Archeologia dei trasporti. I solchi della treggia: una storia di antiche guidovie
di Franco Sarbia
Io non conosco la datazione dei solchi paralleli nella roccia dei diversi siti trovati in rete: in Spagna, Malta, Sardegna e Turchia. La loro configurazione non pare quella di canalette per l'acqua. Non s'è mai visto un acquedotto con due condotte parallele di piccola portata anziché una sola di grande portata. Per il rapporto quadratico tra superficie e volume un canale appena più ampio può raddoppiare la portata senza dover spendere il doppio di tempo e fatica a realizzare due condotte parallele incise nella roccia.
Un acquedotto "a pelo d'acqua", infine, richiede una sorgente o una presa d'acqua all'origine e un buffer, cisterna, vasca o invaso al termine. Non sembra questo il caso delle nostre vie canalizzate. Su una strada di pietra quando fosse necessario canalizzare l'acqua, lo si farebbe al centro, come sulle vie lastricate sempre s'è praticato fino al tardo medioevo, non sulle tracce di passaggio erose irregolarmente.
Su materiale lapideo compatto è escluso che solchi così profondi siano generati da carri. L’attrito volvente delle ruote non può scavare tanto profondamente la pietra, come dimostrano le tracce appena accennate generate dal passaggio dei carri sul selciato romano durante secoli d’intenso traffico. Uno studio sul campo di J. D. Evans nel 1955 stabilisce definitivamente che non possono essere stati carri a produrre i solchi di Malta. L'esperimento è stato realizzato con un carro ed una treggia di uguale scartamento, costruiti ad hoc. Dice Evans: “Le ruote s'inceppavano continuamente; i pali dello slittone, invece, scivolavano con facilità adattandosi perfettamente ai solchi”. Non si dimentichi, inoltre, che è molto difficile costruire un carro capace di trasportare pesi superiori alla tonnellata senza elementi di ferro. La treggia è il mezzo più efficiente per trasportare carichi pesanti su tracciati irregolari.
La superiorità assoluta della slitta rispetto al carro si esprime su terreni fangosi, sui quali scivola via come sulla neve, mentre la piccola superficie di appoggio delle ruote fa impantanare il carro. Oppure su fondi irregolari. Sulle asperità di un terreno lapideo compatto, come quello di un piano di cava o di miniera a cielo aperto era, comunque, necessario rimuovere gli ostacoli e uniformare la pendenza del tracciato; il percorso doveva essere reso scorrevole con fango riversato davanti ai pattini. Seppure l’attrito radente dei pattini associato al potere abrasivo del fango sia più efficace delle ruote nell’incidere la pietra, questo semplice procedimento non era tuttavia congruo per scavare tracce di tale profondità, regolarità e sviluppo. Occorreva una valida ragione ed un sistema adatto per realizzare tracciati a solchi paralleli così lunghi, regolari e diffusi in varie regioni del mondo.
Erodoto ha testimoniato che la capacità di carico delle imbarcazioni Babilonesi giungeva a 5000 talenti.
Naturalmente gli storici nostrani non gli credono, ma quello era l'unico mezzo per trasportare sull'Eufrate da lunghe distanze gli elementi lapidei delle città mesopotamiche costruite sul fango, o se preferite sull'argilla. 5000 talenti corrispondono a 150 tonnellate. Per giungere all'imbarcazione un monolite di tale peso non poteva che essere trasportato con tregge e rulli (o entrambi, ancor oggi le navi si varano su una treggia che scorre su rulli), come dimostra il documento egizio dell'immagine. Non è escluso che lungo percorsi regolari e pianeggianti venisse usato come lubrificante del grasso sui pattini e un impasto di polvere fine e olio minerale o petrolio lungo i solchi. Questi accorgimenti non sono, però, adatti a far scendere dal luogo di estrazione carichi così enormi lungo pendii irregolari a tratti declinanti in modo trasversale al percorso.
Per far comprendere il senso di questa premessa e al fine di spiegare il senso dei nostri "binari a solco", bisogna sapere che, a favore di gravità, né uomini né animali sono in grado di impedire che un simile carico s'intraversi e rotoli a valle se non scorre su guide che lo impediscano. I buoi, soprattutto se aggiogati a coppie multiple sanno camminare nei solchi. Lo posso testimoniare perché da bambino ero pastore di bovini e scendevo dalla montagna trasportato dalla treggia trainata da una coppia di buoi con carichi di fieno o di legna. Nella mia esperienza i pattini della slitta (chiamata “Lesa” nell’alta val Trebbia) sono tronchi ricurvi, la loro forma è prima tondeggiante, compatibile con molti dei "cammini" a solchi paralleli illustrati dalle immagini, poi con l'usura si appiattisce. Le strade di montagna, spesso molto ripide, erano invariabilmente segnate da simili solchi paralleli, che impedivano alla treggia di derapare fuori strada, lungo la scarpata.
Stabilita l’indispensabilità dei solchi per controllare la discesa di carichi imponenti si può ora figurare un procedimento, adatto allo scopo, compatibile con la tecnologia del neolitico.
Preparato il percorso, doveva essere predisposta una slitta con pattini parzialmente rivestiti da blocchi di pietra resistente all’abrasione, arrotondati frontalmente ma scabri e taglienti a contatto con il terreno. La slitta doveva essere caricata con residui di lavorazione della cava, di peso controllabile da due paia di buoi e da una squadra di uomini. Davanti ai pattini era cosparso un impasto fangoso composto da urina, dal blando potere erosivo, sterco, polveri di pietra, smeriglio di Naxos o pomice delle Eolie: residuati dalle prime lavorazioni di taglio e levigatura. In salita lo smeriglio stesso poteva costituire il carico. Dopo alcuni giorni di andirivieni continuo i solchi divenivano abbastanza profondi da consentire la discesa di carichi via via più pesanti. Scavati che fossero, i solchi avevano anche la funzione di minimizzare il fabbisogno di lubrificante e fornire l'apporto d'acqua necessario a mantenere fluido il fango. Terminata la fase di “inizializzazione” poteva essere ripreso l’uso di slitte ordinarie, con lo stesso scartamento, continuando nel tempo l’incisione graduale dei solchi. Dopo l'avvio, il carico poteva scivolare lungo i tratti lubrificati di pendenza sensibile e costante come lungo una guidovia antelitteram.
I percorsi oggi visibili sono talora arricchiti da scambi e incroci secondo la logistica dell’attività estrattiva o di trasporto: quale che fosse. Interruzioni e salti dovevano essere associati alle diverse fasi del processo di lavorazione e delle conseguenti operazioni di carico e scarico. Oppure potevano essere tagli di tratti resi obsoleti dalla mutata configurazione della cava. Non è difficile, infine, immaginare l’utilità di far giungere i solchi fino al mare.
Immagini tratte dal web.
Vitale Scanu,
RispondiEliminaLe tracce di solchi paralleli evidenziate nell’articolo “Archeologia dei trasporti“ mi pare che si trovino in territorio di Usellus, a nord dell’abitato. Io stesso le ho fotografate. Da sempre sono ritenute dai residenti come tracce degli antichi plaustri romani, che si dirigevano verso nord in direzione di Forum Traiani (Fordongianus) e di Tharros. Testimoniano l’intenso traffico verificatosi per lungo tempo, gravitante attorno a Iulia Augusta Usellis, unica Colonia romana in Sardegna assieme a Turris Libissonis (l’attuale Porto Torres).
Quanto all’aggiogatura dei buoi è da notare che in Sardegna persiste l’aggiogatura alla cervice del bue e non al collo, come in uso presso gli assiro-babilonesi e gli egizi. L’aggiogatura al collo è invenzione venuta in seguito.
Franco Sarbia
RispondiEliminaGentilissimo Vitale Scanu,
Il suo commento mi consente d’integrare la documentazione dell’articolo e di argomentarne meglio il contenuto. Di questo la ringrazio. Sta lentamente mutando la tendenza, d’epoca romantica, di attribuire ai Romani, agli Etruschi o ai Celti le preesistenti emergenze del paesaggio di chiara impronta megalitica. Tale tendenza rimane oggi giustamente limitata all’esistenza di appropriata documentazione delle datazioni in epoca storica.
Non è questo il caso delle nostre vie a guide canalizzate, né delle mura poligonali, così come degli altari megalitici. Questa maggiore cautela è dovuta innanzitutto al fatto che i romani non hanno descritto le tecnologie, tuttora inesplicate, di lavorazione o trasporto di megaliti senza l’ausilio di utensili e componenti d’acciaio. Nel caso delle vie a doppia canalizzazione parallela con uguali caratteristiche in Sardegna, a Malta, in Spagna come in Tracia, tale mancanza di documentazione storica è eclatante considerata l’eccezionalità di trasformazioni del paesaggio diffuse a livello almeno continentale.
Correttamente neppure lei fonda su documenti storici l’affermazione che le precise tracce canalizzate siano state prodotte da carri, preferendo attribuirla all’opinione dei residenti locali. Effettivamente il potente plaustro romano con ruote cerchiate in ferro era in grado di trasportare carichi ingenti. Anche non volendo tener conto della verifica sperimentale citata nell’articolo, tuttavia, tracce così precise e profonde non possono essere state prodotte casualmente nella pietra da carri pesanti a due o a quattro ruote, neppure in millenni d’intenso traffico e neppure su vie in terra battuta.
...segue.
RispondiEliminaFranco Sarbia
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2336284055960&set=a.2333676630776.133407.1515620706&type=3&theater
Questa immagine, delle tracce di carri sulla trafficatissima e vetusta Appia antica, dà evidenza di ciò. La loro imprecisione e scarsa profondità è dovuta sia all’incongruità dell’attrito volvente delle ruote, pur cerchiate di ferro, a tagliare tracce precise nella pietra, sia al diverso scartamento dei carri in movimento, sia infine alla conseguente tendenza dei carrettieri a evitare di far cadere due ruote laterali in tracce profonde già esistenti, per non sbilanciare il carico. Condizioni assimilabili a questa non sono limitate a Usellus o alla Roma imperiale. La tecnologia del carro è perdurata sostanzialmente invariata fino a metà del secolo scorso, per almeno quindici secoli dopo la caduta dell’impero, eppure neanche intorno alla congestionata Parigi del XVIII e XIX secolo s’è mai visto nulla di simile ai solchi da lei fotografati.
La ringrazio inoltre per la segnalazione del permanere in terra sarda dell’aggiogatura alla testa. Ho allegato all’articolo l’esempio di slitte adibite a gare di trasporto pesante in sagre paesane senza precisare che le immagini non volevano proporre il “moderno”, potente, flessibile e più manovrabile sistema di aggiogatura al collo come modello adottato dai nostri “costruttori di solchi paralleli”. Il modello a me presente era piuttosto quello della treggia trainata da un paio di buoi raffigurata in questo graffito del monte Bego, sacro ai Liguri.
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=2333707871557&set=a.2333676630776.133407.1515620706&type=3&theater
Grazie a lei ho trovato in rete questo filmato sull’aratura a Mamoiada, 58 chilometri in linea d'aria da Usellus, con buoi aggiogati alla testa incredibilmente “identici” a quelli del graffito preistorico.
http://www.youtube.com/watch?v=5FEZg17q5hA
Esiste una ragione specifica che rende conveniente arare continuando ad aggiogare i buoi alla cervice piuttosto che al collo. La maggiore rigidità del sistema antico consente di governare i buoi limitandosi a tenere le stanghe dell’aratro, mentre per sfruttare la maggiore manovrabilità dell’aggiogatura al collo occorre una seconda persona al timone: davanti ai buoi. Tale fu il compito che mi fu affidato da mio zio all’età di sette anni con la raccomandazione di tenere ben saldo il timone. Questo feci fino alla fine del primo solco. Al momento dell’Actus, misura romana trasversale allo iugero corrispondente all’inversione di marcia, i buoi, che a testa bassa cercavano di rompere la dura terra di montagna, alzarono il collo, il giogo, il timone, e me tanto piccolo da rimanere appeso, fedele al mio compito, tra le loro corna.