Le origini del rito della Prostituzione Sacra
di Pierluigi Montalbano
Le origini della pratica della prostituzione sacra ci portano nella Mesopotamia del III millennio a.C. Annualmente era praticata la ierogamia, usanza cultuale che consisteva nell’unione sacra tra il sovrano, che impersonava il dio Dumuzi, e una prostituta, nelle vesti della dea Inanna (l’accadica Ishtar). Questo matrimonio sacro, avveniva nel tempio e aveva il compito di assicurare la fecondità della terra, degli armenti e la prosperità del paese e del popolo. La prostituzione sacra è attestata anche in Siria, Fenicia e Cipro. Le notizie giungono dalle fonti classiche: Luciano (in De Dea Syria) descrive le cerimonie della prostituzione sacra a Biblo in onore del dio Adone; Sant’Agostino narra della prostituzione sacra che si svolgeva nel tempio di Baalbek per la dea Venere e Virgilio spiega la pratica svoltasi a Cipro in onore della divinità Astarte per la fondazione di Cartagine.
In Mesopotamia il luogo della prostituta era il tempio dedicato alla dea della fertilità, la dea Ishtar. Vi erano alloggi e terreni coltivati per sostenere una gerarchia femminile prestigiosa. I complesso era strutturato in un sistema gerarchico piramidale al cui vertice era posta l’alta sacerdotessa, spesso la figlia del sovrano che personificava la dea Ishtar. Sotto di lei c’erano due gradi di sacerdotesse, le prostitute del tempio, distinte in sacre prostitute e ragazze di commercio che operavano nei postriboli. Quest’ultima attività, sebbene collegata al tempio, era finalizzata all’accumulo di ricchezze. Erodoto (Storie) descrive la figura della prostituta commerciale:
“Turpe è questo costume, per cui ogni donna, una volta in vita sua, siede presso il tempio di Afrodite e si prostituisce con uno straniero. Molte donne, orgogliose della loro ricchezza, vanno al santuario su un carro coperto e là si dispongono ad aspettare, con un numeroso seguito di servi. Ma per lo più si mettono a sedere entro il recinto sacro di Afrodite con una corona attorno al capo e una corda. In mezzo a esse vi sono dei passaggi liberi, segnati da funi tese in tutte le direzioni, là circolano gli stranieri e fanno la loro scelta. Quando una donna è nel sacro recinto, non può tornare a casa se prima un forestiero, dopo averle gettato del denaro, non si sia unito con lei nel tempio. Nel gettare il denaro egli deve dire queste parole: “Invoco su di te la dea Militta” (Afrodite in assiro). Quel denaro diventa sacro; ella deve seguire il primo che gliene getta e non può rifiutare nessuno. Dopo essersi unita con il forestiero e aver sciolto l’obbligo verso la dea, la donna torna a casa e dopo d’allora non riusciresti più a comprarla per nessuna somma. Le donne belle di viso e di corpo ritornano dal tempio presto, le altre vi restano a lungo senza riuscire a pagare il debito alla dea: alcune vi rimangono tre o quattro anni.
Probabilmente Erodoto confuse le prostitute commerciali con quelle sacre poiché solo le fenicie concedevano favori sessuali agli stranieri. Erano solite guardare fuori dalle loro finestre per ammaliare i marinai che giungevano a riva. Tuttavia, in un’iscrizione su una tavoletta proveniente da Sippar è scritto che alcune donne babilonesi erano assegnate all’esercito per provvedere ai bisogni del personale militare, pertanto Erodoto forse si riferisce ai militari dell’esercito, molti dei quali stranieri.
E’ da notare che né le iscrizioni né le rappresentazioni artistiche rinvenute fino ad oggi dimostrano un legame diretto tra questo tipo di prostituzione e la sacralità.
Abbiamo tre gruppi di prostitute: kharimatu (recluse), shamkhat (donne con abiti sgargianti) e kezretu (prostitute con i capelli ricci). Le kharimatu esercitavano la loro professione nel santuario di Ishtar e sono quelle descritte da Erodoto.
Il ruolo della prostituta devota alla dea Ishtar era finalizzato alla prosperità del paese e la donna veniva stimata, sebbene la pratica non rispecchiasse un codice morale accettabile dalla società. Si percepisce che il ruolo della prostituta non era una scelta ma uno status che il destino le aveva riservato. Essendo prostituta era la donna di tutti gli uomini, pertanto era incapace di assicurare una discendenza e di prendersi cura della famiglia. Per questo motivo la sua vita doveva essere sacrificio e viveva appartata rispetto alle altre donne. Ma la sua persona non era disprezzata poiché il suo ruolo le era stato delegato dalle divinità, protettrici del destino dell’intera popolazione.
Cristiano Panzetti dedica uno studio alla prostituzione rituale nell’Italia antica. La prima parte del libro descrive il fenomeno nei suoi caratteri generali: nelle religioni pagane c’erano rituali che prevedevano matrimoni sacri celebrati nei templi, orge sacre che propiziavano la fertilità dei campi, riti iniziatici e culti misterici a sfondo erotico. Queste cerimonie religiose erano il retaggio delle epoche preistoriche, nelle quali si praticava il culto della Grande Dea. Con l’avvento di forme sociali più complesse, le divinità maschili si manifestano con caratteri eroici e guerrieri e quelle femminili assumono caratteri erotici più spiccati: si introducono così elementi di forte differenziazione sessuale.
Con l’inizio dei tempi storici gli antichi culti della fertilità tendono a essere istituzionalizzati e si configurano nella forma della prostituzione rituale, la cui funzione era di invocare l’aiuto degli dèi per assicurare la fertilità della terra, degli uomini e degli animali. Le donne che si offrivano al culto della prostituzione sacra potevano essere donne libere che occasionalmente si prestavano a questi riti, oppure vere e proprie sacerdotesse che svolgevano quest’attività in maniera continuativa. Nelle fasi più antiche sembra che l’esercizio della prostituzione sacra fosse legato a momenti di carestia o di pestilenza, e questo induce a vedere in questo culto una funzione civilizzatrice che mitigava le più primitive pratiche del sacrificio umano. I culti monoteistici ebraici prima, cristiani e musulmani poi, avversarono e censurarono la prostituzione rituale, poiché per le pretese moralizzatrici del Dio unico era intollerabile legare la sfera della sessualità ai culti sacri.
La ierogamìa simboleggiava l’unione fra un dio e una dea (il Cielo e la Terra): durante il rito la sacerdotessa trasferiva al sovrano il potere fecondante della dea affinchè il re potesse trasmetterlo ai sudditi. Nella ierodulìa le schiave consacrate alle divinità si offrivano ai visitatori del tempio per rendere omaggio agli dèi. Esisteva anche la forma della prostituzione apotropaica che poteva essere praticata dalle ragazze che, prima di sposarsi, consacravano la propria verginità agli estranei per scacciare magicamente i pericoli della vita coniugale, e per raccogliere la dote necessaria al matrimonio.
Nell’Italia antica, i levantini diffusero l’usanza della prostituzione sacra. Le testimonianze letterarie e archeologiche sono lacunose ma lasciano intendere una probabile diffusione di questi culti nell’ambiente della Magna Grecia. In particolare i celebri rilievi del “Trono Ludovisi” sembrano, secondo Panzetti, provenire dalle colonie greche, e alludono al rito della nascita di Venere dalle acque. I racconti popolari calabresi sulla “bella dei sette veli” sembrano legati alla celebre danza dei sette veli che le sacerdotesse eseguivano in onore di Astarte.
Un discorso a parte merita il santuario etrusco di Pyrgi. Questo tempio è celebre perché il Pallottino trovò le lamine in scrittura fenicia con traduzione etrusca, uno dei pochi documenti che hanno fatto breccia sul mistero della lingua etrusca. Il tempio era consacrato alla fenicia Astarte, associata all’etrusca Uni. A Pyrgi prestavano servizio una ventina di sacerdotesse dedite alla prostituzione sacra, e il santuario accumulò enormi ricchezze. Nel 384 a.C. fu saccheggiato dai Greci di Siracusa, guidati da Dionisio I°.
I culti greci di Afrodite vennero acquisiti dai Romani: la Venere romana era una dea della fecondità legata alla famiglia. Infine Panzetti avanza ipotesi sulla persistenza dei riti di prostituzione nel folclore, nella letteratura popolare e nella stessa liturgia cattolica: alcuni culti della Madonna e le processioni delle verginelle derivano da riti di prostituzione sacra, opportunamente filtrati dalla morale cristiana.
Negli ultimi decenni l’archeologia ha illuminato e rimesso in discussione le notizie sui culti delle polis di Magna Grecia. Nello specifico, la colonia di Locri Epizefiri e il culto della sacra prostituzione sono attestati da fonti antiche e da ritrovamenti archeologici. La divinità nel contempo presiede la sfera dell’amore fisico e della guerra. La singolare vita della colonia è lo specchio di una forte religiosità nella quale si leggono aspetti autoctoni (come il matriarcato) mescolati alla grecità della madre patria: è la donna che impera nel pantheon locrese e a essa ogni culto forte è dedicato.
Nel caso specifico della sacra prostituzione è l’Afrodite Ctonia locrese a essere al centro di una manifestazione unica nella realtà magnogreca.
Dal punto di vista archeologico diverse sono le testimonianze riconducibili a questo culto: il particolare edificio della Stoà a U, il meraviglioso complesso templare in contrada Marasà, le testimonianze che ci sono pervenute dai botroi, rinvenuti nel cortile centrale della Stòà, in contrada Centocamere. Le mansioni delle sacerdotesse si districavano nella sfera sessuale: erano considerate come dei tramiti con la dea, grazie alla quale chi vi si rivolgeva otteneva fertilità, benevolenza, positività, buona sorte. Nei contesti mitico- sacrali, il fedele si rivolge a una divinità che non abita il mondo terreno, non immaginabile iconograficamente, dotata di una potenza risolutrice non umana, per superare momenti difficili della vita, per ottenere un buon raccolto, per superare una malattia o per altre ragioni e, per ottenerne la benevolenza, sacrifica, in un’ottica semplicistica ma efficace, quella procedura che regola i rapporti sociali fra gli uomini: il cosiddetto do ut des. Il sacrificio che la tradizione vuole che si perpetri in favore di Afrodite prevede il coinvolgimento in prima persona del fedele e scavalca le prassi più diffuse: non si scanna un vitello e si bruciano le carni affinché il fumo giunga al dio che si nutre di esso, né si offrono oggetti votivi. È l’atto sessuale del fedele insieme con le sacerdotesse di Afrodite che hanno consacrato la loro vita alla prostituzione a essere il sacrificio vero e proprio, e grazie a questo la dea, emblema dell’amore fisico per il piacere e la perpetuazione della fertilità ferina, ottempera al bisogno dell’uomo: sarà così soddisfatta a sua volta l’esigenza della dea, che si nutre di amore.
L’Afrodite locrese è venerata come Urania: nata dai genitali del padre, è l’emblema ancestrale della fertilità e della potenza fecondatrice del sesso.
L’archeologia ha messo in luce i resti di ciò che creava la connessione con il mondo divino: si dovevano compiere degli atti che preparavano alla purificazione del fedele all’atto sessuale e, a tale scopo, si uccidevano animali sacri alla sfera della dea ed era consumato un pasto sacro propiziatorio.
Verosimilmente nella prima fase del rito praticato a Locri sia la sacerdotessa sia il fedele si recano all’altare del piccolo tempio- sacello che si trova oggi stratigraficamente sotto la casa dei leoni, nei pressi del mare.
E sempre nei botroi il ritrovamento di statue maschili, costituisce la simbolizzazione della pratica, che nelle stanze della Stoà a U si configura in forme simposiache.
Quindi prima il rito di purificazione attraverso il sacrificio animale, poi la ritualità sacrale che si esplica nell’atto sessuale vissuto in simbiosi al costume tipico greco: il simposio.
Un momento topico della socializzazione greca è il banchetto sacrale, dell’unione di spiritualità e forza di pensiero, associato goliardicamente al vino ed al sesso.
Il culto svolto a Locri, secondo un passo di Giustino, vede queste giovani donne passare la vita nel nome di Afrodite. Non appartengono a famiglie ricche, non erano fanciulle di buona famiglia e per la maggior parte dei casi appartenevano alla schiera di schiavi che facevano da corollario alla società locrese. Schiave per condizione sociale e schiave del volere divino.
Ma da fonti iconografiche (la raffigurazione lapidea del Trono Ludovisi), si intuisce che queste donne non sono solo delle schiave: accanto alla nascita della dea vi è la donna concepita come matrona della casa, e quindi sposa. Di conseguenza Giustino potrebbe riferirsi solo a un gruppo di prostitute. Non è detto che fossero necessariamente ignoranti e costrette a questa vita religiosa.
La sacerdotessa può essere l’emblema di una donna colta, progredita, artefice dell’amore e a esso votata, in piena armonia con la sua figura “altra” rispetto a quella della donna morigerata, ammantata, spargitrice di profumi.
Il passo di Giustino dunque interpreta una parte di realtà, ma si coglie un tono di censura e di critica verso la figura di una donna ormai lontana dal mondo religioso romano come quella della sacerdotessa dedita alla prostituzione sacra.
Locri non è una colonia nella quale le condizioni sono socialmente simili a quelle delle altre protagoniste della storia magnogreca. Vivono in essa della condizioni sociali come l’assenza di una coniazione propria di monete , una convivenza di culti singolari e rari, una struttura sociale aristocratica mentre le altre polis si evolvevano.
La leggendaria fondazione descrive il destino singolare della polis: le matrone che scappano con i loro schiavi dalla loro terra e con i quali avevano mancato il loro giuramento di fedeltà verso i mariti occupati in guerra e approdano sulle coste ioniche della Calabria dove trovano i Siculi, il popolo che occupava la zona e che era organizzato in maniera sviluppata sulle colline a ridosso del mare. Si sviluppa la colonia depredando il territorio a un popolo preesistente e questo popolo, dopo un periodo di emarginazione, per evitare la perdita d’identità, sia stato apportatore di momenti religiosi intrisi di umore ctonio: nella religione del mondo locrese, dove la divinità è donna, è humus fertile per permettere a un culto come quello della sacra prostituzione di sviluppare e prosperare. Le condizioni per cui delle donne decidono di donare la propria femminilità al mondo religioso stanno proprio nel concepire la religione in maniera antica, ossia avere una visione del divino invasiva, come quella di popoli nei quali il pensiero filosofico greco non ha modificato il modo di concepire l’universo religioso, ad esempio i Siculi.
Non è un caso che come a Locri anche a Erice in Sicilia il culto della sacra prostituzione fosse praticato in onore di Afrodite e dalle fonti e, dai resti del tempio dedicato ad Afrodite Ericina, sembra che questo culto avesse una rilevanza e un clamore superiore che non nella Locride stessa. L’ipotesi che potrebbe essere formulata è che il substrato indigeno abbia incamerato tradizioni e ritualità culturali dei visitatori con i quali entrarono in contatto per ragioni di tipo economico, e che solo in seguito le abbiano tramandate ai coloni veri e propri. E questa ricezione positiva al culto sarebbe poi stata innestata dal substrato indigeno che impostava la sua linea di conduzione sociale sul matriarcato.
Di natura economica o umana sono le ragioni d’essere di questo culto orientale e, grazie a questi contatti, i greci sono venuti a conoscenza di realtà estremamente diverse dalla loro: le tradizioni cultuali sono spesso alla base della presenza di riti che poi diventano greci.
Questa continuazione mitologica con l’universo mesopotamico è una spia del filo che unisce la prostituzione in favore di Ishtar, divinità dell’amore libero, della fertilità al rito che si perpetrava ad Afrodite, divinità dell’amore per i greci.
Inoltre Erodoto (Storie) dice che in Lidia, confinante con il regno dei Medi, nel retroterra della Ionia esattamente a Sardi, Cibele era ritenuta la patrona della dinastia dei Mermnadi , e che presso la tomba di Aliatte, padre di Creso era praticata la prostituzione. Nei suoi resoconti era costume presso i Lidi permettere che le loro figlie, per costruirsi la dote, si prostituissero con uomini anche stranieri. Erodoto ci fa pensare anche al culto di Afrodite a Locri, come ci precisa il passo di Clearco che mette sullo stesso piano Lidia, Cipro e Locri, evidenziando la figura delle etere, la cui attività era connessa ai templi, spiegandone poi moralisticamente l’origine quale punizione di un’antica hybris (ossia l’orgoglio di chi non accetta di sottostare alle leggi della natura) di donne contro dei, eroi e mortali.
Nelle immagini, dall'alto:
Prostituta sacra sul tempio greco di www.ilpalo.com
Il trono Ludovisi
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