La Sardegna del Neolitico
di Pierluigi Montalbano
La civiltà nuragica prende il nome dai nuraghi, i grandi edifici del Bronzo che dopo 3500 anni sono parte integrante del paesaggio sardo. Questa civiltà fu una tappa intermedia del lungo cammino che l’uomo percorse nell’isola. Dopo qualche manifestazione sporadica nel Paleolitico, a partire dal 6000 a.C., le innovative pratiche dell’agricoltura e dell’allevamento, oltre una intensa attività artigianale caratterizzata dall’utilizzo di legno, pelli, vimini e tessuti in fibre vegetali, testimoniano insediamenti stabili e non più stagionali. In questo primo periodo di frequentazione, è attestata una florida produzione di strumenti in ossidiana. Nel primo Neolitico, sono documentate tracce negli anfratti prossimi al mare. Gli archeologi portano alla luce contenitori in ceramica decorati con il bordo seghettato di una conchiglia (cardium). Verso la metà del V Millennio a.C., la ceramica si presenta con pareti spesse, di colore beige, senza ornamenti. Più tardi, nella facies Bonuighinu (3500 a.C.), aumentano gli insediamenti all’aperto e compaiono le ceramiche lustrate, sottili, riccamente decorate con motivi geometrici e figurati a forma di animali. I simboli riportati sulla ceramica testimoniano pratiche agricole, pastorali e di caccia, e una religiosità legata al cielo e alla Terra: abbiamo immagini astrali (Sole, Luna e Stelle), la spirale, rilievi a zig-zag che indicano i monti e il mare e animali da offrire in sacrificio alla Dea Madre. (teste caprine, di ariete e muflone). Il Neolitico Recente è segnato dalla facies San Ciriaco (3300 a.C.), con l’avvio della stagione delle Domus De Janas, le monumentali tombe scavate nella roccia, destinate a durare in eterno, fondate su clan familiari e legate intorno a un antenato comune. Nelle zone agricole il sonno dei defunti è accompagnato da piccole statue della Dea Madre, incantevoli sculture a tutto tondo scolpite in materiale locale.
Nelle comunità pastorali galluresi e di altri territori montuosi, i defunti erano deposti in cassette realizzate conficcando verticalmente lastre di pietra a formare una cassetta. Spesso i sepolcri sono segnalati da grandi pietre conficcate nel terreno, i menhirs. Il corredo funerario è composto da pietre rotonde levigate per mazze, e asce in pietra verde, insieme a lunghi coltelli in selce. Nelle ceramiche compaiono le prime colorazioni, legate alla scoperta dei metalli: rosso bruno per il rame, grigio per l’argento, e giallo per l’oro. In alcuni pezzi trovati a Terralba appaiono raffigurazioni in rilievo di teste di toro, testimonianza del notevole impulso dato all’agricoltura dall’utilizzo di arnesi metallici come l’aratro. Il toro è sacrificato alla Terra, la Dea Madre, in riti di rigenerazione, simboli dell’unione della fertilità maschile e femminile. La cultura di Ozieri, all’inizio dell’Età del Rame (3200 a.C.) documenta una metallurgia dell’argento, reperibile negli abbondanti giacimenti minerari del Sulcis e della Nurra. In questo periodo sono documentate le capanne coperte con frasche, rivestite di argilla e infossate nel terreno. Inizia la stagione dei ladiri, i mattoni di fango essicati al sole che, nelle stesse forme e dimensioni, persistono in Sardegna fino al secolo scorso. Sempre in questo periodo sono attestati i più antichi pozzi per l’approvvigionamento idrico. Le statue della Dea Madre si modellano, sono in marmo e terracotta, decisamente più snelle delle precedenti.
La ceramica nero-lucida, decorata e colorata in bianco, rosso e giallo (i colori dei metalli) offrono motivi geometrici e figurati. La società è ricca, pacifica, collegata sul piano culturale a Creta, alle isole Cicladi, a Malta e all’Egitto. Le domus de Janas accolgono intere famiglie e nella roccia sono scolpiti colonne, trabeazioni, nicchie, porte e tutto ciò che era presente nelle case dei vivi. Disegni simbolici arricchiscono i sepolcri, e le colorazioni rosso e blu caratterizzano gli interni. I primi dolmen compaiono nell’isola, e Sa Coveccada di Mores è considerato il più maestoso dolmen del Mondo. Gli utensili in ossidiana si riducono progressivamente di numero, lasciando il posto allo strumentario metallico, e nelle case campidanesi compaiono i primi pozzi idrici. I recipienti che gli archeologi trovano rotti nei dintorni delle bocche dei pozzi sono in terracotta chiara dipinta in rosso bruno.
Nelle immagini, dall'alto:
Dea Madre "volumetrica"
Conchiglia Cardium
Ceramica Ozieri
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