ambedue in questa città nell'anno 64 quando, nelle vicinanze del Circo Massimo, il 19 luglio, scoppiò un grande incendio che si estese poi al resto della città, allora suddivisa in quattordici regioni: tre furono completamente distrutte, sette gra-vemente danneggiate e solo quattro rimasero illese. Ne fu accusato Nerone (54-68) il quale ritorse le accuse sui cristiani qualificati da Tacito come razza di gente di superstizione nuova e perversa, accesi d’odio contro il genere umano.
Racconta Tacito che l'imperatore presentò i cristiani “come rei e li punì con pene orribili, coperti con pelli di belve furono dati a sbranare ai cani; molti furono crocifissi o arsi; altri ancora, dopo il tramonto, furono bruciati come fiaccole notturne. Per tale spettacolo Nerone aveva offerto i suoi giardini del Vaticano, dove era solito dare giochi da circo, mescolandosi in abito da auriga con la plebe, o girando su di un carro".
Quella di Nerone non fu la prima persecuzione. Riferisce Svetonio che su istigazione dei seguaci di un certo Chrestos, nel 49 dell’era cristiana, c’erano stati scontri tra ebrei e cristiani; ci fu allora un intervento dell'imperatore Claudio (41-54) contro i giudei responsabili di diffondere idee di una nuova setta, causando disordini. Vittime illustri, Aquila e Priscilla che, allontanati da Roma, si recarono a Corinto, dove incontrarono l'apostolo Paolo. A questa persecuzione seguì quella cruenta decretata nel 64 dall'imperatore Nerone. I supplizi disposti dall’imperatore ed estesi anche alle donne cristiane, cominciati nell'estate del 64, si diffusero poi fuori Roma, fino in Asia. Tra le vittime di questa persecuzione: Pietro, crocifisso nel territorio Vaticano e sepolto a fianco ad altri sepol¬cri nel 64, e Paolo, decapitato sulla Via Ostiense nel 67. Da allora, con uno speciale constitutum, riferito da Tertulliano, fu vietata la professione del cristianesimo.
Disposero così persecuzioni, nello stesso secolo I: Domiziano (81-98); nel secolo successivo, Marco Aurelio, l'imperatore filosofo (161-180); quindi, nel terzo secolo, Decio (250-251) e Valeriano (254-259); nel IV secolo seguì la grande persecuzione, ordinata da Diocleziano (284-305) con tre editti. Nel primo, emanato a Nicomedia il 24 febbraio 303, fu decretato che le chiese fossero rase al suolo e le Sacre Scritture bruciate; mentre coloro che erano costituiti in dignità dovevano essere privati della libertà qualora avessero perseverato nella fede cristiana. Con un secondo editto si comandò che "tutti i capi delle chiese fossero, prima di tutto, messi in carcere e poi, con ogni mezzo, costretti a sacrificare". Un terzo editto dispose che "coloro i quali erano chiusi in carcere, fossero messi in libertà se avessero sacrificato; mentre quelli che rimanevano saldi dovevano essere torturati con infiniti tormenti". Da quel momento la persecuzione imperversò nel resto dell'impero e durò fino al 305, tre secoli designati come l'epoca delle persecuzioni .
La prassi degli imperatori fu quella inaugurata da Traiano (98-117): procedere solo nei confronti di coloro che erano stati denunciati come cristiani e che non intendevano recedere; mentre era vietata la ricerca dei cristiani per iniziativa dell’autorità. Si spiega perché dal II secolo in poi ai cristiani fu lecito acquistare fondi, erigere chiese e persino aprire scuole, come fece Giustino. Così che il periodo delle catacombe fu un’eccezione. Causa delle persecuzioni fu la radicale opposizione tra la nuova religione straniera e il paganesimo incarnato nello Stato romano. Ma fino alla persecuzione di Decio (250-251) l’atteggiamento degli imperatori fu oscillante. I cristiani non erano rivoluzionari, anzi erano fedeli allo Stato, pagavano le tasse e pregavano pure per il bene dell’imperatore; potevano tuttavia essere perseguitati per delitti di ateismo e di lesa maestà in base all’institutum neronianum.
Quando i cristiani furono perseguitati si riservarono loro i tormenti più atroci, come la condanna all’arena, torture di vario genere, fino a far arrostire il martire su una sedia metallica. Le fonti raccontano i supplizi loro inflitti con descrizioni dettagliate e autentiche. Tali il Martirio di Policarpo, vescovo di Smirne (156/167) e la Lettera delle Chiese di Vienne e di Lione (177/178) ai cristiani dell’Asia Minore. C’era nei martiri la comune coscienza che, con il loro martirio, avrebbero liberato i pagani dal loro ingiusto pregiudizio. Affrontando la morte, spesso dopo sanguinose torture, i martiri divennero i testimoni più significativi del Cristo, della sua dottrina e della sua vittoria sull’avversario. La passione del martire divenne la continuazione della Passione di Cristo.
Posteriore di una decina d’anni, l’Apologia di Giustino è una lettera indirizzata all’imperatore Antonino Pio, a suo figlio, al santo senato e a tutto il popolo romano. Il filosofo ellenista aprì a Roma una scuola, difendendo la nuova religione, presentando la vita rigorosamente morale dei cristiani, confutando le malevoli dicerie correnti.
Le tombe dei martiri, le catacombe (sepolture scavate nelle arenarie), dopo la liberazione, cioè dal IV secolo, divennero meta di pellegrinaggi e sulla loro area si eressero chiese, o mausolei, per la celebrazione eucaristica che si faceva il giorno dell’anniversario del martirio e si concludeva con il racconto della morte e un pasto funebre. Il sacrificio del martire viene così intimamente legato al sacrificio del Signore rappresentato e celebrato nell’eucarestia. Ecco perché Ignazio di Antiochia (inizi II secolo) vuole essere frumento per i denti delle bestie, per unirsi così al suo maestro e farsi eucarestia con lui.
Il culto dei martiri è una delle radici che hanno fatto poi fiorire il culto dei confessori, dei monaci e delle monache. Finita l’epoca delle persecuzioni, i monaci furono infatti coloro che proseguirono la tradizione dei combattenti della fede, instaurata col martirio.
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