lunedì 9 settembre 2013

Bronzetti sardi



Bronzetti Sardi 
di Maurizio Feo




                                                  Nell'immagine: Bronzetti al Museo Archeologico di Cagliari

Oggetti e reperti di rame e bronzo rinvenuti in Sardegna, sono spesso al centro di discussioni. Pareri difformi – talvolta suffragati da “prove” dell’archeologia scientifica – aprono la strada a tesi non proprio ortodosse e a confusione. Si ha talvolta l’impressione che persino alcuni autori non possiedano l’esperienza diretta “sul campo” di che cosa realmente comporti la ricerca, l’estrazione e la fusione dei metalli[1]. Alcuni restano stupiti dell’aspetto simile all’oro che possiede il bronzo “nuovo”, conoscendo soltanto quello ossidato dei reperti. Altri non conoscono i tempi diversi di raffreddamento, necessari ai metalli diversi, dopo la fusione[2]. A prescindere da ciò, di fatto molte domande restano ancora senza una definitiva risposta. Per citarne solo alcune: quale fosse la provenienza degli oggetti di bronzo; quale il tipo di vita delle popolazioni che li producevano; chi organizzava la composizione abbastanza standardizzata e la distribuzione, degli ox-hide ingots[3] attraverso il Mediterraneo e fino alle coste del Mar Nero; in che modo fosse organizzato il commercio parallelo degli oggetti di lusso; quali fossero i navigli…
Non è possibile parlare dei metalli, senza fare un riferimento alle prime attività minerarie dell’uomo e senza formulare almeno un paio di considerazioni di base.
La prima considerazione è che lo scavo minerario è sempre stata un’attività dura e pericolosa: nessuno ci si dedicherebbe se non dietro costrizione, oppure grandi vantaggi economici, materiali o morali[4]. Tito Lucrezio Caro (De Natura Rerum, I sec. a.C.) scrive: “Pensa che là alcuni uomini scendono e scrutano il ferro nascosto, l’oro, le vene d’argento e di piombo; scavano, in abissi chiusi la roccia compatta, nell’ombra umida e respirano aria maligna, il fiato malvagio dell’oro nel suolo, nelle putrescenti miniere. Non si può guardare nel viso questi uomini senza dolore, quando salgono per poco alla luce: se ancora non li hai veduti, n’avrai sentito parlare, come presto periscano e quanta parte della loro vita essi perdano ogni giorno, dentro la terra, in quella fatica sepolta verso cui la miseria li spinge”.

                                                  Nell'immagine: Bronzetto al Museo Archeologico di Cagliari 

Probabilmente, i primi scavi mai effettuati furono volti a trovare quella vena ferrosa scura che si chiama ematite, con strumenti di osso, frantumandola fino a polverizzarla e trasformarla in ocra rossa[5]. Il premio, qui, consisteva forse nell’enorme valore religioso sacrale che – proprio in tutto il mondo – l’antropologia è riuscita a ricostruire per l’ocra, dall’uso rituale che l’uomo antico ha fatto ovunque di questo pigmento…
La seconda considerazione è d’ordine morale: come spesso succede, l’uomo (anche se alcuni negano l’essenza umana a creature pre Homo Sapiens) si sottopone ad un’attività durissima e pericolosa, non per ciò che è strettamente necessario alla propria vita, bensì per un bene astrattamente prezioso, di lusso, se non voluttuario. Ancora oggi, sembra non avere appreso granché dai propri errori.
In ordine cronologico, due tipi di pietra hanno affascinato l’uomo, in seguito: l’ossidiana (vetro vulcanico) e la selce (pietra sedimentaria ricca in silicio). Siamo ormai a circa 10.000 - 8.000 anni fa, l’uomo si è abituato a riconoscere l’aspetto naturale di queste pietre e di altre ancora: è diventato un cercatore, è un geologo arcaico. Apre strade nuove, anche per mare, che percorrerà per lungo tempo… Ma fa anche commercio, sia dei suoi beni di lusso che di strumenti di lavoro, tanto che questi si ritrovati anche a molto più di 200 chilometri dai siti di produzione, attraverso il mare[6]
Che l’uomo abbia effettuato un bel po’ di sperimentazione, con il fuoco, questo è certo: la pirotecnologia è così progredita attraverso un’enorme quantità di tentativi ed errori. Anche la selce può essere meglio lavorata dopo esposizione al fuoco (100-400°C): questo trattamento produce fili ed utensili meno resistenti, ma riduce lo scarto di lavorazione...
Uno dei primi esperimenti deve essere stato effettuato sul calcare macinato (o su gusci macinati di conchiglie, in sua assenza), ponendone strati alternati a strati di legna (800°C). Questo fa “calcinare” il calcare, che, in seguito mescolato con acqua dà la “calce spenta” (idrossido di calcio).
L’idrossido di calcio è un prodotto instabile e, lasciato riposare, reagisce con il diossido di carbonio e perde vapore acqueo. Ciò che ne risulta è un intonaco, che può servire a chiudere le fessure in un muro (mescolato a sabbia) oppure a realizzare il pavimento di una terrazzatura (mescolato a schegge di calcare). Siamo in epoca ancora precedente alla terracotta: non si utilizzano ancora le argille (alluminosilicati), non si usa ancora il forno del vasaio con le sue elevate temperature, ma i concetti ci sono già tutti, non ci vorrà ancora molta sperimentazione.

Il rame.
Il rame è un metallo che, allo stato nativo, può essere facilmente reso lucido e di gradevole aspetto (anche soltanto se trasportato dalla corrente in un fiumiciattolo): pertanto è facile che il cercatore di pietre lo abbia notato… Purtroppo è troppo morbido e malleabile, per essere di qualche utilità come strumento: può però essere indurito – fino a più di due volte, ma diventando anche più friabile – con la martellatura, anche usando strumenti di pietra o d’osso. Un antico metallurgo ha scoperto che un trattamento con il fuoco ed un’ulteriore martellatura elimina questo difetto di fragilità[7]. Il rame nativo di superficie è stato il primo ad attirare gli osservatori umani, il primo ad essere impiegato e quindi il primo a scarseggiare. Gli specialisti dovettero cercare altre fonti[8], meno pure, di rame, anche scavando, visto che quello superficiale non c’era più. Queste forme di rame richiedevano l’estrazione per fusione, che non è cosa troppo ovvia da ideare: la tesi comunemente addotta è quella della scoperta fatta per caso, osservando l’effetto di un fuoco da campo su pietre contenenti rame. A dimostrare falsa questa tesi è il fatto fisico per cui un fuoco di tale genere è troppo piccolo, troppo all’aperto e troppo di breve durata: pertanto produce temperature insufficienti, ed in presenza di troppo ossigeno. 
Non sappiamo con precisione come, né quando si ebbe questa acquisizione.  Sappiamo però, che la comparsa della terracotta[9] nell’Asia Occidentale – circa 9.000 a.C. – è stata abbastanza rapidamente seguita dall’uso dei metalli[10]. Sappiamo anche che le temperature per un forno di vasaio sono alte[11], sono mantenute per molte ore e che inoltre la presenza d’ossigeno, al suo interno è al limite della possibilità di combustione, vicina allo spegnimento per soffocazione.
Naturalmente, altre modalità di scoperta accidentale potrebbero essere intervenute.
In Oriente, la ceramica decorata a colori, già presente nel Calcolitico, rende conto dell’abilità tecnica raggiunta nel gestire i forni. Per esempio, il vasaio sapeva regolare il procedimento di cottura, ottenendo prima il colore nero (sottraendo ossigeno) e poi il rosso (aggiungendo ossigeno e quindi ossidando)[12].
Comunque sia avvenuto, i fonditori riuscirono ad estrarre il rame dalle vene di solfuro, il rame divenne un metallo d’uso pratico molto più frequente. Avvenne però che i fabbri s’accorsero di un fatto apparentemente paradossale: al di là del valore della vena di metallo, era quasi più importante tutta una  gamma di sostanze (dette fondenti), che potremmo chiamare impurità e che abbassavano il punto di fusione. I primi cercatori, che impiegarono le prime pepite naturali di rame, raccolte come sassi, e le coloratissime vene superficiali di malachite e di carbonato d’azzurrite, riuscivano a procurare materiali discretamente puri ai propri fonditori. Ma in seguito – con l’incremento della richiesta e l’esaurimento delle fonti di superficie – diedero inizio ad una obbligatoria attività di scavo, rivolgendosi a vene di solfuro di rame, che era più difficile da fondere e meno puro.
Quindi, senza inizialmente accorgersene, fondevano nei loro crogioli rame che non era più puro.
Ogni crogiolo di fusione conteneva, in realtà, ciò che adesso chiameremmo una lega, cioè non un composto chimico, bensì una miscela fisica di due (o più) metalli che, insieme, possono comportarsi come un metallo differente.
Quasi tutte le vene di rame contengono piccole proporzioni d’arsenico, alluminio, zinco, antimonio, o nichel. Queste si mescolano a livello molecolare con il rame, durante il processo di fusione. Ciò significa – in parole povere – che da uno stesso forno fusorio possono uscire, in sequenza, diverse varietà di leghe di rame, anche se il materiale di rame è lo stesso ed è stato accuratamente raccolto da un antico ricercatore esperto di metalli nella parte più ricca di rame della vena naturale.
Le leghe possiedono comunque sempre un’abbondanza dominante di rame. In più, una lega di rame possiede un punto di fusione più basso del metallo puro. Il che costituisce un duplice vantaggio, prima nella fusione, poi nella colatura negli stampi. La fedeltà agli stampi è maggiore e la lega risulta più dura del rame puro, specialmente dopo la martellatura. 

Il Calcolitico.
Nel periodo Calcolitico[13] – nel quale coesistono pietra lavorata e rame – la produzione fusoria appare ancora casuale: la maggiore o minore purezza del rame non è indirizzata all’uso dello strumento finale. Si rinvengono strumenti da lavoro con una bassa quantità d’arsenico (troppo molli) e monili con un’elevata quantità d’arsenico (con una durezza non richiesta). Probabilmente, ciò è dovuto al fatto che l’arsenico era ancora sfruttato soltanto per l’abbassamento della temperatura di fusione, mentre non erano ancora noti i risultati sul risultato finale in termini di durezza.
La città che meglio simboleggia il Calcolitico è Catal Huyuk. Che essa dovette il suo successo iniziale all’industria dell’ossidiana[14], lo deduciamo dal clima (studi dendrocronologici) del tempo, che era anche più asciutto di quello attuale e quindi era inadatto all’agricoltura.  Però, la città che abbiamo scavato fin qui giace su 12 piani, con edifici estremamente elaborati, splendidamente decorati e dipinti e molto avanzati per una città del 7400 a.C., testimonianza di uno dei primi “boom economici” nella storia dell’uomo, durato un periodo di circa 1000 anni! A determinarlo dev’essere stato il commercio: Katal Huyuk era una ricca città di frontiera (dell’antica Mezzaluna Fertile, ma l’analogia con il nostro recente Wild West è in parte calzante) tenuta in vita dalla necessità per l’ossidiana in un’epoca pre metalli, che le permetteva d’importare beni preziosi e di commerciare in corallo e conchiglie dal Mare Mediterraneo ed in monili preziosi (perle e pendenti di varia provenienza) ed in selce d’origine Siriana.
Per mezzo di una serie lunga e paziente di tentativi ed errori, i primi metallurghi riuscirono probabilmente ad associare alcune precise misture diverse dei materiali naturali scavati dalle miniere, con determinati risultati desiderati diversi da ottenere. Insomma, un fabbro esperto riusciva ad avere un discreto controllo sulla qualità del prodotto finito, con caratteristiche desiderate di durezza o malleabilità e lucentezza, a seconda che l’oggetto fosse destinato ad essere un’arma o un attrezzo, oppure un monile o uno specchio.
Un fabbro esperto era in grado di percepire le qualità d’ogni singola colata del metallo di fusione che stava lavorando. Probabilmente, quindi, sistemava nella sua fucina i diversi lingotti in ordine di durezza e qualità. Presumibilmente, pur privo di un laboratorio chimico, riusciva a mantenere un’approssimazione discreta di bronzo con stagno/arsenico al 5-10%. La durezza ottenuta era più verosimilmente verificata durante la faticosa  fase di martellatura del lingotto ancora rovente, quindi dopo la fusione, ma non troppo tardi. Il passo conseguente, per rimediare agli errori, doveva essere quello di ri-fondere insieme i lingotti posti alle due estremità, il più tenero ed il più duro, per tornare ad avere le desiderate qualità. Un fabbro di vera esperienza e di grande sensibilità era quello che riusciva a trasferire queste sue già sofisticate osservazioni anche al materiale naturale di vene diverse ancora da fondere, per ottenere fin dai primi momenti la ricetta giusta e risparmiare – così facendo – combustibile e fatica. Con il tempo, qualcuno scoprì che alcune sostanze (dette scorificanti) aiutavano il processo d’estrazione del metallo ricercato dal minerale grezzo, forzando le impurità indesiderate a separarsi dal rame fuso più denso, per galleggiare verso l’alto in uno strato fuso di scorie. Per questo, i fonditori aprivano degli appositi scarichi di terracotta siti ad una certa altezza della fornace, per scremare via le scorie ancora fuse in vasche separate di raccolta. Una delle sostanze scorificanti migliori è ancora oggi la Fayalite (Silicato di ferro, Fe2SiO4), una sostanza molto rara, ma che si reperisce in combinazioni equalitarie (1:1) con l’ematite (ocra, Fe2O3) e con il quarzo (diossido di silicio, SiO2). Dato che il quarzo e l’ossido di ferro sono molto comuni, gli antichi fonditori scoprirono presto che alcune vene contenevano impurità che erano auto scorificanti. Il passo logico successivo è l’aggiunta di quarzo o sabbia a materiali ferrosi e d’ocra a materiali ricchi di silice, per avere una rapida e completa scorificazione alla temperatura di circa 1120°C [15].

Il bronzo.
L’età del bronzo[16] inizia in quel preciso momento evolutivo della società umana in cui ci si accorge della superiorità definitiva del metallo rispetto alla pietra: il rame ed il bronzo sono belli, luccicano come l’oro. Il bronzo possiede caratteristiche abbastanza simili a quelle delle pietre migliori, anche se non proprio all’altezza. Può essere rifuso e riutilizzato per sempre. Ma – soprattutto – permette di costruire il pugnale e la spada, oggetti impensabili, prima, con la pietra. Le tecniche di guerra ne saranno modificate per sempre. Il fabbro – sporco di fuliggine, che tossisce ed ha un cattivo udito, che ha numerose cicatrici chiare sugli arti e spesso zoppica – diviene metallurgo, acquista dalla propria faticosa arte un enorme e quasi magico potere, è riconosciuto dalla comunità come ben più che necessario, indispensabile, assurge allo status d’eroe e diviene addirittura divino. I fabbri dell’età del bronzo erano spesso seppelliti con gli arnesi della propria rumorosa e pericolosa professione: incudine, martello, pinze e stampi.
È così che nasce il mito divino di Efesto[17].
Il bronzo è una lega, composta di rame per il 95 - 85% e per il rimanente 5 -15% di stagno o arsenico, benché altri metalli possano essere presenti in piccole quantità[18]. La sua caratteristica è quella di fondere ad una  temperatura più bassa del rame puro, pur essendo più duro dello stesso. Il bronzo di stagno  è facile da lavorare e fonde a 950°C, piuttosto che ai 1084°C che sono necessari per il rame. Ambedue i tipi di bronzo (stagno e arsenico) producono armi e strumenti robusti, che conservano il filo altrettanto bene o meglio della pietra (selce) una volta che siano stati rinforzati a mezzo martellatura[19].
Le vene di rame arsenicale sono più comuni di quelle di stagno e permettono di ottenere un bronzo d’elevata qualità.
Il bronzo arsenicale non si stampa altrettanto bene come quello di stagno, ma ne possiede la durezza. Presumibilmente, la scelta fra i due tipi di bronzo non deve essere stata facile, neppure quando tale scelta si è resa disponibile ed è stata riconosciuta come una possibilità reale.
Inizialmente è stata la facile disponibilità locale a dettare la scelta.
Dopo il 3000 a.C. i bronzi Cretesi e del Mediterraneo Occidentale sono prevalentemente arsenicali, quelli Egiziani lo sono quasi esclusivamente, mentre quelli Anatolici sono fatti con ambedue i tipi.
È possibile che queste differenze siano casuali. Va notato che la stannite (Cu2FeSnS4), ad elevato contenuto di stagno, non è facilmente riconoscibile ad occhio nudo dai minerali a contenuto arsenicale (arsenopirite, FeAsS ed enargite, Cu3AsS4). È anzi possibile che il primo uso di vene di stagno sia stato dovuto ad un errore di cercatori di metalli in cerca di vene arsenicali…
Uno dei più ricorrenti temi – ogni volta che si parli di bronzo – è quello dell’estrema rarità dello stagno, necessario per comporre la lega. Ma, visto che bronzo più che soddisfacente può ottenersi anche senza lo stagno, perché mai – ad un certo punto – ci si è rivolti soltanto ad una lega che richiedeva un metallo pressoché introvabile?
Il motivo è – con ogni probabilità – di tipo medico. I cercatori di metallo saggiano il suolo con lo sguardo ed i loro strumenti. Gli scavatori lavorano a freddo, rompendo la roccia con mazze di pietra non immanicate, legate con lacci di cuoio o di fibra (seppure dopo avere causato uno shock termico alla roccia). I fonditori lavorano all’esterno ed i fumi della fusione sono dispersi dal vento. Ma il fabbro lavora al chiuso, chino sul suo artefatto bianco di calore, sprizzante scintille e soprattutto fumante di vapori arsenicali, che non può evitare di respirare, durante la battitura e la colata nello stampo…

L’arseniosi cronica.
Non sono i sintomi d’intossicazione acuta da arsenico quelli che ci riguardano qui[20]. Respirando la polvere arsenicale contenuta nei fumi, i primi sintomi più probabili e comuni sono costituiti da disturbi respiratori superiori, perforazione ischemica del setto nasale, seguiti da cancro polmonare. Probabilmente sintomi non molto notati a quei tempi. Esiste però un’altra serie di sintomi, che probabilmente non passava inosservata neanche allora, malgrado il fatto che la sua comparsa richieda un certo numero di anni d’esposizione.
Alcuni segni sono cutanei: consistono innanzitutto in un’iperpigmentazione al tronco ed agli arti, con distribuzione simmetrica bilaterale, spesso “a goccia di pioggia” (macchie scure con un centro chiaro), spesso riguardante anche la mucosa buccale e specialmente le pieghe cutanee. Nei punti di pressione cutanea si forma poi un’ipercheratosi delle piante dei piedi e dei palmi delle mani, di tipo nodulare e qualche volta “a corno”, delle dimensioni fino ad un centimetro, talvolta con fissurazioni dolorose delle piante dei piedi.
Un corteo sintomatologico impressionante, fatto di debolezza e facile stancabilità, epatomegalia, malattia polmonare cronica, congiuntivite, rinite, disuria, perdita dell’udito, edema duro degli arti, diabete e nefropatia, poteva sicuramente preoccupare gli interessati.
Ma quello che deve essere stato messo, prima o poi, in diretta connessione con l’arsenico è il danno di conduzione nervosa[21] aggiunto al danno vascolare obliterante, risultanti in claudicazio intermittens (zoppia ciclica, dopo alcuni passi, risolta dal riposo) e – talvolta – persino in gangrena secca con amputazioni spontanee di parte degli arti.
Ci si era sempre chiesti per quale strano capriccio della creatività mistico-religiosa degli antichi Efesto fosse un dio deforme e zoppo: ecco la ragione, che ci offre anche la prova della connessione che già gli antichi avevano correttamente fatto fra il mestiere di fabbro e la sua malattia professionale.
L’ostinata ricerca del rarissimo (e quindi preziosissimo) stagno è la dimostrazione che avevano anche trovato il rimedio migliore: evitare l’esposizione alla sostanza tossica.
Per circa 2000 anni, (con l’eccezione dell’Egitto, che ha continuato ad usare l’arsenico fino al 2000 a.C.) la lega di scelta della più avanzata schiera delle civiltà occidentali è divenuta quella rame/stagno: ottima, facile da lavorare e non dannosa, ma rara, difficilissima a trovarsi e causa – allora – di grande potenza per chi deteneva l’accesso alle miniere e – oggi –  ancora di molte dotte discussioni.
Efesto e Vulcano, quindi, sono la trasposizione in campo mistico della lunga obbligata agonia di molti fabbri dell’età del Bronzo. I loro successori, nel tardo bronzo e nell’età del ferro, non avranno certamente più questo problema.
Pare che l’arseniosi cronica abbia mietuto molte vittime illustri, oltre a quelle ignote che una divinità zoppa onora e simboleggia: tra questi potrebbero essere Francesco I de’ Medici, Giorgio III d’Inghilterra e Napoleone. Si pensa anche che la cecità finale di Monet , i gravi disordini neurologici di Van Gogh e persino il diabete di Cezanne possano essere derivati dall’arseniosi, per via del continuo contatto cutaneo con colori a base di arsenico (il verde smeraldo, ad esempio)[22].
È evidente che un’età del bronzo si può avere soltanto là dove rame e stagno siano disponibili in natura, dove i cercatori di metalli abbiano suggerito gli scavi e poi i fonditori ed i fabbri abbiano sviluppato le loro tecniche, per invogliare – infine – i commercianti a rifornirsi di manufatti o lingotti preziosissimi per l’epoca, creando le vie di comunicazione marine e terrestri.
Ur ed altre città mesopotamiche, poco dopo il 3000 a.C. già producono manufatti in bronzo, che in seguito si diffondono in tutto il Medio Oriente. Molte regioni, però, non hanno tracce di un’età del bronzo, passando direttamente dal calcolitico all’uso del ferro.

Lo stagno.
Si è molto favoleggiato sull’origine dello stagno per le fonderie antiche, fino a quando non si sono scoperti più di 40 siti, sedi d’antiche miniere, sulle montagne del Tauro, in Turchia[23]. Si tratta di zone che offrono anche oro, argento e piombo. Gli scavi di Catal Huyuk hanno portato alla luce lavori in piombo fuso (tardo III millennio) ed in argento (tardo IV millennio), a dimostrazione che le tecniche fusorie si stavano affinando già da molto tempo, prima di dare il proprio nome ad un’era innovativa dell’evoluzione dell’uomo. Esistevano tre fonti di stagno: l’Afganistan del nord est, Kestel-Goltepe in Anatolia e le miniere dell’ovest europeo (Spagna, Bretagna e Cornovaglia).
Il Taurus  produceva probabilmente lo stagno necessario per i primi bronzi di stagno per il medio oriente. Goltepe produceva solo stagno, Kultepe e Acemhuyuk erano centri di lavorazione e smercio. Il rame proveniva da altri siti. La grande ricchezza di Troia II è stata ipotizzata dipendere dalla disponibilità quasi illimitata di stagno…
La vena dominante di stagno è la cassiterite, cioè l’ossido di stagno (SnO2): si rinviene sotto forma di granuli bruno nerastri nelle sabbie alluvionali. Ed in alcune zone è proprio ciò che rimane, come minerale residuo, dopo la disgregazione finale dei graniti (prevalentemente SiO2 e Al2O3) in sabbie ed argilla (filosilicati).
Per questo motivo, in realtà è possibile che le prime osservazioni sulle proprietà dello stagno siano state fatte dai vasai: depositi di caolinite (idrosilicato d’alluminio) si rinvengono spesso presso le concentrazioni granitiche ed alcuni granuli di cassiterite potevano quindi restare intrappolati nella creta dei vasai. Dato che la cassiterite fonde a soli 600 gradi, è possibile formulare l’ipotesi che il vasaio può essere stato lo scopritore accidentale della fusione dello stagno. La pirotecnologia del vasaio, estesa ai materiali terrosi e metallici, in forni sempre più caldi e perfezionati, condotta con esperimenti svariati e non scoraggiati dai sicuramente numerosi insuccessi, può avere condotto alla scoperta accidentale dell’estrazione con il calore. Azzurrite e malachite (di colore blu ed azzurro: forse messi nel forno alla ricerca di pigmenti per i vasi) sono sostanzialmente minerali di carbonato di rame. Il carbonato si scinde al calore e liberando vapore si trasforma in ossido di rame (di colore dal rosso al nero). Se si procede con l’esposizione a temperature ancora più alte, in scarsità d’ossigeno, il carbone brucia fino al monossido, piuttosto che al biossido di carbonio: il monossido di carbonio porta via un atomo d’ossigeno all’ossido di rame, lasciando rame in forma metallica.
Da qui, il processo, le tecniche ed i forni, tutto si è specializzato in funzione della produzione del metallo: è nato un mestiere totalmente differente. Naturalmente, le cose possono essere andate anche diversamente, ma quella sopra descritta sembra una sequenza logica, verosimile ed affascinante d’avvenimenti.

Alcune date. Stato d’avanzamento dell’arte.
Nel 3500 a.C. vari metalli venivano usati in Mesopotamia, non solo rame e piombo. Il tutto è il risultato del periodo Sumerico, che ha creato le condizioni per attirare nella zona anche quelle materie che non vi si trovavano naturalmente: la Mesopotamia è prevalentemente di natura alluvionale, quindi non si può parlare di miniere. Oro e argento erano già in uso. L’argento fu dapprima un prodotto collaterale del piombo, poi fu utilizzato per se stesso. Il bronzo apparve nel 3000 a.C. grazie anche all’accessibilità di depositi di stagno non lontani da abbondanti depositi di rame. Nell’iconografia si distinguono le divinità per la presenza di un copricapo munito di corna.
Nel 3200 a.C. Otzi – l’uomo di Similaun, nelle Alpi – aveva un’ascia di rame nativo, ed il resto del suo bagaglio era ancora tecnologia litica.
L’arcere di Amesbury, (rinvenuto insieme a molte punte di frecce nella propria tomba, forse uno dei primi fabbri inglesi) nel sud dell’Inghilterra, presso Stonehenge, possedeva lame di rame proveniente da Francia e Spagna: cioè aveva la stessa tecnologia di Otzi, ma mille anni dopo di lui, nel 2300 a.C. Un secolo dopo, però, in Inghilterra si fonde già il bronzo, senza passare per la fase di rame arsenicale. E’ una curiosa coincidenza che l’inizio dell’uso del bronzo in Inghilterra si sia avuto parallelamente alla caduta di Los Millares ed al sorgere di El Argar in Spagna, ambedue collegate (prima da commercianti Minoici e – dopo Thera – Micenei) alla fornitura dello stagno all’Oriente Mediterraneo. È invece indicativo che – all’inizio dell’Età del Bronzo – non si difendessero le miniere di metallo, come invece si era evidentemente costretti a fare in quella tarda.
I lavori in metallo rinvenuti nelle tombe reali Sumere (2650 a.C.), forse originali d’altri luoghi, sono già di grande bellezza. Nel 2500 a.C. compaiono rivetti e saldature, nelle quali viene bene impiegato lo stagno. La tecnica di fusione in stampi è così ben conosciuta che permette di eseguire statue in dimensioni naturali e statuette con la tecnica della “cera persa”. I Sumeri ci hanno lasciato cataloghi con descrizioni di150 minerali differenti. Nei testi cuneiformi lo stagno è detto Annaku, ma le sue fonti d’origine sono (volutamente?) descritte in modo ambiguo.
Nel 2350 a.C. re Sargon d’Akkad invade l’Anatolia dalle sue pianure, per garantire percorsi sicuri al commercio del metallo. Vanta che una singola carovana abbia trasportato 12 tonnellate di stagno, sufficienti a produrre 125 tonnellate di bronzo e pertanto ad equipaggiare una grande armata. Si perfeziona la tecnica della “cera perduta”; nascono e si moltiplicano i sigilli a cilindro. Nel 2200 Akkad è già caduto, in seguito a guerre civili.
Gli Assiri succedono agli Accadici come potere dominante nel nord dell’Irak. Si continua a portare lo stagno a Kultepe – ad un prezzo molto elevato – fino al 1950-1850 a.C., con spedizioni a dorso d’asino, dalla capitale Assur. Probabilmente, questo si fa perché il know how tecnico ed artigianale si trova lì, anche se ormai le miniere non sono più fruttifere.
Quando la fusione di vene di solfuro di rame divenne economica – circa nel 1600 a.C. – Cipro diventò un anello vitale nella catena dei commerci delle culture medio orientali, per un periodo di circa 500 anni: non solo costituiva un punto d’attracco strategico per molte rotte, ma il suo sottosuolo produceva enormi quantità di rame. Basti la considerazione che – con moderne tecniche di ricerca – non sono state trovate vene di rame che non fossero già state sfruttate anticamente e che i circa 40 depositi di scorie di scavo minerario antico sono stati valutati in peso circa 4 milioni di tonnellate[24].
I ciprioti usavano bronzo e rame come moneta[25]. Nel 1470 a.C. Cipro pagò un debito al faraone Tutmosi III con 108 lingotti di rame, del peso di circa 30 kg ciascuno, colati in forme che oggi definiamo ox-hide[26]. Dal momento che gli ox-hide ingots sono stati ritrovati lungo tutti i paesi costieri – per non citare le isole – sparsi nel Mediterraneo, incluso il Mar Nero, è doveroso trarre due deduzioni: il commercio avveniva in massima parte per via mare; i lingotti di rame erano un’accettabile forma di pagamento e pertanto, di fatto, costituivano già una moneta.
Nel relitto di Ulu Burun, rinvenuto presso Capo Gelidonya in Turchia (1319 ± 2 a.C.[27]) viaggiavano 10 tonnellate di lingotti di rame (354 oxhide e 120 piano-convessi) e una tonnellata di lingotti di stagno, strumenti di bronzo nuovi mai usati, metallo di scarto da ri-fondere, forge e strumenti da fabbro[28]. La nave portava anche oggetti di lusso considerati doni: resina di terebinto (sntr), ebano egiziano, scettri d’avorio, anelli di conchiglie del Mar Rosso, 175 lingotti di vetro, uova di struzzo, zanne d’elefante e denti d’ippopotamo. Vista la grande dovizia di beni africani ed asiatici, rari e preziosi a bordo, forse si dovrebbero riformulare le ipotesi sui motivi ed obiettivi del viaggio, oltre che su qualità e ruolo dei personaggi presenti sul vascello e dei committenti: più verosimilmente non si trattava solo di un comune viaggio commerciale “di linea”.
L’evoluzione della tecnica metallurgica è stata descritta e studiata – in alcuni siti meglio che in altri – tanto da potersi affermare che i primi forni fusori erano piccoli, siti presso le zone di scavo, ma in posizioni alte, in cui il vento potesse forzare il calore della fiamma a valori più elevati[29]. Erano fornaci alte circa 80 centimetri con uno strato d’argilla che rivestiva un fondo d’arenaria. Il combustibile era dato dal legno delle acacie del deserto. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che tali fornaci raggiungevano temperature comprese tra 1180 e 1350 °C, se aiutate da mantici a pelle d’animale. Forse si utilizzava anche il carbone (sappiamo che altrove si poteva usare l’olio d’oliva). Il metallo prodotto in questo modo richiedeva ulteriore lavorazione con martellamento a freddo oppure una seconda fusione.
Quando gli Egizi entrarono in possesso di queste zone di produzione spostarono i forni a valle, munendoli tutti di grandi mantici efficaci e rivestirono i forni di una specie di cemento, rendendoli capaci di maggiori quantità e temperature. È l’epoca in cui si dà inizio a grandi opere di fusione, con la produzione d’enormi porte templari, colonne imponenti, alcune delle quali diverranno famose e saranno citate e ricordate ancora molto tempo dopo la loro distruzione.

Il problema della provenienza.
L’archeologia scientifica ha studiato la composizione degli oggetti metallici e non metallici resi disponibili e contestualizzati negli scavi dall’archeologia classica. Le metodiche impiegate sono svariate e complesse (sorgenti fotoniche avanzate – APS[30]; spettrometria di massa al plasma – MC-ICPMS[31]), ma le più frequenti sono due: l’analisi d’attivazione neutronica (NAA) e l’analisi degli isotopi del piombo (LIA), che sono state usate su metalli, vene metallifere, terrecotte, monete ed altri materiali[32].
La prima considerazione doverosa, qui, è che il rapporto tra gli elementi chimici ed il comportamento umano è enormemente più complicato di quanto si potrebbe pensare: deve esistere un proficuo dialogo reciproco tra gli scienziati dei laboratori e gli archeologi sul campo, ma la responsabilità ultima – nel ricostruire un’interpretazione finale che possieda qualche  significato culturale – è tutta dell’archeologo.
Muhly, già nel 1977 espresse grande scetticismo circa gli studi di provenienza: indicò i lingotti ox-hide come il miglior oggetto di studio, asserendo che non si sarebbe potuta raggiungere alcuna conclusione se non si fosse scoperto come, perché e dove erano fatti i lingotti[33]. Da allora, molti studi sono stati condotti, per distinguere  tra rame nativo e rame estrattivo, tra rame puro e leghe, tra bronzo di stagno ed altro, usando, oltre alle tecniche sopra descritte, anche la spettrometria da assorbimento atomico e l’emissione di raggi gamma protone indotta[34]. Ma l’attenzione si è focalizzata sugli studi LIA, considerati – alla fine – i migliori e più accurati, specialmente nell’escludere inequivocabilmente la provenienza degli artefatti da determinate vene[35].
Una cinquantina di oxhide ingots  provenienti da Cipro, Creta e Sardegna sono ciò su cui maggiormente si è focalizzato lo studio. La composizione in isotopi di piombo di numerosi lingotti provenienti da questi siti, come anche quelli del relitto di Ulu Burun, non è compatibile con una loro provenienza cipriota[36], contrariamente a quanto inizialmente creduto[37]. Sorvolando sulla vasta messe di studi parziali, al momento le conclusioni  rendono impossibile affermare che un’isola (peggio ancora, un deposito singolo di un’isola), possa essere stata l’unica provenienza dei lingotti a forma di ox-hide[38]. L’ipotesi di una singola origine era già negata da studi del 1995, che riconoscevano almeno cinque siti differenti come origine dei lingotti[39]. Pooling e recycling sono sicuramente intervenuti[40].
Per ciò che riguarda la Sardegna, in almeno 26 siti differenti, ben distribuiti attraverso tutta l’isola, si riscontrano tracce di riciclaggio a mezzo rifusione dei metalli, a partire da “depositi” comprendenti scorie, manufatti danneggiati, lingotti a panelle (lingotti piano convessi) e lingotti a pelle di bue. La maggior parte di questi ripostigli contiene lingotti oxhide interi o frammentati ed è comunemente datata tarda età del bronzo / ferro iniziale[41]. I lingotti oxhide analizzati contengono in genere rame più puro dei lingotti piano convessi locali[42] che spesso contengono elevate percentuali di ferro o piombo (30-50%)) o anche di stagno (10%), il che li rende già lingotti di bronzo. La possibilità di usare elevate percentuali di piombo o di ferro per fondere  oxhide ingots è stata perlomeno messa in discussione[43]. Due esempi bastano a convincere del riciclaggio sardo. Sa Mandra ‘e Sa Giua (SS) ha offerto un deposito di fonditore, contenente oggetti parzialmente fusi insieme e permettendo di scoprire quali metalli un fabbro riteneva utile recuperare[44]. Sette campioni su nove (un lingotto oxhide con 1% di ferro ed 1,2% d’arsenico e otto lingotti a panelle) contenevano una tale percentuale di ferro (fino a 10, 68% in un campione) che avrebbe compromesso la durezza finale dei manufatti[45] senza intervenire sulla composizione. A Sedda ‘e sos Carros (Oliena – Nu), l’enorme quantità di metallo recuperato depone per un centro di riciclaggio, anche se la presenza di 6 panelle indica un’altra fonte d’approvvigionamento[46]. Anche in questo caso, l’analisi ha mostrato alti contenuti percentuali di ferro e piombo (fino al 50%); altri lingotti contengono stagno (3-10%), ma non si sa se siano stati deliberatamente composti così, oppure provengano da materiale recuperato.
L’elevata quantità d’arsenico dei lingotti a pelle di bue in Sardegna (da 0,16% a 0, 54%) a fronte dell’assenza d’arsenico e dell’irregolare presenza di ferro nei lingotti di Cipro indica un’origine diversa. Questo è in contrasto con l’analisi LIA condotta da Gale[47], che attribuiva inizialmente una medesima origine cipriota anche ai manufatti sardi.
Uno studio isotopico del piombo e chimico, condotto[48] su oggetti di rame e di bronzo recuperati dai ripostigli di Arzachena (21), Bonnanaro (10) Ittireddu (34) e Pattada (20), ha mostrato che tutti i frammenti di lingotto erano di rame puro, con una sola d eccezione da Ittireddu (11% stagno). Gli oggetti di bronzo contenevano il 10,8% di stagno. Numerosi frammenti di spade di piccola taglia, provenienti da Arzachena, contenevano solo 1% di stagno, (il che le avrebbe rese armi inefficaci e conferma l’ipotesi che fossero votive). Il metallo proveniente da Arzachena possiede una vasta gamma d’elementi costituivi e diversi rapporti di isotopi del piombo, ciò che lo differenzia dal metallo degli altri siti (e forse è dovuto a sperimentazione  con materiale di differente provenienza). Molti lingotti hanno una firma isotopica simile a quella dei lingotti ciprioti, ma alcuni sono perfettamente compatibili con una produzione locale. Gli oggetti di bronzo non hanno una composizione isotopica caratteristica dei lingotti ciprioti e contengono piombo locale: la provenienza è compatibile con un’origine dal Sulcis Iglesiente o da Funtana Raminosa.
Con certezza, comunque, si può affermare che l’abitudine di raccogliere in grandi quantità (in ripostigli appositamente scelti, presso le fonderie), e ri-fondere gli scarti e gli artefatti metallici bronzei – oltre ai lingotti ox-hide ed alle panelle – era largamente diffusa in Sardegna. Altrettanto si può dire avvenisse a Cipro e nel Medio Oriente. E’ quindi molto probabile che i bronzetti in nostro possesso abbiano in precedenza avuto forme differenti…
È degno di nota il fatto che, mentre i lingotti di rame “puri” possono essere fatti risalire per esempio a Cipro, gli artefatti e le leghe sono spesso più compatibili con un’origine dalle miniere di Laurion (piuttosto che della Sardegna o di Cipro). Ma sappiamo che Laurion, nell’età del bronzo, era sfruttata per le sue vene di piombo e che il piombo era presente in parti minime nel rame di Cipro.
Esiste una risposta semplice a questo solo apparente problema: evidentemente, il piombo contenuto nelle leghe ha una provenienza differente da quella del rame con cui è legato. Quindi, si rende necessario studiare e comprendere non soltanto i dettagli sulla produzione dei metalli, ma anche sul loro commercio e sul loro consumo e destinazione. La zona di distribuzione dei lingotti ox-hide  va da Anatolia ed Egitto nell’est, fino alla Sardegna nell’ovest ed al Mar Nero nel nord. Si può formulare l’ipotesi che le vene metallifere di rame della Sardegna e di Cipro abbiano contribuito in quantità preponderante alla composizione dei lingotti a forma di pelle di bue, ma che non ne sono state le uniche origini, in un sistema dinamico interregionale ed interdipendente ancora da comprendere bene, che ha determinato però una certa uniformità finale della composizione isotopica dei lingotti stessi.
In definitiva, pertanto, i lingotti non sono pienamente utilizzabili in uno studio di provenienza: essi costituiscono un aspetto della modificazione dei metalli nella Tarda Età del Bronzo, nel contesto di un probabile movimento di commercio che comprendeva anche la ceramica (e, forse, altri beni) ed in cui la standardizzazione prefigura già l’introduzione della moneta in un ambiente in espansione, di sempre crescente complessità in scambi socio politici.
Esiste una chiara differenza tra beni primari (ad esempio il metallo, che richiede una propria linea tecnologica fatta di cercatori, fonditori e fabbri ed includente alcune materie come il combustibile in loco) e beni di lusso e di prestigio (anch’essi richiedenti una propria linea tecnologica ed alcune materie prime). Questa differenza non può non avere peso, di fronte ai precisi limiti di capacità dei vascelli coinvolti nel commercio parallelo di questi beni. Molti autori escludono che beni di prima necessità (cereali, olio e vino), almeno nel Bronzo Antico, fossero oggetti di commercio: oltre che per problemi di spazio a bordo[49], anche per via della loro ridotta produzione ovunque, che non permetteva eccedenze[50]. Il ritrovamento nella zona Egea di recipienti e specialmente di fiasche tappabili (Minoico Antico I: 3500-2900 a.C.) è stato naturalmente messo in relazione con liquidi preziosi, più spesso vino ed olio prodotti dall’uomo. Ma in genere si esclude che esistesse una grande produzione e quindi un “fiorente commercio” di granaglie, di olio e di vino nel Bronzo Antico (cosa confermata, per esempio, dal ritrovamento di lampade riferibili ancora al Tardo Minoico e funzionanti con cera d’api e non con olio). La presenza archeologica dello stagno e delle leghe, lascia trasparire che i commerci – anche dei beni archeologicamente invisibili – avvengono più tra l’Anatolia, le Cicladi e Creta, piuttosto che con la Grecia Continentale. L’influenza delle Cicladi è evidente nelle ceramiche e nelle figurine dette, appunto “cicladiche”. Il commercio internazionale del Bronzo Antico non sembra quindi imperniato sul cibo, bensì su beni esotici e sulle conoscenze tecniche. Non differente doveva essere la situazione per ciò che riguardava la Sardegna.

Il costo del combustibile.

L’estrazione del rame dal minerale grezzo richiedeva circa 300 chili di carbone per produrre un chilo di rame da 30 chili di vena di solfuro di rame. Per una tonnellata di carbone di legna servono 12 – 20 metri cubi di legna.
L’uso del legno come combustibile fu enormemente incrementato, a livelli tali che la vasta regione medio orientale non poteva sostenere in alcun modo. Persino gli anelli d’accrescimento dei travi di ginepro da Katal Huyuk dimostrano che anche lì la crescita delle piante arboree era lentissima per la scarsità d’acqua durante tutto l’anno. Le città della zona, che nascevano e crescevano in numero, erano costrette a costruire grandi cisterne, necessarie per la stagione più secca; richiedevano la disponibilità di vari materiali a tenuta idraulica, come anche di mattoni, ceramiche d’uso comune, coperture degli edifici. La produzione di tutte queste strutture consumava altro combustibile.
L’Egitto, virtualmente privo d’alberi, ricorreva al Libano (Byblos) per il legno di cedro, per la costruzione di templi, per le spedizioni navali commerciali e per il mobilio. Un accenno alla deforestazione si rinviene persino nel romanzo Accadico-Sumerico Gilgamesh[51], nel punto in cui l’eroe, aiutato da Enkidu, abbatte la Foresta di Cedri, in seguito uccidendo il suo guardiano mostruoso Humbaba. Non è certo che le successive disavventure del protagonista siano messe in rapporto con questa colpa (cioè che il rimaneggiamento Accadico costituisca già una specie di giudizio morale dell’opera su un’attività deprecabile e dannosa dell’uomo): ma sappiamo che egli perde il proprio migliore amico e si vede sfuggire persino la possibilità di essere immortale e di regalare l’immortalità agli esseri umani, liberandoli dalle tristezze del decadimento fisico. Sappiamo bene, oggi, che la terra dei Sumeri, come tutta la “mezzaluna fertile”, una volta deforestata, è stata esposta a gravissima erosione da parte delle brevi piogge torrenziali e non ha più visto ricrescere la foresta primitiva.
Si calcola che l’abbattimento intensivo d’alberi nel Medio Oriente sia iniziato nel 1200 a.C., ma probabilmente tale data va alzata per le regioni più asciutte ancora più ad Est. Il Codice di Hammurabi (1750 a.C.) commina la pena di morte per l’abbattimento non autorizzato di alberi. Il problema, quindi, era sentito: doveva anche essere peggiore nelle regioni ad intenso sfruttamento, come ad esempio l’Anatolia, dove l’estrazione con il fuoco, la fusione e la forgiatura erano già vecchie di 3000 anni!
Non tutti avevano la “coscienza civile” e l’attenzione di Hammurabi. Molto più tardi, Eratostene, scrivendo a proposito di Cipro nella tarda età del bronzo (1200) afferma che, malgrado la grande attività di deforestazione, nell’isola sono stati aperti appena dei sentieri, tanto essa è riccamente coperta di alberi. Gli agricoltori erano anzi incoraggiati, con premi in terre, a rendere agibili all’agricoltura nuove superfici di bosco.
L’età del bronzo, con il moltiplicarsi di strumenti sempre migliori per l’abbattimento d’alberi e con l’incremento della richiesta di combustibile necessario per l’aumentata produzione mineraria, può anche essere vista come un’onda inesorabile di distruzione delle foreste e del legname, che si dirige verso Occidente. Nell’800 (uso estensivo ornamentale; introduzione delle coperture in coppo) e nel 500 (nascita delle civiltà “classiche”), tutte le foreste intorno al mediterraneo sono in stato d’agonia.
Si calcola che le miniere di Laurion presso Atene, in 300 anni circa abbiano prodotto 3500 tonnellate d’argento ed 1.4 milioni di tonnellate di piombo. A fronte di questa produzione, si calcolano avvenuti un consumo di 1 milione di tonnellate di carbone e la deforestazione di 101.170 chilometri di bosco. Anzi, si ritiene possibile che l’attività estrattiva sia terminata non per esaurimento delle vene, non per raggiungimento del livello dell’acqua, bensì per l’elevatissimo costo raggiunto dal combustibile.
Platone scrive che “Resta un relitto dell’antica campagna… è come uno scheletro, di un corpo emaciato dalla malattia. Tutto il suolo ricco è scivolato via, lasciando una terra di pelle ed ossa. Le montagne dell’Attica erano coperte di boschi. Ottimi alberi producevano legame perfetto per i tetti delle abitazioni: quei tetti sono ancora in uso”.
Il legno per la flotta Ateniese che avrebbe sconfitto i Persiani a Salamina, nel 480 a.C., dovette essere importato dai Balcani e dall’Italia meridionale.
Ancora il legname fu un bene strategico vitale nella guerra del Peloponneso tra Sparta ed Atene: gli spartani conquistarono le città commerciali ateniesi delle coste Macedoni (tagliando l’apporto di oro e di legname ad Atene); Atene fallì nell’impresa consigliata da Alcibiade di conquistare le riserve di legname della Sicilia. Atene fu quindi sconfitta.
L’isola d’Elba era anticamente chiamata in Greco Aethaleia, l’isola fumosa, per via del fumo dei forni estrattivi. Già i Romani dovevano spedire il minerale sulle coste toscane di Populonia, per mancanza di legno isolano.
Si è stimato dalle tracce archeologiche, che nelle miniere di  bronzo di Mitterberg presso Salisburgo in Austria, 180 minatori circa producessero 20 tonnellate di rame l’anno, richiedendo l’abbattimento di 7,8 ettari di bosco ogni anno. Alle necessità puramente estrattive andrebbe aggiunto poi il legname per assicurare le gallerie, quello per i forni fusori, quello necessario agli agricoltori che cibavano tutto il villaggio minerario. Anche con un ritmo naturale di rigenerazione piuttosto elevato del bosco, questo tipo di “raccolto” può essere sostenuto da una superficie boschiva di non meno di 518 ettari.
La Sardegna – oltre al suo precedente commercio in ossidiana di Monte Arci e di selce dell’Anglona – possiede una tradizione metallurgica che data dal IV millennio[52]. Le vene metallifere sfruttate in epoche storiche (rame, galena argentifera etc.) si trovano sparse dal sud ovest, al centro al nord dell’isola: nell’Iglesiente (es.: Monte Rosas), nella Barbagia (Funtana Raminosa) e presso Alghero (Calabona). Esistono prove dell’uso di piombo per riparare manufatti ceramici[53]. In varie località sono stati rinvenuti materiali compatibili con attività di scavo, di estrazione, di fusione, di veicolazione e stampo dei metalli, con tracce di metallo in frammenti di terracotta[54]. Sempre in Sardegna, fino a 3000 anni dopo l’età del bronzo, i pisani del 1300 ci hanno lasciato testimonianze (materiale combusto nelle gallerie di San Giovanni) dei metodi di scavo: si accendeva un grande fuoco, che rendeva incandescente la parete di roccia; quindi la si raffreddava con secchiate d’acqua, in modo che lo shock termico la rendesse più facilmente aggredibile dai picconi.
È facilmente comprensibile che tutte queste attività richiedenti legno, abbiano prodotto, col tempo, una drastica riduzione delle superfici boschive ed un enorme aumento dei costi di produzione. A livello delle Alpi, con una densità minore di popolazione, il problema sarà stato di minore entità. Le isole e le coste del mediterraneo, per via del clima e dell’ambiente tipico della regione – una lunga stagione secca, piogge torrenziali su pendii privati d’alberi – ha determinato la scomparsa dei boschi e l’erosione dello strato di terreno fertile. I virgulti non riescono ad attecchire naturalmente nel suolo arido dilavato, talvolta neanche con l’aiuto della piantumazione assistita dall’uomo[55].
Nell’isola di Cipro, le scorie tuttora presenti depongono per una produzione di circa 200.000 tonnellate di rame e questa produzione – si calcola – avrà chiesto il sacrificio di 200 milioni di alberi di pino, il che equivale a circa 16 volte la superficie totale dell’isola[56]. Ci si sente autorizzati a credere che l’aspetto globale dell’isola sarda fosse probabilmente molto più dolce e curvilineo, più verde e boscoso e con molto meno numerose asperità dovute a picchi rocciosi oggi scoperti.

I bronzetti sardi
I bronzetti sardi, esercitano ancora oggi su tutti – esperti e profani – un fascino particolare, non diversamente da come  fanno anche le statuette Cicladiche egee: si tratta di forme d’arte minore, considerate per lo più votive e quindi stilizzate e simboliche. Esse ci confrontano con più domande che risposte, al loro riguardo.
L’alleanza fra archeologi, geologi e studiosi delle tecnologie dei metalli, può produrre un approccio interdisciplinare, che qualcuno ama chiamare Archeometallurgia. L’Archeologia Scientifica, attraverso analisi chimiche, isotopiche, mineralogiche e metallografiche, con l’aiuto di conoscenze pratiche sul campo dell’Archeologia Classica e dell’Archeologia Sperimentale, può formulare importanti e più concrete ipotesi storiche e soprattutto con maggiore sicurezza. Questo è tanto più vero e necessario soprattutto per la Sardegna, che recentemente è investita dall’ondata della fantarcheologia rampante di moda, in parte dovuta ad inattività e mancanza d’iniziativa (oltre che di fondi) dell’ambiente accademico[57].
L’unico censimento esistente fin qui è la catalogazione tentata dal Lilliu nel 1966[58], secondo il quale il numero delle statuette ancora superstiti ammonterebbe a più un migliaio: più di 500 esposti (o nascosti) in musei Sardi e Italiani ed un numero maggiore facente parte di collezioni pubbliche o private, sparse nel mondo[59].  Gli “studi” effettuati su tali statuette sono stati, per lunghi anni, soltanto descrittivi, limitandosi a catalogare forme, dimensioni, somiglianze e “tipi”. Si dava per scontato che – essendo esse di bronzo – appartenessero all’Età del Bronzo e fossero ovviamente nuragiche. Esse, cioè, rappresentavano il popolo costruttore dei Nuraghi ed il suo ambiente contemporaneo[60].
Adesso si può scientificamente affermare che non è così.
Quando si cerca d’immaginare i “Nuragici” il pensiero corre subito alle statuette dei bronzetti, che sono posteriori di almeno 1000 anni e quindi non li rappresentano affatto. Anzi, si corre il rischio di interpretare come molto più antichi alcuni sviluppi dell’armamento militare che appartengono – in tutta l’area mediterranea – al periodo preparatorio della “grande crisi” con cui si passò all’Età del Ferro. Il passaggio Bronzo/Ferro coincide con l’abbandono della guerra campale con i carri e gli archi (con uso solo sporadico di fanteria, per uccidere i guerrieri caduti dal carro, cosa in cui peraltro pare eccellessero i mercenari Sherden), alla guerra di fanteria (introduzione degli schinieri e dei corsetti) ed al sacco delle città per fare bottino; lo scudo grande (sakos) cede il posto allo scudo tondo piccolo (aspis); il giavellotto assume una punta a ellisse senza arpione, per potere essere riusato; la spada di tipo Naue II (lunga circa 70 cm, pesante, a fili paralleli e non convergenti, fusa e non forgiata, con baricentro lontano dall’impugnatura e quindi adatta al brandeggio, oltre e più che a colpire di punta)[61] prima prodotta in bronzo, verrà poi copiata in ferro, a dimostrazione della sua praticità. Non possiamo prendere spunto da raffigurazioni così tardive per vestire personaggi di molti secoli prima: è da errori così grossolani che nascono speculazioni insensate. Il passaggio Bronzo/Ferro coincide con profonde modifiche sociali. La caduta delle società palaziali accentratrici ed aristocratiche lascia il posto a governi repubblicani, alla nascita del nazionalismo e del monoteismo, oltre che, come è ben noto, della scrittura alfabetica ed in ultima analisi apre la porta al razionalismo. Nell’arte figurativa come nella realtà, una volpe, un montone o una generica “nave” non sono certo molto cambiate, in quel lasso di tempo. Ma molte altre cose, come si vede, sì. Le somiglianze con altre statuine e con costumi d’altre zone del Mediterraneo orientale, sono suggestive ed affascinanti, ma non necessariamente probanti alcunché. Non è questa la sede per trattare le cause della profonda crisi che ha determinato la fine dell’Età del Bronzo[62].
La prima indagine sulla composizione chimica dei bronzetti è stata condotta da M. Balmuth nel 1978, su 4 bronzetti esposti in musei Americani: faceva parte di un ambizioso progetto per datare i manufatti sardi, comprenderne le modalità di fattura e localizzarne l’origine[63]. Da allora, sono stati analizzati anche molti altri reperti metallici sardi[64] – figurati e no – e si è potuti giungere ad alcune considerazioni conclusive.
Allo stato attuale delle conoscenze, non è possibile stabilire una formula unica per il bronzetto sardo, né è credibile ve ne fosse una. Su circa 130 reperti analizzati, 6 contengono elevate quantità d’argento, di zinco o di nichel e sono da considerarsi – nel migliore dei casi – atipici.
Per i rimanenti, la composizione è la seguente: rame 88,9 ± 3,9%; stagno 8,8 ± 2,9%; piombo 1,6 ± 3,2; ferro 0,4 ± 0,3%; arsenico 0,3 ± 0,3%; zinco, nichel, antimonio ed argento ammontano insieme a 0,1% o meno.
Questa “ricetta” riproduce quasi esattamente le proporzioni del carico di rame e stagno, in lingotti, di Ulu Burun (11/1).
Il fatto che lo stagno possa variare da 2,2 a 18,6% ed il piombo da 0,1 a 25, 8%, suggerisce che i bronzetti sardi non erano fatti secondo una singola formulazione. La provenienza furtiva, clandestina o sconosciuta – per la maggior parte dei reperti rintracciati, trovati o fortunosamente recuperati – impedisce di elaborare ipotesi comparative più organiche e complesse circa le zone di produzione. Chi faceva i bronzetti conosceva bene gli effetti delle variazioni percentuali di stagno e rame sul risultato finale della lega di bronzo[65]. I vantaggi dell’introduzione del piombo, ai fini della facilità di stampo e di lavorazione non erano sfruttati altro che occasionalmente, negli oggetti votivi sardi. Dato che nell’Etruria e nella Grecia del periodo Geometrico si faceva largo uso di bronzo piombato, per sfruttarne la malleabilità e la maggiore fedeltà allo stampo, si potrebbe essere tentati di stabilire una datazione alta dei bronzetti sardi, come più appropriata per una tecnica apparentemente più vecchia. Mentre da un canto non si mette in discussione la provata vetustà delle tecniche estrattive e metallurgiche sarde, dall’altro e per quanto concerne in particolare i bronzetti si deve, invece, formulare una data genericamente piuttosto tarda: si assegnano all’Età del Ferro del Mediterraneo Occidentale (900 – 500 a.C.). Ogni bronzetto era prodotto a “cera persa” e presentava bave e code di fusione che in alcuni casi sono ancora oggi presenti (sotto i piedi di alcuni guerrieri, ad esempio), ma che in massima parte, se non del tutto, andavano eliminate dall’oggetto finito. L’archeologia sperimentale[66] dimostra che per potere togliere senza danni questi prolungamenti (necessari solo durante la colata per avere uno stampo migliore, ma decisamente deturpanti per l’oggetto finale), erano necessari utensili di ferro. Possibilmente, la tecnica sarda (limitatamente ai bronzetti?)[67] era “arretrata” forse anche volutamente, in seguito ad un fenomeno di conservazione delle tradizioni che è tipico in tutte le isole del mondo, non unicamente in Sardegna. Infatti, quando si desiderava ottenere oggetti pregiati di particolare riguardo (per motivi di prestigio o religioso), si ricorreva occasionalmente, ad esempio, a leghe rame – argento[68]. Le variazioni sul tema, insomma, non erano sconosciute: ma la Tradizione, si sa, è una radice robusta. Comunque sia, i bronzetti non erano “nuragici” in alcun modo e trarne ispirazione per descrivere figurativamente attraverso di essi i costruttori dei nuraghi è antiscientifico.

Conclusioni.
È triste la considerazione del terribile contrasto tra l’aspetto verdeggiante e felice delle coste e dei paesi affacciati sul Mediterraneo di 5000 anni fa e quelle scabre, molto più desolanti di adesso: non sono scomparsi solo i cedri del Libano, usati preferibilmente per le navi, bensì intere foreste e boschi di pini, di ontani, di querce, di lecci, di roveri, d’acacie e d’innumerevoli arbusti.
Il disastro ecologico del Mediterraneo antico dovrebbe insegnarci diverse cose, se solo sapessimo riconoscerlo appieno: l’erosione selvaggia danneggia la fertilità dell’interno del paese (scoprendo le rocce infertili), ma la grande quantità di terreno dilavata e spostata a valle è quella che poi determina l’insabbiamento dei porti e gli allagamenti nelle pianure e la creazione di zone malsane. Per secoli, del disastro erosivo furono ingiustamente accusati gli arabi, per avere tardivamente introdotto la capra, vorace d’erba, nelle regioni costiere.
Sempre, la trasformazione di zone prima favolosamente ricche in zone abbandonate e depresse ed apparentemente inspiegabilmente irrecuperabili riconosce come unica causa lo sfruttamento da parte dell’uomo, portato ben oltre le possibilità di sopportazione dell’ambiente.
Il tristissimo denominatore comune storico è dato dalla competizione per le risorse geologiche, per le quali l’uomo è sempre sceso a patti con rischi inaccettabili, ha condotto guerre distruttive e persino accettato come inevitabile la morte, in tutte le epoche della sua storia, apparentemente nulla imparando dai propri errori del passato.
Oggi, il petrolio è la risorsa geologica globale che ha sostituito (più ancora degli smeraldi malarici orientali e dei diamanti sudafricani) i metalli del passato... I bronzetti in fondo, non rappresentano altro che un’ultima, minima e secondaria, seppure affezionata, utilizzazione di ciò che era invece una risorsa mondiale primaria e fondamentale, regolata da metodi di ricerca, produzione e commercio ormai consolidati da millenni…
Dal punto di vista evolutivo, che l’andamento di tutti gli avvenimenti storico-politici e sociali sintetizzati sopra, per le nostre zone Europee e Mediterranee, abbia avuto un andamento lento ed inesorabile, seppure discontinuo, diretto costantemente da Est ad Ovest è un fatto reale, documentato dall’Archeologia, dall’Antropologia, dalla Genetica di popolazioni (umana ed animale), dalla Paleobotanica, dalla Storia della navigazione e da altre numerose Scienze, il che dovrebbe bastare a fare ricredere i sostenitori di altre direzioni dello sviluppo e dell’evoluzione delle società umane, negli stessi luoghi e periodi di tempo qui considerati…
Ma, soprattutto, dovremmo imparare quanta parte abbia avuto, nell’evoluzione dell’uomo e nelle tribolate vicende storiche dei popoli diversi, la Geografia, in questo caso, più particolarmente, la sua  branca della Geologia.
Ciò che ha fatto le differenze anche evidenti, che oggi osserviamo tra i popoli certamente non risiede in qualche elemento biologico intrinseco agli uomini che li compongono. Non è quindi un bene prezioso ed innato che si possa trasmettere geneticamente. Non si tratta affatto di qualche dote che possa seppure in minima parte giustificare l’arroganza di una presunta superiorità di una “razza padrona” al di sopra di un’altra.
Si tratta bensì di pura casualità, dei beni offerti dalla Natura che ci troviamo intorno più o meno abbondanti, per sorte del tutto indipendente dalla nostra volontà, dai nostri eventuali meriti o dalle nostre singole varie capacità.
Si tratta cioé, in ultima analisi, soltanto di fortuna.
Un seme caduto su terra buona, invece che su pietra sterile.
Qualcuno, questo ce lo aveva già detto, in verità.



[1] Ad esempio, per la mancanza di resti di carbone, era stato messo in dubbio che fossero stati trovati 18 forni fusori a Pyrgos Mavroraki, (Cipro, scavi a cura di M.R. Belgiorno, 1998), fino a quando il Centro d’Archeologia Sperimentale Antiquitates (A. Bartoli) non ha dimostrato che un forno del 2000 a.C. può funzionare ad olio d’oliva, per la produzione del bronzo – Napoli,13 feb. 2006.
L’olio lascia meno scorie del carbone e permette prodotti finali più puri.
[2]
Lunghi, per il rame e per il bronzo. Solo la sperimentazione, può quindi avere condotto alla successiva tempra del ferro.
[3]
Letteralmente: lingotto a (forma di) pelle di bue.
[4]
Anche in tempi recenti (1882) D’Annunzio e Pascarella furono molto espliciti circa le tristi condizioni dei minatori sardi: si pensi che in circa 100 anni ne sono morti circa 1500 per incidenti, senza contare le malattie acquisite per via dell’ambiente malsano.
[5]
La data è 300.000 anni a.C. e l’autore degli scavi è Homo Heidelbergensis, in Francia ed in Slovacchia. Anche in molti siti di H. Neanderthalensis (30.000 a.C.) sono state trovate fabbriche di ocra, cruda e cotta (la cottura la rende ancora più rossa).
[6]
Fortunatamente, i reperti litici non vengono distrutti, neanche dopo che sono diventati inutili all’uso e contengono tracce geochimiche, che permettono di localizzarne l’origine. Dato che la selce non è ubiquitaria, è ovvio che essa fosse custodita e trasportata dai possessori per farne uso nei siti dove si rendeva necessaria (per scuoiare e tagliare a pezzi trasportabili gli animali uccisi, etc). Il filo degli strumenti di selce è fragile abbastanza da restare danneggiato, durante il trasporto, se ogni singolo attrezzo non è protetto – per esempio – da un avvolgimento in pelle, che è il tipo di protezione più probabilmente adottato…
[7]
Gli oggetti di rame più antichi così trattati provengono dall’Anatolia orientale (Cayonu Tepesi e Asikli Hoyuk) sono del 7.000 a.C. e consistono in ami e punteruoli. E’ il primo esempio noto di pirotecnologia, con ricottura del metallo. Vista la navigabilità (con battelli di pelli e con zattere) del Tigri dall’altopiano fino alla pianura, è verosimile che gli oggetti di rame rinvenuti in Mesopotamia e risalenti al 7000 siano d’origine anatolica.
[8]
Ossidi, carbonati e solfuri.
[9]
L’invenzione della terracotta a tenuta idraulica è stata forse stimolata dall’inizio dell’agricoltura (ne è considerata ovunque un indicatore): essa serviva per proteggere da insetti, roditori ed altri fattori ambientali dannosi le granaglie coltivate, i liquidi d’uso alimentare prodotti: vino ed olio, oltre all’acqua.
[10]
Diamo all’Età del Rame le date 8.500-4.000 a.C.  Nelle isole britanniche i più antichi segni di scavo per il rame sono datati 2400 a.C. (Irlanda, Ross Island).
[11]
A 450 °C si ha una terracotta robusta e a prova d’acqua; a 1.000 °C si ottiene una terracotta più dura, lucida e bella, ma si può anche fondere un metallo…
[12]
B. Rhouda, La Mesopotamia, 2003, Ed Il Mulino.
[13]
Cuprolitico ed Eneolitico sono sinonimi: è un periodo preistorico (4.000 a.C. in Egitto e 4500 in Bulgaria, lungo il Danubio) in cui compare il metallo (rame, argento e oro), ma coesiste con un uso primario di pietra ed osso. Compaiono il bicchiere campaniforme nel Mediterraneo Occ. ed i megaliti atlantici.
[14]
L’ossidiana proveniva dalle zone d’Aksaray, Bingol e del Lago Van: se ne trovano esportazioni fino alla lontanissima città di Gerico.
[15]
Questa è un’acquisizione che è stata separatamente fatta in differenti zone ed epoche: nel 2800 a.C. in Cina; nel 600 d. C. in centro America; nel ix o x secolo d. C. nell’Africa Occidentale.
[16]
La prima parte dell’Età del Bronzo è – in verità – un età del rame arsenicale (Betancourt 2006), per la facilità con cui questa forma si ritrova nelle vene di superficie: è già un tipo di lega, che chiamiamo bronzo arsenicale.
[17]
Un dio deforme, perciò ripudiato dalla propria madre Era, scacciato dall’Olimpo e relegato in un vulcano, la sua fucina. Un dio zoppo: ma non dovrebbe la divinità essere – se non perfezione – almeno superiore alla fragilità dell’uomo?
[18]
Quantità più basse di stagno o arsenico non migliorano la lega rispetto al metallo puro; quantità più elevate rendono la lega troppo friabile per essere utilizzabile: i metallurghi dell’età del bronzo avevano empiricamente trovato la gamma corretta di valori per l’utilizzazione della loro lega.
[19]
Nell’età del bronzo non erano disponibili altre leghe:  lo zinco (con cui si ottiene l’ottone) ed il nichel sono molto più rari e molto difficili da fondere; la lega con antimonio è troppo friabile.
[20]
Sapore metallico in bocca e salivazione abbondante, deglutizione difficoltosa; poi, vomito e diarrea, alito agliaceo, crampi addominali e sudorazione eccessiva; infine, crisi convulsive ed insufficienza renale…
[21]
Un danno organico, per inibizione enzimatica, alla sostanza bianca e grigia.
[22]
Va anche aggiunto però che altre sostanze, cui in qualche modo gli impressionisti si esponevano, sono dannose: la trementina, l’assenzio etc.
[23]
Fece sensazione la scoperta presso il grosso villaggio antico di Goltepe, (3290-1840 a.C.), in cui buona parte dei cunicoli di scavo permettevano il passaggio di bambini soltanto (molti scheletri infantili vi furono ritrovati). L’enormi dimensioni del lavoro estrattivo di stagno sono state dedotte dall’entità delle scorie di scarto: 600.000 tonnellate in un singolo mucchio. Il materiale di scavo veniva schiacciato all’aperto, lavato e fuso con carbone in piccoli crogioli (che sono stati ritrovati numerosi), invece che nei grossi forni usati altrove per il rame.
[24]
Omero afferma che i guerrieri della guerra di Troia vestivano armature di bronzo ciprio, un’affermazione considerata inesatta, come altre sulle tecniche di guerra con il carro, che  –  400 anni dopo – non si ricordavano più.
[25]
Proprio come sarebbe successo nella penisola italica solo 800 anni dopo, con l’Aes Rude, mentre possiamo ipotizzare che in Sardegna ciò avvenne pressoché contemporaneamente a Cipro.
[26]
Questa forma può essere stata funzionale al trasporto (ma potrebbe anche essere stata in qualche relazione con la divinizzazione del toro). Esistono lingotti che mostrano soltanto due “maniglie”.
[27]
Dato dendrocronologico, ottenuto da legname tagliato, pronto per essere bruciato, presente a bordo. La data, si noti bene, appartiene alla tarda età del Bronzo. Anche gli altri oggetti propendono per LH IIIA; l’usura dello scarabeo di Nefertiti depone per  data successiva di alcuni anni alla morte d’Akhenaton, ma precedente a Ramses (XIX Dinastia).
[28]
Si è calcolato che – con tale fornitura – si sarebbe potuto equipaggiare l’esercito di una città-stato micenea: 50 armature, 500 punte di lancia, 500 spade. Il rapporto10/1  tra rame e stagno trasportati potrebbe essere stato funzionale ad una ricetta per il bronzo.
[29]
Timna, presso Eilat, nel deserto del Sinai, è uno di questi siti. Ve ne sono circa 300 in una vasta zona che va dal  Sinai meridionale al Giordano alla parte settentrionale di Israele.
[30]
A. Yener, Oriental Institute e Argonne National Laboratory, University of Chicago, 1998.
[31]
R.E. Clayton (1), C. Gillis (2) & E. Pernicka (3) – Feasibility criteria for the use of tin isotopes in provenance studies - 2006.
(1) Birkbeck/UCL Research School of Geological and Geophysical Sciences, Univ. London, UK; e-mail:
r.clayton@geology.bbk.ac.uk
(2) Dept. of Classical Archaeology and Ancient History, Lund University, Lund, Sweden
(3) Institut fur Archaeometallurgie, TU Freiberg, 5 Gustav-Zeuner Strasse, Freiberg, Germany
[32]
Si tratta di metodi che non richiedono il prelievo materiale di campioni e che pertanto garantiscono l’incolumità del reperto. Sono anche molto superiori in precisione del metodo del C14, con il quale W. Frank Libby  vinse il premio Nobel nel 1960.
[33]
Muhly, J.D. : The copper oh-hide ingots and the Bronze Age metal trade, Iraq 39:73-82. 1977.
[34]
Lo Schiavo et al.: Sardinian ox-hide ingots, 1998.  In T. Reheren, A. Hauptmann and J.D. Muhly (eds), Metallurgica Antiqua: In honour of Hans Gert Bachmeann and Robert Madding. Der Anschnitt, Beiheft 8:99-112. Bochum: Deutches Bergbaummuseum.
[35]
Persistono alcuni problemi: livelli identici d’isotopi in vene differenti; possibilità dell’esistenza di vene d’origine sconosciute; presenza di piombo aggiuntivo nei materiali usati (combustibile, scorificante, componenti leganti); provenienza multipla del materiale originale; infine: pochissimi artefatti esaminati possiedono firme isotopiche che possono essere correlate ai campi espressi dai lingotti (Muhly,  Metals and metallurgy: using modern technology to study ancient technology. In Ancient Greek Technology; Proceedings of the first International Conferente on Ancient Greek Technology – Tessaloniki, 4-7 Sept. 1997, 23-33 Tessaloniki Technology Museum.
[36]
Budd et al. Oxhide ingots, recycling and the Mediterranean  metal trade, Journal of Mediterranean Archaeology 8:1-32.
[37]
Budd et al.: op cit. alla nota 21, 13-15; Gale N. H.: Archaeometallurgical studies of Late Bronze Age oxhide copper ingots from the Mediterranean region. In A Hauptmann et al. Old World Archaeometallurgy. Der Anschnitt, Beiheft 7:247-68. 1989b. Bochum; Deutches Bergbaum Museum.
[38]
Lo Schiavo F. et al.: Metallographic and statistical analyses of copper ingots from Sardinia. Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Soprintendenza ai Beni Archeologici per le provincia di Sassari e Nuoro – 1990; Budd, op cit alla nota 21, fig. 5 – 1995; Gale N.H. et al.: Lead isotope data from the Isotrace  Laboratory: Oxford. Archaeometry data base 4, ores from Cyprus, Archaeometry 39, 237-45  – 1997.
[39]
Sayre E. V. et al.: Comments on “Oxhide ingots, recycling and the Mediterranean Metal Trade”. Journal of Mediterranean Archaeology. 8:45-53 - 1995
[40]
Numerosi autori concordano con queste ipotesi (raccolta da più centri d’origine e riciclaggio): Budd, Muhly, Knapp, Sherratt, Stech, Hall, Pernicka.
[41]
Lo Schiavo F.: Sardinian oxhide ingots 1998. In T. Rehen et al.: Metallurgica Antiqua: In  honour of Hans-Gert Bauchmann and Robert Madding. Der Anschnitt, Beiheft 8, 99-112. Bochum Deutches Bergbaumuseum.
[42]
Tylecote et al.: “Copper and bronze metallurgy in Sardinia”. In Balmuth Ed: Studies in Sardinian Archaeology 1:115-162. Ann Arbor: University of Michigan press.
[43]
Lo Schiavo F. et al.: Nuragic Metallurgy in Sardinia; second preliminary report. In M.S. Balmuth Ed.: Studies in Sardinian Archaeology 3. BAR International Series 387:179-187 Oxford British Archaeological Reports. 1987.
[44]
Lo Schiavo F.: Economia e società nell’età dei nuraghi. In La Sardegna dalle origini all’età classica, Ed Ichnussa, AA. Vari, Milano Garzanti, 1981.
[45]
Lo Schiavo F.: op cit. alla nota 28.
[46]
Lo Schiavo F.: 1989 Early metallurgy in Sardinia: copper ox-hide ingots. In Old World Metallurgy, A. Hauptmann et al Ed. – 1989. Der Anschnitt 7:33-38 Bochum Deutche Bergbaumueseum.
[47]
Gale N.H.: Archaeometallurgical studies of late Bronze Age oxhide copper ingots from the Mediterranean region. In A. Hauptmann et al. Ed. Old World Archaeometallurgy. Der Anschnitt beiheft 7:247-68. Bochum: Deutche Bergbaumseum. 1989.
[48]
F. Begemann, S. Schmitt-Strecher, E. Pernicka, F. Lo Schiavo: “Chemical composition and lead isotopy of copper and bronze from Nuragic Sardinia” European journal of Archaeology, Vol 4, N° 1. 43-85, 2001.
[49]
I modelli cretesi  di navi del Minoico Antico (2000 a.C.) sono quelli di Palaikastro (prua alta, poppa bassa, un singolo ordine di remi) e di Mochlos (apparentemente una nave monoxila, inadatta ad acque profonde).
[50]
I resti archeologici propendono per una limitata coltivazione del problematico grano (triticum dicoccum, forse riservato a pochi) ed una più abbondante del più rustico orzo (hordeum distichum, hordeum vulgare), ambedue non sufficienti per un’esportazione.
[51]
Il più antico racconto epico mai reperito, riferito ad un sovrano realmente esistito, un re Sumero di Uruk, tra 2700 e 2500 a.C. Non disponiamo degli scritti originali in Sumero (2000 a.C. - che erano episodi separati), bensì della rielaborazione Accadica in un solo racconto (forse 1500 a.C.).
[52]
F. Lo Schiavo, “Sardinian metallurgy: the archaeological background”, in M. S. Balmuth, Studies in Sardinian archaeology 230-50; Early metallurgy in Sardinia”, in R. Madding, “The beginning of the use of metals and alloys” Zhengzhou, Cina, 1986 (Cambridge M.A. 1988) 92-103.
[53]
C. Atzeni et Al.: “Notes on lead metallurgy in Sardinia during the Nuragic period”, Historical metallurgy 24 (1991) 97-105.
[54]
C. Atzeni et Al.: “Bronze metalworking at the nuragic site of S. Barbara, Sardinia, Italy”Historical metallurgy, 26 1992, 31-35. L.J. Gallin et Al.: “Attività metallurgica al nuraghe S. Barbara di Bauladu (Or)”. Quaderni della Sopraintendenza Archeologica per le provincie di Cagliari ed Oristano 11 (1955) 141-53.
[55]
L’isola greca di Seriphos è spoglia, oggi, ma la presenza di scorie di rame sui cigli rocciosi lascia capire perché gli alberi di un tempo siano stati tutti abbattuti.
[56]
Anche considerando una rigogliosa ricrescita dei boschi nelle zone alte dell’isola, è molto probabile che il limite alla produzione dell’isola fosse dato proprio dalla disponibilità del combustibile.
[57]
La sperimentazione sui metalli, ad esempio, non impone costi elevati: è solo questione d’iniziativa, inventiva e curiosità scientifica.
[58]
G.Lilliu, Le sculture della Sardegna nuragica (Cagliari 1966).
[59]
Esiste anche un fiorente mercato privato: ad esempio, le Royal Athena Galleries offrono in vendita un “suonatore d’arpa” sardo del 600-500 a.C. – stilisticamente simile all’Ercole di Siniscola – al prezzo di circa 2500 Euro. Il commerciante antiquario Bob Hecht, di Antiquities Ring (il famoso compratore del vaso di Eufronio) si è recentemente assicurato un bronzetto sardo del V secolo raffigurante un toro, per poco più di 20.000 Euro. Probabilmente il mercato ha origine da scavi clandestini e/o da falsari.
[60]
Persino il reperimento di alcuni bronzetti sardi in tombe etrusche datate più precisamente, è stato interpretato variamente: se da un canto indicherebbe una datazione tarda, dall’altro non tutti riconoscono come contemporanee produzione ed utilizzo dell’oggetto in ambito funerario etrusco.
 
[61]
Naue II è comunemente descritta come “Micenea”, ma questo è errato, perché i primi esemplari – poi diffusisi con successo nell’area mediterranea – sono originari della zona Carpatico - Alpina.
[62]
Per questo argomento si vedano: 1) R. Drews: “The end of Bronze Age” Princeton University Press - 1993. Vengono discusse ed escluse tutte le cause catastrofistiche, le migrazioni di popoli (inclusi i cosiddetti “popoli del mare” ed i Dori), la stessa introduzione del ferro (che fu successiva di almeno un secolo), la siccità ed il collasso dei sistemi sociali. 2) Un prossimo articolo su Sardegna Antica, in cui si prospetterà una tesi dimostrante entità, origine, motivi e fine dei Popoli del Mare.
[63]
Si tratta di un guerriero (11 cm), dell’Università di Tufts, con elmo a piuma centrale e spada inguainata; un secondo guerriero (24,5 cm) del Getty Museum di Los Angeles, con tipico elmo cornuto, schinieri ed arco; un pastore inginocchiato (12,7 cm), dell’Università di Harvard, che tiene per le zampe un piccolo muflone: le forme inusualmente morbide e l’elevato contenuto di zinco (15,3%) lo rendono dubbio; una nave con protome di cervo (16,5 cm) del Museo d’Arte di Boston.
[64]
P. Craddock ha analizzato 20 bronzetti del British Museum; J Riederer ha analizzato 80 statuette della mostra di Karlsruhe del 1980; P. Virdis ne ha analizzati 12 del Museo di Cagliari. Altri contributi sono venuti da C. Atzeni, da Gale  e ancora da M. Balmuth e R. Tykot.
[65]
Il fatto che si usasse – per fissarli al supporto o per ripararli – un materiale che fonde a temperatura inferiore della lega del bronzetto,  è indice dell’esperienza raggiunta.
[66]
Questa preziosa informazione – insieme a molte altre notizie pratiche –  è dovuta all’amico Mirko Zaru.
[67]
Forse, proprio come – attualmente – le Parrocchie non ricercano i più moderni sistemi di stampa ed impaginazione per le loro produzioni locali e per i “santini” ricorrono a modelli che sono ormai vetusti e non sembrano del XXI secolo.
[68]
Questo sarebbe dimostrato dalla mancanza dello stagno nel prodotto finale, che quindi non sarebbe l’esito di ri-fusione, bensì una prima fusione intenzionalmente progettata così. Esisterebbero alcuni manufatti in ottone (lega rame-zinco), che dividono la critica: c’è chi crede che possano essere antichi e chi li considera decisamente falsi.


Fonte:  http://pasuco.blogspot.it/2013/02/bronzetti-sardi_8808.html




5 commenti:

  1. Grazie, Pierluigi.
    'Pasuco' (Uviguta Olf).

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  2. Vorrei però ricordarti che la citazione del Pigorini è dovuta solo nel caso in cui si pubblichi (come feci io nell'originale dell'articolo) la riproduzione fotografica di un bronzo sardo di circa 40 cm. rappresentante un guerriero con scudo.
    Tale riproduzione è permessa unicamente se NON a scopo di lucro e citandone il proprietario. Nel Museo Pigorini di Roma - anche se si riuscisse a fotografare di nascosto detto bronzo - cosa che è proibita, naturalmente - non si potrebbe fisicamente riprenderlo da dietro, perché è esposto in un angolo di una vetrina incassata nel muro. Una splendida opera, che non può essere definita 'bronzetto'.

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  3. Sai che nel Museo Archeologico di Oxford è gradito se fai fotografie? C'è il cartello all'ingresso...leggi cosa riporta: "Visitors to the Ashmolean are welcome to use stills cameras in the Museum".

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  4. Sai come si dice: "Paese che vai..." :))

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  5. bellissimo articolo, complimenti! Purtroppo credo che molti bronzetti provengano da scavi clandestini. Io un periodo ho lavorato nel Sarcidano è spesso si sentiva parlare di "ritrovamenti" che prendevano la via della Svizzera. Peccato che questo patrimonio enorme della nostra civiltà, vada a finire in collezioni private e non reso disponibile a tutti!

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