I ludi gladiatori
di Samantha Lombardi
“Mi chiamo Massimo Decimo Meridio, comandante dell’Esercito del Nord, generale delle Legioni Felix servo leale dell’ultimo vero Imperatore Marco Aurelio, padre di un figlio assassinato, marito di una moglie uccisa e avrò la mia vendetta in questa vita o nell’altra……”
Quante volte ascoltando questa frase ci siamo soffermati a pensare ai gladiatori e alla loro vita. Ma, effettivamente, chi erano e da dove nasce la spettacolarizzazione della violenza e della morte di cui erano gli artefici?
Gli spettacoli gladiatori hanno origini molto antiche e il loro scopo si proponeva di offrire un sacrificio umano agli Dei Mani che fosse in grado di placarli, sacrificio che veniva, di solito, eseguito sulla tomba di un personaggio pubblico di spicco. Le prime informazioni, su questi spettacoli, provengono dalla Campania e a Roma vennero introdotti, solo nel 264 a.C., sotto il consolato di Quinto Fulvio Flacco e Appio Claudio Cieco. Da allora iniziò la loro diffusione e, con la conseguente perdita del carattere di cerimonia funebre, si tramutarono in spettacoli fino a diventare una forte attrazione sfruttata dai politici per farsi pubblicità. I Ludisi svolgevano all’interno dei Fori Romano e Boario usufruendo di strutture transitorie.
Per lo svolgimento dei munera, Roma, fu dotata di una struttura stabile solo sotto l’Impero di Augusto e, per iniziativa di Statilio Tauro, venne realizzato un anfiteatro* in Campo Marzio, andato poi bruciato nell’incendio del 64 d.C.
*(Il termine anfiteatro venne creato nel I secolo a.C. quando Scribonio Curione offrì dei munera in occasione della morte del padre. Per la circostanza furono costruiti due teatri lignei contrapposti montati su perni che venivano ruotati al momento dei combattimenti, lo spazio che si creava nella parte centrale si presentava con una forma ellissoidale).
Solo nell’80 d.C., con la dinastia Flavia, si arrivò a costruire e a inaugurare un vero e proprio anfiteatro in muratura di dimensioni considerevoli: l’Anfiteatro Flavio, meglio conosciuto come il nome “Colosseo”, il cui nome derivava dalla vicinanza con il Colosso bronzeo di Nerone. La struttura fu realizzata sul luogo dove si trovava un piccolo lago che adornava la Domus Aurea. L’anfiteatro aveva una struttura possente ripartita in quattro piani: i primi tre ordini presentavano una scansione ad arcate inquadrate da semicolonne tuscaniche, ioniche e corinzie; il quarto piano aveva, invece, una muratura piena scandita da finestre alternate a lesene corinzie. Nella parte superiore, tre mensole e tre fori, per ogni settore, sostenevano le impalcature per il velario, un sistema di teli, che servivano a proteggere gli spettatori dal sole. Questo ingegnoso “tetto” era manipolato da una squadra di cento marinai, provenienti dal porto di Miseno e stanziati nel Castra Misenatum.
Gli ingressi o “vomitoria”, che immettevano all’anfiteatro, erano gestiti mediante l’uso di tessere numerate che permettevano un riscontro con la numerazione delle arcate poste al piano terra e che conducevano alle gradinate dei singoli settori; al contrario, gli ingressi che si trovavano alle quattro estremità degli assi maggiori erano i soli a non essere numerati perché, i posti, erano riservati a varie personalità tra cui: vestali, magistrati, collegi religiosi ecc. L’ingresso rivolto a nord era, invece, collegato alla tribuna imperiale, quindi, ad uso esclusivo della famiglia imperiale stessa.
L’Anfiteatro Flavio presentava una cavea distribuita in tre fasce: l’Ima Cavea, la Media Cavea e la Summa Cavea. L’Ima Cavea era quella più vicina all’arena ed era riservata ai senatori, la Media al rango equestre e la Summa alla plebe, mentre, la struttura lignea di coronamento era assegnata alle donne e alle classi più infime della plebe. Sotto la superficie dell’arena vera e propria si trovavano i sotterranei fatti realizzare, presumibilmente, all’epoca di Domiziano e servivano per alloggiare le strutture mobili delle scenografie, le gabbie degli animali e i montacarichi. Non conosciamo con certezza se l’arena avesse per base un tavolato interamente realizzato in legno o settori coperti con la volta in muratura e settori con la struttura di legno.
Dietro ogni munera si celava una severa organizzazione assoggettata dalle leges gladiatoriae, un insieme di regolamentazioni, che variavano a seconda del periodo storico e della città in cui venivano svolti.
Ogni gladiatore apparteneva ad una familia che era formata da un gruppo di gladiatori legati ad un lanista il cui compito era quello di gestire, di mantenere e di addestrarne tutti i membri. Era proprio al lanista che si indirizzavano coloro che volevano organizzare un munus. Il lanista, che non godeva certo di una buona fama, affittava i gladiatori della propria familia, a cifre così esorbitanti che il Senato, (sotto Marco Aurelio), fu costretto a regolamentare i costi tramite un vero e proprio “listino prezzi”. Era ovvio, comunque, che il prezzo del gladiatore era dettato, oltre che dalla capacità, dall’esperienza e della preparazione dello stesso, soprattutto dalla notorietà che aveva raggiunto.
Il gladiatore era solitamente uno schiavo, un prigioniero di guerra, un condannato a morte, ma non mancavano anche giovani, appartenenti anche a famiglie decadute, con un’età di 17 o 18 anni, attirati solo dall’illusione di ottenere in breve tempo fama e ricchezza. Secondo il regolamento giuridico, i gladiatori, erano divisi in cinque categorie: della prima categoria facevano parte i noxi ad gladium ludi damnati: più precisamente, quegli uomini che erano stati destinati a morire nell’arena, dove scendevano privi di armi e costretti a subire gli attacchi dell’avversario senza alcuna possibilità di difesa. La seconda categoria comprendeva i condannati ad gladium: erano coloro che prima di essere condannati ai lavori forzati erano uomini liberi, potevano partecipare ad un combattimento gladiatorio e nel caso di una loro vittoria riacquistavano la libertà. Appartenevano alla terza categoria gli schiavi assegnati ai ludi; mentre la quarta era formata dagli auctorati: uomini liberi che volontariamente avevano rinunciato ad alcuni dei propri diritti per sottomettersi a un lanista; dell’ultima categoria, la quinta, facevano parte gli schiavi “affittati” dai loro proprietari per prendere parte ai munera.
I gladiatori vivevano in una caserma e la loro vita era molto dura, dormivano in celle molto piccole, sudicie e carenti di luce, erano sorvegliati a vista e oltre ad essere assoggettati ad una disciplina rigidissima, dovevano rispettare leggi molto severe. Le punizioni che erano inflitte loro erano esageratamente sadiche (flagellazione, bruciature con ferri roventi ecc.) tali da spingere molte volte il gladiatore al suicidio o a organizzare rivolte (come quella attuata da Spartaco a Capua). Se da un lato la disciplina era dura, l’alimentazione era, invece, molto curata e studiata intenzionalmente per i gladiatori, lo scopo era quello di aiutare sia lo sviluppo del tono muscolare sia una perfetta capacità fisica. Uno specifico addestramento gli era impartito dai doctores, coadiuvati sia dai subordinati, denominati primus o secundus palo, che dai rudarii, veterani, che si potevano fregiare del rudis, la spada di legno, che aveva segnato il loro congedo dalla vita gladiatoria.
A Roma la scuola gladiatoria, per eccellenza, costruita da Domiziano a est del Colosseo, era il Ludus Magnus, dove un corridoio sotterraneo la collegava direttamente all’arena del Colosseo stesso. Questa scuola fu presto affiancata da altre, tra cui: il Ludus Gallicus e il Ludus Dacicus. Nella zona intorno all’Anfiteatro Flavio si trovavano anche tutte le infrastrutture legate al mondo dei ludi come: il Sanarium(infermeria), l’Armamentarium (armeria generale) e lo Spoliarium: quest’ultimo accoglieva quei gladiatori senza vita dove venivano spogliati delle armi e delle armature, ma era anche il luogo dove venivano portati quelli in fin di vita per dargli il colpo di grazia. Per ultima troviamo il Ludus Matutinus la caserma dove risiedevano e si addestravano i venatores e i bestiarii.
Fino all’età di Augusto, i gladiatori, indossavano armature quasi uguali a quelle utilizzate dai militari; in seguito, le classi gladiatorie, furono suddivise in base all’armatura e all’equipaggiamento che adoperavano e, soprattutto, in base alla tecnica di combattimento.
L’armatura base era costituita: dal perizoma (subligaculum) fermato dal balteus (ampio cinturone), da un elmo, dalla manica, generalmente in metallo, sul braccio destro, dal galerus (armatura che proteggeva la testa e fissata al braccio sinistro), da un’ocrea (schiniere a volte rinforzato in metallo) e dalle fasciae, ovvero, bende che servivano a proteggere le braccia e le gambe. Sono le fonti storiche ed epigrafiche che ci hanno permesso di riconoscere almeno dodici differenti classi gladiatorie, ognuna delle quali, con proprie caratteristiche. Non tutte sono esistite contemporaneamente: ad esempio, i Samnites scomparvero in età repubblicana, mentre i Galli si trasformarono in Murmilloni, altre come, ad esempio, i Traci, non cambiarono le loro caratteristiche giungendo immutati fino all’età imperiale.
Samnites: è indubbiamente il ramo più antico dei gladiatori e deriva il suo nome dai temibili nemici di Roma. Indossava un’armatura pesante, di cui fa parte: un elmo a calotta con o senza cimiero, uno o due schinieri, un grande scudo rotondo o rettangolare con cui si proteggeva il torace perché, nella maggior parte dei casi, era scoperto. La sua arma era il gladio o una lancia. Sotto il principato di Augusto questa classe fu sostituita dall’Hoplomacus e dal Secutor.
Retiarius: è una classe gladiatoria dell’antica Roma; il reziario è letteralmente “l’uomo con la rete”. Apparve per la prima volta nell’arena, nel I secolo e ben presto divenne l’attrazione quotidiana dei giochi gladiatorii. Combatteva con un equipaggiamento simile a quello utilizzato dai pescatori e simile era anche la tecnica di combattimento. Non portava né protezione alla testa, né tantomeno alle gambe. Indossava solo il perizoma, tenuto dal balteus, e lottava con un’armatura leggera composta dalla manica al braccio sinistro e dalgalerus. Non aveva armi difensive ma solo offensive quali: un tridente (fuscina), una rete (iaculum), di circa tre metri di diametro con dei pesi posti alle estremità, che lanciava all’avversario per intrappolarlo, ed un piccolo pugnale (pugio). Agile e veloce, molto libero nei movimenti, il reziario usava uno stile di combattimento sfuggente ma pronto a cogliere ogni vantaggio per sferrare i suoi colpi. Questa strategia, non gradita dagli spettatori, unita ad una sensazione di effeminatezza che emanava la figura quasi nuda del reziario, lo pose al livello più basso delle classi gladiatorie, ma l’occasione di poter vedere in volto questi antagonisti portò ad aumentarne la popolarità, tanto che, il reziario divenne il tipo di gladiatore più famoso. Nell’arena combatteva di solito contro il secutor, un gladiatore pesantemente armato e con il murmillone.
Thraex: presumibilmente il trace compare ai tempi di Silla quando, nello scontro con Mitridate re del Ponto, furono catturati alcuni guerrieri della Tracia (Bulgaria). Questo gladiatore indossava un elmo (galea) dalla calotta emisferica, a larga falda, provvisto di un’ampia visiera fornita di grate o di due fori per gli occhi e da un alto cimiero con una protome a testa di grifone (animale mitologico dal corpo di leone e dalla testa di uccello rapace). Anche il trace portava il perizoma con il balteus, la manica posta al braccio destro ed era protetto da cnemides (altro tipo di schinieri) che proteggevano quasi per intero entrambe le gambe; come armi usava la sica (corta spada con lama ricurva) e un parmula (piccolo scudo rettangolare).L’ oplomachus e il murmillone erano gli avversari del trace.
Hoplomacus: originariamente erano i Sanniti ma con la riforma di Augusto il loro nome fu cambiato in oplomachi. Non abbiamo descrizioni precise circa il loro abbigliamento e armamentario ma possiamo dedurlo solo attraverso alcune testimonianze che sono giunte sino a noi. Spesso era confuso con il trace. Guerriero dall’armatura pesante era raffigurato con un enorme elmo dall’ampia visiera e spiovente para nuca con alto pettine sulla calotta; vestiva il perizoma trattenuto dal balteus e uno schiniere sulla gamba sinistra. L’armamento era composto dal gladio, dalla lancia (hasta) che usava nello scontro ravvicinato e dall’oplon, un grande scudo tondo di origine greca, con cui si proteggeva. Combatteva contro il murmillone e raramente anche contro il trace.
Equites: come dice il nome, gli equites, erano combattenti a cavallo e, abitualmente, spettava loro aprire imunera. A differenza di molti altri gladiatori, anche se la loro rappresentazione è rara, si deduce che: vestivano una corta tunica, un elmo emisferico a tesa circolare (forse di cuoio) provvista di visiera e raramente, portavano fasce di protezione alle gambe; le loro armi includevano una lunga spada, forse priva di punta e una lancia, probabilmente, facevano parte del loro equipaggiamento anche uno scudo rotondo e la manica al braccio destro. Combatteva con gladiatori appartenenti alla sua stessa classe.
Secutor (controretiarius): l’inseguitore, facevano parte dei gladiatori sanniti e a differenza del murmillone, il secutor, combatteva esclusivamente contro il reziario, per questo motivo fu denominato controretiario e di conseguenza alcune parti del suo armamentario vennero perfezionate in modo tale da rendere più difficoltosa la lotta con l’avversario. Erano protetti da un elmo ovoidale a calotta liscia, (che non offriva appiglio alla pericolosissima rete dell’avversario) sprovvisto di tesa, con due piccoli fori per gli occhi (la particolare conformazione dell’elmo rendeva impossibile al tridente di colpire il volto del gladiatore). Si difendeva con un grande scudo rettangolare dai bordi arrotondati, una manica, una protezione per le spalle e gli schinieri. La loro arma era il gladio corto.
Provocator: noto fin dalla tarda Repubblica combatteva sempre contro gladiatori della stessa classe. Derivavano il nome dal verbo latino provocare, erano quelli che riscaldavano il pubblico poiché proposti all’inizio dei combattimenti. Il loro armamentario, tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., ricordava quello dei legionari. Solo nel II-III secolo d.C. vennero dotati del gladio, di un grosso scudo trapezoidale curvo, di un elmo ovoidale, liscio, con protezione per il viso, manica al braccio armato sulla destra e schiniere per la gamba sinistra. La loro tecnica di combattimento li vedeva sempre in continuo movimento alternando i colpi scudo-gladio.
Murmilloni (o Mirmilloni): anche se la loro classe era la più comune era difficile identificarli perché erano armati in modo simile ai legionari. Le loro armi, sia di offesa sia di difesa, erano un grande scudo rettangolare ricurvo (scutum) che copriva completamente il corpo dalla spalla al ginocchio e il gladio (spada corta); l’abbigliamento era composto dal perizoma fermato dal balteus, da uno schiniere nella gamba sinistra e una manica al braccio destro. Particolare era il pesante elmo a tesa larga, con la visiera traforata, sormontato da un cimiero metallico, a forma di pesce (murma), da cui il gladiatore sembra prendere il nome. A causa della sua pesante armatura il suo modo di combattere era incentrato soprattutto sulla difesa e non sull’agilità. Abitualmente, il murmillone, combatteva contro il retiario per ricreare quella specie di lotta che si replicava tra pescatore (retiario) e pesce (murmillone), ma combatteva anche contro il trace, l’oplomaco, il provocator e altri della sua stessa categoria. Il gladiatore Spartaco combatteva da murmillo.
Saggittarius: raffigurato soltanto su un rilievo che si trova a Firenze, i saggittari, erano una classe gladiatoria molto rara. Indossavano un’armatura leggera composta da un elmo, una manica e una corazza; come armi da combattimento usavano solo l’arco e le frecce.
Essedarius: probabilmente era un gladiatore di origine gallica, di questo gladiatore vi è una totale assenza di raffigurazioni. Facevano parte di una classe particolare perchè combattevano dal carro (esseda) trainato da un tiro di due cavalli, guidati da un auriga; indossavano un perizoma fermato dal balteus, una manica sul braccio destro, corti schinieri o fasciature, l’abbigliamento era completato da un elmo. Le loro armi erano una spada corta e una lancia. Combatteva solo contro gladiatori della stessa classe.
Dimacherus: insufficienti sono le fonti iconografiche riguardo questa classe gladiatoria che prendeva il nome dalla parola di-màcheros, cioè chi nell’arena duellava con due spade corte. Dalle poche notizie pervenute si evince che, grazie ad un equipaggiamento molto leggero, il loro modo di combattere era agile e veloce. Probabilmente indossava una semplice tunica, era privo di elmo, ma, era armato con due corti gladio con due pugnali o addirittura con un pugnale e un gladio. Analogamente agli equites era possibile che aprissero il combattimento a cavallo per poi seguitare a combattere a piedi. E’ proprio la mancanza di protezioni che fa ritenere che, i dimacherus, lottassero solo fra di loro come, del resto, avveniva per iprovocatores.
Veles: come i saggittari erano una classe molto rara. La loro citazione si ritrova solo in Isidoro di Siviglia e in qualche iscrizione; combattevano con un’armatura leggera e a capo scoperto, erano privi di scudo e le loro armi erano la lancia e il gladio.
Scissor: anche questa classe gladiatoria è nota solo da un’iscrizione e da qualche rilievo, è proprio grazie a quest’ultimi se possiamo dedurre che era pesantemente armato e che il loro equipaggiamento comprendeva: un elmo ovoidale con i fori per gli occhi, due schinieri, una manica sul braccio destro ed ilgladius. Sul braccio sinistro aveva un tubo metallico con una specie di falcetto all’estremità. Lo scissor non disponendo di uno scudo per la protezione del corpo indossava una lorica squamata. Solitamente, nei combattimenti, era contrapposto al reziario.
Laquearius: è una classe gladiatoria molto simile al reziario e come tali erano vestiti. I laquearius prendevano il nome dalla voce latina laqueum (laccio). Le loro armi offensive erano una spada o un pugnale ed un lungo laccio con cui cercavano di fermare gli avversari bloccandoli a terra.
Spatarii: piuttosto che di una classe gladiatoria, potrebbe forse trattarsi di un armamento particolare che avevano in dotazione altri gladiatori che utilizzavano fondamentalmente la spatha (lunga spada) invece delgladium. Testimonianze epigrafiche dimostrano l’esistenza di murmillones spatharii e di thraeces spatharii.
Scaeva: “i mancini” erano una classe gladiatoria molto ricercata, indossavano gli schinieri e combattevano con l’arma nella mano sinistra e lo scudo nella destra. Si parlava di pugna scaevata quando erano due mancini a combattere nell’arena.
L’organizzazione e lo svolgimento dei ludi dovevano seguire determinati schemi, anche se, la programmazione degli stessi poteva avvenire per i più svariati motivi, di certo, i costi erano molto elevati e il tempo impiegato per la loro organizzazione era molto lungo. L’editor (l’organizzatore) per ingaggiare i gladiatori doveva rivolgersi al lanista, cioè, il loro “impresario”; le “condizioni” applicate erano due: o venivano venduti oppure affittati, in questo caso veniva pagato solo “l’affitto” per i gladiatori sopravvissuti, mentre, quelli morti, durante i munera, venivano acquistati.
Oltre a svariate coppie di gladiatori scendevano nell’arena: venatores, animali esotici, giocolieri, condannati a morte e, soprattutto, erano parte integrante dei ludi quei macchinari che coordinavano scenografie straordinarie. Per le venationes, invece, era più difficile procurarsi gli animali anche se esisteva un mercato specializzato nella vendita delle varie specie di animali destinate a questo tipo di spettacoli. Mentre, per quanto concerneva i condannati a morte, l’editor, si doveva rivolgere semplicemente ai magistrati preposti.
Lo spettacolo veniva “pubblicizzato” attraverso programmi scritti sui muri degli edifici pubblici (un esempio ne sono le pareti di Pompei), delle case private ma anche tramite volantini, chiamati libella muneraria che venivano venduti nelle strade per essere poi consultati durante gli spettacoli. Le informazioni che venivano fornite erano varie come: il motivo per cui erano offerti i ludi, chi li organizzava, l’elenco delle coppie di gladiatori che vi partecipavano e le armi che, gli stessi, avrebbero usato. Vi erano, inoltre, anche altre informazioni circa l’apertura del velario, se ci sarebbero state le sparsiones (vaporizzazione d’acqua mescolata ad essenze floreali quali croco o zafferano per mitigare il caldo) e, soprattutto, le missilia ovvero: lanci di alimenti, volatili rari, perle, monete, pietre preziose o addirittura tessere per il ritiro di svariati oggetti.
La sera prima dei munera, l’organizzatore offriva un sontuoso banchetto (coena libera), che aveva il solo scopo di aumentare la sua popolarità; vi intervenivano, oltre ai sostenitori dei gladiatori, gli stessi gladiatori che avrebbero preso parte ai ludi; alcuni di loro, ormai inaspriti dai combattimenti, approfittavano dell’opportunità per ingozzarsi di cibo considerandolo come l’ultima cena, gli altri, atterriti dalla paura, non pensavano affatto alle leccornie che erano sui tavoli ma preferivano fare testamento, c’era inoltre chi liberava i propri schiavi, ma anche chi raccomandava la propria famiglia agli amici. Le coppie di gladiatori che si affrontavano nella lotta utilizzavano, di solito, armi diverse secondo norme ben precise. Il combattimento vero e proprio era, di solito, preceduto da un esibizione di scherma con armi di legno e non acuminate, scontro, che permetteva ai gladiatori di riscaldare i propri muscoli prima del duello. Solo nel pomeriggio si svolgevano i combattimenti più attesi, quelli tra gladiatori.
La giornata degli spettacoli iniziava con un solenne corteo (pompa), che entrava e usciva dalla Porta Triumphalis. La Pompa era aperta da due littori e da suonatori che avevano il compito di precedere l’organizzatore, poi entravano i portatori di cartelli con le informazioni che riguardavano i ludi. Per ultimi sfilavano i veri protagonisti dei munera: i gladiatori, i venatores e i condannati a morte. Dopo il corteo rituale ed il saluto rivolto all’Imperatore: “Ave, Caesar, morituri te salutant”, (anche se questa forma non è storicamente provata) aveva inizio il vero e proprio combattimento, accompagnato sempre dalla musica; la funzionalità delle armi veniva anticipatamente controllata dall’organizzatore. Era poi l’araldo ad annunciare al pubblico le coppie che si sarebbero affrontate, mentre, gli harenarii si disponevano a gettare la sabbia pulita su quella che sarebbe stata ben presto bagnata dal sangue. Dopo il giuramento le coppie iniziavano a duellare, fino alla sconfitta o alla morte di uno dei due. Il combattimento era seguito da un arbitro che poteva essere il lanista stesso oppure un gladiatore esperto.
Non appena venivano incrociate le spade, nell’arena, rimbombavano le grida degli spettatori che, dopo un fitto scambio di scommesse, urlavano all’unisono “verbera, iugula, ure” (colpisci, sgozza, brucia) mentre inveivano contro i lorarii perchè istigassero con le fruste (lora) i combattenti più indolenti. Appena un gladiatore contro il quale si era scommesso barcollava, da tutte le parti, si udiva un solo grido: habet, hoc habet (le prende, adesso le prende). Il destino che toccava al gladiatore sconfitto era sia nelle mani del pubblico sia dell’organizzatore dei giochi ma anche dell’Imperatore stesso. Gettare le armi, alzare il braccio sinistro o anche solo un dito della stessa mano significava chiedere la grazia. Se veniva concessa gli spettatori gridavano “missum”(libero), al contrario, il grido di “iugula” (sgozzalo) decretava la sua fine e al gladiatore non restava altro che offrire la gola all’arma dell’avversario per ricevere il colpo finale. Spesso, molti gladiatori nonostante venivano feriti gravemente durante il combattimento, consci della loro imminente fine, preferivano combattere fino alla fine.
Fra i molteplici munera si rappresentavano anche i cosiddetti “munera sine missione”, si trattava di giochi ad “eliminazione diretta”, dove i gladiatori sconfitti non avevano alcuna probabilità di essere graziati, la loro sorte, decisa dall’organizzatore, era solo la morte. I gladiatori uccisi venivano trasportati fuori dall’arena, attraverso la Porta Libitinensis, da inservienti i cui vestiti ricordavano quelli di Caronte o Mercurio Psicopompo, una volta giunti nello spoliarum, venivano spogliati delle armi, che venivano poi riutilizzate da un nuovo gladiatore. Nel caso in cui nessuno ne richiedeva il corpo, gli sventurati, venivano sepolti senza alcuna formalità. A volte poteva anche accadere che a scontrarsi fossero due gladiatori di uguale bravura, alla fine del combattimento, il pubblico stesso chiedeva la grazia per entrambi definendoli stantes missi. Mentre i gladiatori che avevano vinto il combattimento ricevevano, come premio, la palma della vittoria, monete d’oro e svariati doni.
I manifesti, con i risultati dei combattimenti, venivano poi apposti sui muri dove, accanto al nome di ciascun gladiatore, veniva contrassegnata una delle seguenti tre lettere che precisava la sorte a loro toccata: P(eriit) morto, M(issus) libero, V(icit) vincitore.
La libertà, agognata da ogni gladiatore, poteva essergli restituita sia al termine della carriera, sia dopo che aveva dimostrato, nell’arena, di essere un uomo valoroso. In questi casi gli veniva assegnato il rudis, la spada di legno, che testimoniava il ritiro dai combattimenti e quindi il ritorno alla libertà.
Nello spazio di tempo che intercorreva tra i ludi mattutini e il munus pomeridiano, vero e proprio, si poteva assistere ad uno spettacolo di inconsueta ferocia, l’oplomachia, durante la quale era superflua qualsiasi abilità perché era immancabile la morte dei partecipanti I protagonisti di queste condanne erano prigionieri di guerra, disertori e criminali, persone appartenenti alle classi più infime della popolazione. I condannati potevano essere uccisi sia con la damnatio ad gladium, che con la damnatio ad bestias. Nel caso della condanna ad gladium scendevano nell’arena due condannati a morte, uno armato e l’altro inerme, il duello terminava dopo la prevedibile uccisione di quest’ultimo, a quel punto, al condannato armato venivano tolte le armi per essere consegnate ad un altro e si proseguiva a rotazione fino allo sterminio totale. I condannati, però, potevano anche essere messi al rogo, decapitati, crocifissi o trasformati in torce umane. Mentre nelle condanne ad bestias i condannati venivano fatti sbranare dagli animali (leoni, coccodrilli, pantere, orsi ecc.) che venivano resi più feroci nutrendoli con carne umana e lasciati digiuni per molti giorni. Il successo dei ludi mattutini era dovuto alla spettacolarizzazione della ferocia e del sangue versato.
Spesso venivano allestite delle vere e proprie rievocazioni di miti, di leggende, di eventi storici; ad interpretarle erano quei poveri sventurati che venivano mandati a morte travestiti da eroi mitologici. Erano questi, però, gli spettacoli del mezzogiorno più amati dall’imperatore Claudio, conosciuto per la sua disumanità e per la passione che nutriva verso i munera. L’ esaltazione suscitata dai gladiatori era smisurata per essi scoppiavano risse e tumulti; famosa è la rissa avvenuta nel 59 d.C. durante lo svolgimento di uno spettacolo gladiatorio, nell’anfiteatro di Pompei, tra gli spettatori di questa città e quella di Nocera. A seguito dell’accaduto il Senato vietò ai Pompeiani di tenere pubblici spettacoli per ben dieci anni.
Se l’entusiasmo, del popolo romano, provocato dai munera non meno popolarità riscossero le venationes, uno spettacolo scioccamente crudele, dove i venatores (cacciatori) combattevano contro le bestie feroci. I venatores erano di solito uomini condannati a morte, prigionieri di guerra, o schiavi. Indossavano una corta tunica con maniche, portavano fasce alle gambe, come armi disponevano di una lancia a punta larga e di una frusta di cuoio ed erano spesso accompagnati da una muta di cani.
La molteplicità di animali da cacciare e uccidere nell’anfiteatro aumentò con il passare del tempo, tanto che, il pubblico romano poté così conoscere, anche se non nei migliori contesti, ogni specie di animale esotico conosciuto a quei tempi. Proporzionale all’importanza della venatio offerta era il numero degli animali che venivano mandati nell’arena; tali animali erano tenuti in pessime condizioni, al buio e senza cibo, e nel momento in cui vi venivano introdotti erano senz’altro anche spaventati dalle urla della folla e finivano così uccisi dai venatores o dai bestiari. Nei combattimenti potevano affrontarsi non solamente animali, ma anche animali e cacciatori. Molto apprezzati dai Romani erano, soprattutto, i combattimenti dei leoni contro le tigri, degli elefanti contro i tori, degli orsi contro i bufali ecc., più cruenta era la lotta di due animali legati insieme che si azzannavano fino alla morte. Mentre nelle lotte tra animali e uomini erano quest’ultimi, solitamente, a rischiare la vita; gli uomini, infatti, combattevano spesso disarmati e per questo destinati ad essere sbranati e, il più delle volte, mostravano tutta la loro abilità con una serie di acrobazie per sfuggire agli assalti degli animali.
L’unicità di questa parte di spettacolo era rappresentata, oltre che dalla rarità degli animali e dal loro elevato numero, anche dalle imponenti scenografie che replicavano boschi, torrenti, zone rocciose. Poco prima dell’inizio dei ludi mattutini ogni addetto prendeva posto nella cella, che corrispondeva alla gabbia di sollevamento, dove era stata fatta entrare una belva, all’unisono, venivano sganciati i contrappesi e tutti i montacarichi si innalzavano, le bestie uscivano così dalle gabbie irrompendo contemporaneamente nell’arena. Gli effetti scenografici che scaturivano da questi ingegnosi macchinari (pegmata), realizzati nell’officina denominata “summum choragium”, offrivano tali attrattive che lasciavano il pubblico con l’illusione di trovarsi dinanzi ad un mondo reale.
La strage degli animali toccò, probabilmente, la punta massima con Commodo che arrivò a trafiggere cento orsi in un solo giorno. Questo esempio di divertimento costò, in alcune regioni, l’estinzione di alcune razze di animali (elefanti in nord Africa, ippopotami in Nubia e i leoni in Mesopotamia).
Gli spettacoli gladiatori, vera e propria infamia delle usanze della civiltà romana, sopravvissero, anche se in forma minore, al decadimento dell’impero e malgrado l’editto emanato da Costantino (313) e da Onorio (403) con cui li abolivano pare che si protraessero sporadicamente fino al 438, anno, in cui vennero definitivamente vietati da Valentiniano III. Più lunga fu la durata delle venationes di cui si hanno notizie fino al tempo di Totila* che le abolì tassativamente nel VI secolo. (*Totila, re degli Ostrogoti, prima metà del VI secolo, il suo vero nome era Baduila).
Fonte: http://www.facebook.com/antica.roma.56
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