domenica 18 novembre 2012

La Guerra del Peloponneso

La Guerra del Peloponneso: un approccio alternativo alle sue cause
di Matteo Riccò


Introduzione. A differenza di altri eventi storici, la cosiddetta Guerra del Peloponneso (convenzionalmente: 431 a.C. – 404 a.C.) vanta una fonte storica d’eccezione: parliamo cioè di Tucidide, il quale non soltanto fu testimone diretto ed in molti casi oculare degli eventi, ma fu soprattutto scrittore eccelso ed ancor più sublime interprete delle cose umane. Purtroppo, questa virtù ha tradizionalmente rappresentato un limite all’analisi delle cause del conflitto mortale che antepose Atene e Sparta, seminò la distruzione per tutta la penisola ellenica e, in ultima analisi, pose le basi per la fine del classicismo greco e l’inizio della sterminata parabola ellenistica (che, vale la pena di ricordarlo, viene tradizionalmente compresa fra l’età di Alessandro il Grande e il Tardo Impero Romano: un periodo equivalente a ben oltre 600 anni). In altre parole: essendo stata l’analisi di Tucidide così profonda e dettagliata, tutti coloro che alla Guerra Peloponnesiaca si sono dedicati dopo di lui non sono stati in grado di distaccarsi significativamente dalla linea interpretativa primitivamente tacciata, limitando così la nostra esplorazione degli eventi. Solo nell’ultimo secolo, una corrente storica capitanata da grandi storiografi di estrazione anglosassone (su tutti: Donald Kagan, Malcolm F McGregor e John Hale) sono stati capaci di proporre valutazioni alternative, che andremo qui rapidamente ad esporre.



Le Guerre Persiane rappresentano un decisivo punto di svolta nella storia greca. Con la sfolgorante vittoria di Maratona (settembre 490 a.C.) e soprattutto dopo gli eventi della Seconda Guerra Persiana (480 – 478 a.C.), Atene non soltanto garantì la sopravvivenza propria e dell’esperimento democratico che la polis greca ospitava: essa riuscì a pareggiare, ed in un certo senso a surclassare, lo storico primato che i vari stati ellenici riconoscevano alla città di Sparta. Vale la pena di ricordare che già nel VI secolo, al tempo della grande espansione Persiana in Asia Minore, la politica dello status quo praticata dai sovrani di Media riconoscesse in Sparta un anello di assoluta criticità, perfettamente integrato nel complesso sistema di equilibri fra regno di Media, di Babilonia, di Lidia ed Egitto, attribuendole praticamente la stessa rilevanza geopolitica. Il lustro garantito dalla vittoria di Salamina, l’intransigenza nei confronti dell’invasore persiano (per altro pagata a carissimo prezzo, con la distruzione della città da parte dei soldati di Serse), e quindi la tenacia nel proseguire la lotta contro i barbari anche dopo la loro cacciata dal suolo ellenico permisero ad Atene di farsi rappresentante privilegiata delle città greche che malvolentieri o per nulla si riconoscevano nei valori di Sparta e dei suoi alleati – la cosiddetta Lega Peloponnesiaca. Secondo l’interpretazione più frequentemente proposta a livello scolastico, questo avrebbe portato alla polarizzazione delle poleis elleniche in due fronti i quali, infine, si sarebbero scontrati per oltre un trentennio, in una guerra solitamente di bassa intensità – ma con riacutizzazione improvvise e sanguinarie, tanto devastanti da cambiare per sempre il volto dell’Ellade. Secondo Tucidide “il motivo più vero ma meno dichiarato apertamente” di questa guerra era infatti “il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni, sì da provocare la guerra” (La Guerra del Peloponneso, I, 23.6).

Molto probabilmente la grande fortuna di quest’interpretazione storica, oltre che per ovvio principio di Autorità, risiede nelle vicende storiche europee dell’ultimo secolo, indissolubilmente segnate dal contrapporsi di blocchi politici, ultimo dei quali incarnato dalla cosiddetta “Guerra Fredda” fra occidente di libero mercato e oriente comunista. Proprio una certa affinità per così dire morale (perlomeno percepita) fra oriente comunista e Sparta e fra occidente liberale e Atene ha sostanzialmente tarpato le ali ad interpretazioni alternative degli eventi: la Guerra del Peloponneso era il risultato del conflittuale desiderio di potere di due superpotenze di diverso orientamento socio-culturale, l’una e l’altra miranti a spartirsi il controllo dell’Ellade.

Come spesso accade, tuttavia, basta scrostare un po’ la patina degli eventi per meglio realizzare la realtà fattuale. Torniamo, dunque, alla fine “ufficiale” delle Guerre Persiane, ovverosia al 478 a.C.

Scacciati i Persiani dal territorio greco, gli Elleni si trovano di fronte alla possibilità di perseguire la libertà delle città greche dell’Asia Minore (la cosiddetta Ionia): la flotta persiana è infatti stata annientata prima a Salamina e quindi Micàle, ed una campagna guidata dal competente ed energico generale spartano Pausania (appartenente alla stirpe regale degli Agiade) ha portato alla liberazione delle città di lingua greca fra Cipro e Bisanzio. La possibilità di infliggere al gigante persiano il colpo di grazia è palese, ma il fronte ellenico improvvisamente si spezza: accusato dai non peloponnesiaci (ovverosia: da Ateniesi e Ioni) di avere assunto atteggiamenti tirannici, di “medismo” (cioè di “emulazione delle abitudini persiane”, il peggior insulto possibile per un greco, figuriamoci per uno spartano), di corruzione e in ultima analisi di tradimento, Pausania viene richiamato in patria per essere sottoposto a processo. Pausania, personaggio da romanzo più che da libro di storia, degno equivalente spartano dell’ateniese Alcibiade, ricomparirà altre volte sulla ribalta storica, fino ad un nuovo processo – ancora una volta per “medismo” che gli sarà infine fatale verso il 460 a.C.

Tornando a noi: forti degli accordi stretti a Corinto nel 481 a.C., che prevedono quale comandante della flotta alleata uno Spartano, i lacedemoni inviano immediatamente un sostituto, un certo Dorcide, il quale viene immediatamente rigettato da tutti i contingenti non dorici a vantaggio dell’ateniese Cimone, delfino designato di Aristide il giusto, ormai divenuto leader della democrazia attica. Cogliendo l’attimo, gli Spartani ritennero di poter chiudere l’esperienza della Lega di Corinto: dal loro punto di vista, il mandato (ovverosia la difesa dall’invasore persiano e la libertà delle città elleniche in Asia minore) era stato pienamente portato a termine, e gli eventi legati alla successione di Pausania rappresentavano un ottimo pretesto per richiamare in patria tutti i contingenti sparpagliati per l’Egeo.

A questo punto, infatti, la Guerra contro i Persiani non ha più alcun significato per Sparta. In quanto non ha più alcun significato per i suoi alleati. Cerchiamo di analizzare meglio questo elemento, che sarà determinante per lo scoppio della Guerra del Peloponneso.

Sparta è il raffinato prodotto di un progetto di ingegneria sociale senza precedenti (e con fin troppi emuli): una società finalizzata ad uno sforzo militare sistematico, risultante dallo stato di perenne occupazione armata del territorio. Soverchiati dagli schiavi Iloti (discendenti dei popoli achei asserviti all’atto della conquista del Peloponneso e numericamente irrobustiti dai Messeni schiavizzati al termine di un lunghissimo conflitto armato), gli Omoioi (cioè: gli Uguali) spartani non hanno altro modo di preservare il proprio status quo che ricorrendo costantemente alla forza delle armi. Tutto il sistema produttivo dello stato è finalizzato al sostentamento di una classe di guerrieri: le poche attività manifatturiere sono legate alla produzione di armi ovvero di strumenti ad uso agricolo. Il commercio è inesistente, sia all’interno che all’esterno dello stato: a Sparta non esiste nemmeno una vera e propria moneta. Nel momento in cui i Persiani sono stati cacciati dal suolo ellenico, in quanto tenuti alla larga dal Peloponneso e cioè dalle tenute agricole, gli Spartani hanno ragionevolmente esaurito ogni interesse specifico nel proseguimento della Guerra. Detto ancor più semplicemente: lo spartano medio ha una visione del mondo estremamente ristretta, confinata alla valle dell’Europta ed alle pendici dei monti Itome e del Taigeto; il resto del mondo per lui è come se non esistesse. Il resto del Peloponneso, e la Grecia tutta ancor di più, hanno senso solo come anello di protezione nei confronti di Sparta. Una specie di buffer di sicurezza, scomodo ma necessario a tenere lontani da casa i pericoli.

Perché, dunque, gli Spartani avevano insistito nello sforzo bellico anche dopo la battaglia di Platea e l’annientamento della diretta minaccia persiana al proprio orticello peloponnesiaco? La risposta viene proprio da qui. Il totale disinteresse spartano nei confronti delle pratiche commerciali e più in generale delle avventure d’oltre mare aveva creato una particolare e stretta relazione con una ben più dinamica città del Peloponneso, ovverosia Corinto. Alleata di ferro degli Spartani, Corinto aveva posseduto per oltre due secoli il monopolio assoluto dei commerci di vasellame e beni pregiati in quasi tutto il Mediterraneo. Con il crescere delle fortune di Atene grazie al buon governo di Pisistrato, ed in ragion della sempre più scocciate dinamicità fenicia sotto la protezione persiana, Corinto si era quindi ritagliata il ricchissimo mercato dell’Italia meridionale, sui cui commerci deteneva un quasi assoluto monopolio. Corinto, con il suo controllo dell’omonimo stretto, la vigilanza esercitata dalla sua flotta sulle coste, e soprattutto con l’appalto su tutti i (pochi) commerci necessari al funzionamento dello stato spartano rappresentava un alleato assolutamente insostituibile.

Un alleato che doveva essere quanto più possibile assecondato.

Per questo gli Spartani rimasero nella Lega di Corinto anche dopo Platea e Micàle: perché, scacciati i persiani dall’Ellade, e quindi messo in sicurezza il Peloponneso, era necessario garantire uno spazio di sicurezza sia al Peloponneso stesso (a prevenzione di eventuali future aggressioni via mare) sia ai commerci corinzi. D’altro canto, istituita questa cintura di sicurezza tramite le città elleniche dell’Asia minore, il baricentro economico di Corinto (e quindi di Sparta) era orientato nella direzione opposta: verso l’Italia ed il Mediterraneo Occidentale. Proseguire la guerra avrebbe imposto costi elevati e ricavi pratici risibili. Da qui il distacco tutt’altro che dispiaciuto dei Lacedemoni.



A questo punto, concentriamoci per un attimo sugli Ateniesi. Atene, la cui popolazione all’epoca degli eventi doveva essere (includendo schiavi, donne e residenti privi di cittadinanza) superiore ai 100,000 abitanti, il che ne faceva la città più grande della Grecia continentale. Questo creava enormi problemi ed opportunità ai suoi amministratori. Complice la dipartita spartana, era ovvio che le città dell’area dell’Egeo – palesemente interessate nel ricacciare quanto più lontano possibile dalle coste gli interessi persiani, trovassero in Atene il proprio faro. Un faro affamato di grano, che il povero entroterra dell’Attica (reso ancor più aspro e brullo dalla costruzione della flotta navale) non poteva da solo sostenere. A prevenzione di devastanti carestie, Atene doveva garantirsi linee commerciali sicure e stabili verso i principali granai dell’Antichità: il Mar Nero e l’Egitto. In un modo o nell’altro, le vie della sopravvivenza di Atene passavano attraverso l’imposizione di una “pax atheniensis” all’Egeo, e la sua trasformazione in un’area sulla quale i persiani nulla potessero, sia in termini di minaccia militare diretta, sia in termini di interferenza sui traffici commerciali. Ecco perché Atene era così tanto interessata a proseguire ad oltranza la lotta contro i Persiani – e non solo e non soltanto per affinità con gli Ioni dell’Asia minore.

D’altra parte, proprio grazie alla sua strabordante popolazione (in termini del tempo e della realtà ellenica) Atene poteva permettersi di mettere in campo un contingente numericamente superiore a quello di buona parte degli alleati. Il perché ce lo spiega, agevolmente, la matematica. La nave per eccellenza della flotta alleata era rappresentata dalla triremi. Ogni triremi richiedeva l’impiego di circa 200 uomini di equipaggio, necessari sia alla manovra che alla propulsione della nave. Secondo gli storici antichi, Atene in questa fase storica era in grado di schierare contemporaneamente fino a 200 imbarcazioni di questa classe: 200 x 200 = 40,000 uomini cioè impiegati contemporaneamente in operazioni navali. Se Atene poteva faticosamente tollerare uno sforzo del genere, possiamo facilmente immaginare quale impatto il protratto mantenimento dello sforzo bellico potesse avesse sulle altre poleis alleate – tutte città di medio-piccole dimensioni.

E’ qui che nasce la Lega Delio Attica: per pura convenienza economica. Riannodate le fila delle città desiderose di proseguire la guerra contro il Persiano, “casualmente” identificabili in realtà cittadine direttamente interessate dalla creazione di un’area commerciale a predominio greco nel Levante Mediterraneo, e quindi creata la cosiddetta Lega di Delo, viene quasi immediatamente a verificarsi una convergenza di interessi fra Atene e le città Alleate. Ovverosia: Atene ha manodopera disponibile in abbondanza, e la capacità imprenditoriale-cantieristica di gestire una flotta di grandi dimensioni a tempo indeterminato. Ciò che città più piccole ovviamente non hanno. Grazie alle economie di scala, per Atene è meno costoso armare una triremi di quanto non sia per una città come Mitilene, senza contare che alla spesa fissa si aggiunge la sistematica perdita rappresentata dall’allontanamento dai settori produttivi di una consistente frazione della popolazione giovane adulta. Popolazione che, per di più, può essere rapidamente spazzata via nel corso di una battaglia navale. Pertanto, queste ultime trovano più vantaggioso pagare Atene affinché armi e mantenga navi al loro posto. Per la cronaca, qui vediamo come il modello Atene : Sparta = USA : URSS crolli miseramente al primo refolo di vento: durante la Guerra Fredda, non erano gli Alleati a mantenere l’esercito americano – semmai erano i sussidi statunitensi a consentire ad alcuni alleati di sostenere spese militari altrimenti intollerabili.

Quest’accordo, sancito dall’istituzione dei cosiddetti Ellenotamoi – magistrati incaricati di solcare l’Egeo a “batter cassa” fra le città che avevano preferito questo genere di rapporto alla fornitura diretta delle navi da guerra – ebbe una ricaduta immediata e devastante sull’economia di Atene: in men che non si dica, un fiume ininterrotto di denaro si riversò sui cittadini di Atene. E qui torniamo al semplice conteggio da cui siamo partiti: se 40,000 marinai, fra rematori ed addetti alla manovra, erano necessari al mantenimento della flotta, e questi ultimi diventavano veri e propri professionisti, regolarmente stipendiati dallo stato grazie alle rimesse della lega di Delo, improvvisamente 40,000 potenziali disoccupati trovavano un’occupazione remunerata ed acquistavano un consistente potere di acquisto – e di decisione politica. Ecco che la democrazia ateniese diventa più comprensibile, e soprattutto come democrazia ed imperialismo ad un certo punto s’intersechino in modo indissolubile al dilagare della demagogia. Se anche i nullatenenti (o teti)– in quanto marinai, possiedono un consistente potere economico, allora non possono essere trattenuti dalle leve di potere. Se possono esprimere il proprio voto, allora il potere non può essere più concentrato in una ristretta fascia della popolazione, in un’oligarchia cioè più o meno allargata. E decisivo non è più, quindi, saper intrecciare rapporti di amicizia con questo o quell’esponente di una corrente famigliare-politica (come ancora al tempo di Milziade o Temistocle, ad esempio): decisivo diventa saper cavalcare e comprendere i gusti ed i voleri di questa massa amorfa dotata di diritto di voto, i cui capricci reggono l’esito degli eventi. Tutto bene, fin quando l’interprete di questa volontà popolare è un uomo saggio e preparato come Pericle – un perfetto disastro nel momento in cui, alla morte di Pericle, il timone cittadino viene preso dai cosiddetti demagoghi. D’altra parte, la supremazia navale di Atene si trasforma, con questa semplice mossa, sostanzialmente inattaccabile. Non tanto, intendiamoci subito, per le mere dimensioni della flotta: nei decenni seguenti, l’oro persiano permetterà a Sparta di tramutarsi dall’alba al tramonto in potenza navale. Bensì per l’expertise rappresentato da una flotta stanziale. Dopo la riforma “scientifica” imposta dagli Ioni alle battaglia navali nel corso del mezzo secolo precedente, la guerra navale si è tramutata in un confronto fra singole navi che cercano di speronare le imbarcazioni avversarie, colpendole a tutta velocità con un rostro di bronzo e cercando di evitare l’impatto dei nemici. La triremi, spinta a piena forza dai suoi rematori, si tramuta cioè in una specie di siluro, con un vantaggio molto spiccato rispetto all’arma moderna: una volta inferto un colpo, l’inversione del senso di battuta dei remi permette alla triremi di liberarsi e, pressoché indenne, ripartire per colpire di nuovo. I persiani, rimasti aggrappati (per tramite dei loro navigatori fenici) alle tecniche di abbordaggio, impararono a proprie spese quanto devastante potesse essere questa nuova tecnica militare nelle acque di Salamina. Bene: la massima resa di una simile tattica è quindi strettamente correlata all’esperienza dei navigatori e dei timonieri, che non solo devono essere in grado di modulare il ritmo di battuta (accelerando, rallentando ed improvvisamente cambiando senso di marcia), ma anche di cambiare rapidamente direzione, eseguire manovre di evitamento e di puntamento come un moderno caccia da guerra. Tutto ciò richiede esperienza, e non può essere improvvisato: per questo motivo, alla fine della Guerra del Peloponneso, Atene cederà le armi a Sparta. Non tanto a causa del disastro di Egospotami per se – cioè per avere effettivamente perso quasi integralmente la flotta: bensì per aver perso i rematori. Perdere 170 navi significava perdere 34,000 uomini esperti e preparati: un colpo irrimediabile sul breve periodo, e forse nemmeno sul medio (infatti, ad Atene serviranno 30 anni per tornare ad essere una potenza navale: l’equivalente di una generazione). Allo stesso modo, possiamo capire perché secoli dopo i Romani vinsero la Prima e la Seconda Guerra Punica: dopo una serie di battaglie navali segnate da perdite enormi da una parte e dell’altra, i Romani, che avevano inizialmente ammorbidito la superiorità tecnica cartaginese con l’uso dei corvi – e quindi evitando l’ormai convenzionale tattica ionica di guerra, avevano altresì annientato l’expertise umano cartaginese nel campo navale. Vinta la prima guerra punica annullando il potenziale umano del nemico, furono quindi in grado per questo stesso motivo di non temere l’intervento della flotta cartaginese, sostanzialmente fuori dai giochi per tutta la guerra nonostante avrebbe potuto ragionevolmente impartire il colpo del KO allo stato romano nel difficoltoso periodo post-Canne.

Torniamo a noi: messe in sede le pedine, possiamo finalmente capire le ragioni della Guerra del Peloponneso, superando l’impostazione storica di Tucidide.

Nel momento in cui scoppia il casus belli di Corcira – che dall’allineamento filo-corinzio (e quindi filo-spartano) chiede di allearsi agli Ateniesi, Sparta non ha a conti fatti nessun motivo né di preoccuparsi né di intromettersi: è questo del resto il senso delle parole tradizionalmente riportate dagli ambasciatori ateniesi presso i Lacedemoni. Senza contare che l'intraprendenza Ateniese ha un prezioso ritorno per la città peloponnesiaca: i Persiani, preoccupati dalle mire e dalle azioni degli Ateniesi, si sono da tempo riavvicinati agli Spartani. I quali, per ora, non hanno tratto altro vantaggio che formale (il riconoscimento cioè come interlocutori privilegiati nelle cose elleniche, in barba al loro sostanziale disinteresse per i compatrioti d'oltre mare), ma il decorrere degli eventi mostrerà come questo riavvicinamento anti-ateniese porterà nelle casse spartane fondi tanto strabordanti da trasformare Sparta, seppure per brevissimo tempo, nella potenza egemone di tutto il Mediterraneo orientale. D’altro canto, Corinto ha ogni motivo di preoccuparsi. Corcira (Corfù) è una porta diretta verso l’Italia meridionale: come sveleranno le ambiziose mire di Atene in Sicilia nel decennio seguente, l’accordo fra Corcira ed Atene segna un nuovo step nelle mire della Lega. Non più soltanto il controllo dell’Egeo e dei traffici che vedono questa parte del Mediterraneo come teatro principale, ma espansione verso le linee commerciali verso l’Occidente, verso la Magna Grecia, l’Etruria ed i ricchi mercati celtici (le cui élite erano alla costante ricerca di beni pregiati ellenici, come l’archeologia ci insegna, e potevano fornire grandi quantità di ferro, rame e stagno, indispensabili alle attività metallurgiche elleniche). Pontenzialmente, una mazzara irrimediabile per l'economia di Corinto. E, di riflesso, per la tenuta di tutta l'Alleanza Peloponnesiaca che, priva del supporto navale di Corinto, sarebbe inerme di fronte a Persiani ed Ateniesi. Atene, per parte sua, non poteva non assumere il carattere imperialistico drammaticamente segnato dal caso di Mitilene e dalla rivolta dei Sami: perdere le rimesse economiche delle città associate alla Lega avrebbe interrotto il flusso di denaro che aveva artificialmente drogato la ricchezza ateniese e la cui consistenza ci è testimoniata dalle opere che per suo tramite furono realizzate – l’Acropoli, il Partenone, la leggendaria statua crisoelefantina di Athena Parthenos. Pertanto, iniziata la guerra, Atene non poteva semplicemente tirarsi indietro e cercare una pace più o meno onorevole, ragionevolmente seguita dallo sfaldamento della Lega. Uniche alternative: la prosecuzione indefinita del conflitto (protetta dalla flotta e dalle Lunghe Mura), ovvero la ricerca tenace della vittoria finale.

Ciò che Pericle per primo non aveva considerato era, tuttavia, che un microbo avrebbe rimescolato le carte: uccidendo una frazione consistente della popolazione attiva di Atene, indebolendo i ranghi della flotta, ed eliminando l’unico uomo che sapeva gestire il difficile equilibrio fra ragion di stato e volontà popolare – Pericle, appunto.

2 commenti:

  1. Signor Matteo questo è il terzo articolo; grazie a Lei e grazie a Pierluigi.
    Ha iniziato con gli affreschi di Akrotiri ed è arrivato a Tucidide. Spero di non aver saltato qualcosa. Veniamo al nocciolo. Tucidide non è attendibile. Quando illustra la colonizzazione della Sicilia ha saltato tutte le conquiste dell’Impero Cartaginese. Addirittura non li ha visti. Come ha fatto a non ricordarci Malco che ne aveva sottomessa buona parte? Anche Erodoto ha commesso un Grave Errore nel ricordarci il padre dell’Amilcare morto ad Imera. Polibio, poi, era al servizio dei Romani. Quel poco informato di Diodoro ci ha detto che Annibale, nel 409, fu considerato il più grande stratega che Cartagine avesse mai avuto per aver preso Imera e Selinunte. Tutti STORICI poco attendibili. Livio era romano, quindi, ... Anche Giustino. A Heeren Arnold Ludwig, che visse tra il 1700 e il 1800, dobbiamo una certa ricostruzione a prova di bomba.
    L’aspetto su Cartagine facendoLe tanti auguri.
    Rolando Berretta

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Buongiorno sig. Berretta. Non ha perso nulla: ahinoi, a causa del mio (molto opprimente) lavoro non ho tempo per scrivere in modo organico, come vorrei, quindi mi dedico un po' come Lafontaine con le favole a scrivere seguendo l'estro del momento. Tornando a noi: ovviamente, la mia critica non era rivolta a Tucidide (venerabile e venerato). Bensì, ai nostri storiucoli per il lesso, che aggrappati alla supposta superiorità culturale latina rispetto agli anglosassoni, si ostinano a riproporre immutabili nel tempo e nello spazio le interpretazioni degli storici antichi. Che - per quanto immensi, mancavano di prospettiva a lungo termine. Sicuramente Tucidide da tre o quattro stadi di distanza a Kagan e Hale, ma questi ultimi sono nani sulle spalle di giganti. E quindi possono guardare più lontano. Almeno, io la vedo così ... lei cosa ne pensa? PS: mi spiace, ma al mondo di Cartagine e Sabatino Moscati preferisco gli Etruschi e Pallottino. A presto, MR

      Elimina