Fenici e Cartaginesi in Sardegna
di Massimo Pittau.
Quasi sicuramente i Sardi Nuragici ebbero i loro primi contatti col popolo fenicio in Oriente, in occasione delle incursioni che essi fecero coi «Popoli del Mare», e precisamente sia in Fenicia, sia in Cipro, sia infine in Egitto, dove i Fenici erano di casa, dato che erano quasi sempre al servizio dei Faraoni. Quelle incursioni, infatti, che sono avvenute fra i secoli XIII e XII a. C., sono precedenti di circa due secoli ai primi approdi effettuati dai Fenici in Sardegna forse nel secolo XI a. C. È molto probabile dunque che siano stati i Sardi Nuragici a frequentare i Fenici nella Fenicia, assai prima che i Fenici frequentassero i Sardi Nuragici nella Sardegna. Da questa importante circostanza si debbono trarre due logiche e necessarie conseguenze:
1) È molto più ovvio e logico ritenere che i più antichi reperti fenici che sono stati trovati in Sardegna, vi siano stati portati non dai Fenici stessi, bensì dai Sardi al ritorno dai loro viaggi effettuati in Egitto, a Cipro e nella stessa Fenicia.
2) La prima spinta all’arrivo dei Fenici in Sardegna sarà venuta dagli approcci che essi avranno avuto coi Sardi nelle citate zone del vicino Oriente. Si può addirittura ipotizzare con verosimiglianza che siano stati gli stessi Sardi a sollecitare la venuta in Sardegna degli abili e intraprendenti mercanti della Fenicia.
Circa poi gli stanziamenti che i Fenici avrebbero effettuato in Sardegna si impone l’obbligo di respingere un esempio di quella xenomania da cui si sono finora dimostrati affetti non pochi studiosi della Sardegna antica, xenomania che in questo caso si specifica come feniciomania. Essi hanno sostenuto e sostengono la tesi secondo cui i Fenici avrebbero fondato loro «stanziamenti stabili» nell’Isola e avrebbero addirittura fondato città, da cui avrebbero effettuato tentativi riusciti di penetrazione verso l’interno; e avrebbero fatto tutto ciò in opposizione e cioè contro la resistenza degli indigeni, i Sardi Nuragici.
Questa tesi va respinta innanzi tutto per precise e stringenti ragioni di carattere militare, quelle in base alle quali si sa con certezza che una «testa di ponte» mette sempre in grave “crisi tattica” un qualunque esercito la tenti o la effettui. Non si può affatto ipotizzare, dunque, che «teste di ponte» create dai Fenici in Sardegna in opposizione ai Sardi Nuragici si potessero prima mantenere e dopo allargare nel retroterra. E ciò per due concomitanti e insormontabili difficoltà: da una parte l’enorme distanza di mille miglia esistente fra quelle «teste di ponte» e le loro basi logistiche della Fenicia (l’odierno Libano), distanza che avrebbe impedito il necessario continuo rifornimento di uomini, armi, navi e viveri, dall’altra la circostanza che quelle «teste di ponte» sarebbero state effettuate non in una terra più o meno disabitata, bensì in una terra abitata da un popolo, il quale aveva già espresso grandi capacità politiche, militari ed economiche e che proprio in quel torno di secoli aveva raggiunto l’acme della sua potenza. Nel secolo XI a. C. sarebbe stato del tutto facile per i Sardi Nuragici respingere o distruggere le teste di ponte che i Fenici avessero tentato di effettuare nelle coste dell’Isola contro la loro volontà di padroni di casa. E ciò va detto anche nella supposizione che le basi di partenza dei Fenici non fossero propriamente quelle della lontanissima madrepatria, ma fossero le colonie fenicie dell’Africa settentrionale, ad esempio Utica, fondata, secondo la tradizione, nel 1101 a. C.
Con tutto ciò è ovvio che noi non intendiamo affatto negare che i Fenici abbiano effettivamente stabilito nell’Isola alcune «teste di ponte», ma queste avranno avuto esclusivamente il carattere di «stazioni mercantili» od «empori commerciali» e nient’affatto un carattere militare e inoltre esse non saranno state imposte con la forza ai Sardi Nuragici, ma saranno state da questi consentite, autorizzate e controllate. Inoltre, in base a precise testimonianze relative ad altri popoli antichi, c’è anche da supporre che i Fenici pagassero ai Sardi Nuragici tasse e dazi a titolo di licenza commerciale e di affitto per i terreni occupati nell’Isola, così come in seguito i loro connazionali di Cartagine faranno a lungo a favore degli indigeni dell’Africa settentrionale.
A questo proposito ci piace citare il punto di vista di Emidio De Felice, linguista di notevole autorità, conseguita anche in virtù della sua ampia apertura alla problematica storica e culturale dei popoli: «I Fenici (….) non sono presenti in Sardegna come dominatori e conquistatori, ma solo come navigatori e commercianti, in un rapporto non di egemonia o di prevaricazione rispetto ai Sardi Nuragici, ma di parità e di reciproco rispetto: creano approdi per le loro rotte occidentali – che d’altra parte si svolgono prevalentemente lungo le coste dell’Africa -, basi di rifornimento, fondaci; non vi è traccia di fortezze e di grandi complessi fortificati, e non appaiono infatti in Sardegna i toponimi in ‘gdr “muro di difesa, fortificazione” del tipo Gadir, Gades, presenti invece nell’Africa settentrionale e in Iberia».
Sempre affetta da «feniciomania» e quindi da respingere anch’essa è la tesi, secondo cui i Fenici avrebbero fondato in Sardegna le città di Karalis, Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa. Relativamente a Karalis (Cagliari) c’è da affermare che è assurdo ritenere che, molto prima dei Fenici, i Sardi Nuragici non avessero messo occhio e provato interesse per questa località, caratterizzata come era da facili approdi, sia ad oriente che ad occidente, munita di un colle dirupato, facilmente trasformabile in roccaforte, ricca di importanti saline e posta all’imboccatura di quella laguna di Santa Gilla, che non solo era molto pescosa, ma portava anche fino ad Assemini, nella direzione delle risorse agricole del Campidano e di quelle minerarie dell’Iglesiente. Del resto risulta accertato che nell’area di Cagliari lo stanziamento umano risale al periodo eneolitico e forse anche a quello neolitico, come risulta dai ritrovamenti effettuati a Sant’Elia, San Bartolomeo e a Monte Claro. Inoltre è un fatto che il toponimo Karalis è quasi sicuramente sardiano o protosardo, dato che trova riscontro nei toponimi sardiani Carále (Austis) e Carallái (Sorradile) e soprattutto nell’appellativo sardiano caraíli «macigno, roccia, rupe» (Isili, Villaputzu) (DitzLes).
A proposito di Nora si deve considerare che nella cerchia cittadina si trova ancora un pozzo nuragico, sono stati rinvenuti uno stiletto e una navicella nuragici, un elemento costruttivo di nuraghe inserito nel muro del tempio cartaginese di Tanit, elemento che probabilmente apparteneva a quel nuraghe che era situato nell’istmo fino 70 anni fa e che è stato distrutto completamente per la costruzione della odierna stazione militare. E anche il toponimo Nora non è fenicio, mentre trova riscontro in altri due uguali dell’Asia Minore. «I coloni fenici e punici – ha scritto sensatamente il linguista Vittorio Bertoldi – si stanziarono nel centro di Nora già abitato da indigeni, rispettandone il nome».
A proposito di Bithia si è parlato di «interazione dei due elementi – Sardo e Fenicio – », come dimostra il rinvenimento di tombe che hanno dato materiale nuragico. Ma più significativo è il fatto che tutt’intorno alla città si trovano ancora i resti di almeno 8 nuraghi e inoltre che il toponimo è quasi sicuramente sardiano o protosardo.
A Sulci (= Sant’Antioco) sono stati rintracciati i resti di 23 nuraghi, di cui uno sotto le fondamenta del cosiddetto «Fortino Sabaudo», posto a pochi metri da un tempio cartaginese; così come resti di nuraghi esistono ancora nella vicina isola di San Pietro (antica Enosim = «Isola degli Sparvieri»).
Il retroterra di Tharros, cioè tutta la zona del Sinis è punteggiata da nuraghi, due nuraghi esistono nella penisola in cui era situata la città e uno si trovava proprio nella zona del suo tophet. E pure il toponimo Tharros/Tárrai non è fenicio, mentre trova riscontro in quello sardiano Tarrái (Galtellì).
Per Bosa poi, da una parte è quasi incredibile che si osi affermare che essa sia stata fondata dai Fenici soltanto per la circostanza che vi sarebbe stata rinvenuta una scritta in fenicio – una sola, smarrita dalla fine dell’Ottocento e probabilmente falsa -, dall’altra si sorvoli sul fatto che anche a Bosa esistono resti di nuraghi, uno nella periferia orientale della città e gli altri tre nel suo territorio.
Orbene, siccome è certo che i nuraghi sono stati costruiti dai Sardi Nuragici e non dai Fenici, c’è logicamente da concludere che anche a Nora, Bithia, Sulci, Tharros e Bosa esistevano già altrettanti stanziamenti nuragici, prima che ad essi si affiancassero quelli fenici.
E pure l’antichità degli stanziamenti fenici in Sardegna va grandemente ridimensionata, come dimostra la seguente affermazione dell’archeologo Ferruccio Barreca: «L’archeologia documenta la presenza di Fenici in Sardegna già nel sec. XI a. C., con un frammento epigrafico rinvenuto a Nora. Quel frammento però non è sufficiente a dimostrare la presenza permanente dei Fenici nell’Isola; presenza che è invece sicuramente documentata solo a partire dal sec. VIII a. C., grazie alla scoperta, in luoghi di culto cittadino (tophet), di ceramiche fenicie e greche databili a quel secolo (Sulci e Tharros)».
Concludiamo quest’altro punto dicendo che è indubitabile che in Sardegna c’è stata una “precolonizzazione semitica”, cioè promossa dai Fenici che provenivano dalle loro basi della lontana madrepatria orientale od anche dalle loro colonie dell’Africa settentrionale, ma questa precolonizzazione non è stata effettuata in opposizione o contro la volontà dei Sardi Nuragici, bensì è stata da questi probabilmente sollecitata e sicuramente consentita, autorizzata e verosimilmente sottoposta a pedaggi. Ancora è indubitabile che in Sardegna è esistita anche una «colonizzazione semitica», imposta contro la volontà dei Sardi Nuragici, ma essa si è identificata con l’imperialismo dei Cartaginesi, che però è stato di molto posteriore nel tempo, dato che è iniziato – come vedremo più avanti – non prima dell’anno 480, con la seconda spedizione cartaginese in Sardegna guidata dai fratelli Amilcare e Asdrubale, figli di Magone.
Sconfitti nella loro prima spedizione effettuata in Sardegna e guidata da Malco, i Cartaginesi tornarono all’attacco con una più forte spedizione guidata dai fratelli Amilcare e Asdrubale, probabilmente qualche anno dopo il 480 a. C. Questa data, che segna la presenza di reparti mercenari di Sardi nell’esercito cartaginese sconfitto dai Siracusani ad Imera in Sicilia, ovviamente va considerata come il terminus post quem per la seconda spedizione dei Cartaginesi in Sardegna. Questa volta i tentativi dei Cartaginesi di allargare le loro teste di ponte in Sardegna ottennero effettivamente risultati positivi. Ai Sardi Nuragici sicuramente venne meno qualsiasi aiuto da parte dei loro connazionali, sia i Sardiani della Lidia sia i Tirreni dell’Etruria. I primi infatti erano ormai sotto il pesante dominio dei Persiani, i secondi erano ormai sotto la forte pressione della crescente potenza di Roma.
I recenti storici della Sardegna antica ritengono invece che la seconda spedizione dei Cartaginesi per la conquista dell’Isola sia immediatamente anteriore o posteriore all’anno 509/508, al quale risalirebbe il primo trattato stipulato tra Cartagine e Roma. Noi invece seguiamo quegli storici moderni, con in testa Teodoro Mommsen, Ettore Pais e Andràs Alföldi, i quali ritengono che quel trattato non ci sia mai stato e che Polibio che ne ha parlato abbia fatto confusione col trattato del 348/347, il quale definiva i diritti-doveri delle due potenze: i Cartaginesi rinunziano ad ogni mira commerciale nella penisola italiana, mentre i Romani riconoscono che la Sardegna appartiene alla sfera di influenza politica e coloniale dei Cartaginesi. Noi ci limitiamo a far osservare che è pressoché assurdo che Roma, che nel 509/508 era appena uscita da una gravissima crisi interna, determinata dalla cacciata della monarchia etrusca dei Tarquini e dal suo passaggio istituzionale dalla monarchia alla repubblica, avesse la capacità e la forza politica per entrare in un accordo paritetico con Cartagine, che era allora la più grande potenza del Mediterraneo centrale.
D’altra parte, pur prescindendo dalla questione della data anche approssimativa della seconda spedizione dei Cartaginesi in Sardegna, nonostante i sicuri successi sia diplomatici sia militari che avevano consentito a Cartagine di far entrare la Sardegna nella sua sfera di influenza, esistono numerose prove che dimostrano che da un lato il suo dominio sull’Isola tardò parecchi decenni prima di imporsi realmente, dall’altro esso non riuscì mai a includere anche la zona interna e montana dell’Isola, nella quale varie tribù nuragiche mantennero sempre una effettiva indipendenza e autonomia dalla potenza dominante.
D’altronde a noi sembra, in linea generale, che in questi ultimi decenni da parte di alcuni archeologi sia stata enfatizzata in maniera spropositata la presenza dei Fenicio-Punici in Sardegna, in termini antropici, militari e culturali. Essi hanno disegnato e presentato carte geografiche della Sardegna antica, in cui sono tracciate le supposte linee di sistemi fortificati costruiti dai Cartaginesi, di loro strade che sarebbero arrivate fin nella Sardegna interna e montana, di stanziamenti fenicio-punici stabiliti dappertutto nell’Isola, perfino nelle sue zone più interne…. Tutto questo motivato e sostanziato soltanto dalla circostanza di aver trovato qua e là nell’interno dell’Isola qualche anello o collana o statuina o vaso di fattura fenicio-punica e trascurando di considerare che questo materiale poteva essere il semplice frutto del commercio fra i Cartaginesi e gli indigeni sardi, oppure di razzie effettuate da questi a danno di quelli. Peggio ancora: hanno parlato di stanziamenti fenicio-punici in località della Sardegna interna, in cui hanno trovato i resti di capanne di forma quadrangolare (ad es. a Nurdole, presso Nùoro), quasi che i Sardi Nuragici fossero capaci di costruire soltanto capanne circolari e non anche capanne quadrangolari….
Però su questo preciso argomento tali archeologi vengono contraddetti in maniera chiara e decisiva dalla linguistica storica: nell’intero patrimonio lessicale della odierna lingua sarda sono stati trovati appena 7 (sette) vocaboli che derivano direttamente dalla lingua fenicio-punica dei Cartaginesi: ásuma «alaterno», curma «ruta d’Aleppo», grúspinu «crescione», sicchiría «varietà di aneto», sintzurru «equiseto palustre», tzíppiri «rosmarino» (tutti fitonimi), tzingorra «ceriola, anguilla giovane» e inoltre i toponimi Macomer «Città di Merre», Magomadas «Villa Nova» e Mara e Villamar «fattoria». Il che ha fatto giustamente dire al linguista Emidio De Felice che in Sardegna «l’apporto fenicio e cartaginese è insignificante» ed a Paul Swiggers: «(a) nelle zone dove i Fenici e i Punici si sono stabiliti, la cultura autoctona – e gli usi linguistici autoctoni – sono sopravvissuti, e (b) la colonizzazione fenicio-punica in Sardegna era soprattutto una espansione economica, e non era guidata da una politica culturale. Concretamente questo vuol dire che la presenza dei Fenici e dei Punici sull’isola sarda era centrata attorno ad empori ed implicava una interazione molto ridotta fra le popolazioni indigene e i colonizzatori».
Lo studioso tedesco della lingua sarda, Max Leopold Wagner, ha commentato da par suo questi incontrovertibili dati linguistici: «i Punici abitavano le città del litorale, mentre i contadini dei dintorni erano sardi. Singoli punici si erano certamente stabiliti nei latifondi presso le città litoranee ed è probabile che in queste regioni si sia formata una popolazione mista, sardo-punica; ma che, ad ogni modo, non siano esistiti nell’interno nuclei punici importanti, lo prova il fatto che le necropoli puniche di qualche rilievo si trovano unicamente nelle città della costa e che più addentro si è tutt’al più scoperta qualche tomba isolata, come a Sagama e a Geremeas. Condizioni non molto diverse si riscontrano nelle altre regioni che furono in possesso dei Punici, in Sicilia, in Spagna e persino nell’Africa settentrionale, dove i Punici occuparono le città del litorale, mentre il retroterra era abitato dai Libici e vi si parlava la lingua libica».
Questa importante e sostanziale considerazione di carattere linguistico ne implica un’altra di carattere demografico od antropico generale: l’apporto antropico dell’elemento semitico in Sardegna – prima fenicio e dopo cartaginese – sarà stato molto ridotto in tutti i tempi. Una immigrazione notevole di individui di stirpe fenicia e punica nell’Isola è da escludersi con decisione. Certamente è il caso di pensare ad una immigrazione forzata nell’Isola di manodopera servile o semiservile importata e adoperata dai Cartaginesi nelle miniere dell’Iglesiente e del Sarrabus e nei lavori agricoli del Campidano, ma neppure questa avrà mai raggiunto cifre rilevanti di individui e inoltre sarà stata non di etnia fenicio-punica, bensì di etnia africana o berbera. Se tutto questo non fosse vero, non potremmo in alcun modo spiegare la su indicata irrilevanza dell’apporto linguistico fenicio-punico in Sardegna. Del tutto diversa ed opposta invece è stata la successiva posizione di Roma: essa ha “cancellato” quasi completamente la lingua sardiana o protosarda o nuragica – della quale adesso restano soltanto pochi relitti toponimici e pochissimi relitti lessicali – ed ha imposto totalmente la sua lingua latina.
D’altra parte, in termini generali, si deve considerare con la massima attenzione che il dominio cartaginese sui Sardi non fu sempre né dappertutto oppressivo. Esclusi i momenti di guerra effettiva ed escluse le zone dell’Isola che ne venivano di volta in volta investite e coinvolte, esistono numerosi indizi che inducono a pensare a rapporti fra i Cartaginesi e i Sardi Nuragici, che alla lunga finirono col caratterizzarsi come una notevole intesa e stretta collaborazione.
Lo dimostra in primo luogo la circostanza che Cartagine assoldò Sardi e Corsi (evidentemente non soltanto quelli della Corsica ma anche quelli della Gallura) fra le sue truppe mercenarie per le guerre combattute in Sicilia contro i Greci, prima nel 480 a. C. in occasione della battaglia di Imera e dopo negli anni 397-392 in occasione della guerra di Magone contro Dionisio di Siracusa (Erodoto VII 165; Diodoro Siculo XIV 95, 1); lo dimostra la stretta alleanza che si stabilì fra i Cartaginesi e i Sardi contro i Romani nel 259-258 e in seguito nel 215 all’epoca della ribellione di Ampsicora contro i Romani; lo dimostrano i continui approvvigionamenti che in più occasioni partirono dalla Sardegna a favore degli eserciti cartaginesi (Diodoro Siculo XI 20, 4; XIV 63, 4; 77, 6; 91, 1; 95, 1; XXI 14, 16; Polibio I 82, 7).
Ma la notevole intesa e la stretta collaborazione tra i Cartaginesi e i Sardi Nuragici è chiaramente provata da una importante notizia data da Aristotele (Politica III 9, 1280a 36), secondo cui fra i Tirreni e i Cartaginesi si era determinata una alleanza così stretta e stabile, che gli uni e gli altri erano «come cittadini di una sola città», cioè di un solo Stato. Per il vero questa notizia viene citata abbastanza di frequente dagli etruscologi, però in effetti non ha suscitato in loro particolare attenzione e sufficiente interesse. Ciò evidentemente è avvenuto perché, riferita ai Tirreni dell’Etruria, quella notizia non risulta confortata da altri elementi contestuali, storici e soprattutto geografici. Se invece venga riferita ai Tirreni Nuragici della Sardegna, allora essa si spiega alla perfezione, in quanto viene confortata sia da un preciso contesto storico-geografico, la Sardegna, in cui hanno coabitato e collaborato a lungo i Cartaginesi coi Sardi Nuragici, sia dai numerosi dati storici su citati e commentati, sia infine da un altro dato ancora grandemente significativo: la coniazione di monete sardo-puniche, aventi la testa della dea punica Tanit nel diritto e il nuragico toro col simbolo solare nel verso. La coniazione di queste monete sardo-puniche deve essere considerata non come un fatto occasionale, con finalità propagandistiche in vista della comune lotta combattuta contro i Romani – come finora si è interpretato e detto -, bensì come un fatto che denota e dimostra una effettiva e stabile situazione di intesa politica, giuridica, militare ed economica esistente fra i Cartaginesi da un lato e i Sardi Nuragici dall’altro. Quella emissione di monete sardo-puniche è caratterizzata da una elevatissima valenza dimostrativa, posto che anche nell’antichità il battere moneta era segno e prova di effettiva autonomia politica e giuridica goduta da un popolo, in questo caso dai Sardi Nuragici nei confronti dei Cartaginesi.
D’altronde questa stessa monetazione sardo-punica ci convince anche di un altro fatto assai importante in termini storiografici: l’intesa e la collaborazione politica e militare intercorsa a lungo fra i Sardi Nuragici ed i Cartaginesi – nonostante gli inevitabili episodi di attrito e di contrasto – era fondata anche sulla circostanza che le rispettive economie erano perfettamente complementari fra loro: agricola e mineraria quella dei Sardi Nuragici, artigianale, industriale e commerciale quella dei Cartaginesi.
Tutto questo viene chiaramente confermato da una notizia registrata dai Fasti Trionfali Capitolini: il 6 ottobre del 258 a. C. il Senato concesse al console L. Cornelio Scipione l’onore del trionfo «sui Cartaginesi e sui Sardi» (de Poenis et Sardis). «Questa associazione – ha osservato giustamente lo storico moderno Piero Meloni – fa pensare che i Sardi venissero considerati da Roma come una ben distinta entità etnica, a fianco dei Cartaginesi, su un piano di collaborazione militare, non di subordinazione in qualità di mercenari». Esatta considerazione, alla quale però noi aggiungiamo: «Non solamente Roma, ma a maggior ragione Cartagine considerava i Sardi associati ed alleati, non sudditi né sottomessi». E tutto questo avvenne tale e quale anche al tempo della rivolta di Ampsicora contro i Romani, nell’anno 215 a. C.
L’insieme di tutte queste chiare e stringenti considerazioni ci spinge a ritenere che fra i Sardi Nuragici e i Cartaginesi esistesse un rapporto politico, giuridico, militare ed economico che possiamo e dobbiamo definire «federazione» e precisamente «Federazione Sardo-Cartaginese»; che è esattamente quel rapporto che la importante notizia di Aristotele su riportata lascia chiaramente intendere.
E se tutto questo è vero, è necessario che ci si abitui a chiamare Caralis, Nora, Bithia, Sulci, Tharros, Cornus non «città puniche», come troppo spesso si fa, bensì propriamente «città sardo-puniche», città nelle quali i due nuclei etnici e culturali si mescolavano o almeno convivevano.
Nell'immagine: Bes, una divinità benefica orientale presente in Sardegna
da Rolando Berretta.
RispondiEliminaGrazie Professore.
Una piccola nota che mette, bene, a fuoco i rapporti tra i Cartaginesi e i Sardi.
Amilcare Barca, dopo la conclusione della rivolta dei Mercenari, se ne andò in Spagna. Il famoso giuramento, che impose ai figli, evidenzia il suo stato d’animo. Le successive operazioni militari dei Liguri, Corsi e Sardi contro Roma, evidenziano chiaramente lo ZAMPONE di Amilcare. Amilcare non poteva tornare a casa. Ipotesi confermata dal giuramento di Annibale: uno dei figli di Amilcare. Annibale giurò per Iolao. Un Cartaginese non avrebbe giurato chiamando a testimone Iolao. Solo un Sardo/Cartaginese poteva.