Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
domenica 30 settembre 2012
La Terra è una Dea.
La Terra è una Dea (Senofonte, IV a.C.)
di Stefano Panzarasa
C'era una volta una civiltà basata su valori come il legame con la terra e la natura, l'equilibrio ecologico, la pace, l'amore, la non violenza, l'uguaglianza fra i sessi, la parità sociale e la spiritualità, una civiltà dove il profitto e il progresso tecnologico erano investiti nel benessere comune, nelle arti e nel godimento della vita.
Le città, prive di fortificazioni, erano costruite in base alla bellezza dei luoghi e alla ricchezza delle risorse naturali locali. La profonda osservazione della natura nei suoi processi ciclici e legati alla fertilità delle donne, degli animali e delle piante, il porsi domande sull'origine della vita...portò le genti di questa civiltà a immaginare l'universo come una madre onnidispensatrice nel cui grembo ha origine ogni forma di vita e nel cui grembo, come nei cicli della vegetazione, tutto ritorna dopo la morte per poi rinascere. La religione di questa civiltà, di tipo matrilineare, fu quindi quella della Dea Madre, del principio femminile, del rispetto e considerazione delle donne, sacerdotesse e capi clan. La Dea aveva il potere di donare e sostenere la vita, quanto di portare la morte ma anche la rinascita. Il principio maschile aveva anche la sua importanza ed era rappresentato dal figlio/amante della Dea; la loro unione era simboleggiata dal rito del "matrimonio sacro". Alla mascolinità era quindi associata, tra l'altro, l'energia della Terra e lo spirito selvatico della Natura. E gli sciamani erano coloro capaci di entrare in contatto con queste forze per operare rituali sacri e guarigioni. Non stiamo raccontando una bella favola ecologista ma approfonditi studi archeologici sulla civiltà agricola neolitica dell'Antica Europa pre-indoeuropea come è stata definita dall'archeologa lituana Marjia Gimbutas (Europa centro-meridionale, balcanica, bacino del Mediterraneo). Una civiltà che con i limiti e imperfezioni immaginabili per quel tempo così lontano dai nostri giorni, vide i suoi albori all'inizio del Paleolitico Superiore, circa 40.000 anni fa, con la comparsa dell'Homo Sapiens Sapiens e delle prime pitture rupestri, per poi fiorire verso il 7000 a.C. e perdurare ininterrotta per circa 3500 anni. In seguito, l'evoluzione sociale e spirituale di questa civiltà fu interrotta dalle invasioni di violente popolazioni guerriere nomadi dedite alla pastorizia, provenienti inizialmente dalle fredde steppe caucasiche dell'Est europeo e in seguito da tutta l'Europa orientale e dai deserti dell'Asia Minore, come per esempio le antiche tribù ebraiche guidate dai loro sacerdoti-guerrieri. Queste genti, con una struttura sociale patriarcale, adoratrici di bellicose divinità maschili e delle armi, lentamente ma inesorabilmente travolsero anche con massacri e distruzioni le pacifiche popolazioni locali. Nella protetta isola di Creta questa antica civiltà, chiamata localmente Minoica, iniziata più tardi rispetto al continente, alla fine del IV Millenio a.C., perdurò fino a circa il 1500 a.C. Tra i principali centri della civiltà dell'Antica Europa, vere e proprie città con una invidiabile organizzazione e influenza socio-culturale, ricordiamo Katal Huyuk o Hacilar (nell'attuale Turchia), Vin'a (ex-Jugoslavia), Cucuteni(Romania), Gerico(Palestina) e la più conosciuta Cnosso(Creta). L'isola di Creta fu forse l'ultimo luogo sul pianeta dove si celebrò l'armonia tra gli uomini e le donne. In seguito varie popolazioni europee come i Greci (che parlavano sempre di una mitica Età dell'Oro), i Nuragici, gli Etruschi, i Celti e le popolazioni nordiche in generale, presero molti spunti dalla civiltà neolitica dell'Antica Europa. L'antica religione della Dea Madre non fu mai del tutto soffocata, ma alla società di tipo ugualitario-mutuale che celebrava la vita e la natura, se ne sostituì gradualmente un'altra di tipo gerarchico-dominatore basata sulla violenza e la sopraffazione che vide innanzi tutto la supremazia degli uomini sulle donne e la natura.
Fonti: Arianna Editrice e www.Estovest.net
Immagine di http://it.wikipedia.org/wiki/File:Snake_Goddess_Crete_1600BC.jpg
sabato 29 settembre 2012
Viaggi e letture…alle radici dei luoghi e della storia sarda
Viaggi e letture…alle radici dei luoghi e della storia sarda.
L’Associazione Tsìppiri promuove dal 30 Settembre al 2 Dicembre 2012 in 4 località di interesse archeologico, una serie di appuntamenti domenicali con visite guidate e dibattiti culturali a cura di esperti di archeologia e storia sarda.
L’iniziativa, giunta alla sesta edizione è mirata alla presentazione di un percorso di cultura fra le possibilità di svago. Si vuole suggerire un punto d’incontro tra la frenetica quotidianità della città e l’incantevole tranquillità di una gita domenicale in campagna.
L’offerta si svolge secondo un calendario d’incontri con autori e relatori e visite ai siti.
Si affrontano diversi ambiti tematici: arte, storia e relazioni con altri popoli. I percorsi sono strutturati secondo il territorio visitato e prevedono una sosta gastronomica nelle migliori strutture ricettive agrituristiche della zona. Sarà offerta l’opportunità di rivisitare gli antichi sapori della cucina tradizionale sarda.
L’insieme dei beni archeologici e paesaggistici, uniti alla tradizionale ospitalità dei ristoratori dell’isola, è quanto di più prezioso può offrire la Sardegna ai visitatori, e la sensibilizzazione alla salvaguardia di questo immenso patrimonio è obiettivo da perseguire tenacemente e incessantemente. Alcuni studiosi sardi si mettono a disposizione della comunità e mostrano l’altro aspetto della loro attività: la divulgazione. Troppo spesso le impersonali sale convegni evidenziano la barriera invisibile fra relatori e uditorio, e questa idea nasce proprio dalla ricerca di un contatto informale fra due mondi che vorrebbero incontrarsi ma non riescono a trovare i luoghi idonei. Dopo il successo delle scorse edizioni, si è preferito mantenere immutato il progetto didattico, e il programma degli incontri consentirà ai partecipanti di acquisire le nozioni fondamentali per una corretta lettura del territorio e del patrimonio naturalistico e archeologico dell’isola.
Ogni domenica è suddivisa in convegno-dibattito con gli autori, pranzo in agriturismo e visite guidate nei siti.
Link su facebook: http://www.facebook.com/events/442373619138024/
Domenica 30 Settembre – Giara di Siddi
Mattina - Visita alla tomba di Giganti di Lunamatrona
Convegno-dibattito su Domus De Janas e Tombe di Giganti
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro (max 100 posti)
Pomeriggio - Passeggiata sulla Giara e visita a Sa Domu ‘e S’Orku
In serata degustazione di vini presso le Cantine Lilliu
Domenica 28 Ottobre – Domus De Maria
Mattina - Visita alla tomba di Giganti
Convegno-dibattito sulla civiltà nuragica
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro (max 80 posti)
Pomeriggio - Passeggiata con visita al nuraghe e alla grotta
Domenica 18 Novembre – Tharros
Mattina - Visita guidata alla cittadella di Tharros
Pranzo caratteristico ambientato in epoca romana
Pomeriggio – Visita alla Chiesa Paleocristiana di San Giovanni di Sinis
Visita alla Chiesetta di San Salvatore
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso ai siti 30 Euro (max 60 posti)
Domenica 02 Dicembre – Serri
Mattina – Convegno-dibattito sui bronzetti nuragici
Pranzo caratteristico con menù nuragico basato sugli alimenti dell’epoca
Pomeriggio - Visita guidata al Santuario Nuragico di Santa Vittoria
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso al sito 30 Euro (max 100 posti)
Partecipazione libera.
Informazioni e prenotazioni: pierlu.mont@libero.it 338.2070515
In alcuni siti sarà possibile acquistare prodotti alimentari a km zero
Sito ufficiale degli eventi in rassegna: http://pierluigimontalbano.blogspot.com
L’Associazione Tsìppiri promuove dal 30 Settembre al 2 Dicembre 2012 in 4 località di interesse archeologico, una serie di appuntamenti domenicali con visite guidate e dibattiti culturali a cura di esperti di archeologia e storia sarda.
L’iniziativa, giunta alla sesta edizione è mirata alla presentazione di un percorso di cultura fra le possibilità di svago. Si vuole suggerire un punto d’incontro tra la frenetica quotidianità della città e l’incantevole tranquillità di una gita domenicale in campagna.
L’offerta si svolge secondo un calendario d’incontri con autori e relatori e visite ai siti.
Si affrontano diversi ambiti tematici: arte, storia e relazioni con altri popoli. I percorsi sono strutturati secondo il territorio visitato e prevedono una sosta gastronomica nelle migliori strutture ricettive agrituristiche della zona. Sarà offerta l’opportunità di rivisitare gli antichi sapori della cucina tradizionale sarda.
L’insieme dei beni archeologici e paesaggistici, uniti alla tradizionale ospitalità dei ristoratori dell’isola, è quanto di più prezioso può offrire la Sardegna ai visitatori, e la sensibilizzazione alla salvaguardia di questo immenso patrimonio è obiettivo da perseguire tenacemente e incessantemente. Alcuni studiosi sardi si mettono a disposizione della comunità e mostrano l’altro aspetto della loro attività: la divulgazione. Troppo spesso le impersonali sale convegni evidenziano la barriera invisibile fra relatori e uditorio, e questa idea nasce proprio dalla ricerca di un contatto informale fra due mondi che vorrebbero incontrarsi ma non riescono a trovare i luoghi idonei. Dopo il successo delle scorse edizioni, si è preferito mantenere immutato il progetto didattico, e il programma degli incontri consentirà ai partecipanti di acquisire le nozioni fondamentali per una corretta lettura del territorio e del patrimonio naturalistico e archeologico dell’isola.
Ogni domenica è suddivisa in convegno-dibattito con gli autori, pranzo in agriturismo e visite guidate nei siti.
Link su facebook: http://www.facebook.com/events/442373619138024/
Domenica 30 Settembre – Giara di Siddi
Mattina - Visita alla tomba di Giganti di Lunamatrona
Convegno-dibattito su Domus De Janas e Tombe di Giganti
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro (max 100 posti)
Pomeriggio - Passeggiata sulla Giara e visita a Sa Domu ‘e S’Orku
In serata degustazione di vini presso le Cantine Lilliu
Domenica 28 Ottobre – Domus De Maria
Mattina - Visita alla tomba di Giganti
Convegno-dibattito sulla civiltà nuragica
Pranzo in agriturismo con menù tipico sardo a 20 Euro (max 80 posti)
Pomeriggio - Passeggiata con visita al nuraghe e alla grotta
Domenica 18 Novembre – Tharros
Mattina - Visita guidata alla cittadella di Tharros
Pranzo caratteristico ambientato in epoca romana
Pomeriggio – Visita alla Chiesa Paleocristiana di San Giovanni di Sinis
Visita alla Chiesetta di San Salvatore
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso ai siti 30 Euro (max 60 posti)
Domenica 02 Dicembre – Serri
Mattina – Convegno-dibattito sui bronzetti nuragici
Pranzo caratteristico con menù nuragico basato sugli alimenti dell’epoca
Pomeriggio - Visita guidata al Santuario Nuragico di Santa Vittoria
Costo complessivo del pranzo e dell’ingresso al sito 30 Euro (max 100 posti)
Partecipazione libera.
Informazioni e prenotazioni: pierlu.mont@libero.it 338.2070515
In alcuni siti sarà possibile acquistare prodotti alimentari a km zero
Sito ufficiale degli eventi in rassegna: http://pierluigimontalbano.blogspot.com
venerdì 28 settembre 2012
Il vino al tempo dei nuraghi
Il vino al tempo dei nuraghi
di Pierluigi Montalbano
Secondo alcune fonti letterarie, ad esempio la Bibbia, la provenienza della coltura della vite e della produzione del vino è legata al Vicino Oriente. Pare che la coltura della vite abbia raggiunto l’Occidente proprio dalla Palestina. Questa pianta è strettamente connessa con la navigazione perché l’uva passita, con i fichi secchi e le olive in salamoia, costituiva la base della dieta dell’antica marineria, visto che questi alimenti si conservano a lungo. In Sardegna, negli ultimi anni, gli archeologi hanno proposto un’origine autoctona della vite, pur essendo noto che i navigatori filistei, ciprioti, e precedentemente minoici, toccarono l’Occidente Mediterraneo fin dall’età del Bronzo. Scambiavano lingotti di rame e portavano nuove tecnologie, tra le quali l’uso del ferro, e forse impiantarono i primi vigneti. Il vino si diffuse nel mondo nuragico attraverso una ceramica particolare, denominata “fiasca del pellegrino”. Questa usanza è testimoniata anche nella bronzistica, grazie ad un noto personaggio, chiamato “Barbetta”, rinvenuto nel tempio a pozzo di Matzanni.
Questa piccola scultura realizzata col metodo fusorio della cera persa, porta una fiasca sotto il braccio sinistro. Un altro bronzetto, Aristeo, conservato al Museo Sanna di Sassari, prende il nome dalla divinità che, secondo la tradizione, portò l’agricoltura in Sardegna. Raffigura un offerente con tre recipienti appesi alle spalle. Per convenzione, queste fiasche sono chiamate brocche askoidi. A Monte Sirai abbiamo un personaggio seduto che versa il vino da una brocca askoide in una ciotola. Questo bronzetto è stato scoperto dagli archeologi in connessione con un altro personaggio particolare: un suonatore di lira, suggerendo che le due piccole statue facessero parte di un gruppo che celebrava un banchetto legato al mondo del sacro. L’area originaria dell’addomesticamento della vite, è quasi certamente la “Mezzaluna Fertile”, un’area posta nel Vicino Oriente lungo la Valle del Nilo, la Palestina, la costa libanese, la Siria, la Turchia e la Mesopotamia. Proprio in quest’ultima zona né stata ritrovata una tavoletta in argilla che riporta un inno datato a 6000 anni fa, scritto in occasione dell’inaugurazione del tempio di Enki, dio della sapienza della città di Eridu, in Sumeria, nella costa affacciata sul Golfo Persico. Enki preparava una bevanda destinata al banchetto degli dei, perché pare che l’ebbrezza avvicinasse verso la sfera del sacro. Questa caratteristica funzione liturgica si è conservata nel tempo, e ancora oggi il vino fa parte dei riti religiosi legati alla cristianità. Rispetto alle altre attività agricole, la coltivazione della vite, era importante perché la professione dei vignaioli erano ricordati, nei documenti ufficiali, ben distinti dagli agricoltori. Inoltre i costi di produzione erano notevoli e si aggiungevano a quelli di trasporto. Le brocche askoidi sono stati portati alla luce in vari insediamenti sardi. Frequentemente sono associati ad altri tipi di recipienti nuragici e, negli ultimi scavi lungo tutto il Mediterraneo, soprattutto negli approdi lungo le coste, sono venuti alla luce insediamenti ricchi di queste ceramiche (Creta, Sicilia, Lipari, Agrigento, Mozia, Cartagine, Utica, Malaga, Cadice, Huelva, El Carambolo). Intorno al IX a.C. questo recipiente fa la sua comparsa in Etruria, tanto da diventare il simbolo stesso del vino. Ma la coltura della vite presso gli etruschi è documentata solo a partire dal secolo successivo. Nei 4 secoli che vanno dal XII all’VIII a.C., la diffusione del vino attraverso i canali nuragici, mostra prepotentemente il ruolo che i sardi ebbero nelle relazioni commerciali del Mediterraneo. Il numero di ceramiche nuragiche portate alla luce negli ultimi anni lungo le coste mediterranee, si è diffuso in progressione geometrica, e le ultime testimonianze giungono da Malaga, nella costa andalusa, dove in una necropoli simile a quella di San Giorgio di Portoscuso sono stati rinvenuti vasi bolli-latte e parecchi frammenti di altra ceramica nuragica.
In questa immagine a lato:Vaso al Museo di Cadice
Il banchetto ha sempre avuto una connotazione sociale e religiosa, testimoniata da un’usanza di fratellanza (Marzeah) connessa con un banchetto al quale partecipavano personaggi importanti di varia nazionalità. I banchettanti, in questo rito, si legavano in modo sacro e indissolubile. I membri ricevevano una tessera in avorio che dava ospitalità, protezione e accesso alle riunioni in tutti i luoghi in cui esisteva questa confraternita. La necropoli di Monte Sirai documenta che le donne partecipavano al banchetto e fosse consentito il consumo del vino. I rituali erano legati anche al mondo funerario. Il corredo funebre che accompagnava il defunto era formato da due brocche, una delle quali conteneva il vino destinato alla libagione in onore del defunto. Questi rituali accompagnavano anche il viaggio funebre dei bambini, infatti già nell’VIII a.C., presso il tophet di Sulki sono attestati vasi per il trasporto del vino contenenti le ossa combuste dei bimbi sepolti. Le anfore commerciali per il vino avevano dunque un utilizzo secondario: erano contenitori di ossa che legavano il defunto al vino. Nella necropoli di Sulki abbiamo alcune brocche a bocca trilobata (oinòchoai) pensate e realizzate per contenere e versare il vino. A Sant’Imbenia esistono anfore con caratteristiche di unicità: eseguite a mano (non con il tornio) con la tecnica d’impasto dei nuragici. Queste anfore sono note anche a Cartagine, nell’area tirrenica e nella Spagna meridionale. Ciò testimonia che Cartagine, almeno in tutto l’VIII a.C. si avvaleva di contenitori da trasporto prodotti in Sardegna, nello specifico nella zona di Alghero. Gli impasti argillosi sono analoghi a quelli di altre forme realizzate nell’isola e ciò apre nuove prospettive sullo studio delle relazioni fra i sardi nuragici e l’esterno. Ciò che resta da chiarire è il periodo in cui i grandi contenitori da trasporto fecero la comparsa in Sardegna. Il repertorio delle ceramiche nuragiche, per le dimensioni ridotte, non offre contenitori adatti al trasporto, pertanto questi grandi vasi dovettero, almeno all’inizio, essere importati o realizzati copiando dai grandi vasi conosciuti nel Vicino Oriente e nei luoghi dove l’agricoltura consentiva un surplus destinato al commercio internazionale.Il mondo nuragico deve aver recepito la coltura della vite e i processi di vinificazione in connessione con l’arrivo delle prime genti orientali (forse i minoici cretesi, abili vignaioli) e acquisirono rapidamente le competenze per diventare produttori ed esportatori. Ciò che rende interessante questo argomento è che le anfore nuragiche sono dotate di fondo convesso, testimone di una destinazione esclusivamente indirizzata al commercio navale. Ne consegue che oltre alla coltivazione della vigna e alla produzione del vino, i centri specializzati gestivano anche il trasporto navale dei prodotti.
di Pierluigi Montalbano
Secondo alcune fonti letterarie, ad esempio la Bibbia, la provenienza della coltura della vite e della produzione del vino è legata al Vicino Oriente. Pare che la coltura della vite abbia raggiunto l’Occidente proprio dalla Palestina. Questa pianta è strettamente connessa con la navigazione perché l’uva passita, con i fichi secchi e le olive in salamoia, costituiva la base della dieta dell’antica marineria, visto che questi alimenti si conservano a lungo. In Sardegna, negli ultimi anni, gli archeologi hanno proposto un’origine autoctona della vite, pur essendo noto che i navigatori filistei, ciprioti, e precedentemente minoici, toccarono l’Occidente Mediterraneo fin dall’età del Bronzo. Scambiavano lingotti di rame e portavano nuove tecnologie, tra le quali l’uso del ferro, e forse impiantarono i primi vigneti. Il vino si diffuse nel mondo nuragico attraverso una ceramica particolare, denominata “fiasca del pellegrino”. Questa usanza è testimoniata anche nella bronzistica, grazie ad un noto personaggio, chiamato “Barbetta”, rinvenuto nel tempio a pozzo di Matzanni.
Questa piccola scultura realizzata col metodo fusorio della cera persa, porta una fiasca sotto il braccio sinistro. Un altro bronzetto, Aristeo, conservato al Museo Sanna di Sassari, prende il nome dalla divinità che, secondo la tradizione, portò l’agricoltura in Sardegna. Raffigura un offerente con tre recipienti appesi alle spalle. Per convenzione, queste fiasche sono chiamate brocche askoidi. A Monte Sirai abbiamo un personaggio seduto che versa il vino da una brocca askoide in una ciotola. Questo bronzetto è stato scoperto dagli archeologi in connessione con un altro personaggio particolare: un suonatore di lira, suggerendo che le due piccole statue facessero parte di un gruppo che celebrava un banchetto legato al mondo del sacro. L’area originaria dell’addomesticamento della vite, è quasi certamente la “Mezzaluna Fertile”, un’area posta nel Vicino Oriente lungo la Valle del Nilo, la Palestina, la costa libanese, la Siria, la Turchia e la Mesopotamia. Proprio in quest’ultima zona né stata ritrovata una tavoletta in argilla che riporta un inno datato a 6000 anni fa, scritto in occasione dell’inaugurazione del tempio di Enki, dio della sapienza della città di Eridu, in Sumeria, nella costa affacciata sul Golfo Persico. Enki preparava una bevanda destinata al banchetto degli dei, perché pare che l’ebbrezza avvicinasse verso la sfera del sacro. Questa caratteristica funzione liturgica si è conservata nel tempo, e ancora oggi il vino fa parte dei riti religiosi legati alla cristianità. Rispetto alle altre attività agricole, la coltivazione della vite, era importante perché la professione dei vignaioli erano ricordati, nei documenti ufficiali, ben distinti dagli agricoltori. Inoltre i costi di produzione erano notevoli e si aggiungevano a quelli di trasporto. Le brocche askoidi sono stati portati alla luce in vari insediamenti sardi. Frequentemente sono associati ad altri tipi di recipienti nuragici e, negli ultimi scavi lungo tutto il Mediterraneo, soprattutto negli approdi lungo le coste, sono venuti alla luce insediamenti ricchi di queste ceramiche (Creta, Sicilia, Lipari, Agrigento, Mozia, Cartagine, Utica, Malaga, Cadice, Huelva, El Carambolo). Intorno al IX a.C. questo recipiente fa la sua comparsa in Etruria, tanto da diventare il simbolo stesso del vino. Ma la coltura della vite presso gli etruschi è documentata solo a partire dal secolo successivo. Nei 4 secoli che vanno dal XII all’VIII a.C., la diffusione del vino attraverso i canali nuragici, mostra prepotentemente il ruolo che i sardi ebbero nelle relazioni commerciali del Mediterraneo. Il numero di ceramiche nuragiche portate alla luce negli ultimi anni lungo le coste mediterranee, si è diffuso in progressione geometrica, e le ultime testimonianze giungono da Malaga, nella costa andalusa, dove in una necropoli simile a quella di San Giorgio di Portoscuso sono stati rinvenuti vasi bolli-latte e parecchi frammenti di altra ceramica nuragica.
In questa immagine a lato:Vaso al Museo di Cadice
Il banchetto ha sempre avuto una connotazione sociale e religiosa, testimoniata da un’usanza di fratellanza (Marzeah) connessa con un banchetto al quale partecipavano personaggi importanti di varia nazionalità. I banchettanti, in questo rito, si legavano in modo sacro e indissolubile. I membri ricevevano una tessera in avorio che dava ospitalità, protezione e accesso alle riunioni in tutti i luoghi in cui esisteva questa confraternita. La necropoli di Monte Sirai documenta che le donne partecipavano al banchetto e fosse consentito il consumo del vino. I rituali erano legati anche al mondo funerario. Il corredo funebre che accompagnava il defunto era formato da due brocche, una delle quali conteneva il vino destinato alla libagione in onore del defunto. Questi rituali accompagnavano anche il viaggio funebre dei bambini, infatti già nell’VIII a.C., presso il tophet di Sulki sono attestati vasi per il trasporto del vino contenenti le ossa combuste dei bimbi sepolti. Le anfore commerciali per il vino avevano dunque un utilizzo secondario: erano contenitori di ossa che legavano il defunto al vino. Nella necropoli di Sulki abbiamo alcune brocche a bocca trilobata (oinòchoai) pensate e realizzate per contenere e versare il vino. A Sant’Imbenia esistono anfore con caratteristiche di unicità: eseguite a mano (non con il tornio) con la tecnica d’impasto dei nuragici. Queste anfore sono note anche a Cartagine, nell’area tirrenica e nella Spagna meridionale. Ciò testimonia che Cartagine, almeno in tutto l’VIII a.C. si avvaleva di contenitori da trasporto prodotti in Sardegna, nello specifico nella zona di Alghero. Gli impasti argillosi sono analoghi a quelli di altre forme realizzate nell’isola e ciò apre nuove prospettive sullo studio delle relazioni fra i sardi nuragici e l’esterno. Ciò che resta da chiarire è il periodo in cui i grandi contenitori da trasporto fecero la comparsa in Sardegna. Il repertorio delle ceramiche nuragiche, per le dimensioni ridotte, non offre contenitori adatti al trasporto, pertanto questi grandi vasi dovettero, almeno all’inizio, essere importati o realizzati copiando dai grandi vasi conosciuti nel Vicino Oriente e nei luoghi dove l’agricoltura consentiva un surplus destinato al commercio internazionale.Il mondo nuragico deve aver recepito la coltura della vite e i processi di vinificazione in connessione con l’arrivo delle prime genti orientali (forse i minoici cretesi, abili vignaioli) e acquisirono rapidamente le competenze per diventare produttori ed esportatori. Ciò che rende interessante questo argomento è che le anfore nuragiche sono dotate di fondo convesso, testimone di una destinazione esclusivamente indirizzata al commercio navale. Ne consegue che oltre alla coltivazione della vigna e alla produzione del vino, i centri specializzati gestivano anche il trasporto navale dei prodotti.
mercoledì 26 settembre 2012
Shardana, un problema ancora irrisolto
Shardana, un problema ancora irrisolto
di Gabriella Scandone Matthiae
Il canonico Giovanni Spano, dotto e illustre studioso di antichità sarde ed autore di numerose pubblicazioni sull' argomento, che ancora oggi presentano notevole interesse, scriveva sul Bollettino Archeologico Sardo del 1861 riguardo alla necropoli della città di Tharros: "Nessuna tomba o sepoltura si è scoperta, per piccola che sia, dalla quale non sia venuto fuori qualche amuleto o figurina di divinità che allude ai misteri d'Iside o alla religione egiziana ... è forza conchiudere che qualche colonia egizia vi si fosse stabilita fin da remotissimi tempi". Le sue parole fanno comprendere quanto fortemente la presenza egiziana in terra sarda risaltasse agli occhi dei primi scavatori che abbiano rivolto la propria attenzione alle antichità isolane con fini strettamente scientifici, e non per avidità di tesori o per farne commercio: e ci sembrano la migliore introduzione a un' opera che intende narrare la storia dei rapporti tra la grande isola mediterranea ed il paese del Nilo. La possibilità di definire l'inizio di questi rapporti è legata all'interpretazione di un nome: quello di una delle popolazioni che nei secoli XIII e XII a.c. si riversarono ad ondate successive nel bacino Mediterraneo orientale, provenienti dalle regioni egeo-anatoliche e siriane settentrionali, e giunsero a mettere in pericolo con i loro reiterati attacchi l'impero dei faraoni, dopo aver devastato le coste siro-palestinesi. Le iscrizioni dei sovrani della XIX dinastia Ramses II (1279-1213 a.C.) e Merenptah (1213-1204 a.C.) ci tramandano per la prima volta le effigi e gli appellativi delle varie genti che componevano questa eterogenea mescolanza di etnie, oggi designata collettivamente con l'espressione "Popoli del Mare", che fu impiegata allo scopo per primo dal celebre egittologo francese Gaston Maspéro, oltre 100 anni fa, nel 1881. I loro singoli nomi sono Lukka, Danuna, Shekelesh, Aqiyaua, Tursha, Shardana: per ciascuno di essi gli studiosi di antichità hanno trovato un aggancio con territori e popolazioni menzionate nelle fonti greche e latine, per lo più sulla base di assonanze onomastiche. Così i Lukka sembrano corrispondere ai Lici, abitatori dell' Anatolia sudoccidentale in epoca classica, i Danuna ai Danai citati da Omero, i Shekelesh agli antichi Siculi, gli Aqiyaua agli Achei, anch' essi di omerica memoria, i Tursha ai Tirreni (Etruschi ?) ed i Shardana agli abitanti dell' antica Sardegna. Proprio questi ultimi, per noi particolarmente interessanti, sono ricordati abbastanza frequentemente nelle fonti egiziane dei secoli XIVXI a.C. I più antichi testi che menzionano i Shardana sono tre lettere inviate dal re di Biblo Rib-Addi ad un faraone della XVIII dinastia, Amenophis III (1386-1349 a.c.) o Amenophis IV (1356-1340 a.c.). Esse fanno parte del celebre complesso di corrispondenza diplomatica conosciuto come "Lettere di Amarna" dal nome del sito egiziano ove fu rinvenuto nel 1887-88; sono redatte in scrittura cuneiforme ed in lingua babilonese, che era l'idioma internazionale dell' epoca, una sorta di "inglese" del tempo, e trattano delle continue minacce che la città-stato di Biblo, porto commerciale della costa libanese legatissimo all'Egitto sin dalla fine del III millennio a.C., riceveva da un sovrano siriano desideroso di impadronirsene. Rib-Addi, fedelissimo al faraone, invocava con esse il soccorso delle truppe egiziane per respingere i tentativi del nemico, e accennava, tra le altre innumerevoli difficoltà, all'uccisione di soldati Shardana, che verosimilmente dovevano essere impiegati a Biblo come mercenari. I Shardana sono poi citati varie volte, come si è già accennato, nelle iscrizioni storiche di Ramses II della XIX dinastia: sia nei testi che accompagnano le grandiose scene scolpite sulle pareti dei templi di Luxor, Karnak, Abido ed Abu Simbel, ove è esaltato il valore guerriero del sovrano, sia in quelli incisi su talune stele, una delle quali è nota proprio come "Stele dei Shardana". Essi sono ricordati come uno dei "Popoli del Mare" che, allora per la prima volta, giunsero fino a saccheggiare le sponde egiziane mediterranee, per esservi sconfitti da Ramses: " ... I turbolenti Shardana, che nessuno aveva saputo combattere, essi vennero sfacciatamente sulle loro navi da guerra dal mezzo del mare, e nessuno poteva opporsi a loro. Ma egli li piegò con la forza del suo valido braccio, e li portò in Egitto". I Shardana vengono qui descritti come pirati e predoni sì, ma anche come guerrieri arditi e coraggiosi: quindi Ramses II, dando prova di encomiabile senso pratico, pensò di sfruttare questi loro pregi, inglobandoli nel suo esercito in qualità di truppe mercenarie. Come tali essi sono ricordati nel racconto della partenza della spedizione siriana del 1274 a.c., che ebbe il suo momento epico cruciale nella battaglia per la conquista della città di Qadesh, nella Siria centrosettentrionale: "Quando Sua Maestà ebbe approntato le truppe, i carri e i Shardana che aveva vittoriosamente catturato, tutti equipaggiati con le loro armi, e comunicato loro i suoi piani di battaglia, allora Sua Maestà partì verso nord con le sue forze". Durante il regno di Ramses II i "Popoli del Mare" non costituivano ancora un serio pericolo per l'Egitto; lo divennero sotto il suo tredicesimo figlio e successore Merenptah, che li dovette affrontare nel suo Vanno di regno (1209 a.Cv), insieme ad una coalizione di genti libiche, e ne ebbe ragione dopo un' aspra battaglia combattuta nel Delta egiziano occidentale e durata sei ore. Tra questi "Popoli del Mare" vi erano nuclei di Shardana, che si trovarono così a combattere su entrambi i fronti, sia come invasori sia come truppe mercenarie degli Egiziani. È forse a questa singolare situazione che alludono dei passi dei Papiri Anastasi I e II, ove sembra si parli di Shardana mercenari del faraone che avrebbero fatto prigionieri in battaglia i propri congiunti. La minaccia si ripresentò, assai peggiore, all'epoca di Ramses IlI, l'unico sovrano rimarchevole della XX dinastia (1185-1154 a.C}, che modellò tutta la propria vita su quella del suo illustre predecessore Ramses II. Ramses III dovette affrontare in durissime battaglie campali i "Popoli del Mare" e i loro alleati libici, e particolarmente i Shardana: le vittorie che riportò su di essi sono immortalate nei grandi rilievi parietali del suo tempio funerario a Medinet Habu, presso Tebe. Ancora una volta, come già ai tempi di Merenptah, i Shardana non erano solo tra gli invasori, ma comparivano anche tra i soldati del faraone, insieme ad altri contingenti mercenari costituiti da "Popoli del Mare" assoggettati. Un altro documento della XX dinastia, il Papiro Wilbour dell'epoca di Ramses V (1148-1144 a.C}, cita i Shardana non più come pericolosi guerrieri: qui essi figurano già integrati nella società egiziana, e ricevono in ricompensa dei servigi resi delle proprietà terriere. In questo caso particolare, ci troviamo di fronte evidentemente a discendenti dei mercenari Shardana, che continuavano ad esercitare il mestiere dei loro padri presso il Faraone. Abbiamo detto poc' anzi che gli studiosi hanno accostato il nome dei Shardana a quello della Sardegna in base ad un'assonanza linguistica: ma non è questo il solo motivo che ha indotto molti storici ad ipotizzare l'identità tra il popolo citato nei testi egiziani e gli antichi abitanti della grande isola mediterranea. Esistono infatti anche elementi di carattere iconografico che hanno orientato in tal senso l'opinione dei ricercatori: i rilievi di Ramses III riproducono svariati gruppi di "Popoli del Mare", i quali si diversificano per la fisionomia, 1'abbigliamento, le armi, i copricapi. L'identificazione delle singole etnie è resa possibile grazie ai testi incisi accanto a ciascun gruppo, come una sorta di didascalie delle singole scene. Si deve osservare che i "Popoli del Mare" figurano riuniti in gruppi ordinati solo al momento della cattura, o se inglobati nell' esercito egiziano; nelle grandi riproduzioni delle battaglie navali, invece, i nemici compaiono in una caotica mescolanza, in contrapposizione all' allineamento perfetto dell' armata faraonica, ed è pertanto impossibile in questo caso distinguere le varie etnie. Per quanto riguarda particolarmente i Shardana, si deve aggiungere alla documentazione dell' epoca di Ramses III quella più antica costituita dai rilievi della battaglia di Qadesh combattuta da Ramses II, ove essi sono ritratti nei ranghi dell' esercito egiziano: quivi spiccano per il carattere particolare delle armi e per i tratti del volto alquanto marcati e grossolani. A differenza degli Egiziani dai lunghi capelli, i Shardana sono rasati completamente; sul capo recano un elmo rotondo a corna, con una protuberanza centrale sormontata da un dischetto, e sono armati con lunghe lance, lunghe spade ed uno scudo rotondo piuttosto piccolo, mentre gli Egiziani sono a testa scoperta e portano scudi lunghi dalla parte superiore arrotondata, lance più corte, asce e lo speciale tipo di falcetto noto come Khepesh. Uguale armamento mostrano i Shardana quando compaiono come mercenari di Ramses III, mentre quando sono ritratti tra i nemici si differenziano dai loro simili "egizianizzati" per l'elmo più allungato sulla nuca e privo della protuberanza centrale, per il gonnellino del tipo usualmente attribuito dagli Egiziani ai popoli stranieri e, nel caso di un capo o di una persona autorevole, per una folta barba. Gli elmi cornuti, le lunghe spade a lama larga ed aguzza con costolatura centrale, i piccoli scudi rotondi che abbiamo visto caratterizzare i Shardana sia come mercenari dei faraoni, sia tra i "Popoli del Mare" invasori dei rilievi di Ramses III, presentano una innegabile somiglianza con l'armamento dei guerrieri riprodotti nei celebri bronzetti nuragici. Proprio questa somiglianza, accanto all'assonanza dei termini Shardana-Sardegna, è 1'altro elemento che ha indotto gli studiosi, primi tra i quali i francesi E. De Rougé e F. Chabas alla metà del secolo scorso, ad identificare nel misterioso popolo di valorosi combattenti provenienti dal "mezzo del Mare", secondo l'espressione dei testi egiziani, gli antichi abitatori dell'isola. Un problema si presenta però immediato nel momento in cui si recepisce l'ipotesi Shardana = antichi Sardi: costoro erano un popolo indigeno della Sardegna in movimento dalla zona centro-occidentale del Mediterraneo verso quella orientale, unitosi poi ad altre genti per lo più di origine asiatica per venirsi a gettare sulle sponde marittime dell'Egitto? Oppure costituivano un gruppo etnico proveniente da un imprecisato territorio egeo-anatolico o siriano settentrionale, facente parte dell' ampia congerie dei "Popoli del Mare", che era disceso insieme ad essi verso il paese del Nilo e che continuò poi il suo viaggio verso nordovest, finendo per stanziarsi nella grande isola occidentale, la quale poi da essi avrebbe tratto il suo nome? In altre parole, il popolo sardo e la Sardegna erano già una realtà storica nel XIV secolo a.c. (non dimentichiamo che le prime attestazioni dell' etnico" Shardana" risalgono alla fine circa della XVIII dinastia egiziana), o lo divennero dopo il secolo XI, quando gruppi di Shardana giunsero nell'isola, concludendo la loro peregrinazione per tutto il Mediterraneo orientale e centrale? Differenti risposte sono state suggerite per risolvere il dilemma. Sarebbe qui troppo lungo e complicato addentrarsi nei dettagli della discussione: si esporranno perciò soltanto le più recenti ipotesi, l'una della studiosa inglese Sandars, autrice nel 1978 di un articolato e documentato volume sui "Popoli del Mare", e l'altra dello storico francese Gras, che ha esaminato in un'ampia opera del 1985 le antiche vie commerciali del Mar Tirreno. Secondo la Sandars, i Shardana erano una popolazione della Siria settentrionale che si unì alla migrazione di altre genti, oggi note nel loro complesso come "Popoli del Mare"; dopo aver aggredito, saccheggiato e distrutto numerosi centri anatolici e siro-palestinesi, questa massa di genti dalle differenti origini passò per Cipro e venne alla fine a gettarsi sulle rive mediterranee dell'Egitto. Ricacciata in mare dall'esercito del faraone, riprese il suo peregrinare, e si divise nuovamente secondo le varie ernie; i Shardana approdarono alla fine nella maggiore isola tirrenica e le diedero il nome con il quale è sino ad oggi conosciuta. Shekelesh e Tursha si sarebbero stanziati rispettivamente in Sicilia e in Toscana. M. Gras, invece, espone un' opinione completamente diversa: i Shardana e gli altri "Popoli del Mare" (Shekelesh, Tursha, Aqiyaua o Akauash, Peleset, Danuna, Lukku) sarebbero stati contingenti eterogenei di truppe mercenarie al servizio di un grande impero marittimo, che avrebbe raggiunto l'apice della forza nel XIV-XIII secolo a.c. Per lo studioso francese questa potenza mediterranea è da identificarsi nel regno di Micene, che agli inizi del XIV sec. a.c. si era impadronito dell'isola di Creta subentrando allo stato minoico, ed aveva poi progressi vamente esteso i suoi traffici commerciali verso il bacino orientale ed occidentale del Mediterraneo, dopo aver occupato Rodi e Cipro, punti chiave per un'espansione marittima dalle basi sicure. Testimoni dell'ampia diffusione del commercio miceneo sono i ritrovamenti ceramici su tutta la costa siro-palestinese, da Alalakh presso le foci dell'Oronte nel nord a Gaza, alle porte dell'Egitto, nel sud, nell'Egitto stesso, in vari centri marittimi dell'Italia meridionale, della Sicilia, della Sardegna. Secondo Gras, i Micenei raggiunsero la Sardegna fin dal XIV sec. a.c., verosimilmente alla ricerca dei metalli di cui l'isola era ricca; quivi avevano trovato, oltre alle riserve minerarie, anche riserve d'uomini da arruolare come mercenari per le loro guerre, trasportandoli a questo fine di là del loro mare, fino ai territori egei. Per lo studioso francese, dunque, il nome della Sardegna e del suo popolo risalirebbe agli anni intorno al 1300 a.c. e i Shardana sarebbero stati genti sarde impiegate dai Micenei come minatori e come soldati. Come regolarsi per la scelta tra due teorie opposte? La risposta, fino a questo momento, è assai problematica. Fermo restando il fatto che esiste una relazione tra i Shardana delle fonti egiziane e la Sardegna, che pertanto i più antichi cenni a rapporti tra un elemento "sardo" e il paese del Nilo sono quelli contenuti nei testi e nei rilievi templari egiziani, e che tali rapporti consistono nell'esistenza, documentata a partire dal secolo XIV a.c., di un popolo marittimo e guerriero chiamato Shardana, nemico, ma anche mercenario, dei Faraoni, è davvero arduo stabilire chi fossero e donde provenissero i valorosi combattenti del "mezzo del Mare". La mancanza di riferimenti alle genti Shardana nei testi hittiti del XIV-XIII sec. a.C., i quali contengono invece notizie sui Lukka della Licia (o della Caria) e sugli Aqiyaua (Achei), induce a pensare che essi non fossero una popolazione anatolica o nordsiriana. I Shardana compaiono sì per la prima volta in ambiente asiatico, come soldati di stanza a Biblo nelle lettere di Rib-Addi, ma potevano benissimo esser già allora truppe mercenarie egiziane inviate per proteggere la fedele città siriana, bande di arditi scorridori del mare ingaggiatisi al soldo dei faraoni . così come i loro fratelli erano probabilmente al soldo dei re micenei. Ugualmente a favore di un'originaria provenienza sarda dei Shardana parlano le loro armi, tanto simili a quelle che caratterizzano i guerrieri dei bronzetti nuragici. Si può certo obiettare che parecchi secoli separano le figurazioni egiziane di guerrieri Shardana del XII a.c. dalle prime statuette sarde del secolo VIII a.C.: ma si deve tener presente il lungo persistere delle tradizioni di ogni tipo nel mondo antico, e particolarmente delle fogge di abbigliamento e di armamento. Per ricorrere a un esempio analogo, il costume dei dignitari e 1'equipaggiamento dei soldati dell' epoca di Ramses II non differivano di molto da quelli degli Egiziani di quattro secoli dopo; non fa dunque meraviglia che i Sardi del XII secolo a.c. e quelli dell'VIII secolo usassero elmi, scudi e spade simili. L'origine sarda dei Shardana che conosciamo dai testi e dai rilievi egizi ani appare dunque possibile, più di quella vicino-orientale ed anatolica; ma non possediamo nessun dato sicuro per poter emettere un giudizio definitivo e quindi, come è avvenuto per altre dibattute questioni storiche, anche in periodi assai recenti, è soltanto dal proseguire della ricerca archeologica che si potrà avere una schiarita d'orizzonte sul problema delle relazioni tra Shardana e Sardegna e forse, chissà, anche la sentenza risolutiva su di un caso che appassiona gli studiosi da quasi un secolo e mezzo.
Tratto da "EGITTO E SARDEGNA, CONTATTI FRA CULTURE SARDÒ" -
1988 CHIARELLA - SASSARI
Fonte: http://www.realhistoryww.com/
di Gabriella Scandone Matthiae
Il canonico Giovanni Spano, dotto e illustre studioso di antichità sarde ed autore di numerose pubblicazioni sull' argomento, che ancora oggi presentano notevole interesse, scriveva sul Bollettino Archeologico Sardo del 1861 riguardo alla necropoli della città di Tharros: "Nessuna tomba o sepoltura si è scoperta, per piccola che sia, dalla quale non sia venuto fuori qualche amuleto o figurina di divinità che allude ai misteri d'Iside o alla religione egiziana ... è forza conchiudere che qualche colonia egizia vi si fosse stabilita fin da remotissimi tempi". Le sue parole fanno comprendere quanto fortemente la presenza egiziana in terra sarda risaltasse agli occhi dei primi scavatori che abbiano rivolto la propria attenzione alle antichità isolane con fini strettamente scientifici, e non per avidità di tesori o per farne commercio: e ci sembrano la migliore introduzione a un' opera che intende narrare la storia dei rapporti tra la grande isola mediterranea ed il paese del Nilo. La possibilità di definire l'inizio di questi rapporti è legata all'interpretazione di un nome: quello di una delle popolazioni che nei secoli XIII e XII a.c. si riversarono ad ondate successive nel bacino Mediterraneo orientale, provenienti dalle regioni egeo-anatoliche e siriane settentrionali, e giunsero a mettere in pericolo con i loro reiterati attacchi l'impero dei faraoni, dopo aver devastato le coste siro-palestinesi. Le iscrizioni dei sovrani della XIX dinastia Ramses II (1279-1213 a.C.) e Merenptah (1213-1204 a.C.) ci tramandano per la prima volta le effigi e gli appellativi delle varie genti che componevano questa eterogenea mescolanza di etnie, oggi designata collettivamente con l'espressione "Popoli del Mare", che fu impiegata allo scopo per primo dal celebre egittologo francese Gaston Maspéro, oltre 100 anni fa, nel 1881. I loro singoli nomi sono Lukka, Danuna, Shekelesh, Aqiyaua, Tursha, Shardana: per ciascuno di essi gli studiosi di antichità hanno trovato un aggancio con territori e popolazioni menzionate nelle fonti greche e latine, per lo più sulla base di assonanze onomastiche. Così i Lukka sembrano corrispondere ai Lici, abitatori dell' Anatolia sudoccidentale in epoca classica, i Danuna ai Danai citati da Omero, i Shekelesh agli antichi Siculi, gli Aqiyaua agli Achei, anch' essi di omerica memoria, i Tursha ai Tirreni (Etruschi ?) ed i Shardana agli abitanti dell' antica Sardegna. Proprio questi ultimi, per noi particolarmente interessanti, sono ricordati abbastanza frequentemente nelle fonti egiziane dei secoli XIVXI a.C. I più antichi testi che menzionano i Shardana sono tre lettere inviate dal re di Biblo Rib-Addi ad un faraone della XVIII dinastia, Amenophis III (1386-1349 a.c.) o Amenophis IV (1356-1340 a.c.). Esse fanno parte del celebre complesso di corrispondenza diplomatica conosciuto come "Lettere di Amarna" dal nome del sito egiziano ove fu rinvenuto nel 1887-88; sono redatte in scrittura cuneiforme ed in lingua babilonese, che era l'idioma internazionale dell' epoca, una sorta di "inglese" del tempo, e trattano delle continue minacce che la città-stato di Biblo, porto commerciale della costa libanese legatissimo all'Egitto sin dalla fine del III millennio a.C., riceveva da un sovrano siriano desideroso di impadronirsene. Rib-Addi, fedelissimo al faraone, invocava con esse il soccorso delle truppe egiziane per respingere i tentativi del nemico, e accennava, tra le altre innumerevoli difficoltà, all'uccisione di soldati Shardana, che verosimilmente dovevano essere impiegati a Biblo come mercenari. I Shardana sono poi citati varie volte, come si è già accennato, nelle iscrizioni storiche di Ramses II della XIX dinastia: sia nei testi che accompagnano le grandiose scene scolpite sulle pareti dei templi di Luxor, Karnak, Abido ed Abu Simbel, ove è esaltato il valore guerriero del sovrano, sia in quelli incisi su talune stele, una delle quali è nota proprio come "Stele dei Shardana". Essi sono ricordati come uno dei "Popoli del Mare" che, allora per la prima volta, giunsero fino a saccheggiare le sponde egiziane mediterranee, per esservi sconfitti da Ramses: " ... I turbolenti Shardana, che nessuno aveva saputo combattere, essi vennero sfacciatamente sulle loro navi da guerra dal mezzo del mare, e nessuno poteva opporsi a loro. Ma egli li piegò con la forza del suo valido braccio, e li portò in Egitto". I Shardana vengono qui descritti come pirati e predoni sì, ma anche come guerrieri arditi e coraggiosi: quindi Ramses II, dando prova di encomiabile senso pratico, pensò di sfruttare questi loro pregi, inglobandoli nel suo esercito in qualità di truppe mercenarie. Come tali essi sono ricordati nel racconto della partenza della spedizione siriana del 1274 a.c., che ebbe il suo momento epico cruciale nella battaglia per la conquista della città di Qadesh, nella Siria centrosettentrionale: "Quando Sua Maestà ebbe approntato le truppe, i carri e i Shardana che aveva vittoriosamente catturato, tutti equipaggiati con le loro armi, e comunicato loro i suoi piani di battaglia, allora Sua Maestà partì verso nord con le sue forze". Durante il regno di Ramses II i "Popoli del Mare" non costituivano ancora un serio pericolo per l'Egitto; lo divennero sotto il suo tredicesimo figlio e successore Merenptah, che li dovette affrontare nel suo Vanno di regno (1209 a.Cv), insieme ad una coalizione di genti libiche, e ne ebbe ragione dopo un' aspra battaglia combattuta nel Delta egiziano occidentale e durata sei ore. Tra questi "Popoli del Mare" vi erano nuclei di Shardana, che si trovarono così a combattere su entrambi i fronti, sia come invasori sia come truppe mercenarie degli Egiziani. È forse a questa singolare situazione che alludono dei passi dei Papiri Anastasi I e II, ove sembra si parli di Shardana mercenari del faraone che avrebbero fatto prigionieri in battaglia i propri congiunti. La minaccia si ripresentò, assai peggiore, all'epoca di Ramses IlI, l'unico sovrano rimarchevole della XX dinastia (1185-1154 a.C}, che modellò tutta la propria vita su quella del suo illustre predecessore Ramses II. Ramses III dovette affrontare in durissime battaglie campali i "Popoli del Mare" e i loro alleati libici, e particolarmente i Shardana: le vittorie che riportò su di essi sono immortalate nei grandi rilievi parietali del suo tempio funerario a Medinet Habu, presso Tebe. Ancora una volta, come già ai tempi di Merenptah, i Shardana non erano solo tra gli invasori, ma comparivano anche tra i soldati del faraone, insieme ad altri contingenti mercenari costituiti da "Popoli del Mare" assoggettati. Un altro documento della XX dinastia, il Papiro Wilbour dell'epoca di Ramses V (1148-1144 a.C}, cita i Shardana non più come pericolosi guerrieri: qui essi figurano già integrati nella società egiziana, e ricevono in ricompensa dei servigi resi delle proprietà terriere. In questo caso particolare, ci troviamo di fronte evidentemente a discendenti dei mercenari Shardana, che continuavano ad esercitare il mestiere dei loro padri presso il Faraone. Abbiamo detto poc' anzi che gli studiosi hanno accostato il nome dei Shardana a quello della Sardegna in base ad un'assonanza linguistica: ma non è questo il solo motivo che ha indotto molti storici ad ipotizzare l'identità tra il popolo citato nei testi egiziani e gli antichi abitanti della grande isola mediterranea. Esistono infatti anche elementi di carattere iconografico che hanno orientato in tal senso l'opinione dei ricercatori: i rilievi di Ramses III riproducono svariati gruppi di "Popoli del Mare", i quali si diversificano per la fisionomia, 1'abbigliamento, le armi, i copricapi. L'identificazione delle singole etnie è resa possibile grazie ai testi incisi accanto a ciascun gruppo, come una sorta di didascalie delle singole scene. Si deve osservare che i "Popoli del Mare" figurano riuniti in gruppi ordinati solo al momento della cattura, o se inglobati nell' esercito egiziano; nelle grandi riproduzioni delle battaglie navali, invece, i nemici compaiono in una caotica mescolanza, in contrapposizione all' allineamento perfetto dell' armata faraonica, ed è pertanto impossibile in questo caso distinguere le varie etnie. Per quanto riguarda particolarmente i Shardana, si deve aggiungere alla documentazione dell' epoca di Ramses III quella più antica costituita dai rilievi della battaglia di Qadesh combattuta da Ramses II, ove essi sono ritratti nei ranghi dell' esercito egiziano: quivi spiccano per il carattere particolare delle armi e per i tratti del volto alquanto marcati e grossolani. A differenza degli Egiziani dai lunghi capelli, i Shardana sono rasati completamente; sul capo recano un elmo rotondo a corna, con una protuberanza centrale sormontata da un dischetto, e sono armati con lunghe lance, lunghe spade ed uno scudo rotondo piuttosto piccolo, mentre gli Egiziani sono a testa scoperta e portano scudi lunghi dalla parte superiore arrotondata, lance più corte, asce e lo speciale tipo di falcetto noto come Khepesh. Uguale armamento mostrano i Shardana quando compaiono come mercenari di Ramses III, mentre quando sono ritratti tra i nemici si differenziano dai loro simili "egizianizzati" per l'elmo più allungato sulla nuca e privo della protuberanza centrale, per il gonnellino del tipo usualmente attribuito dagli Egiziani ai popoli stranieri e, nel caso di un capo o di una persona autorevole, per una folta barba. Gli elmi cornuti, le lunghe spade a lama larga ed aguzza con costolatura centrale, i piccoli scudi rotondi che abbiamo visto caratterizzare i Shardana sia come mercenari dei faraoni, sia tra i "Popoli del Mare" invasori dei rilievi di Ramses III, presentano una innegabile somiglianza con l'armamento dei guerrieri riprodotti nei celebri bronzetti nuragici. Proprio questa somiglianza, accanto all'assonanza dei termini Shardana-Sardegna, è 1'altro elemento che ha indotto gli studiosi, primi tra i quali i francesi E. De Rougé e F. Chabas alla metà del secolo scorso, ad identificare nel misterioso popolo di valorosi combattenti provenienti dal "mezzo del Mare", secondo l'espressione dei testi egiziani, gli antichi abitatori dell'isola. Un problema si presenta però immediato nel momento in cui si recepisce l'ipotesi Shardana = antichi Sardi: costoro erano un popolo indigeno della Sardegna in movimento dalla zona centro-occidentale del Mediterraneo verso quella orientale, unitosi poi ad altre genti per lo più di origine asiatica per venirsi a gettare sulle sponde marittime dell'Egitto? Oppure costituivano un gruppo etnico proveniente da un imprecisato territorio egeo-anatolico o siriano settentrionale, facente parte dell' ampia congerie dei "Popoli del Mare", che era disceso insieme ad essi verso il paese del Nilo e che continuò poi il suo viaggio verso nordovest, finendo per stanziarsi nella grande isola occidentale, la quale poi da essi avrebbe tratto il suo nome? In altre parole, il popolo sardo e la Sardegna erano già una realtà storica nel XIV secolo a.c. (non dimentichiamo che le prime attestazioni dell' etnico" Shardana" risalgono alla fine circa della XVIII dinastia egiziana), o lo divennero dopo il secolo XI, quando gruppi di Shardana giunsero nell'isola, concludendo la loro peregrinazione per tutto il Mediterraneo orientale e centrale? Differenti risposte sono state suggerite per risolvere il dilemma. Sarebbe qui troppo lungo e complicato addentrarsi nei dettagli della discussione: si esporranno perciò soltanto le più recenti ipotesi, l'una della studiosa inglese Sandars, autrice nel 1978 di un articolato e documentato volume sui "Popoli del Mare", e l'altra dello storico francese Gras, che ha esaminato in un'ampia opera del 1985 le antiche vie commerciali del Mar Tirreno. Secondo la Sandars, i Shardana erano una popolazione della Siria settentrionale che si unì alla migrazione di altre genti, oggi note nel loro complesso come "Popoli del Mare"; dopo aver aggredito, saccheggiato e distrutto numerosi centri anatolici e siro-palestinesi, questa massa di genti dalle differenti origini passò per Cipro e venne alla fine a gettarsi sulle rive mediterranee dell'Egitto. Ricacciata in mare dall'esercito del faraone, riprese il suo peregrinare, e si divise nuovamente secondo le varie ernie; i Shardana approdarono alla fine nella maggiore isola tirrenica e le diedero il nome con il quale è sino ad oggi conosciuta. Shekelesh e Tursha si sarebbero stanziati rispettivamente in Sicilia e in Toscana. M. Gras, invece, espone un' opinione completamente diversa: i Shardana e gli altri "Popoli del Mare" (Shekelesh, Tursha, Aqiyaua o Akauash, Peleset, Danuna, Lukku) sarebbero stati contingenti eterogenei di truppe mercenarie al servizio di un grande impero marittimo, che avrebbe raggiunto l'apice della forza nel XIV-XIII secolo a.c. Per lo studioso francese questa potenza mediterranea è da identificarsi nel regno di Micene, che agli inizi del XIV sec. a.c. si era impadronito dell'isola di Creta subentrando allo stato minoico, ed aveva poi progressi vamente esteso i suoi traffici commerciali verso il bacino orientale ed occidentale del Mediterraneo, dopo aver occupato Rodi e Cipro, punti chiave per un'espansione marittima dalle basi sicure. Testimoni dell'ampia diffusione del commercio miceneo sono i ritrovamenti ceramici su tutta la costa siro-palestinese, da Alalakh presso le foci dell'Oronte nel nord a Gaza, alle porte dell'Egitto, nel sud, nell'Egitto stesso, in vari centri marittimi dell'Italia meridionale, della Sicilia, della Sardegna. Secondo Gras, i Micenei raggiunsero la Sardegna fin dal XIV sec. a.c., verosimilmente alla ricerca dei metalli di cui l'isola era ricca; quivi avevano trovato, oltre alle riserve minerarie, anche riserve d'uomini da arruolare come mercenari per le loro guerre, trasportandoli a questo fine di là del loro mare, fino ai territori egei. Per lo studioso francese, dunque, il nome della Sardegna e del suo popolo risalirebbe agli anni intorno al 1300 a.c. e i Shardana sarebbero stati genti sarde impiegate dai Micenei come minatori e come soldati. Come regolarsi per la scelta tra due teorie opposte? La risposta, fino a questo momento, è assai problematica. Fermo restando il fatto che esiste una relazione tra i Shardana delle fonti egiziane e la Sardegna, che pertanto i più antichi cenni a rapporti tra un elemento "sardo" e il paese del Nilo sono quelli contenuti nei testi e nei rilievi templari egiziani, e che tali rapporti consistono nell'esistenza, documentata a partire dal secolo XIV a.c., di un popolo marittimo e guerriero chiamato Shardana, nemico, ma anche mercenario, dei Faraoni, è davvero arduo stabilire chi fossero e donde provenissero i valorosi combattenti del "mezzo del Mare". La mancanza di riferimenti alle genti Shardana nei testi hittiti del XIV-XIII sec. a.C., i quali contengono invece notizie sui Lukka della Licia (o della Caria) e sugli Aqiyaua (Achei), induce a pensare che essi non fossero una popolazione anatolica o nordsiriana. I Shardana compaiono sì per la prima volta in ambiente asiatico, come soldati di stanza a Biblo nelle lettere di Rib-Addi, ma potevano benissimo esser già allora truppe mercenarie egiziane inviate per proteggere la fedele città siriana, bande di arditi scorridori del mare ingaggiatisi al soldo dei faraoni . così come i loro fratelli erano probabilmente al soldo dei re micenei. Ugualmente a favore di un'originaria provenienza sarda dei Shardana parlano le loro armi, tanto simili a quelle che caratterizzano i guerrieri dei bronzetti nuragici. Si può certo obiettare che parecchi secoli separano le figurazioni egiziane di guerrieri Shardana del XII a.c. dalle prime statuette sarde del secolo VIII a.C.: ma si deve tener presente il lungo persistere delle tradizioni di ogni tipo nel mondo antico, e particolarmente delle fogge di abbigliamento e di armamento. Per ricorrere a un esempio analogo, il costume dei dignitari e 1'equipaggiamento dei soldati dell' epoca di Ramses II non differivano di molto da quelli degli Egiziani di quattro secoli dopo; non fa dunque meraviglia che i Sardi del XII secolo a.c. e quelli dell'VIII secolo usassero elmi, scudi e spade simili. L'origine sarda dei Shardana che conosciamo dai testi e dai rilievi egizi ani appare dunque possibile, più di quella vicino-orientale ed anatolica; ma non possediamo nessun dato sicuro per poter emettere un giudizio definitivo e quindi, come è avvenuto per altre dibattute questioni storiche, anche in periodi assai recenti, è soltanto dal proseguire della ricerca archeologica che si potrà avere una schiarita d'orizzonte sul problema delle relazioni tra Shardana e Sardegna e forse, chissà, anche la sentenza risolutiva su di un caso che appassiona gli studiosi da quasi un secolo e mezzo.
Tratto da "EGITTO E SARDEGNA, CONTATTI FRA CULTURE SARDÒ" -
1988 CHIARELLA - SASSARI
Fonte: http://www.realhistoryww.com/
Sulki, l'attuale Sant'Antioco, in età fenicia e punica
Sant’Antioco - Sulki
di Pierluigi Montalbano
Le fonti romane ci parlano di Sulci mentre in lingua semitica, in fenicio, era Sulki. Si trova sul versante orientale dell'omonima isola, e il reimpianto moderno del paese ha determinato lo spoglio sistematico delle strutture antiche. Le fortificazioni chiudevano la città e il tophet, il santuario a cielo aperto che ospitava i bambini nati morti, o in giovanissima età, era, come di consueto per quel genere di luoghi, al di fuori delle mura.
Nell’area del cronicario, in corrispondenza dell’attuale ospedale, furono individuati negli anni Ottanta alcuni ambienti abitativi che si riferiscono all’VIII a.C. É un rinvenimento importante perché in tutta la Sardegna abbiamo solo poche tracce degli insediamenti arcaici: qualche muro e una striscia di fondazione a Cagliari, un battuto a Nora, poco a Tharros. A Sulki non c’è monumentalità, solo due isolati con una serie di vani che presentano pavimenti in terra battuta, muri con zoccolo in pietrame bruto, cementato con malta di fango, e un alzato, oggi scomparso, in mattoni crudi. Parte dei materiali frammentari rinvenuti sono di importazione (euboici di Pitecusa e corinzi), ma altri sono di produzione mediterranea, e mostrano che la città fu frequentata commercialmente particolarmente intorno al 750 a.C. Alcuni materiali levantini sono di ispirazione varia, come la coppa con forma greca, decorata in quello stile tipico dell'età fenicia, con un volatile ripreso chiaramente dal repertorio euboico di Ischia, primo emporio greco in occidente.
Le fortificazioni si trovano nella zona del fortino sabaudo, nell’area destinata all'Acropoli. Gli scavi furono condotti inizialmente da Pesce, poi da Barreca negli anni Settanta e recentemente da Tronchetti, e hanno portato alla luce delle strutture che iniziano dietro il fortino e arrivano a una torre. Bartoloni sostiene che le fondazioni del fortino utilizzano la base della precedente torre punica perché la forma a zig-zag e i blocchi sono tipicamente punici. Le mura corrono fino ad una torre elicoidale addossata a una roccia e poi piegano verso il mare, chiudendo la città. In questo ultimo tratto si trova la necropoli punica. Dietro la chiesa di Sant’Antioco si trova un breve tratto realizzato in blocchi squadrati, in parte bugnati e messi in opera a secco. Barreca ha individuato un camminamento di ronda, ma non lo ha mai pubblicato. Nell’area alta dell’acropoli, vicino al deposito della Soprintendenza, ci sono delle strutture bugnate in calcare chiaro e tufo scuro. Vicino a questa zona troviamo un edificio con otto colonne di età repubblicana, di incerta interpretazione, che racchiude due ambienti.
La datazione delle fortificazioni è fonte di dibattito fra studiosi. Per Barreca, che le individua nella parte alta del Monte de Cresia e nell'Acropoli vicino al fortino sabaudo, sono di età fenicia (come le altre che scavò in giro per la Sardegna), costituite da spesse mura in pietrame bruto a doppio paramento. In seguito ci furono una fase tardo punica, contraddistinta da blocchi squadrati, e una fase romana.
Bartoloni, già dagli anni Ottanta, non accetta questa ipotesi, proponendo che nessuna delle città di età fenicia avesse fortificazioni e che queste, come tutte le altre strutture, si realizzarono solo a partire dall’inizio del V a.C. quando la Sardegna affrontò i cartaginesi che tentavano di sottometterla.
Tronchetti negli anni Novanta ha scavato nelle strutture delle fondazioni trovando materiali romani. Per lo studioso le mura sono state impiantate in età repubblicana con tecnica punica ma ha sondato solo pochi punti. Bisognerebbe riprendere gli scavi perché attualmente i dati sono contradditori. Negli anni Ottanta sono stati trovati i “Leoni di Sulci”, due grandi animali esposti al museo di Sant’Antioco, in posizione accosciata e con la coda rigirata attorno ad una zampa.
Sono inquadrati all’interno di un elemento che regola lo spazio con una base tronco-piramidale, rastremata verso l’alto, sormontata da un listello-toro, con sopra una gola egizia. Nella parte posteriore c’è una superficie piana con un incasso a sezione triangolare, forse per consentire l’inserimento dei leoni in una struttura monumentale. Al momento del rinvenimento i leoni erano reimpiegati ai lati di una nicchia chiusa da un muro rettilineo a due filari. Davanti abbiamo una grande arena ellittica delimitata da blocchi. La struttura è stata riferita a età repubblicana, quindi i leoni, essendo più antichi, furono certamente utilizzati per decorare un'altra struttura, probabilmente di tipo ellenistico con terrazze. Essendo fuori contesto si può fare una datazione solo su base stilistica. I leoni sono di tradizione orientale, siriana o siro-palestinese, che si mescola con influenze assire ed ittite. Questo tipo di leoni in oriente erano utilizzati nelle porte dei templi. Per alcuni studiosi ci sono influssi greci mediati dall’elemento etrusco. La cronologia porta al VI a.C. e la loro funzione era legata alla destinazione d’uso dell’area: militare per Moscati e Barreca, perché vicina alle fortificazioni e perché forse erano sistemati ai lati della porta di ingresso; religiosa per Bartoloni e Tronchetti perché dopo la collocazione militare l’area fu risistemata con una struttura di età repubblicana con un vano diviso in due, una serie di colonne e pavimento in cocciopesto con tessere bianche, quindi un tempio con i due leoni ai lati dell’ingresso. Bernardini, di recente, ha avanzato un’altra ipotesi: c’era la destinazione sacra dall’inizio e le statue erano all’interno di una struttura punica come braccioli di un trono monumentale.
Alcuni vasi funerari arcaici, quasi intatti, sono visibili in collezioni private di Sant’Antioco ma non conosciamo l’ubicazione del cimitero di età fenicia, a eccezione di una sepoltura scavata presso Piazza Italia, a 100 m dal mare, e datata al VII a.C. La necropoli punica è in parte ricoperta dall’attuale urbanizzazione. Si trova a valle delle fortificazioni, all’interno del fossato. Sono sepolture in grandi camere e, come quelle di Tuvixeddu a Cagliari, sono state riutilizzate fino al secolo scorso come abitazioni. Ci sono due varianti: la più antica, datata agli inizi del V a.C., è costituita da tombe con dromos larghi e monumentali con scale ben definite, e camera rettangolare. Le più recenti, del IV a.C., sono ancora più grandi, con dromos stretto e camera separata da un tramezzo, risparmiato nella roccia, che delimita due vani ben distinti.
All’interno la deposizione funeraria era spesso praticata all’interno di bare lignee in cui si sono ben conservati i resti delle ceramiche di corredo e qualche legno. La copertura era a lastre e sopra c’erano i segnacoli in pietra. In epoca romana le tombe puniche sono state riutilizzate come catacombe, a volte unendo le varie camere. Sotto la chiesa ci sono molte di queste tombe e l’area è visitabile: attualmente c'è un ristorante, dietro la chiesa della piazza, che conserva alcune tombe nella cantina. Le bare erano spesso poggiate su due blocchi in pietra, sollevate dal suolo. C’è anche la presenza di linee di pitture sulle pareti, come nelle tombe africane degli antichi libici, gli indigeni trovati dai levantini durante le navigazioni commerciali mediterranee. I cartaginesi non si sono mischiati con loro e con i libici. Pur subendo l’influenza della tradizione punica, hanno mantenuto alcuni tratti caratteristici della loro cultura che poi hanno portato nelle loro città. Quando i cartaginesi conquistarono commercialmente la Sicilia e la Sardegna, attuarono una politica capillare di sfruttamento delle risorse agrarie e minerarie, attuando il ripopolamento nelle colonie perché i nuclei di sardi erano minimi. A questo scopo inviarono intere comunità di africani in Sardegna, costituite solo in minima parte da cartaginesi: alcuni suffeti (prefetti) e qualche amministratore, mentre la maggior parte era composta da indigeni punicizzati. In sostanza la cultura si è miscelata fra libici, punici e sardi, e ciò spiega i segni di pittura in ocra rossa sulle pareti delle tombe, così come si notano a Cagliari, Tharros, Olbia e Monte Luna, mentre a Cartagine non ci sono tombe dipinte.
A Sant’Antioco negli anni Novanta sono stati trovati due importanti altorilievi posizionati sulla testata dei tramezzi, con lo scopo di dividere in due la tomba. Uno di essi è stato restaurato malamente, nel senso che i caratteri originari non sono stati rispettati, ed è in corso un recupero per riportarlo all’antico. Si tratta di un personaggio maschile con barba, con vesti egizie e in posizione incedente. Un braccio al petto e l’altro lungo i fianchi, con tracce di nero e arancio. La mano poggiata al petto porta dei bracciali. La datazione è del V a.C. L’altro, quello scavato da Bernardini, è colorato vivacemente, sempre di nero e arancio, e per evitare il degrado, è stato richiuso nella tomba.
Il tophet si trova all’esterno delle mura, vicino alla torre con blocchi bugnati, ed è datato all’VIII a.C. Fu scavato negli anni Cinquanta da Pesce e mai pubblicato, ma sono state pubblicate le 1500 stele. Impiantato in terreno vergine, sul cosiddetto roccione sacro, presenta urne inserite nelle spaccature della roccia trachitica, frequentemente in pentole coperte con piatti. Uno dei più importanti materiali restituiti è un’olla pitecusana (euboica) datata al 730 a.C. Questo vaso non dovrebbe trovarsi in un tophet, forse si tratta di un ricco commerciante levantino che per deporre suo figlio ha comprato un vaso di grande pregio e l’ha deposto nel tophet, oppure si tratta di un greco euboico che praticava il culto fenicio. Non si è certi se all'interno vi sia un bambino sulcitano figlio di orientali o pitecusano o euboico, ma comunque è uno straniero. C’è anche un’anfora, a corpo ovoidale, in stile fenicio del VIII a.C. che ci rimanda ad ambito cartaginese perché la decorazione metopale a red slip, è tipica di Cartagine. Le urne ricollocate nel sito sono riproduzioni, per non sottoporre le originali al degrado naturale.
Le stele di Sant’Antioco mostrano cippi semplici, a trono e a edicola che nella fase centrale del V a.C. mostrano una forte influenza egiziana. Alcune raffigurazioni presentano edifici sacri con pilastri, senza colonne, sormontati da una trabeazione e da una modanatura a gola egizia delimitata da listelli. Sopra c’è la decorazione ad urei con disco solare (serpenti sacri simboli solari), tipico fregio del coronamento dei templi egiziani. I personaggi sono vari: femminile con fiore di loto oppure con disco al petto (per alcuni si tratta di un tamburello per riti musicali); divinità aniconiche; sacerdotesse varie; personaggi maschili con barba e con una lancia in mano e dietro il tipico ricciolo che troviamo nella tiara di tipo siriano (quindi un elemento orientale). Moscati sostiene che il personaggio femminile sia una sacerdotessa intenta a suonare un timpano, e quello con la stola sarebbe il sacerdote. La stele ad edicola con questi personaggi è fra le più diffuse nell'iconografia sulcitana e non trova riscontro altrove. Quando i personaggi poggiano i piedi su un podio siamo certi che si tratta di divinità. La maggior parte dei capitelli non sono greci, spesso sono ripresi dall’architettura egizia.
Curiosamente, mentre altrove le stele a edicola scompaiono nel VI a.C., qui a Sulki continuano, pur trasformandosi. Nelle stele troviamo delle edicole con elementi classici greci sia nell'architettura che, gradualmente, nella iconografia delle nicchie. I personaggi hanno veste classica, anche se il significato è lo stesso: si passa da personaggi maschili con stola a personaggi femminili con disco. L'edicola ha capitelli, colonne e timpano con acroteri senza trabeazione (ancora simboli punici). La prima innovazione è il timpano. C'è un personaggio femminile con disco nel petto che mantiene abiti punici. In una colonna c'è un personaggio con stola e veste classica, timpano con acroteri con all'interno una rosetta. Abbiamo anche una stele polimaterica meno pregiata datata al II a.C. con colonne scanalate, capitelli senza trabeazione, timpano, acroteri e personaggio con stola. Si arriva alle ultime rappresentazioni che sono in materiale meno pregiato, ad esempio marmo, dove si vede l'influenza del mondo classico con fattezze tipiche greche.
Mentre a Cartagine nel terzo strato di scavo si passa alla stele piatta che diventa un supporto per la rappresentazione, a Sant’Antioco abbiamo un fenomeno unico, con l’edicola tridimensionale che presenta però elementi classici inseriti in maniera artificiosa nello schema preesistente. Al posto dei pilastri compaiono delle colonne doriche, e il timpano è fiancheggiato da acroteri, ma scompare la trabeazione, fatto che causerebbe il crollo del tempio. Ciò è testimoniato dal fatto che non esistono templi fatti in questo modo. Al centro del timpano c’è la falce lunare che sormonta il disco solare, simbolo sardo-punico. Rimane la figura femminile con disco al petto o personaggi maschili con rosetta. La Dea Tanìt ha sulla spalla una stola, una veste di tipo classico, greco, contravvenendo alla moda precedente. Si giunge, dunque, a una commistione di stili e tradizioni.
Nel II a.C. si arriva a stele in marmo, edicola classica e personaggio con stola. Un’altra tipologia è quella con stele centinata, che ricompare in età tarda, intorno al III a.C., caratterizzate da animali (ovi-caprini) in atteggiamento di movimento. Stranamente questa tipologia ricompare dopo secoli di assenza, forse si tratta di animali sacrificati nei tophet.
di Pierluigi Montalbano
Le fonti romane ci parlano di Sulci mentre in lingua semitica, in fenicio, era Sulki. Si trova sul versante orientale dell'omonima isola, e il reimpianto moderno del paese ha determinato lo spoglio sistematico delle strutture antiche. Le fortificazioni chiudevano la città e il tophet, il santuario a cielo aperto che ospitava i bambini nati morti, o in giovanissima età, era, come di consueto per quel genere di luoghi, al di fuori delle mura.
Nell’area del cronicario, in corrispondenza dell’attuale ospedale, furono individuati negli anni Ottanta alcuni ambienti abitativi che si riferiscono all’VIII a.C. É un rinvenimento importante perché in tutta la Sardegna abbiamo solo poche tracce degli insediamenti arcaici: qualche muro e una striscia di fondazione a Cagliari, un battuto a Nora, poco a Tharros. A Sulki non c’è monumentalità, solo due isolati con una serie di vani che presentano pavimenti in terra battuta, muri con zoccolo in pietrame bruto, cementato con malta di fango, e un alzato, oggi scomparso, in mattoni crudi. Parte dei materiali frammentari rinvenuti sono di importazione (euboici di Pitecusa e corinzi), ma altri sono di produzione mediterranea, e mostrano che la città fu frequentata commercialmente particolarmente intorno al 750 a.C. Alcuni materiali levantini sono di ispirazione varia, come la coppa con forma greca, decorata in quello stile tipico dell'età fenicia, con un volatile ripreso chiaramente dal repertorio euboico di Ischia, primo emporio greco in occidente.
Le fortificazioni si trovano nella zona del fortino sabaudo, nell’area destinata all'Acropoli. Gli scavi furono condotti inizialmente da Pesce, poi da Barreca negli anni Settanta e recentemente da Tronchetti, e hanno portato alla luce delle strutture che iniziano dietro il fortino e arrivano a una torre. Bartoloni sostiene che le fondazioni del fortino utilizzano la base della precedente torre punica perché la forma a zig-zag e i blocchi sono tipicamente punici. Le mura corrono fino ad una torre elicoidale addossata a una roccia e poi piegano verso il mare, chiudendo la città. In questo ultimo tratto si trova la necropoli punica. Dietro la chiesa di Sant’Antioco si trova un breve tratto realizzato in blocchi squadrati, in parte bugnati e messi in opera a secco. Barreca ha individuato un camminamento di ronda, ma non lo ha mai pubblicato. Nell’area alta dell’acropoli, vicino al deposito della Soprintendenza, ci sono delle strutture bugnate in calcare chiaro e tufo scuro. Vicino a questa zona troviamo un edificio con otto colonne di età repubblicana, di incerta interpretazione, che racchiude due ambienti.
La datazione delle fortificazioni è fonte di dibattito fra studiosi. Per Barreca, che le individua nella parte alta del Monte de Cresia e nell'Acropoli vicino al fortino sabaudo, sono di età fenicia (come le altre che scavò in giro per la Sardegna), costituite da spesse mura in pietrame bruto a doppio paramento. In seguito ci furono una fase tardo punica, contraddistinta da blocchi squadrati, e una fase romana.
Bartoloni, già dagli anni Ottanta, non accetta questa ipotesi, proponendo che nessuna delle città di età fenicia avesse fortificazioni e che queste, come tutte le altre strutture, si realizzarono solo a partire dall’inizio del V a.C. quando la Sardegna affrontò i cartaginesi che tentavano di sottometterla.
Tronchetti negli anni Novanta ha scavato nelle strutture delle fondazioni trovando materiali romani. Per lo studioso le mura sono state impiantate in età repubblicana con tecnica punica ma ha sondato solo pochi punti. Bisognerebbe riprendere gli scavi perché attualmente i dati sono contradditori. Negli anni Ottanta sono stati trovati i “Leoni di Sulci”, due grandi animali esposti al museo di Sant’Antioco, in posizione accosciata e con la coda rigirata attorno ad una zampa.
Sono inquadrati all’interno di un elemento che regola lo spazio con una base tronco-piramidale, rastremata verso l’alto, sormontata da un listello-toro, con sopra una gola egizia. Nella parte posteriore c’è una superficie piana con un incasso a sezione triangolare, forse per consentire l’inserimento dei leoni in una struttura monumentale. Al momento del rinvenimento i leoni erano reimpiegati ai lati di una nicchia chiusa da un muro rettilineo a due filari. Davanti abbiamo una grande arena ellittica delimitata da blocchi. La struttura è stata riferita a età repubblicana, quindi i leoni, essendo più antichi, furono certamente utilizzati per decorare un'altra struttura, probabilmente di tipo ellenistico con terrazze. Essendo fuori contesto si può fare una datazione solo su base stilistica. I leoni sono di tradizione orientale, siriana o siro-palestinese, che si mescola con influenze assire ed ittite. Questo tipo di leoni in oriente erano utilizzati nelle porte dei templi. Per alcuni studiosi ci sono influssi greci mediati dall’elemento etrusco. La cronologia porta al VI a.C. e la loro funzione era legata alla destinazione d’uso dell’area: militare per Moscati e Barreca, perché vicina alle fortificazioni e perché forse erano sistemati ai lati della porta di ingresso; religiosa per Bartoloni e Tronchetti perché dopo la collocazione militare l’area fu risistemata con una struttura di età repubblicana con un vano diviso in due, una serie di colonne e pavimento in cocciopesto con tessere bianche, quindi un tempio con i due leoni ai lati dell’ingresso. Bernardini, di recente, ha avanzato un’altra ipotesi: c’era la destinazione sacra dall’inizio e le statue erano all’interno di una struttura punica come braccioli di un trono monumentale.
Alcuni vasi funerari arcaici, quasi intatti, sono visibili in collezioni private di Sant’Antioco ma non conosciamo l’ubicazione del cimitero di età fenicia, a eccezione di una sepoltura scavata presso Piazza Italia, a 100 m dal mare, e datata al VII a.C. La necropoli punica è in parte ricoperta dall’attuale urbanizzazione. Si trova a valle delle fortificazioni, all’interno del fossato. Sono sepolture in grandi camere e, come quelle di Tuvixeddu a Cagliari, sono state riutilizzate fino al secolo scorso come abitazioni. Ci sono due varianti: la più antica, datata agli inizi del V a.C., è costituita da tombe con dromos larghi e monumentali con scale ben definite, e camera rettangolare. Le più recenti, del IV a.C., sono ancora più grandi, con dromos stretto e camera separata da un tramezzo, risparmiato nella roccia, che delimita due vani ben distinti.
All’interno la deposizione funeraria era spesso praticata all’interno di bare lignee in cui si sono ben conservati i resti delle ceramiche di corredo e qualche legno. La copertura era a lastre e sopra c’erano i segnacoli in pietra. In epoca romana le tombe puniche sono state riutilizzate come catacombe, a volte unendo le varie camere. Sotto la chiesa ci sono molte di queste tombe e l’area è visitabile: attualmente c'è un ristorante, dietro la chiesa della piazza, che conserva alcune tombe nella cantina. Le bare erano spesso poggiate su due blocchi in pietra, sollevate dal suolo. C’è anche la presenza di linee di pitture sulle pareti, come nelle tombe africane degli antichi libici, gli indigeni trovati dai levantini durante le navigazioni commerciali mediterranee. I cartaginesi non si sono mischiati con loro e con i libici. Pur subendo l’influenza della tradizione punica, hanno mantenuto alcuni tratti caratteristici della loro cultura che poi hanno portato nelle loro città. Quando i cartaginesi conquistarono commercialmente la Sicilia e la Sardegna, attuarono una politica capillare di sfruttamento delle risorse agrarie e minerarie, attuando il ripopolamento nelle colonie perché i nuclei di sardi erano minimi. A questo scopo inviarono intere comunità di africani in Sardegna, costituite solo in minima parte da cartaginesi: alcuni suffeti (prefetti) e qualche amministratore, mentre la maggior parte era composta da indigeni punicizzati. In sostanza la cultura si è miscelata fra libici, punici e sardi, e ciò spiega i segni di pittura in ocra rossa sulle pareti delle tombe, così come si notano a Cagliari, Tharros, Olbia e Monte Luna, mentre a Cartagine non ci sono tombe dipinte.
A Sant’Antioco negli anni Novanta sono stati trovati due importanti altorilievi posizionati sulla testata dei tramezzi, con lo scopo di dividere in due la tomba. Uno di essi è stato restaurato malamente, nel senso che i caratteri originari non sono stati rispettati, ed è in corso un recupero per riportarlo all’antico. Si tratta di un personaggio maschile con barba, con vesti egizie e in posizione incedente. Un braccio al petto e l’altro lungo i fianchi, con tracce di nero e arancio. La mano poggiata al petto porta dei bracciali. La datazione è del V a.C. L’altro, quello scavato da Bernardini, è colorato vivacemente, sempre di nero e arancio, e per evitare il degrado, è stato richiuso nella tomba.
Il tophet si trova all’esterno delle mura, vicino alla torre con blocchi bugnati, ed è datato all’VIII a.C. Fu scavato negli anni Cinquanta da Pesce e mai pubblicato, ma sono state pubblicate le 1500 stele. Impiantato in terreno vergine, sul cosiddetto roccione sacro, presenta urne inserite nelle spaccature della roccia trachitica, frequentemente in pentole coperte con piatti. Uno dei più importanti materiali restituiti è un’olla pitecusana (euboica) datata al 730 a.C. Questo vaso non dovrebbe trovarsi in un tophet, forse si tratta di un ricco commerciante levantino che per deporre suo figlio ha comprato un vaso di grande pregio e l’ha deposto nel tophet, oppure si tratta di un greco euboico che praticava il culto fenicio. Non si è certi se all'interno vi sia un bambino sulcitano figlio di orientali o pitecusano o euboico, ma comunque è uno straniero. C’è anche un’anfora, a corpo ovoidale, in stile fenicio del VIII a.C. che ci rimanda ad ambito cartaginese perché la decorazione metopale a red slip, è tipica di Cartagine. Le urne ricollocate nel sito sono riproduzioni, per non sottoporre le originali al degrado naturale.
Le stele di Sant’Antioco mostrano cippi semplici, a trono e a edicola che nella fase centrale del V a.C. mostrano una forte influenza egiziana. Alcune raffigurazioni presentano edifici sacri con pilastri, senza colonne, sormontati da una trabeazione e da una modanatura a gola egizia delimitata da listelli. Sopra c’è la decorazione ad urei con disco solare (serpenti sacri simboli solari), tipico fregio del coronamento dei templi egiziani. I personaggi sono vari: femminile con fiore di loto oppure con disco al petto (per alcuni si tratta di un tamburello per riti musicali); divinità aniconiche; sacerdotesse varie; personaggi maschili con barba e con una lancia in mano e dietro il tipico ricciolo che troviamo nella tiara di tipo siriano (quindi un elemento orientale). Moscati sostiene che il personaggio femminile sia una sacerdotessa intenta a suonare un timpano, e quello con la stola sarebbe il sacerdote. La stele ad edicola con questi personaggi è fra le più diffuse nell'iconografia sulcitana e non trova riscontro altrove. Quando i personaggi poggiano i piedi su un podio siamo certi che si tratta di divinità. La maggior parte dei capitelli non sono greci, spesso sono ripresi dall’architettura egizia.
Curiosamente, mentre altrove le stele a edicola scompaiono nel VI a.C., qui a Sulki continuano, pur trasformandosi. Nelle stele troviamo delle edicole con elementi classici greci sia nell'architettura che, gradualmente, nella iconografia delle nicchie. I personaggi hanno veste classica, anche se il significato è lo stesso: si passa da personaggi maschili con stola a personaggi femminili con disco. L'edicola ha capitelli, colonne e timpano con acroteri senza trabeazione (ancora simboli punici). La prima innovazione è il timpano. C'è un personaggio femminile con disco nel petto che mantiene abiti punici. In una colonna c'è un personaggio con stola e veste classica, timpano con acroteri con all'interno una rosetta. Abbiamo anche una stele polimaterica meno pregiata datata al II a.C. con colonne scanalate, capitelli senza trabeazione, timpano, acroteri e personaggio con stola. Si arriva alle ultime rappresentazioni che sono in materiale meno pregiato, ad esempio marmo, dove si vede l'influenza del mondo classico con fattezze tipiche greche.
Mentre a Cartagine nel terzo strato di scavo si passa alla stele piatta che diventa un supporto per la rappresentazione, a Sant’Antioco abbiamo un fenomeno unico, con l’edicola tridimensionale che presenta però elementi classici inseriti in maniera artificiosa nello schema preesistente. Al posto dei pilastri compaiono delle colonne doriche, e il timpano è fiancheggiato da acroteri, ma scompare la trabeazione, fatto che causerebbe il crollo del tempio. Ciò è testimoniato dal fatto che non esistono templi fatti in questo modo. Al centro del timpano c’è la falce lunare che sormonta il disco solare, simbolo sardo-punico. Rimane la figura femminile con disco al petto o personaggi maschili con rosetta. La Dea Tanìt ha sulla spalla una stola, una veste di tipo classico, greco, contravvenendo alla moda precedente. Si giunge, dunque, a una commistione di stili e tradizioni.
Nel II a.C. si arriva a stele in marmo, edicola classica e personaggio con stola. Un’altra tipologia è quella con stele centinata, che ricompare in età tarda, intorno al III a.C., caratterizzate da animali (ovi-caprini) in atteggiamento di movimento. Stranamente questa tipologia ricompare dopo secoli di assenza, forse si tratta di animali sacrificati nei tophet.
martedì 25 settembre 2012
L'archeometria della ceramica a Sant'Imbenia
Articolo tratto da: L’Alguer, PERIÒDIC DE CULTURA I INFORMACIÓ - JULIOL-AGOST 2010
Progetto Sant'Imbenia
L’archeometria della ceramica
di Beatrice De Rosa
Sui reperti ceramici rinvenuti a Sant'Imbenia, sono state realizzate una serie di analisi archeometriche volte a comprendere l’origine dei manufatti e la loro tecnologia di produzione. Ritengo sia utile spiegare la finalità delle analisi scientifiche e la loro utilità attraverso una introduzione sull’interpretazione del dato scientifico in rapporto ed in funzione di quello archeologico.
I manufatti ceramici provenienti da orizzonti culturali estremamente diversi, come quelli rinvenuti a Sant’Imbenia, pongono il problema della “ecologia culturale” in cui i reperti furono prodotti prima di arrivare nei contesti di rinvenimento.
Il processo ceramico antico non è standardizzato, ma vive di momenti di empirismo e di empirismo critico, legati alla presenza delle materie prime, argille ed argilliti, alla disponibilità di combustibile, all’esperienza del ceramista e dei suoi collaboratori, a varianti legate alla maggiore o minore abilità degli artigiani. Tutti i dati di laboratorio, quindi, non possono essere ricondotti in maniera automatica alle questioni di attribuzione della provenienza, ma debbono essere rivisti alla luce dei diversi processi ceramici nelle differenti aree di ipotizzata provenienza. Il problema dei degrassanti, per esempio, va visto alla luce della lavorazione dell’argilla, che di volta in volta può essere più o meno plastica; questo comportava una specifica ricerca di materia prima ricca di silice, all’interno di una giacitura geologica argillosa, che si differenziava in senso areale e stratigrafico, o, più semplicemente, di un determinato tipo di argilla che gli artigiani sapevano plasmare e cuocere con maggiore sicurezza. L’archeologo deve interpretare i dati di laboratorio rileggendoli in base all’ipotesi del processo ceramico che diede origine ai manufatti; solo in tal modo, il dato di laboratorio sterile in sé, acquisisce dignità archeometrica.
In questo lavoro, sono stati osservati circa duecento frammenti ceramici, provenienti sia dalle campagne di scavo del 1990, sia da quella del 2007. All’interno di
questo grande gruppo sono stati selezionati i campioni da sottoporre ad analisi in laboratorio, scelti in base a caratteristiche tipologiche, tecnologiche ed archeometriche considerate interessanti. Ad esempio, si è concentrata l’attenzione sulle anfore Sant’Imbenia per la loro importanza archeologica e per i pochi ed a volte contrastanti dati esistenti in letteratura, ma anche per le caratteristiche degli impasti, che all’interno di una stessa tipologia avevano proprietà diverse, e per gli aspetti tecnologici, soprattutto il modellamento ed il rivestimento, che apparivano differenti o uguali a prescindere dagli impasti, dalla forma e dalle dimensioni. Un altro esempio è quello della ceramica nuragica; ci siamo rivolti all’analisi di questo materiale con particolare interesse; il primo motivo è forse “patriottico”, perché si tratta di produzioni che probabilmente erano state realizzate nel villaggio, o comunque da società indigene ed il loro studio come ulteriore testimonianza della cultura sarda ci ha dato grandi stimoli; il secondo è legato alla limitatezza di dati archeometrici e tecnologici sulla ceramica nuragica; il terzo è l’altissimo numero di rinvenimenti di questi manufatti, come è ovvio aspettarsi in un villaggio nuragico; infine volevamo capire ed approfondire caratteristiche ed aspetti che sembrano essere peculiari dei materiali nuragici di Sant’Imbenia, come i rivestimenti e le decorazioni importati da altre culture realizzati su prodotti nuragici e viceversa. Per questi motivi, è stato deciso di campionare e studiare anche le materie prime argillose intorno al sito. La scelta delle materie prime è stata fatta seguendo due criteri differenti: da un lato sono state considerate la vicinanza con il sito archeologico e l’accessibilità dell’area, dall’altro la somiglianza petrografica e mineralogica che esisteva tra queste e le ceramiche prodotte in antico. Durante le prospezioni in un’area di circa 15 km intorno al sito, distanza che in letteratura è considerata percorribile e raggiungibile anche a piedi, ipoteticamente più volte in un mese, sono stati campionati tre diversi tipi di materiale proveniente da Porto Ferro (i cui campioni sono chiamati PF), dal Lago di Baratz (LB) e dalla zona aeroportuale (PS), più il sedimento prelevato nel sito di Sant’Imbenia (SI). PS proviene da un’area che si trova a circa 12 km a sud del sito, sulla Strada Provinciale 44, all’altezza dello svincolo per Alghero (coordinate 40º36I54.86II N; 8º16I30.70II E); è di colore grigio chiaro, granulometria fine e consistenza sciolta. LB proviene dal Lago di Baratz, a circa 7 km a nord del sito (coordinate 40º40I46.42II N; 8º13I38.06II E); si tratta di un materiale scuro, quasi marrone, poco plastico, ricco di inclusi vegetali e con consistenza terrosa. PF proviene invece da Porto Ferro, a circa 9 Km a nord del sito (coordinate 40º41I36.90II N; 8º11I56.72II E); è una terra argillosa rossa, molto plastica, con presenza media di inclusi vegetali. Il sedimento SI è molto simile a PS, anche se con una percentuale di inclusi, soprattutto gusci e resti carbonatici, molto più alta. Una volta prelevati sono stati preparati i campioni.Il sedimento SI non è stato sottoposto a cottura, in quanto non si tratta di materiale argilloso, ma piuttosto di una terra limosa e non permetteva creare campioni crudi compatti.
I campioni sono stati realizzati manualmente, aggiungendo la quantità di acqua necessaria per rendere plastica la massa argillosa ed eliminare l’eccesso d’aria:
per ogni chilogrammo di argilla sono stati aggiunti a PS 150 ml di acqua, a PF 180 ml, ed a LB 140 ml. LB dava l’impressione di essere il meno compatto tra i materiali argillosi preparati. In seguito, la massa è stata messa in uno stampo di legno di forma prismatica, che è stato previamente bagnato e rivestito internamente di sabbia per evitare che la terra argillosa si attaccasse alle pareti. Dopo 4 giorni, i campioni sono stati estratti dagli stampi e tagliati, per ottenere una serie di campioni più piccoli, e di forma pressoché cubica. Tutti i campioni sono poi stati lasciati ad asciugare in laboratorio. L’essiccamento, una delle parti fondamentali all’interno del processo ceramico, dipende dalle condizioni di temperatura ed umidità presenti nell’ambiente circostante; la temperatura media era intorno ai 25°C, e l’umidità relativa intorno al 50%; con queste caratteristiche, i campioni si sono asciugati in una settimana, con una diminuzione del loro volume di circa il 3%, aspetto dovuto alla perdita d’acqua. Una volta essiccati, sono stati cotti in un forno elettrico (Herotec CR-35), con una sorgente di calore fissa. I campioni sono stati riscaldati per un’ora a 100°C, per eliminare l’eventuale umidità residua presente. Dopodiché, si è proceduto alla cottura degli stessi. Le temperature scelte sono state comprese tra 700 ed 1000°C, con intervalli di 50°C tra le diverse
temperature, tranne che nel passaggio tra 900 e 1000°C. La scelta di questo range è stata fatta considerando 900 e 1000°C la temperatura ottimale per la cottura delle argille. Bisogna anche considerare che raggiungere temperature più alte era
difficile ed economicamente poco vantaggioso. Una volta raggiunta la temperatura, si aspettava 1 ora prima di spegnere il forno. Infine, i campioni venivano lasciati 24 ore nel forno spento, perché il raffreddamento avvenisse in modo graduale e lento.
Per la cottura dei campioni sono state necessarie da 3 ore e 40 minuti per quelli cotti a 700°C a 5 ore e 10 minuti per quelli a 1000°C. Riguardo ai campioni considerati di produzione locale, il risultato più importante è stata l’individuazione e la caratterizzazione delle materie prime utilizzate scoperte nei pressi del villaggio, dato che ci permette di ipotizzare la produzione locale dei campioni che presentano queste caratteristiche con maggiore sicurezza rispetto a quanto avveniva in passato. Un altro dato rilevante è emerso in seguito alle analisi mineropetrografiche e tecnologiche, che hanno permesso di riscontrare delle
differenze tra i prodotti del Bronzo medio e quelli del primo Ferro. Intanto, nella materia prima impiegata; nelle produzioni più antiche è stato osservato l’uso quasi esclusivo di una materia prima argillosa proveniente probabilmente dalla zona
del Lago di Baratz e di Porto Ferro, caratterizzata da minerali argillosi, da filladi, quarzo e feldspati; dalla fine del Bronzo si usano materiali diversi associati ai precedenti: materie prime argillose con presenza di minerali vulcanici, in quantità e dimensioni spesso costanti, che potrebbero provenire dall’area
di Tottubella o di Olmedo.
È stato possibile vedere un cambiamento nella scelta dei degrassanti utilizzati negli
impasti, che si può definire completo nell’età del Ferro: si passa da prodotti realizzati utilizzando come degrassanti calcite e materiali organici a quelli in cui
si usano minerali e rocce vulcaniche. I campioni più antichi del Bronzo medio- recente sono caratterizzati da impasti con inclusi con addensamento elevato e distribuzione iatale, da una porosità compresa tra il 30 ed il 40%, come conseguenza dell’uso di materiali organici e della calcite, e da impasti friabili. Dalle
analisi al microscopio petrografico è stato osservato che spesso i materiali organici non sono completamente combusti, dato che insieme alla presenza di calcite ed all’alto indice di birifrangenza delle matrici suggerisce basse temperature di cottura; questo dato è stato confermato anche dalle analisi DRX, che hanno segnalato presenza di calcite, illite e l’assenza di minerali di neoformazione.
Le superfici non sono state lavorate, anche se sono presenti motivi decorativi
incisi o impressi. A partire dal Bronzo finale, osserviamo negli stessi materiali
l’utilizzo di altri degrassanti: inclusi vulcanici (specialmente pomici ed ignimbriti) con caratteristiche di refrattarietà che permettono al manufatto di sopportare gli sbalzi termici senza fratturarsi e di distribuire il calore in modo più omogeneo. I campioni di produzione più recente sono caratterizzati da matrici con inclusi con addensamento medio e distribuzione iatale, da una porosità compresa
tra il 15 ed il 20%, da impasti duri e con fratture nette. Le matrici hanno una birifrangenza molto bassa che, insieme alla presenza di minerali di neoformazione,
suggerisce temperature di cottura superiori ai 900 °C. Le superfici sono state quasi
tutte levigate o hanno una patina e quindi sono poco porose, anche se non mancano alcuni esempi in cui sono state brunite, trattamento che prevedeva aggiunta di argilla liquida al manufatto precedentemente modellato, lisciato e parzialmente
secco per ridurre al minimo la porosità e rendere le superfici lucide e brillanti.
In questo caso, quindi, è stato possibile osservare un cambiamento di tecnologia legato alla funzionalità del vaso, che si manifesta sia nella scelta di materie prime argillose più adatte a sopportare alte temperature di cottura e continui contatti con il fuoco, sia nell’utilizzo di un trattamento superficiale che riducesse al minimo la permeabilità delle superfici.
Accanto a questo aspetto, bisogna anche osservare la perizia raggiunta nella conduzione del fuoco e nella gestione delle temperature nei forni; attraverso
l’osservazione al microscopio polarizzatore e con l’analisi di immagine le superfici, soprattutto quelle brunite, appaiono parzialmente vetrificate, non porose e molto compatte; questi elementi indicano che i vasai di Sant’Imbenia erano in grado non solo di raggiungere alte temperature, ma anche di mantenerle per il tempo sufficiente a creare una vetrificazione, almeno parziale. Anche dallo studio delle superfici delle ceramiche nuragiche realizzate nell’Età del Bronzo Finale ed in quella del Ferro abbiamo ricavato dati importanti; i manufatti più recenti di Sant’Imbenia sono infatti quasi tutti caratterizzati da superfici rosse, con gradazioni che vanno dal rosso mattone al marrone rosso, alcuni ingobbiati, altri con patina, altri ancora semplicemente levigati, cotti durante l’ultima fase e lasciati a raffreddare in atmosfera ossidante. Questa caratteristica non si osserva nei manufatti realizzati precedentemente, per cui si potrebbe ipotizzare un’imitazione dei prodotti fenici con red slip che arrivano a Sant’Imbenia. Le superfici rosse si trovano anche su manufatti che sono di tradizione nuragica, come le ollette, che dalle analisi mineropetrografiche sappiamo essere state realizzate con argille locali; in alcuni casi le decorazioni sono state realizzate con un alto livello di specializzazione; ad esempio le patine sono molto sottili, perfettamente aderenti al corpo ceramico, brillanti, non porose e parzialmente vetrificate. Con il tempo, la perizia dei vasai di Sant’Imbenia raggiunge altissimi livelli, e le differenze macroscopiche tra un prodotto fenicio ed uno locale si percepiscono sempre meno. Riguardo all’individuazione delle cave, dei tre materiali argillosi campionati nei pressi del sito, è stato osservato che due potrebbero effettivamente essere stati utilizzati dagli abitanti di Sant’Imbenia, specificatamente quelli provenienti dal Lago di Baratz e da Porto Ferro; il terzo, proveniente dalla zona aeroportuale non ha presentato caratteristiche adatte alla cottura ed alla lavorazione, per gli alti valori di calcite, né compatibilità mineralogica con i campioni archeologici. I risultati che sono stati ottenuti grazie alle analisi mineropetrografiche sulle anfore Sant’Imbenia hanno permesso di individuare un gruppo consistente di prodotti realizzati localmente; la presenza delle filladi ha reso possibile l’attribuzione degli impasti all’area di Porto Conte e quella dei minerali e delle rocce vulcaniche trova corrispondenza nelle vicine aree di Tottubella ed Olmedo. Non sembra quindi
necessaria una loro attribuzione all’area tirrenica dell’Italia solo per la presenza di tali degrassanti, come avveniva precedentemente. Sarebbe ora molto interessante e produttivo analizzare gli impasti di altre anfore Sant’Imbenia che si trovano in siti della Sardegna e del Mediterraneo, per individuarne le aree di provenienza e ricostruirne eventualmente il percorso. Riguardo al materiale allogeno, le importazioni greche sono divisibili in prodotti euboici e pithecusani. Il dato ci parla quindi con maggiore sicurezza delle relazioni che esistevano tra la Grecia ed il mondo occidentale, anche se i modi ed i vettori di questo contatto non sono ancora completamente chiari. Il materiale fenicio è stato diviso in tre gruppi: uno di produzione nord-africana, che costituisce il lotto numericamente maggiore delle importazioni; accanto a questo, però, si sottolinea la presenza di circa il 30% di campioni che si possono ritenere di produzione sulcitana. Questo risultato conferma l’esistenza dei contatti esistenti tra centri anche distanti nell’isola e nello stesso tempo il ruolo predominante che Sulcis assunse in breve tempo nel circuito della produzione e circolazione dei beni. L’ultimo gruppo di ceramiche si ritiene di produzione orientale, soprattutto per il dato archeologico, in quanto i dati archeometrici sulle argille sono ancora pochi e di non semplice reperimento.
lunedì 24 settembre 2012
Lutu mannu pro sa Sardigna
Lutu mannu pro sa Sardigna
Lutu mannu pro sa Sardigna.
Est mortu Gianfranco Pintore, unu de sos nùmenes prus connotos e apretziados de su panorama isulanu.
Giornalista e iscritore, at fundadu su mensile Sa Sardigna e sa prima ràdio lìbera in limba sarda (Ràdiu Supramonte).
Est istadu editorialista de s'Unione Sarda e de Sardigna.com, e unu de sos fundadores de su movimentu federalista Fortza Paris, nàschidu dae s'unione de Sardistas, Partidu de su Pòpulu Sardu e unu movimentu de emigrados.
At publicadu paritzos libros, in italianu e in sardu.
S'ùrtimu (Sa losa de Osana, Condaghes, Cagliari, 2009) est istadu presentadu in Iscanu in su 2009.
Publicamus su comunicadu iscritu dae Bustianu Cumpostu pro nde dare sa nova:
"SA PATRIA SARDA EST TRISTA. EST BENNIDU A MANCARE UNU ZIGANTE DE SA NATZIONE SARDA, UNU GHERRADORE, UNU PATRIOTA, UNU ALLATADORE DE SA S'INDIPENDENTISMU, UNU PROB'OMINE. UN'OMINE DE GABALE, SI NCH'EST COLADU PRIMITIU DAE SA BIDA A S'AMMENTU. NON T'AMUS A BIDER PRUS CHIN SOS OCROS O INTENNER CHIN SAS URIGRAS MA CHIN SU CORO E CHIN SA MENTE T'AMUS A GIUGHERE SEMPRERE PRESENTE. ADIOSU GIANFRA' TRISTURA MANNA SES LASSANDE IN SAS ANDALAS DE SOS FIGIOS LIBEROS DE SARDIGNA."
Publicadu dae ULS Planàrgia-Montiferru
Lutu mannu pro sa Sardigna.
Est mortu Gianfranco Pintore, unu de sos nùmenes prus connotos e apretziados de su panorama isulanu.
Giornalista e iscritore, at fundadu su mensile Sa Sardigna e sa prima ràdio lìbera in limba sarda (Ràdiu Supramonte).
Est istadu editorialista de s'Unione Sarda e de Sardigna.com, e unu de sos fundadores de su movimentu federalista Fortza Paris, nàschidu dae s'unione de Sardistas, Partidu de su Pòpulu Sardu e unu movimentu de emigrados.
At publicadu paritzos libros, in italianu e in sardu.
S'ùrtimu (Sa losa de Osana, Condaghes, Cagliari, 2009) est istadu presentadu in Iscanu in su 2009.
Publicamus su comunicadu iscritu dae Bustianu Cumpostu pro nde dare sa nova:
"SA PATRIA SARDA EST TRISTA. EST BENNIDU A MANCARE UNU ZIGANTE DE SA NATZIONE SARDA, UNU GHERRADORE, UNU PATRIOTA, UNU ALLATADORE DE SA S'INDIPENDENTISMU, UNU PROB'OMINE. UN'OMINE DE GABALE, SI NCH'EST COLADU PRIMITIU DAE SA BIDA A S'AMMENTU. NON T'AMUS A BIDER PRUS CHIN SOS OCROS O INTENNER CHIN SAS URIGRAS MA CHIN SU CORO E CHIN SA MENTE T'AMUS A GIUGHERE SEMPRERE PRESENTE. ADIOSU GIANFRA' TRISTURA MANNA SES LASSANDE IN SAS ANDALAS DE SOS FIGIOS LIBEROS DE SARDIGNA."
Publicadu dae ULS Planàrgia-Montiferru
Piramidi Etrusche
Piramidi...etrusche
Le prime piramidi etrusche sono state localizzate sotto una cantina nella città di Orvieto. Le strutture sotterranee sono scolpite nella roccia dell'altopiano di tufo su cui sorge la città, erano completamente piene ed erano visibili solo nell'estremità apicale.
Le piramidi sono state individuate grazie ad una serie di antiche scale scavate nella parete, chiaramente di costruzione etrusca. Lo scavo sta attualmente impegnando il dottor David B. George del Dipartimento di Studi Classici alla Saint Anselm University e il dottor Claudio Bizzarri del Parco Archeologico Orvietano. Gli archeologi hanno osservato che le pareti della grotta erano state rastremate fino a far assumere loro un'inclinazione piramidale. Una serie di gallerie, sempre di costruzione etrusca, inoltre, scorre sotto la cantina e ha fatto pensare alla possibilità di altre scoperte.
Gli archeologi hanno raggiunto il livello di un pavimento medioevale sotto il quale hanno trovato uno strato di riempimento che conteneva vari manufatti in ceramica attica a figure rosse, risalenti al VI-V a.C., nonché ceramica etrusca con iscrizioni e vari altri oggetti che risalivano al 1000 a.C. Le scale scolpite nella pietra proseguono oltre questo livello (10 metri di profondità). Qui sono stati ritrovati un tunnel e un'altra struttura piramidale risalenti al V a.C. che accrescono il mistero.
Il dottor Bizzarri sostiene che ci siano almeno cinque piramidi etrusche nascoste nel sottosuolo orvietano, tre delle quali devono ancora essere scavate. Per quanto riguarda la loro funzione, gli studiosi ritengono che queste strutture fossero legate a qualche funzione religiosa oppure a una forma di sepoltura. La soluzione, forse, è nascosta nel fondo dello scavo.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
Le prime piramidi etrusche sono state localizzate sotto una cantina nella città di Orvieto. Le strutture sotterranee sono scolpite nella roccia dell'altopiano di tufo su cui sorge la città, erano completamente piene ed erano visibili solo nell'estremità apicale.
Le piramidi sono state individuate grazie ad una serie di antiche scale scavate nella parete, chiaramente di costruzione etrusca. Lo scavo sta attualmente impegnando il dottor David B. George del Dipartimento di Studi Classici alla Saint Anselm University e il dottor Claudio Bizzarri del Parco Archeologico Orvietano. Gli archeologi hanno osservato che le pareti della grotta erano state rastremate fino a far assumere loro un'inclinazione piramidale. Una serie di gallerie, sempre di costruzione etrusca, inoltre, scorre sotto la cantina e ha fatto pensare alla possibilità di altre scoperte.
Gli archeologi hanno raggiunto il livello di un pavimento medioevale sotto il quale hanno trovato uno strato di riempimento che conteneva vari manufatti in ceramica attica a figure rosse, risalenti al VI-V a.C., nonché ceramica etrusca con iscrizioni e vari altri oggetti che risalivano al 1000 a.C. Le scale scolpite nella pietra proseguono oltre questo livello (10 metri di profondità). Qui sono stati ritrovati un tunnel e un'altra struttura piramidale risalenti al V a.C. che accrescono il mistero.
Il dottor Bizzarri sostiene che ci siano almeno cinque piramidi etrusche nascoste nel sottosuolo orvietano, tre delle quali devono ancora essere scavate. Per quanto riguarda la loro funzione, gli studiosi ritengono che queste strutture fossero legate a qualche funzione religiosa oppure a una forma di sepoltura. La soluzione, forse, è nascosta nel fondo dello scavo.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
domenica 23 settembre 2012
S’ARCU ‘E IS FORROS: Nuragici, Filistei e Fenici
S’ARCU ‘E IS FORROS
Nuragici, Filistei e Fenici fra i monti della Sardegna
di Maria Ausilia Fadda
(Per gentile concessione della fonte: Archeologia Viva).
L’antico villaggio alle falde del Gennargentu ha restituito una grande quantità di oggetti di bronzo e di ferro che lo attestano come il centro metallurgico più importante della Sardegna nuragica, in stretto rapporto di scambi con l’Etruria e il Levante tanto da riservarci la straordinaria scoperta di un’iscrizione in caratteri filistei e fenici graffita su un’anfora arrivata nell’isola insieme ad altri prodotti dell’Oriente mediterraneo.
Nel villaggio santuario di S’Arcu ‘e is Forros (Villanova Strisàili), risorge il più grande centro metallurgico della Sardegna nuragica, gestito da principi sacerdoti che coniugavano autorità religiosa, tecnologia e potere economico. Il sito era già noto dal 1986, e la campagna di scavo del 2010 si concluse con l’esplorazione di un tempio a megaron con altare interno e di un ambiente con forno per la lavorazione dei metalli inserito in un isolato abitativo composto da quindici vani che si affacciano su un grande cortile circolare con un focolare al centro. Nella parte più scoscesa di questo agglomerato si accedeva a un vano quadrangolare, un’officina, con l’ingresso ricavato da un varco aperto nel grande muro che delimitava esternamente tutti gli ambienti dell’isolato. Sul lato destro dell’officina si conserva un piano sopraelevato in muratura, sopra al quale sono i resti di quattro forni a fossetta a basso fuoco che fino al IX-VIII a.C. furono usati per la fusione del piombo e per il recupero del metallo delle offerte votive (in genere bronzetti figurati fissati con piombo su apposite basi). Uno dei pozzetti in prossimità dell’ingresso dell’officina, conservava diversi strati di piombo alternati a strati di argilla, con le impronte lasciate dal legno usato come combustibile. Sono stati trovati anche alcuni martelli in pietra con impugnature lavorate, che gli artigiani usavano per frammentare i pani di piombo. L’ultima fase di utilizzo di questi forni fusori può essere datata dalla presenza di una brocca askoide con ansa decorata a cerchielli e da una ciotola carenata, ambedue documentate tra le forme dei contenitori nuragici del IX-VIII a.C., che poggiavano sullo stesso piano di lavorazione al momento in cui l’officina fu abbandonata.
Lo scavo, nel 2011, di una capanna isolata ha restituito resti di brocche askoidi con decorazioni geometriche usate per contenere il vino che arrivava in Sardegna attraverso il mercato fenicio ed etrusco. Il rinvenimento delle brocche askoidi si può spiegare con l’esistenza del santuario, frequentato dai pellegrini che portavano offerte, e con la presenza di un complesso metallurgico capace di alimentare un vasto mercato. Le brocche askoidi di produzione nuragica ritrovate in Etruria (Populonia e Vetulonia), a Lipari, a Creta e a Huelva (costa dell’Andalusia), testimoniano una rete di scambi fra centri di estrazione e di lavorazione dei metalli che consolidavano i rapporti commerciali con la vendita di merci di lusso e di vino, offerto e consumato soprattutto nei santuari.
Un secondo gruppo di capanne è composto da dieci vani posti intorno a uno spazio comune con pavimentazione lastricata, sopra la quale poggiava una panchina di blocchi di granito. Sono stati indagati solo cinque vani. Nello strato pavimentale sono affiorati un fondo di brocca askoide e i frammenti di un’anfora di tipo cananeo con spalla carenata e due anse a sezione circolare. Sulla spalla carenata dell’anfora, databile fra IX e VIII a.C., si sviluppa un’iscrizione composta da caratteri filistei e fenici, incisi dopo la cottura. L’iscrizione, esaminata dal Garbini, uno dei massimi esperti di filologia orientale, costituisce il documento più antico lasciato da stranieri dell’oriente mediterraneo nelle zone interne della Sardegna e indica forse la matrice linguistica del protosardo. L’anfora di tipo cananeo, derivata da esemplari in uso nei centri fenici della costa siro-palestinese, è documentata dal XII-XI a.C., ma è presente in Occidente dall’VIII a.C. L’associazione di brocche piriformi e askoidi di produzione nuragica (IX-VIII a.C.) con anfore levantine era già stata registrata nell’emporio di Sant’Imbenia di Alghero, da cui hanno preso nome le anfore da trasporto introdotte nell’isola dai traffici levantini.
Questi raggiungevano anche la Spagna, partendo proprio dagli empori della costa nord-occidentale della Sardegna dove artigiani levantini e greci dell’Eubea, scambiavano esperienze con gli artigiani indigeni che riproducevano i contenitori da trasporto con tecniche di tradizione nuragica. Fra gli altri materiali venuti alla luce nella stessa capanna abbiamo oggetti in ferro: metà di una doppia ascia, un malepeggio (piccolo piccone), una lunga sega con due fori per fissare l’impugnatura, una lancia con immanicatura a cannone, frammenti di altre lance e pugnali. Insieme c’erano anche oggetti figurati in bronzo, come un toro dal corpo massiccio e coda rivolta in alto, un ariete, una protome di navicella a testa taurina, un’ansa di bacino con decorazione a cordicella, due spilloni con capocchie sferiche modanate, molte lamine accartocciate e una mano con foro passante in corrispondenza del polso relativa a un tipo di hydria (vaso per acqua) con anse a mani aperte finora sconosciuta in Sardegna. Ha le stesse caratteristiche delle anse delle idrie di Trebenische (Macedonia) conservate nel Museo di Belgrado. Sopra la pavimentazione affioravano frammenti di piccole asce di bronzo, una singolare testa di conocchia lavorata con verghe di bronzo, simile a quella proveniente da una tomba dell’emporio etrusco di Pontecagnano, in Campania, che tra i prestigiosi oggetti in bronzo del corredo aveva una navicella nuragica.
La rimozione delle lastre della rudimentale pavimentazione della capanna 2 ha messo in luce un pithos, ovvero un grande contenitore per derrate, usato come deposito di oggetti in bronzo, ferro e piombo, insieme a 186 chili di lingotti e panelle di rame, per un totale di oltre 400 chili di metallo. Questo ripostiglio sembrerebbe il risultato di un accumulo graduale di manufatti dal XII-IX fino al VI a.C. Il deposito all’interno del pithos conteneva seghe di varie dimensioni, scalpelli, punteruoli, cunei per lavori di cesello, martelli da calderaio, pezzi di un’incudine e lime, una delle quali con due lettere incise. E poi una colossale quantità di asce di vario tipo. In minore quantità sono presenti picconi, falci, lance di ferro, anse decorate di brocche e bacini. Non mancano le armi di bronzo di repertorio nuragico: spade a lama larga con accentuata nervatura mediana e spade tipo Monte Sa Idda con impugnatura fenestrata, punte di lance con immanicature a cannone ed elaborate decorazioni, puntali, pugnali foliati e numerose spade votive frammentate a causa dell’eccessiva lunghezza. C’erano anche diciannove fibule di bronzo che trovano affinità con quelle rinvenute in contesti etruschi della prima età del Ferro a Vetulonia, Populonia e in altri centri etruschi, che a partire dal IX-VIII a.C. avviarono intensi rapporti con la Sardegna. Fra gli oggetti d’ornamento troviamo diversi bracciali decorati a motivi geometrici, armille, anelli a fascetta, orecchini, bottoni, faretrine votive, vaghi di collana in bronzo e ambra, anelli in argento e un pendaglio ad ascia miniaturistica con superfici decorate. Fra i materiali di grande pregio si collocano diverse ghiere di tripode in bronzo che ripropongono modelli ciprioti. Nel medesimo ripostiglio, inspiegabilmente, si trovava uno scarabeo in faïance databile all’VIII a.C., probabilmente prodotto in Sardegna e attribuibile per la sua lavorazione al tipo aegyptiaka (già documentato nel tempio nuragico di Nurdole di Orani e a Sant’Imbenia di Alghero). Inoltre, un pendaglio di bronzo della dea Tanit portato nel santuario in un periodo più antico rispetto all’epoca cartaginese in Sardegna, dal momento che i materiali più recenti del ripostiglio si datano all’VIII-VII a.C.
Si può affermare che l’aspetto più significativo del sito è dato dalle attività metallurgiche finalizzate alla produzione di oggetti votivi, alla portata dei pellegrini che si recavano al santuario, e dalla presenza di officine che producevano strumenti da lavoro e armi. La lavorazione del ferro, richiedeva una notevole abilità tecnica, che gli artigiani nuragici di S’Arcu ‘e is Forros hanno dimostrato di possedere a partire dal IX a.C. realizzando due forni di arrostimento contigui. Un ulteriore ripostiglio, mimetizzato sotto una piccola nicchia, nascosto sotto un cumulo di lastre di scisto e granito, conteneva due bacini in lamina bronzea visibilmente anneriti dal fuoco, con due anse fissate a una placca, e un vaso per vino in bronzo con alto beccuccio (oinochoe), la cui ansa presenta una palmetta alla base. Si tratta di un contenitore di pregevole fattura che potrebbe essere arrivato nel santuario attraverso il mercato etrusco o fenicio. Sotto le brocche stava una navicella di bronzo con protome bovina, scafo a fondo piatto e bordo in rilievo; una doppia verga a sezione circolare converge nell’anello di sospensione sormontato da un volatile. Le pareti interne conservano evidenti tracce di bruciato, che dimostrano la funzione di lucerna della navicella. Il ripostiglio conteneva anche un martello, uno scalpello, un punteruolo, porzioni di scafo di un’altra navicella, misti a frammenti di lance, e di una piccola ascia bipenne. Associato ad altri oggetti di bronzo c’era un massiccio tripode di ferro. Non si conoscono nell’isola confronti con questo tripode, pertanto potrebbe essere stato forgiato dagli artigiani nuragici locali oppure arrivato attraverso il commercio etrusco e levantino. Il contenuto dei tre ripostigli (oltre mezza tonnellata di metalli) pone problemi di classificazione dei materiali, che possono essere stati tesaurizzati in un lungo arco di tempo durante la normale attività di lavorazione nelle officine di S’Arcu ‘e is Forros oppure essere stati nascosti per proteggerli da eventuali saccheggi durante un evento improvviso, non di tipo distruttivo ma che causò il temporaneo abbandono del luogo. In ogni caso la dimensione dell’attività fusoria di S’Arcu ‘e is Forros trova pochi confronti in Sardegna e conferma l’esistenza di un vasto commercio interno dei prodotti della metallurgia nei territori dell’Ogliastra, della Barbagia e del Gerrei.
Si può ipotizzare l’esistenza di uno scalo commerciale nel tratto di costa ogliastrina a ridosso dello stagno di Tortolì, subito prima del lungo tratto di costa che non offre approdi a causa delle alte falesie che le antiche rotte in direzione nord si trovavano ad affrontare per raggiungere gli scali più agevoli nel golfo di Orosei e di Posada. L’esistenza di un porto commerciale a ridosso dello stagno di Tortolì è confermata dai recenti recuperi di anfore fenicie, etrusche e greco italiche e di due coppe ioniche. L’esistenza di un approdo lungo le coste dell’Ogliastra dal XII-X a.C. può giustificare il ritrovamento di abbondanti prodotti ciprioti come lingotti di rame a pelle di bue, tripodi e grandi calderoni, che gli artigiani nuragici cercarono di riprodurre nelle officine fusorie locali. Probabilmente questi manufatti arrivarono in Ogliastra durante le prime occupazioni dei Popoli del mare che sbarcarono lungo le coste centro-orientali dell’isola e ben presto raggiunsero anche i centri più interni, dove si praticava l’arte della metallurgia già dal Bronzo recente. Nello scenario internazionale, la Sardegna era inserita lungo le rotte tra Oriente e Occidente, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, per la ricchezza dei suoi giacimenti minerari e probabilmente anche per il ruolo dominante dell’isola nuragica nella rielaborazione di modelli acquisiti da ambiti culturali diversi nell’arte della metallurgia tra XIII-VI a.C. S’Arcu ‘e is Forros potrebbe rivelarsi il più antico e importante centro dell’isola per la produzione metallurgica, capace di avviare per primo scambi con l’Oriente.
L'articolo completo, corredato da immagini e descrizione del sito, è pubblicato su Archeologia Viva.
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Nuragici, Filistei e Fenici fra i monti della Sardegna
di Maria Ausilia Fadda
(Per gentile concessione della fonte: Archeologia Viva).
L’antico villaggio alle falde del Gennargentu ha restituito una grande quantità di oggetti di bronzo e di ferro che lo attestano come il centro metallurgico più importante della Sardegna nuragica, in stretto rapporto di scambi con l’Etruria e il Levante tanto da riservarci la straordinaria scoperta di un’iscrizione in caratteri filistei e fenici graffita su un’anfora arrivata nell’isola insieme ad altri prodotti dell’Oriente mediterraneo.
Nel villaggio santuario di S’Arcu ‘e is Forros (Villanova Strisàili), risorge il più grande centro metallurgico della Sardegna nuragica, gestito da principi sacerdoti che coniugavano autorità religiosa, tecnologia e potere economico. Il sito era già noto dal 1986, e la campagna di scavo del 2010 si concluse con l’esplorazione di un tempio a megaron con altare interno e di un ambiente con forno per la lavorazione dei metalli inserito in un isolato abitativo composto da quindici vani che si affacciano su un grande cortile circolare con un focolare al centro. Nella parte più scoscesa di questo agglomerato si accedeva a un vano quadrangolare, un’officina, con l’ingresso ricavato da un varco aperto nel grande muro che delimitava esternamente tutti gli ambienti dell’isolato. Sul lato destro dell’officina si conserva un piano sopraelevato in muratura, sopra al quale sono i resti di quattro forni a fossetta a basso fuoco che fino al IX-VIII a.C. furono usati per la fusione del piombo e per il recupero del metallo delle offerte votive (in genere bronzetti figurati fissati con piombo su apposite basi). Uno dei pozzetti in prossimità dell’ingresso dell’officina, conservava diversi strati di piombo alternati a strati di argilla, con le impronte lasciate dal legno usato come combustibile. Sono stati trovati anche alcuni martelli in pietra con impugnature lavorate, che gli artigiani usavano per frammentare i pani di piombo. L’ultima fase di utilizzo di questi forni fusori può essere datata dalla presenza di una brocca askoide con ansa decorata a cerchielli e da una ciotola carenata, ambedue documentate tra le forme dei contenitori nuragici del IX-VIII a.C., che poggiavano sullo stesso piano di lavorazione al momento in cui l’officina fu abbandonata.
Lo scavo, nel 2011, di una capanna isolata ha restituito resti di brocche askoidi con decorazioni geometriche usate per contenere il vino che arrivava in Sardegna attraverso il mercato fenicio ed etrusco. Il rinvenimento delle brocche askoidi si può spiegare con l’esistenza del santuario, frequentato dai pellegrini che portavano offerte, e con la presenza di un complesso metallurgico capace di alimentare un vasto mercato. Le brocche askoidi di produzione nuragica ritrovate in Etruria (Populonia e Vetulonia), a Lipari, a Creta e a Huelva (costa dell’Andalusia), testimoniano una rete di scambi fra centri di estrazione e di lavorazione dei metalli che consolidavano i rapporti commerciali con la vendita di merci di lusso e di vino, offerto e consumato soprattutto nei santuari.
Un secondo gruppo di capanne è composto da dieci vani posti intorno a uno spazio comune con pavimentazione lastricata, sopra la quale poggiava una panchina di blocchi di granito. Sono stati indagati solo cinque vani. Nello strato pavimentale sono affiorati un fondo di brocca askoide e i frammenti di un’anfora di tipo cananeo con spalla carenata e due anse a sezione circolare. Sulla spalla carenata dell’anfora, databile fra IX e VIII a.C., si sviluppa un’iscrizione composta da caratteri filistei e fenici, incisi dopo la cottura. L’iscrizione, esaminata dal Garbini, uno dei massimi esperti di filologia orientale, costituisce il documento più antico lasciato da stranieri dell’oriente mediterraneo nelle zone interne della Sardegna e indica forse la matrice linguistica del protosardo. L’anfora di tipo cananeo, derivata da esemplari in uso nei centri fenici della costa siro-palestinese, è documentata dal XII-XI a.C., ma è presente in Occidente dall’VIII a.C. L’associazione di brocche piriformi e askoidi di produzione nuragica (IX-VIII a.C.) con anfore levantine era già stata registrata nell’emporio di Sant’Imbenia di Alghero, da cui hanno preso nome le anfore da trasporto introdotte nell’isola dai traffici levantini.
Questi raggiungevano anche la Spagna, partendo proprio dagli empori della costa nord-occidentale della Sardegna dove artigiani levantini e greci dell’Eubea, scambiavano esperienze con gli artigiani indigeni che riproducevano i contenitori da trasporto con tecniche di tradizione nuragica. Fra gli altri materiali venuti alla luce nella stessa capanna abbiamo oggetti in ferro: metà di una doppia ascia, un malepeggio (piccolo piccone), una lunga sega con due fori per fissare l’impugnatura, una lancia con immanicatura a cannone, frammenti di altre lance e pugnali. Insieme c’erano anche oggetti figurati in bronzo, come un toro dal corpo massiccio e coda rivolta in alto, un ariete, una protome di navicella a testa taurina, un’ansa di bacino con decorazione a cordicella, due spilloni con capocchie sferiche modanate, molte lamine accartocciate e una mano con foro passante in corrispondenza del polso relativa a un tipo di hydria (vaso per acqua) con anse a mani aperte finora sconosciuta in Sardegna. Ha le stesse caratteristiche delle anse delle idrie di Trebenische (Macedonia) conservate nel Museo di Belgrado. Sopra la pavimentazione affioravano frammenti di piccole asce di bronzo, una singolare testa di conocchia lavorata con verghe di bronzo, simile a quella proveniente da una tomba dell’emporio etrusco di Pontecagnano, in Campania, che tra i prestigiosi oggetti in bronzo del corredo aveva una navicella nuragica.
La rimozione delle lastre della rudimentale pavimentazione della capanna 2 ha messo in luce un pithos, ovvero un grande contenitore per derrate, usato come deposito di oggetti in bronzo, ferro e piombo, insieme a 186 chili di lingotti e panelle di rame, per un totale di oltre 400 chili di metallo. Questo ripostiglio sembrerebbe il risultato di un accumulo graduale di manufatti dal XII-IX fino al VI a.C. Il deposito all’interno del pithos conteneva seghe di varie dimensioni, scalpelli, punteruoli, cunei per lavori di cesello, martelli da calderaio, pezzi di un’incudine e lime, una delle quali con due lettere incise. E poi una colossale quantità di asce di vario tipo. In minore quantità sono presenti picconi, falci, lance di ferro, anse decorate di brocche e bacini. Non mancano le armi di bronzo di repertorio nuragico: spade a lama larga con accentuata nervatura mediana e spade tipo Monte Sa Idda con impugnatura fenestrata, punte di lance con immanicature a cannone ed elaborate decorazioni, puntali, pugnali foliati e numerose spade votive frammentate a causa dell’eccessiva lunghezza. C’erano anche diciannove fibule di bronzo che trovano affinità con quelle rinvenute in contesti etruschi della prima età del Ferro a Vetulonia, Populonia e in altri centri etruschi, che a partire dal IX-VIII a.C. avviarono intensi rapporti con la Sardegna. Fra gli oggetti d’ornamento troviamo diversi bracciali decorati a motivi geometrici, armille, anelli a fascetta, orecchini, bottoni, faretrine votive, vaghi di collana in bronzo e ambra, anelli in argento e un pendaglio ad ascia miniaturistica con superfici decorate. Fra i materiali di grande pregio si collocano diverse ghiere di tripode in bronzo che ripropongono modelli ciprioti. Nel medesimo ripostiglio, inspiegabilmente, si trovava uno scarabeo in faïance databile all’VIII a.C., probabilmente prodotto in Sardegna e attribuibile per la sua lavorazione al tipo aegyptiaka (già documentato nel tempio nuragico di Nurdole di Orani e a Sant’Imbenia di Alghero). Inoltre, un pendaglio di bronzo della dea Tanit portato nel santuario in un periodo più antico rispetto all’epoca cartaginese in Sardegna, dal momento che i materiali più recenti del ripostiglio si datano all’VIII-VII a.C.
Si può affermare che l’aspetto più significativo del sito è dato dalle attività metallurgiche finalizzate alla produzione di oggetti votivi, alla portata dei pellegrini che si recavano al santuario, e dalla presenza di officine che producevano strumenti da lavoro e armi. La lavorazione del ferro, richiedeva una notevole abilità tecnica, che gli artigiani nuragici di S’Arcu ‘e is Forros hanno dimostrato di possedere a partire dal IX a.C. realizzando due forni di arrostimento contigui. Un ulteriore ripostiglio, mimetizzato sotto una piccola nicchia, nascosto sotto un cumulo di lastre di scisto e granito, conteneva due bacini in lamina bronzea visibilmente anneriti dal fuoco, con due anse fissate a una placca, e un vaso per vino in bronzo con alto beccuccio (oinochoe), la cui ansa presenta una palmetta alla base. Si tratta di un contenitore di pregevole fattura che potrebbe essere arrivato nel santuario attraverso il mercato etrusco o fenicio. Sotto le brocche stava una navicella di bronzo con protome bovina, scafo a fondo piatto e bordo in rilievo; una doppia verga a sezione circolare converge nell’anello di sospensione sormontato da un volatile. Le pareti interne conservano evidenti tracce di bruciato, che dimostrano la funzione di lucerna della navicella. Il ripostiglio conteneva anche un martello, uno scalpello, un punteruolo, porzioni di scafo di un’altra navicella, misti a frammenti di lance, e di una piccola ascia bipenne. Associato ad altri oggetti di bronzo c’era un massiccio tripode di ferro. Non si conoscono nell’isola confronti con questo tripode, pertanto potrebbe essere stato forgiato dagli artigiani nuragici locali oppure arrivato attraverso il commercio etrusco e levantino. Il contenuto dei tre ripostigli (oltre mezza tonnellata di metalli) pone problemi di classificazione dei materiali, che possono essere stati tesaurizzati in un lungo arco di tempo durante la normale attività di lavorazione nelle officine di S’Arcu ‘e is Forros oppure essere stati nascosti per proteggerli da eventuali saccheggi durante un evento improvviso, non di tipo distruttivo ma che causò il temporaneo abbandono del luogo. In ogni caso la dimensione dell’attività fusoria di S’Arcu ‘e is Forros trova pochi confronti in Sardegna e conferma l’esistenza di un vasto commercio interno dei prodotti della metallurgia nei territori dell’Ogliastra, della Barbagia e del Gerrei.
Si può ipotizzare l’esistenza di uno scalo commerciale nel tratto di costa ogliastrina a ridosso dello stagno di Tortolì, subito prima del lungo tratto di costa che non offre approdi a causa delle alte falesie che le antiche rotte in direzione nord si trovavano ad affrontare per raggiungere gli scali più agevoli nel golfo di Orosei e di Posada. L’esistenza di un porto commerciale a ridosso dello stagno di Tortolì è confermata dai recenti recuperi di anfore fenicie, etrusche e greco italiche e di due coppe ioniche. L’esistenza di un approdo lungo le coste dell’Ogliastra dal XII-X a.C. può giustificare il ritrovamento di abbondanti prodotti ciprioti come lingotti di rame a pelle di bue, tripodi e grandi calderoni, che gli artigiani nuragici cercarono di riprodurre nelle officine fusorie locali. Probabilmente questi manufatti arrivarono in Ogliastra durante le prime occupazioni dei Popoli del mare che sbarcarono lungo le coste centro-orientali dell’isola e ben presto raggiunsero anche i centri più interni, dove si praticava l’arte della metallurgia già dal Bronzo recente. Nello scenario internazionale, la Sardegna era inserita lungo le rotte tra Oriente e Occidente, per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, per la ricchezza dei suoi giacimenti minerari e probabilmente anche per il ruolo dominante dell’isola nuragica nella rielaborazione di modelli acquisiti da ambiti culturali diversi nell’arte della metallurgia tra XIII-VI a.C. S’Arcu ‘e is Forros potrebbe rivelarsi il più antico e importante centro dell’isola per la produzione metallurgica, capace di avviare per primo scambi con l’Oriente.
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sabato 22 settembre 2012
Appuntamenti culturali
Appuntamenti culturali.
Ricco programma di eventi nei prossimi giorni.
Si inizia domenica 23 e lunedì 24, mattino e pomeriggio, in Piazza SS Cosimo e Damiano a Sinnai. Archistoria collabora con il Comune di Sinnai e con Komuniga all'organizzazione dell'evento IMPARARTI, una mostra d'arte curata dallo scultore Tore Angioni cui partecipano artisti sardi e rumeni, questi ultimi associati alla casa di cultura Theodorescu-Sion.
Si prosegue in Piemonte, nella Valle di Susa, con la III giornata del patrimonio culturale archeologico intitolata: "LA TRASMISSIONE DEL SAPERE" che si svolgerà Domenica 30 Settembre e Venerdì 5 Ottobre.
Il piano di valorizzazione “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina”, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo di Antichità Egizie, quest’anno propone tredici siti archeologici su tutto il territorio della Valle e uno nella vicina Savoia saranno aperti e accessibili, con la possibilità di visite guidate gratuite.
Dopo il grande successo di visitatori in occasione delle prime edizioni, l'iniziativa è riproposta quest'anno. Per ognuno dei siti archeologici visitabili sarà creato un collegamento tra la cronologia di riferimento e le abitudini scolastiche ed educative delle varie epoche, grazie anche alla collaborazione e alle iniziative curate dai singoli comuni che ospitano la manifestazione. La Giornata è curata dal piano di valorizzazione territoriale integrata “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina”, che dal 2003 opera allo scopo di creare nuove sinergie per la promozione del patrimonio culturale, storico, artistico, naturalistico ed enogastronomico della Valle di Susa.
L'evento si dedica altresì alla formazione di operatori volontari e professionisti che sappiano far conoscere e raccontare le tracce della storia millenaria della Valle di Susa. Fra gli accompagnatori, domenica 30 settembre e venerdì 5 ottobre, vi saranno proprio i numerosi volontari che hanno aderito con entusiasmo al corso di formazione sull’archeologia realizzato in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte.
I siti archeologici in Valle di Susa costituiscono una preziosa testimonianza delle diverse epoche storiche, dalla Preistoria alla Romanità fino al Medioevo: un grande tesoro di memoria sul quale si fonda saldamente la vita del territorio e della comunità. Le Giornate di Valorizzazione integrata che vengono proposte intendono focalizzare l’attenzione degli abitanti della Valle e dei visitatori sulle testimonianze archeologiche, alcune delle quali accessibili solo per l’occasione, al fine di conoscerle o riscoprirle.
Inoltre, a rendere ancora più ricca l’offerta culturale di quest’anno, il Musée archéologique di Sollières- Sardières in Savoia, che entra a far parte dei siti archeologici protagonisti dell’iniziativa in virtù del pluriennale rapporto di collaborazione transfrontaliera.
Per l'edizione del 2012 si aggiunge poi la giornata del 5 ottobre, dedicata agli insegnanti e agli allievi della Valle pensata per contribuire a costruire una maggiore consapevolezza del patrimonio culturale ospitato nel loro territorio.
La prima risorsa di una comunità sono i giovani e nella programmazione delle giornate dell’archeologia si vuole dare più spazio a loro, per promuovere un metodo reale di laboratorio partecipato. Si vuole costruire, attraverso i siti culturali, uno spazio di incontro e confronto intergenerazionale, capace di narrare i racconti delle comunità del passato in dialogo con chi avrà il compito di strutturare quelle del futuro, senza nascondere i problemi e le questioni aperte. La scelta è quella di creare un grande album collettivo di comunità, capace di riconoscere anche le immagini ormai sbiadite e sempre aperto all’inserimento di nuovi tasselli.
Saranno aperti gratuitamente al pubblico tutti i luoghi d’arte statali e quelli di Enti e Istituzioni che aderiscono alla manifestazione: siti appartenenti al patrimonio archeologico, artistico, storico, architettonico, archivistico e librario, cinematografico, teatrale, musicale.
Ricco programma di eventi nei prossimi giorni.
Si inizia domenica 23 e lunedì 24, mattino e pomeriggio, in Piazza SS Cosimo e Damiano a Sinnai. Archistoria collabora con il Comune di Sinnai e con Komuniga all'organizzazione dell'evento IMPARARTI, una mostra d'arte curata dallo scultore Tore Angioni cui partecipano artisti sardi e rumeni, questi ultimi associati alla casa di cultura Theodorescu-Sion.
Si prosegue in Piemonte, nella Valle di Susa, con la III giornata del patrimonio culturale archeologico intitolata: "LA TRASMISSIONE DEL SAPERE" che si svolgerà Domenica 30 Settembre e Venerdì 5 Ottobre.
Il piano di valorizzazione “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina”, in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte e del Museo di Antichità Egizie, quest’anno propone tredici siti archeologici su tutto il territorio della Valle e uno nella vicina Savoia saranno aperti e accessibili, con la possibilità di visite guidate gratuite.
Dopo il grande successo di visitatori in occasione delle prime edizioni, l'iniziativa è riproposta quest'anno. Per ognuno dei siti archeologici visitabili sarà creato un collegamento tra la cronologia di riferimento e le abitudini scolastiche ed educative delle varie epoche, grazie anche alla collaborazione e alle iniziative curate dai singoli comuni che ospitano la manifestazione. La Giornata è curata dal piano di valorizzazione territoriale integrata “Valle di Susa. Tesori di Arte e Cultura Alpina”, che dal 2003 opera allo scopo di creare nuove sinergie per la promozione del patrimonio culturale, storico, artistico, naturalistico ed enogastronomico della Valle di Susa.
L'evento si dedica altresì alla formazione di operatori volontari e professionisti che sappiano far conoscere e raccontare le tracce della storia millenaria della Valle di Susa. Fra gli accompagnatori, domenica 30 settembre e venerdì 5 ottobre, vi saranno proprio i numerosi volontari che hanno aderito con entusiasmo al corso di formazione sull’archeologia realizzato in collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Piemonte.
I siti archeologici in Valle di Susa costituiscono una preziosa testimonianza delle diverse epoche storiche, dalla Preistoria alla Romanità fino al Medioevo: un grande tesoro di memoria sul quale si fonda saldamente la vita del territorio e della comunità. Le Giornate di Valorizzazione integrata che vengono proposte intendono focalizzare l’attenzione degli abitanti della Valle e dei visitatori sulle testimonianze archeologiche, alcune delle quali accessibili solo per l’occasione, al fine di conoscerle o riscoprirle.
Inoltre, a rendere ancora più ricca l’offerta culturale di quest’anno, il Musée archéologique di Sollières- Sardières in Savoia, che entra a far parte dei siti archeologici protagonisti dell’iniziativa in virtù del pluriennale rapporto di collaborazione transfrontaliera.
Per l'edizione del 2012 si aggiunge poi la giornata del 5 ottobre, dedicata agli insegnanti e agli allievi della Valle pensata per contribuire a costruire una maggiore consapevolezza del patrimonio culturale ospitato nel loro territorio.
La prima risorsa di una comunità sono i giovani e nella programmazione delle giornate dell’archeologia si vuole dare più spazio a loro, per promuovere un metodo reale di laboratorio partecipato. Si vuole costruire, attraverso i siti culturali, uno spazio di incontro e confronto intergenerazionale, capace di narrare i racconti delle comunità del passato in dialogo con chi avrà il compito di strutturare quelle del futuro, senza nascondere i problemi e le questioni aperte. La scelta è quella di creare un grande album collettivo di comunità, capace di riconoscere anche le immagini ormai sbiadite e sempre aperto all’inserimento di nuovi tasselli.
Saranno aperti gratuitamente al pubblico tutti i luoghi d’arte statali e quelli di Enti e Istituzioni che aderiscono alla manifestazione: siti appartenenti al patrimonio archeologico, artistico, storico, architettonico, archivistico e librario, cinematografico, teatrale, musicale.
venerdì 21 settembre 2012
Viaggio nella Storia - Giara di Siddi
Dopo la lunga pausa estiva, riprendono le attività culturali legate alle escursioni. Domenica 30 Settembre, l'Associazione Tsìppiri organizza un'escursione sulla Giara di Siddi. La giornata sarà dedicata al vino e all'antico culto dei defunti che si celebrava presso i templi denominati Tombe di Giganti.
L'appuntamento per chi parte da Cagliari è al T-Hotel, alle ore 09.30 (si richiede la massima puntualità). Il raduno è previsto alle 10.15 all'ingresso di Lunamatrona.
Ore 10.30 - Visita alla Tomba di Giganti di Lunamatrona.
Ore 11.30 - Convegno sulle libagioni e sul culto dei defunti, presso i vigneti della cantina Lilliu, dove, alle 13.00, nella zona conviviale, un gruppo di "arrostidorisi" preparerà un pranzo tipico sardo (costo 20 Euro). Le pietanze sono rigorosamente locali, selezionate da allevatori e agricoltori della Giara. Il capanno ha 4 tavolate in grado di ospitare 20 persone ciascuna, e domina la Marmilla a 360° con un panorama mozzafiato a 600 metri sul livello del mare.
Pomeriggio:
Ore 16.00 - Dal capanno, il gruppo si muoverà per una passeggiata (1 km) sul pianoro della Giara, con visita guidata alla monumentale Tomba di Giganti Sa Domu 'e S'Orku.
A seguire, verso le ore 18.00, degustazione di vini delle cantine Lilliu e spiegazione della vinificazione.
Partecipazione libera e gratuita, con mezzi propri.
Informazioni al 338.2070515 o inviando una mail a pierlu.mont@libero.it
giovedì 20 settembre 2012
Riflessioni sulla storia dei popoli che frequentavano il Mediterraneo antico.
Riflessioni sulla storia dei popoli che frequentavano il Mediterraneo antico.
di Matteo Riccò.
(Lettura inaugurale congresso SIDILV Parma - 2009)
La storia del continente europeo rappresenta un puzzle che le convenzionali metodiche di indagine archeologica e storica sono difficilmente in grado di risolvere. I primi documenti storici accessibili in nostro possesso risalgono infatti al XIV – XII a.C. : si tratta dei testi palaziali micenei in lineare B, intellegibili in quanto – pur composti in un complesso alfabeto sillabico, decifrato nel corso del XX secolo dall’inglese Michael Ventris, sono espressione della più antica variante del greco antico. Si tratta, tuttavia, di testi molto “poveri”, quantomeno secondo il punto di vista del lettore contemporaneo: comprendono quasi esclusivamente registri annonari, ovvero documentazione amministrativa, in cui solo eccezionalmente compaiono accenni alla realtà storica contemporanea – che, comunque, non va oltre alle specifiche esigenze del palazzo e del suo contado.
Al di là dell’indiscutibile valore storico e documentario, cercare di ricostruire le più antiche vicende europee – o quantomeno dell’area geografica dell’Egeo, tramite questa documentazione è come tentare di immaginare la travagliata storia del XX secolo tramite un registro contabile. Relativamente maggior fortuna si ha non appena varcato l’Egeo: gli archivi di Hattusas, capitale del coevo impero ittita, contengono infatti un certo numero di testi letterari e storici. Ad esempio, la loro scoperta e decifrazione ha permesso di scoprire come il leggendario Ramesses II avesse clamorosamente “gonfiato” tramite una propaganda pubblicitaria degna dei nostri tempi gli esiti assai più controversi della battaglia di Qadesh che, combattuta nel XII secolo a.C. fra forze ittite ed egiziane per il controllo della Siria, fu dal grande faraone spacciata come una clamorosa vittoria sul nemico asiatico. O come Esiodo, uno dei più grandi poeti dell’arcaismo greco, avesse risentito, nella composizione delle sue opere pervenuteci (“Le Opere e i Giorni” e la “Teogonia”) dell’impronta culturale ittita, sopravvissuta al crollo dell’impero nel corso del XII secolo a.C.
Per chi si interessa della storia europea, in ogni caso, l’utilità di tale documentazione è comunque solo parziale. Nonostante una certa storiografia abbia interpretato l’impero ittita come prima espressione di una potenza “europea”, per collocazione geografica (la penisola anatolica) e per interessi politici e commerciali, esso appartiene indiscutibilmente all’area medio-orientale, da cui – all’atto pratico, si distingue quasi esclusivamente per ragioni etnico-linguistiche. Gli Ittiti sono infatti la prima popolazione indoeuropea (o supposta tale) a comparire nelle vicende storiche mediorientali sotto forma di uno stato centralizzato e ben organizzato: la prima storiografia del ‘900 (soprattutto di area tedesca), spinta da una propaganda di stato volta ad identificare affinità culturali fra mondo ittita e mondo germanico, funzionale al crescere degli interessi tedeschi in area mediorientale, esaltò la cultura ittita come primordio della cultura europea, ravvisando in essa aspetti che in realtà non esistevano.
A testimoniare il fatto che le attenzioni ittite fossero rivolte ad oriente piuttosto che all’occidente (prefigurando la secolare ambiguità di tutte le entità statuali che andranno ad occupare l’area anatolica), nonostante la grande fioritura micenea e quella ittita siano grossomodo contemporaee, la documentazione di Hattusas riserva accenni del tutto sporadici al mondo egeo ed all’Europa in generale. Affascinante, certo, che in questi archivi si parli di una città occidentale chiamata Wilusa (“pericolosamente” affine al termine Ilio, altro nome di Troia) in guerra con certi Ahhiyawa (Achei?) in documentazioni in cui nomi assai famigliari quali Paride, Alessandro, Achille e così via emergono improvvisi e del tutto inattesi.
Detto ciò, risalire tramite documenti storici al periodo ancora più antico, e sicuramente decisivo nella formazione dell’identità europea – a quelle prime fasi di “storia” europea indissolubilmente intrecciate con la fine della “preistoria” è praticamente impossibile.
Su questa mancanza di documentazione scritta, e sulla carenza dei dati archeologici, la storiografia del primo ‘900 ha ampiamente ricamato: in analogia al citato esempio degli Ittiti come leggendari precursori dell’Impero Germanico, le potenze coloniali europee hanno variamente fatto proprie le diverse civiltà portate alla luce dalla nascente ricerca archeologica, gareggiando nel riconoscere in esse più o meno diretti precursori della propria identità culturale. Basandosi sulla narrazione di Tucidide relativa alla più antica storia greca e su Erodoto, Evans – lo scopritore di Cnossos e del cosiddetto “Palazzo di Re Minosse”, immaginò ad esempio la civiltà minoica come un Impero dei Mari (Talassocrazia) assai più simile all’Impero Britannico di sua Maestà Britannica la Regina Vittoria che al mondo minoico quale noi oggi effettivamente abbiamo imparato a conoscere.
Il passo che separa queste fantasiose ricostruzioni storiche (comunque ancora dotate di una base documentale) alle affermazioni pseudostoriche del nazionalsocialismo (che vedeva nel Volk tedesco l’ultima e più pura espressione di una primitiva civiltà eurasiatica, esistente piuttosto nei racconti di fantascienza che nella realtà storica), è pericolosamente breve.
Non immaginando le drammatiche conseguenze che tale approccio avrebbe prodotto di lì ad alcuni decenni, la storiografia del tardo ‘800 immaginò che l’Europa preistorica fosse stata la culla di una remota cultura megalitica (di cui per altro ancora si trova purtroppo traccia nei moderni libri di storia delle scuole medie e superiori) che, in perfetta analogia alle potenze coloniali europee del tempo, si sarebbe quindi diffusa a tutto il continente eurasiatico “portando civiltà” (per usare le formulazioni care agli scrittori del tempo) ed acquisendo da una regione all’altra caratteristiche specifiche. In altre parole, i dolmen ed i menhir propri dell’area nordica, rappresenterebbero l’improvvisa ed ancora primitiva fioritura di una stessa medesima civiltà che quindi avrebbe partorito il cerchio di pietra di Stonehenge, le grandi fortezze micenee, e persino le Piramidi di Giza! I responsabili di questa fiuritura? Le popolazioni che abbiamo già definito come indoeuropee.
Il gruppo indoeuropeo comprende un vasto spettro di lingue diffusesi nel continente Europeo ed Asiatico in un periodo compreso fra il 2500 a.C. ed il 1200 a.C. Se parlare di lingue indoeuropee (fatte salve alcune critiche isolate) è un fatto assolutamente accettato dalla larga maggioranza dei ricercatori, ammettere che ad una lingua indoeuropea si sia associata una cultura, e soprattutto popoli chiaramente definibili come indoeuropei rappresenta comprensibilmente una tematica tuttora assai spinosa. La scoperta dell’indoeuropeo, inteso come gruppo linguistico da cui molte lingue moderne sarebbero in ultima analisi discese, risale infatti all’epoca romantica (Franz Bopp), in cui l’assioma lingua = popolo era considerato pressoché inattaccabile e la riscoperta dei valori originari del proprio popolo un dovere quasi ineluttabile della ricerca culturale. E quale antichità più remota – e quindi più “nobile” di quella delle più precoci origini? Origini che, per altro, stando alla ricostruzione di Bopp (che per altro noi stessi moderni accettiamo) vedrebbero una sola lingua comune all’origine del Latino, del Greco, di tutte le lingue germaniche, del Persiano, e persino dell’antichissima lingua delle più grandi civiltà indiane – il Sanscrito.
Da qui l’identificazione fra gli indoeuropei ed i cosiddetti popoli megalitici. Identificazione che solo fatti relativamente recenti hanno rimosso: prima di tutto, l’applicazione delle metodiche di datazione (ad esempio, la datazione al radiocarbonio) che permesso di scoprire che le opere attribuite ai “megalitici” fossero in realtà del tutto eterogee dal punto di vista cronologico – comprendendo costruzioni risalenti ad un passato effettivamente remotissimo (fino a 6,000 anni prima di Cristo), ma anche molto più recenti (epoca romana), non essendo quindi omolagabili in quando espressione di una sola civiltà. Secondariamente, proprio la datazione al radiocarbonio (primo apporto della moderna ricerca scientifica a discipline storicamente “letterarie” quali l’archeologia e la storiografia) ha permesso di scoprire che la popolazione dell’Europa da parte delle civiltà responsabili delle opere “megalitiche” sarebbe avvenuta per una serie di ondate diverse, accomunate da un solo carattere: provenire dall’oriente, e di cui l’ondata migratoria indoeuropea sarebbe stata solo l’ultima, in ordine cronologico.
Certamente l’Europa è caratterizzata da siti archeologici molto antichi: sulle rive del Danubio, fra il 7,000 ed il 4,800 a.C. fiorì l’insediamento preistorico di Lepenski Vir, già caratterizzata da un notevole sviluppo culturale (testimoniato dal culto dei morti, espressione di viva attività religiosa), tecnico (come sottolineato dalla strumentazione agricola e progettata per la pesca), sociale (i reperti storici suggeriscono che l’insediamento fosse caratterizzato da un minuto sviluppo sociale) e persino artistico. Considerando l’area anatolica come ultima propaggine orientale dell’Europa, proprio in quest’area si trova la più antica città conosciuta al mondo – il cosiddetto insediamento di Catalhöyük, che all’apice della propria fioritura (fra 6,000 e 8,000) fu popolata da quasi 10000 persone risiedenti in una intricata struttura residenziale in muratura a forma di alveare, arricchita da rappresentazioni pittoriche ed aree cultuali con caratteri di veri e propri templi. Persino nelle estreme propaggini del nord Europa – nelle isole Orcadi, è possibile trovare insediamenti di sorprendente complessità, come quello di Skara Brae, popolato dal 3,100 al 2,500 a.C.
In ogni caso, come emergente da questo rapido excursus e dalla verifica delle date proposte (dal IX millennio di Catalhöyük si passa al IV millennio di Skara Brae) se di diffusione culturale si può parlare attraverso il territorio europeo nel corso della preistoria del continente, questa avvenne sempre, ed invariabilmente, con una sola direzione: da Oriente (cioè dall’Asia e dall’Africa) verso Occidente. Mai il contrario ipotizzato dagli storici inglesi e tedeschi del tardo 1800/primo 1900. Persino la migrazione indoeuropea ebbe origine dall’Asia, e non dall’Europa – che invece fu, al pari dell’India, il sito terminale di una parte di questo evento.
Ciò detto, possiamo ribadire che le modalità di colonizzazione dell’Europa, e soprattutto le vicende che determinarono la conformazione etnografica del continente rimangono confuse, difficilmente districabili dalle più comuni metodiche di indagine archeologica e storiografica prese per se– ovvero, la ricerca sul campo e l’indagine di documentazione, primaria (i.e. documenti coevi del periodo oggetto dell’indagine) o secondaria (e.g. rapporti di storici antichi), di cui l’applicazione delle citate tecniche di datazione rappresenta solo la più moderna estensione.
La ricerca sul campo è infatti compromessa dalla forte antropizzazione del continente europeo e dalla sua peculiare storia di civiltà urbane: quasi tutti i siti preistorici si sono infatti trasformati in insediamenti di varia natura (etruschi, celtici, germanici, e così via), quindi convertite in città romane che, in qualche modo sopravvissute alle alterne vicende del medioevo, sono quindi le nostre città moderne. Per restare alla sola Emilia Romagna: la moderna Bologna è il risultato della trasformazione degli insediamenti villanoviani nell’etrusca Felsinea, quindi conquistata dai Celti e da questi ridisegnata a proprio uso e consumo fino alla conquista romana ed alla nascita di Bonomia, precursore della Bologna medievale (basta passeggiare per il centro storico per scoprire, innestate ed integrate nei palazzi due-trecenteschi colonne di chiara origine romana) e quindi della città rinascimentale, e così via, fino ai giorni nostri. Indagare (ovvero: scavare) in questo contesto è chiaramente difficile, se non impossibile: non è un caso che alcune delle più sorprendenti scoperte archeologiche recenti siano state casuali, e legate ai lavori per opere urbane di tutt’altra destinazione (emblematico il ritrovamento degli archivi micenei di Tebe durante gli scavi per la circonvallazione cittadina). Per quanto riguarda l’aspetto documentario, la risposta è ancora più semplice ed in qualche modo deprimente: la documentazione che a noi interesserebbe avere non esiste. Come detto, l’Europa iniziò a “scrivere” (e soprattutto: a scrivere di ciò che noi potremmo chiamare storia, o comunque impiegare per ricostruire la storia) solo in tempi sorprendentemente recenti. Ovverosia, non prima del VI secolo a.C., ed anche in questo caso gli acconti storici presentano ampi varchi. Chi dell’Europa poteva scrivere (riprendiamo l’esempio degli Ittiti) semplicemente non aveva motivo per farlo.
Per meglio capire cosa si intenda, basterà una banale riflessione terminologica. Premesso che il termine Europa sia di etimologia tutt’altro che certa, l’interpretazione più moderna lo vede come derivato di una radice semitica (per l’esattezza, accadica): “erebu”, ovvero “tramonto / terra del tramonto” (i.e. “occidente”) da cui il termine omerico “Erebo”. Nel mondo di Omero, l’Erebo (che geograficamente corrisponderebbe al moderno Portogallo) è la terra dei morti. Un luogo in cui i vivi non possono accedere se non in particolarissime condizioni. Avvicinandoci alla nostra specifica realtà, ricordiamo come il più antico nome di Italia (che a sua volta deriverebbe dall’osco Viteliù, ovvero “terra dei vitelli”) sarebbe Esperia (“terra della sera”) – ugualmente associato ad un mondo fantastico. In altre parole: l’Occidente rappresentò a lungo e fino a tempi relativamente prossimi un vero e proprio enigma. Una frontiera nella quale confinare mostri (da Gerione a Scilla e Cariddi) o l’accesso al mondo sotterraneo, ovvero popolata da genti primitivi che, per usare i termini omerici, non sanno distinguere un remo da falce, o sottoposte a misteriose ed incomprensibili divinità – i cosiddetti Iperborei (coloro che vivono sopra il soffiare di Borea, uno dei 4 venti antichi).
Per cercare di superare la barriera rappresentata dalla carenza di fonti storiche dirette, la moderna ricerca può tuttavia avvalersi di strumenti di pari validità scientifica, quali l’indagine linguistica e mitografica e, aspetto subentrato solo nel corso degli ultimi 20 anni, le più avanzate pratiche laboratoristiche – fra le quali, la ricerca genetica.
L’uso dei miti antichi come fonte informativa è in realtà una procedura molto antica: anticamente – quantomeno, fino agli albori della civiltà giudaico cristiana, e quindi per larghi tratti del medioevo, eventi propri del mito erano considerati come storici. Nessun ateniese di età classica avrebbe mai dubitato della realtà storica dei personaggi omerici: non lo fa Tucidide,
ad esempio, che nel “prologo” alla Guerra del Peloponneso parte proprio da fatti narrati nell’Iliade e nell’Odissea e critica l’operato di Menelao ed Agamennone come avrebbe fatto con un generale del suo tempo. Ovviamente, il nostro approccio ai racconti mitici e leggendari non è più quello di una diretta ed acritica accettazione: complice la moderna scuola interpretativa, incarnata ad esempio da Dumezil ed Eliade, l’attenzione della ricerca è ora rivolto – più ancora che al mito in se, al confronto, ovverosia alla comparazione con altri repertori mitici, ed all’analisi della sua forma. Scopo di questo confronto è di riconoscere affinità, strutturali o tematiche, e/o le eventuali divergenze. Questi dati, interlacciati con le informazioni provenienti dalle più convenzionali metodiche di indagine, permettono di ricostruire un’immagine più complessa ed articolata – non priva, tuttavia, di numerosi e critici caveat.
Un esempio piuttosto semplice delle conseguenze di questa modalità di approccio alla tematica storica ci viene offerto dall’analisi del mito della creazione greco, narrato da Esiodo. Esso ci narra di tre generazioni divine, in cui da entità confuse e dai caratteri del tutto animistici (Urano, il cielo e Gea, la madre terra) si passa quindi a divinità sempre più antropomorfe (Crono e Rea), fino a diventare in un certo senso “più umane degli stessi uomini” (Zeus e Hera), in cui il passaggio da una generazione all’altra è segnata da conflitti e faide del tutto simili a quelle che un antico greco poteva riconoscere fra le grandi famiglie nobiliari del suo tempo. Sulla base della successione di tre generazioni divine, è stato ipotizzato che anche la Grecia antica avesse conosciuto tre colonizzazioni successive: un modello apparentemente appropriato in cui, da divinità molto primitive legate a fenomeni atmosferici (la prima generazione divina), attribuite alla primitiva popolazione ellenica – i cosiddetti pelasgi, termine già impiegato da Tucidide e Plutarco, si sarebbe passati al panteon classico a seguito delle progressive invasioni di popoli (e quindi di cultura: e quindi di dèi) indoeuropei sempre meglio delineati. Zeus, inteso come Dio del Fulmine e leader della compagine divina è infatti una “vecchia conoscenza” per chi si dedica alla mitologia comparata, e del resto già gli antichi (da Erodoto a Tucidide, passando per Cesare e Tacito) procedevano ad una pressoché automatica identificazione di tale divinità con i vari Odino/Wotan (il dio supremo germanico), Indra (il dio delle tempeste indiano), e così via. In realtà, la realtà archeologica ha dimostrato inequivocabilmente che gli dèi venerati in epoca micenea, quindi prima dell’ultima grande migrazione in area ellenica (quella dei Dori), già fossero quelli a noi meglio noti tramite i racconti omerici ed esiodei, demolendo quindi questa parte dell’ipotesi iniziale.
D’altra parte, l’avanzamento della ricerca linguistica e proprio la comparazione mitologica hanno suggerito che le suddette generazioni divine siano associate ad una dinamica culturale assai più complessa. La deificazione di Cielo e Terra è un fenomeno diffuso in culture molto diverse, e del tutto prive di contatti e relazione: la loro presenza nel mito delle generazioni divine è probabilmente spia, piuttosto che di uno strato culturale pre-esistente l’arrivo dei greci storici nell’area ellenica, di uno strato culturale preistorico di questi ultimi. E’ invece il secondo strato, quello della generazione di Crono e Rea, a rappresentare un possibile lascito delle popolazioni pre-elleniche e della loro cultura. Prima di tutto, la funzione narrativa esercitata da Crono non è reperibile in analoghi miti della creazione, o comunque non con le caratteristiche proprie del mito greco. La ricerca linguistica ha dimostrato che il nome Crono sia di origine pre- ellenica, derivando da un radicale comune al termine “falce”, ed in particolare “falce di luna”. Crono, che nella tradizione romana viene identificata con la divinità delle messi (Saturno) sarebbe dunque un’antica divinità implicata sia con i raccolti che con i cicli stagionali, esattamente come la divinità latina (per di più corradicalica) Cerere. Poiché i reperti archeologici ed un controverso passo di Erodoto suggeriscono che il culto
delle popolazioni greche più antiche fosse associato a divinità del mondo sotterraneo e dei raccolti (Crono è anche custode del Tartaro, il mondo sotterraneo, prima che il figlio Hades lo rimpiazzi alla fine dell’ultima ribellione divina), è quindi Crono la divinità più propriamente indicata. Esiste inoltre buona evidenza che divinità mediterranee del raccolto e delle messi (come il semitico El) siano strettamente correlate a tale figura.
È a questo punto che entra in gioco la moderna ricerca laboratoristica, ed in particolare l’indagine genetica. Se alla comparsa di una determinata cultura (e quindi di una determinata lingua, dei miti fondatori, di una religione, e così via) si associa infatti il movimento fisico di esseri umani, questo si associa alla comparsa od alla scomparsa del relativo patrimonio genetico.
La ricerca scientifica ha sfruttato varie possibili modalità di indagine genetica rispetto alle popolazioni umane. Le più classiche strategie hanno riguardato la determinazione delle frequenza dei gruppi sanguigni umani, così come del fenotipo Rh-. L’epocale ricerca di Cavalli Sforza ha, per esempio, sottolineato come particolari popolazioni europee siano caratterizzate una prevalenza estremamente elevata del suddetto fenotipo. Poiché questo appare più frequente in area mediterranea, ed in regioni storicamente caratterizzate da culture sostanzialmente slegate dalla “koiné mediterranea” tanto cara alla cultura classica – come l’area pirenaica ed i paesi baschi, l’area anatolica e, in misura minore, la Toscana, esso è stato considerato un classico marcatore dei popoli europei più antichi. In realtà, i gruppi sanguigni rappresentano solo una, e forse la più rozza, delle strategie di indagine applicabili e che possono riguardare la ricerca di specifiche mutazioni di determinati geni, la cui particolare prevalenza in una data popolazione può essere considerata conseguenza del più classico effetto fondatore. Un esempio molto noto è quello di HFE, il gene implicato in una specifica variante dell’emocromatosi idiopatica: la mutazione, originata in epoca storica in area scandinava, ha quindi seguito le migrazioni del clan ancestrale, diffondendosi nell’Inghilterra Orientale ed in Scozia, in Francia settentrionale, ed in alcune zone dell’Italia meridionale. Un altro esempio è quello della cosiddetto sickle cell disease (anemia a cellule falciformi): una mutazione di singolo nucleotide determina in tale patologia la formazione di emazie deformi (da cui il nome), che però in condizione di eterozigosi garantiscono un vantaggio selettivo nei confronti dell’infestazione da P falciparum, l’agente eziologico della malaria. Per quanto essa sia comparsa in varie popolazioni, in tempi ed in modi diversi, nell’area mediterranea essa raggiunge i massimi livelli di prevalenza in aree oggetto della colonizzazione fenicia a partire dal XII secolo a.C. - quindi Africa settentrionale, Italia meridionale ed insulare. Anche mutazioni assai più frequenti a livello di popolazione si sono rivelate marcatori di antichi eventi migratori: è il caso della celebre mutazione DF508 del gene dei canali del sodio, riscontrato in corso di fibrosi cistica. Il gene mutato è presente in condizione di eterozigosi con prevalenza media di 1/50 nella popolazione europea (da cui la prevalenza di 1/2500), di cui è del tutto esclusivo. In altre parole, il gene della fibrosi cistica può essere considerato un marcatore delle migrazioni dei più antichi popoli europei, ed in particolare proprio della migrazione indoeuropea.
Tornando all’esempio dell’antico mondo ellenico, ricerche condotte sul fenotipo HLA hanno rilevato come la moderna popolazione greca sia il risultato della progressiva stratificazione di pool genetici: in molti casi, essi sono stati agevolmente identificati in base ai dati storici (è il caso di geni associati a popolazioni turche), ma un’ampia base genetica, comune con popolazioni dell’area mediterranea, può essere spiegata come lascito delle più remote popolazioni agricole dell’area ellenica, sulle quali le successive migrazioni indoeuropee sarebbero andate a sovrapporsi.
Questa vicenda di sovrapposizioni, suggerita dai reperti archeologici è dunque confermata dalla ricerca genetica, che tuttavia non è in grado di determinare con certezza il periodo storico in cui l’evento avrebbe avuto luogo – il che rende dunque essenziale il costante incrocio delle diverse fonti informative. Sebbene sia stato osservato che tali frequenze geniche proprie dell’area ellenica potrebbero trovare una spiegazione in eventi storici medievali (le invasioni araba, slava, avara e turca), è pur vero che la ricerca linguistica ha chiaramente dimostrato che in quasi la metà del vocabolario di base del greco antico non sia effettivamente ricostruibile una radice indoeuropea. Questo può essere solo parzialmente spiegato nell’ambito di potenziali prestiti linguistici, in particolare con l’area del vicino oriente. Ancora una volta, l’archeologia ci dice che, quantomeno fino alla nascita delle grandi potenze imperiali assira e persiana, la Grecia continentale guardasse più ad oriente che ad occidente – e con gli scambi culturali arrivano stilemi artistici, e soprattutto terminologie e nuove parole che vanno ad arricchire il vocabolario di un popolo, affiancandosi o sostituendo termini preesistenti.
La ricerca linguistica, condotta sui più antichi testi greci a nostra disposizione, dimostra che buona parte di queste parole siano state importate nel vocabolario comune del mondo greco assai prima che questi scambi si installassero in modo stabile. Da rilevare che questo vocabolario presenta particolarità specifiche a livello di significato e di significante (ovvero di aspetto fonetico): quasi tutti i nomi della flora e della fauna propria dell’area mediterranea presentano fatti e fenomeni linguistici che possono essere spiegati solo come esito di importazione da un sostrato linguistico preesistente, con caratteristiche fonetiche, per altro, del tutto diverse dal mondo semitico ed anatolico. Un sostrato, per di più, comune a buona parte delle culture di derivazione più o meno diretta dal mondo indoeuropeo ed installatesi nell’area mediterranea. L’esempio più celebre è rappresentato dal termine “rodon”, “rosa” in latino in cui si rileva una particolare alternanza consonantica fra s/d, analoga a quella riscontrabile nel nome dell’eroe omerico meno “indoeuropeo” che si possa immaginare – Ulisse (Odusseus/Ulixes) o nel termine per “lacrima” (dacruma/lacruma). Una regola molto semplice della linguistica, teorizzata da DeSaussurre nel corso del secolo scorso, è che suoni “instabili” (l’instabilità è determinata dalla necessità di articolare in modo particolarmente complesso l’azione degli organi fonatori) evolvano per semplificazione verso suoni più “stabili” (e quindi più semplici da articolare). In altre parole, per giustificare questa particolare alternanza fonetica, è stato ipotizzato che quel pool terminologico deriverebbe da una o più lingue (oggi perdute) caratterizzate da suoni complessi, estranei alla fonetica indoeuropea, ed acquisiti dalle lingue indoeuropee a prezzo di semplificazione dei suoni complessi, con modalità diverse da una lingua all’altra.
A questo strato remotissimo è stato dato il nome di “mediterraneo” o “pelasgico” (sempre dal nome delle più antiche popolazioni che, stando agli antichi greci, avrebbero popolato l’area mediterranea). Chi fossero queste popolazioni è tutt’altro che chiaro. Ancora una volta, l’indagine genetica suggerisce che si tratterebbe di popoli emigrati dal continente africano – o forse dall’area asiatica, al termine dell’ultima glaciazione e che avrebbero uniformemente popolato l’area europea fino all’arrivo delle popolazioni indoeuropee. Questa ricostruzione viene confermata dall’indagine sui geni del grano e dei principali cereali coltivati in area europea, sia in epoca storica, che contemporanea, che rinvenuti in reperti archeologici. Ancora una volta, la ricerca genetica conferma le ipotesi archeologiche e ribadisce come il flusso informativo – e probabilmente etnico, sia sempre stato verso l’Europa, piuttosto che dall’Europa, proveniente dall’Africa settentrionale e dall’Asia occidentale.
Secondo l’interpretazione classica, i popoli indoeuropei avrebbero esercitato un’inarrestabile forza d’impatto grazie alla
particolare struttura sociale, in cui un sistema di caste (quello indiano di epoca storica sarebbe derivato proprio dall’originaria stratificazione indoeuropea) sosteneva l’esistenza di un classe di guerrieri professionali, cui la disponibilità di armi “hi-tech” (per gli standard preistorici) quali il cavallo, il carro e l’arco da guerra, avrebbero dato un vantaggio sostanzialmente non pareggiabile né dal numero né dalla conoscenza del territorio delle popolazioni stanziali.
La migrazione indoeuropea sarebbe iniziata nel corso del III millennio a.C., originando dall’area del mar Caspio. A suggerire tale areale di origine sono vari fatti, ancora una volta archeologici, mitografici, linguistici e genetici.
Per prima cosa, i dati archeologici dimostrano che a partire dal III millennio a.C. determinate tipologie sepolcrali originarie dell’area suddetta, con presenza di specifiche armi (come appunto l’arco) si diffondono per cerchi concentrici verso oriente e verso occidente. Non va comunque dimenticato che la migrazione della cultura non sia necessariamente associata alla migrazione dei popoli, e che l’adesione ad una cultura non significa necessariamente una sostituzione etnografica (ad esempio: le popolazioni ungheresi sono affini a quelle germaniche e slave, ma parlano una lingua del tutto dissociata da quelle circumvicine; la Persia moderna manifesta una radicale islamizzazione della propria cultura, ma questo non ha significato né l’adozione dell’arabo come lingua né tantomeno la sostituzione dell’etnia persiana) senza contare che non si ha la certezza che questi popoli siano effettivamente identificabili negli indoeuropei.
L’estrema antichità di questa migrazione ha ovviamente impedito la conservazione di reperti storiografici (diversamente dalle migrazioni dei popoli medievali – le invasioni barbariche dei libri di scuola), ma che eventi drammatici abbiano colpito l’Europa preistorica, con un confronto fra popoli nomadi provenienti dall’Asia e popolazioni agricole residenti è suggerito da alcuni reperti archeologici e confermato da una vasta base mitografica.
L’Edda di Snorri (testo redatto nel medioevo, ma contenente accurata descrizione di miti risalenti all’epoca preistorica) ci racconta che gli Asi, divinità provenienti dall’Asia (sic), nelle quali sono facilmente riconoscibili omologi delle divinità olimpiche (ovvero: il panteon di base del mondo indoeuropeo), avrebbero avuto un aspro e sanguinoso conflitto con i primitivi signori del mondo, i Wani (termine corradicalico di Venere), esseri ugualmente divini strettamente associati con la sfera delle fertilità e con i cicli dei campi coltivati e della natura. Non casualmente, i due Wani più importanti sono Freyr e Freya, divinità associate alla sfera sessuale e germinativa (vedasi il latino fruor), ed a tutto l’ambito della magia. Sempre stando al mito nordico, Odino avrebbe acquisito potere dai e sui Wani nel corso della propria ascesa al sommo potere fra gli dèi, probabilmente trasmettendo il ricordo di una prima fase di incontro-scontro con le popolazioni pre-esistenti, e delle prime fasi della fusione dei popoli più antichi e di quelli immigrati (non a caso, la sposa di Odino è Frigg, ugualmente derivante dalla radice di fruor, o addirittura Freya secondo altre versioni).
Cosa abbia determinato l’originaria migrazione indoeuropea è tutt’altro che chiaro. Esiste un resoconto storico di Ammiano Marcellino, quindi di età relativamente recente (IV secolo d.C.), secondo il quale a scatenare le più antiche migrazioni di Celti e Germani sarebbe stata una disastrosa inondazione, il cui ricordo era conservato dalle relative caste sacerdotali.
Poiché il T0 della migrazione indoeuropea corrisponde in modo sorprendente con la forbice temporale per le grandi inondazioni di cui i miti del diluvio mesopotamici (dal diluvio di Utnapishtim a quello biblico) conservano il ricordo, è stato ipotizzato che la scintilla della migrazione indoeuropea possano essere stati sconvolgimenti climatici nell’area compresa fra Mar Nero, Mar Caspio e Mesopotamia settentrionale.
A confermare ulteriormente questa ricostruzione è nuovamente una fonte letteraria, indipendente dal mito del diluvio, avvalorata da dati genetici.
Nel racconto del Ragnarok, la cosiddetta “apocalisse nordica” (o “crepuscolo degli dèi”), pervenutaci in una redazione islandese del X secolo d.C., viene descritto come le divinità sopravvissute alla “resa dei conti” fra le diverse forze della natura e destinate ad aprire un nuovo ciclo temporale, entreranno in possesso delle “tavole del destino”. Un passo piuttosto enigmatico, giacché i suddetti “oggetti” non sono reperibili in nessun altro mito nordico conosciuto. E che trova l’unica, sorprendente, analogia, con la conclusione dell’Enuma Elish, un testo sumero del IV millennio a.C., in cui una guerra fra diverse generazioni di dei – culminante a sua volta in una vera e propria apocalisse, è proprio incentrata sul possesso delle suddette “tavole del destino”. Analogia ancor più sorprendente quando si pensi che i primi versi dell’Enuna Elish (“quando in alto il cielo non c’era...”) echeggiano in modo assai sospetto i primi versi del mito della creazione norreno (“in principio il cielo non c’era...”), sebbene a separare questi versi sia un vero e proprio abisso geografico, culturale e cronologico (quasi quattromila anni).
Certamente, questi riscontri potrebbero essere solo analogie casuali (il risultato, per così dire, di un’evoluzione parallela), ma come si diceva alcuni dati genetici ci portano ad ipotizzare non soltanto che la migrazione indoeuropea abbia avuto inizio nel 2500 a.C. - e quindi nella fascia cronologica sospetta, ma anche con l’epicentro di cui sopra, nelle aree geografiche di cui sopra, interessando nelle sue aree di origine anche l’area nord- mesopotamica. Pertanto, i reperti citati potrebbero essere un vero e proprio “fossile” letterario, determinato dal particolare ambito di riferimento (quello religioso).
La delezione del recettore per le chemochine CCR5 (CCR5- delta 32) è infatti un carattere genetico ampiamente diffuso nelle popolazioni europee, distribuendosi sui due versanti del mar Caspio con andamento sovrapponibile a quello delle due principali branche delle lingue indoeuropee (gruppo occidentale o centum e gruppo orientale o satem, così detti dalla diversa pronuncia del numero 100, a sua volta determinata dal diverso trattamento fonetico del radicale più primitivo), dei gruppi sanguigni, degli ambiti culturali considerati indoeuropei. La suddetta mutazione offre una certa resistenza costitutiva per i suoi portatori nei confronti di alcune infezioni virali, come HIV, e garantirebbe resistenza anche nei confronti di Y pestis, l’agente eziologico della peste bubbonica. I primi studi sull’argomento avevano ipotizzato che CCR5-delta 32 fosse il risultato di una selezione darwiniana subentrata all’epoca della Peste Nera del 1348.
In realtà, la presenza del gene in aree sostanzialmente trascurate dall’epidemia (e quindi non oggetto della suddetta selezione) e piuttosto caratterizzate da un profondo isolamento geografico sin dall’epoca pre-romana (e.g. le isole della Dalmazia), ovvero in aree del tutto ignorate dall’epidemia del 1348 (l’area caucasica e centrasiatica) ha suggerito che la diffusione di tale carattere genetico sia estremamente più remota. Poiché Y pestis è emerso come patogeno in epoca storica, e poiché la forbice ipotizzata vede il fatidico 2500 a.C. dell’originaria radiazione indoeuropea come perno centrale, è ugualmente possibile che la migrazione sia stata avvantaggiata da una maggiore resistenza delle popolazioni migranti nei confronti di questo specifico patogeno – o di patogeni simili, attualmente ignoti ed ugualmente impieganti il CCR5 come recettore di adesione.
I semplici esempi qui proposti dimostrano che le indagini genetiche siano quindi diventate un essenziale strumento di ricerca storiografica, affiancandosi a metodiche più tradizionali, che vanno ad integrare e completare. Con risultati talora sorprendenti. Un caso molto particolare è rappresentato dal secolare problema dell’origine degli etruschi. I cosiddetti Tirreni, o Rasna (nome che essi stessi si davano, a quanto ne sappiamo), fiorirono nella penisola italica nel corso del I millennio a.C., dando vita ad una civiltà del tutto particolare, che ha esercitato estremo fascino sui popoli del mondo antico, e sui moderni. In ragione della capillare diffusione di stilemi artistici di area orientale piuttosto che greca, scrittori antichi ipotizzarono che i Tirreni fossero il risultato di una migrazione preistorica proveniente dall’Anatolia. Questo, quantomeno, il resoconto storico di Erodoto: stando al celebre storico ateniese, l’élite di alcune popolazioni della Lidia (una regione dell’Anatolia meridionale) sarebbe stata spinta all’emigrazione da anni di gravissima carestia, giungendo infine alle coste dell’Italia e lì installandosi, e quindi fondendosi con le popolazioni italiche originarie.
L’evento sarebbe successo tra il XIV ed il XII secolo a.C. - un periodo anche in questo caso molto sospetto, in quanto corrispondente al tracollo della civiltà minoica ed al tracollo delle strutture statuali egizie del tempo. Non abbiamo ovviamente prove che tali eventi siano simultanei ma, poiché si ha buona evidenza che a provocare almeno la fine della potenza minoica sia stata l’esplosione dell’isola di Santorini, con il conseguente tsunami ad investire le coste di tutto il mediterraneo orientale, ipotizzare che effettivamente aree anatoliche siano state ugualmente investite e duramente colpite non è affatto improbabile.
L’archeologia, da cui la sostanziale ribellione di Sabatino Moscati e Massimo Pallottino a quest’interpretazione degli Etruschi come popolo dell’Oriente, non rivela in realtà una radicale cesura fra le civiltà centro-italiche del tempo (ed in particolare, la cosiddetta “cultura villanoviana”) e le prime fasi della cultura cittadina etrusca. Anche i caratteri fortemente orientalizzanti della società etrusca possono essere interpretati nell’ambito della già citata koiné mediterranea: l’analoga orientalizzazione del mondo ellenico coevo ci sfugge solo a causa della sistematica azione distruttiva esercitata dall’età classica ed ellenistica sulle grandi opere urbane e cittadine del mondo greco delle origini, e che invece traspare immediatamente una volta esaminati i reperti del tempo fino a noi sopravvissuti (spesso proprio tramite i monumenti sepolcrali etruschi).
Anche per quanto riguarda gli aspetti più misteriosi della civiltà etrusca – ovverosia la lingua e la religione, non è necessario chiamare in causa un’emigrazione dall’oriente. La lingua etrusca non rappresenta, di per sé, un mistero inestricabile. Semplicemente, ci mancano i testi. Benché il mondo etrusco abbia prodotto una grande mole di prodotti letterari – così di raccontano gli antichi, ed in prima persona nientemeno l’Imperatore Claudio, autore di una Storia Etrusca purtroppo perduta – essi non sono sopravvissuti al II secolo d.C. ed alla sistematica romanizzazione dei popoli dell’area toscana. I nostri tentativi di approcciarci alla lingua estrusca sono limitati dal fatto che i documenti a nostra disposizione sono niente di più che qualche lapide tombale, incisioni su oggetti (vedasi il fegato di Piacenza) e qualche documento di valore legale. L’analisi linguistica ha rivelato come l’Etrusco sia una lingua a carattere agglutinante, come le lingue ungro finniche (ovverosia l’ungherese ed il finlandese, ma anche come il turco, e come molte lingue asiatiche ovviamente non connesse all’evoluzione della società etrusca): è stato ipotizzato che esso sia strettamente imparentato con il basco, il che renderebbe queste due realtà espressione di una civiltà pre-indoeuropea (diciamo pure “mediterranea”) giunta, ad una piena maturazione. Chi sostiene questa ipotesi, sottolinea che gli Etruschi praticassero una religione in cui divinità del mondo sotterraneo rivestissero
un ruolo primario, in sostanziale analogia a quelle popolazioni pre-elleniche di cui Erodoto aveva potuto studiare la lingue e le usanze perché isolate sulle più remote montagne greche. Su quest’ultimo punto va tuttavia sottolineato come le divinità etrusche, piuttosto che ctonie, fossero celesti (in analogia al panteon indoeuropeo), quantomeno nelle prime e più remote fasi, acquisendo caratteri ctoni solo in una seconda e più recente frase.
D’altro canto, tali argomentazioni, anche pienamente accolte, non bastano ad escludere l’ipotesi erodotica. Per prima cosa, popoli dell’Asia minore emigrati in occidente avrebbero potuto importare una cultura mediterranea affine a quella riscontrabile nel territorio di arrivo – evento tanto più probabile se si accetta una certa uniformità delle popolazione e delle culture mediterranee alla vigilia della radiazione indoeuropea (ancora in corso all’epoca della supposta migrazione in occidente delle popolazioni anatoliche). Ed il loro impatto non sarebbe stato necessariamente quello di un’esplosione o di una rivoluzione – ma piuttosto un effetto simile al lievito: l’importazione di tecnologie avanzate provenienti dal più civilizzato oriente, e di nuovi animali avrebbe piuttosto consentito l’accelerazione dell’evoluzione sociale.
Ad avvalorare questa possibilità, la celebre “stele di Lemno”, incisa con caratteri alfabetici molto primitivi, ma molto simili a quelli usati in epoca storica dai popoli etruschi, ed espressione dell’unica lingua a noi nota effettivamente imparentata con l’etrusco. Poiché la posizione della stele sarebbe proprio sulla strada seguita da eventuali emigranti diretti dall’Asia minore all’Occidente, l’idea che essa sia il lascito di questa migrazione è molto suggestiva – sebbene controversa.
In questa situazione confusa, i dati genetici hanno dato una svolta sostanzialmente inaspettata. Per prima cosa, le ricerche di Cavalli Sforza sul DNA mitocondriale hanno sottolineato come la popolazione toscana sia, all’atto pratico, geneticamente più affine ad isolati anatolici (ovvero: a popolazioni che, risiedendo in aree geograficamente delimitate, sarebbero sopravvissute alla robusta iniezione di caratteri genetici nel corso delle travagliate vicende della penisola anatolica) che alle circumvicine popolazioni europee, e non solo.
La ricerca veterinaria ha recentemente dimostrato che alcuni animali da allevamento considerati tipici dell’area toscana (in particolare i buoi di razza chianina) siano direttamente discendenti di un antenato di origine anatolica, ed in questo senso del tutto distinte dalle altre specie bovine allevate in Europa occidentale. Poiché si ha buona evidenza che la razza chianina sia allevata sin dall’epoca Romana, non si può escludere che proprio questi animali siano una prova dell’antica narrazione di Erodoto.
Nelle immagini: una serie di affreschi minoici.
di Matteo Riccò.
(Lettura inaugurale congresso SIDILV Parma - 2009)
La storia del continente europeo rappresenta un puzzle che le convenzionali metodiche di indagine archeologica e storica sono difficilmente in grado di risolvere. I primi documenti storici accessibili in nostro possesso risalgono infatti al XIV – XII a.C. : si tratta dei testi palaziali micenei in lineare B, intellegibili in quanto – pur composti in un complesso alfabeto sillabico, decifrato nel corso del XX secolo dall’inglese Michael Ventris, sono espressione della più antica variante del greco antico. Si tratta, tuttavia, di testi molto “poveri”, quantomeno secondo il punto di vista del lettore contemporaneo: comprendono quasi esclusivamente registri annonari, ovvero documentazione amministrativa, in cui solo eccezionalmente compaiono accenni alla realtà storica contemporanea – che, comunque, non va oltre alle specifiche esigenze del palazzo e del suo contado.
Al di là dell’indiscutibile valore storico e documentario, cercare di ricostruire le più antiche vicende europee – o quantomeno dell’area geografica dell’Egeo, tramite questa documentazione è come tentare di immaginare la travagliata storia del XX secolo tramite un registro contabile. Relativamente maggior fortuna si ha non appena varcato l’Egeo: gli archivi di Hattusas, capitale del coevo impero ittita, contengono infatti un certo numero di testi letterari e storici. Ad esempio, la loro scoperta e decifrazione ha permesso di scoprire come il leggendario Ramesses II avesse clamorosamente “gonfiato” tramite una propaganda pubblicitaria degna dei nostri tempi gli esiti assai più controversi della battaglia di Qadesh che, combattuta nel XII secolo a.C. fra forze ittite ed egiziane per il controllo della Siria, fu dal grande faraone spacciata come una clamorosa vittoria sul nemico asiatico. O come Esiodo, uno dei più grandi poeti dell’arcaismo greco, avesse risentito, nella composizione delle sue opere pervenuteci (“Le Opere e i Giorni” e la “Teogonia”) dell’impronta culturale ittita, sopravvissuta al crollo dell’impero nel corso del XII secolo a.C.
Per chi si interessa della storia europea, in ogni caso, l’utilità di tale documentazione è comunque solo parziale. Nonostante una certa storiografia abbia interpretato l’impero ittita come prima espressione di una potenza “europea”, per collocazione geografica (la penisola anatolica) e per interessi politici e commerciali, esso appartiene indiscutibilmente all’area medio-orientale, da cui – all’atto pratico, si distingue quasi esclusivamente per ragioni etnico-linguistiche. Gli Ittiti sono infatti la prima popolazione indoeuropea (o supposta tale) a comparire nelle vicende storiche mediorientali sotto forma di uno stato centralizzato e ben organizzato: la prima storiografia del ‘900 (soprattutto di area tedesca), spinta da una propaganda di stato volta ad identificare affinità culturali fra mondo ittita e mondo germanico, funzionale al crescere degli interessi tedeschi in area mediorientale, esaltò la cultura ittita come primordio della cultura europea, ravvisando in essa aspetti che in realtà non esistevano.
A testimoniare il fatto che le attenzioni ittite fossero rivolte ad oriente piuttosto che all’occidente (prefigurando la secolare ambiguità di tutte le entità statuali che andranno ad occupare l’area anatolica), nonostante la grande fioritura micenea e quella ittita siano grossomodo contemporaee, la documentazione di Hattusas riserva accenni del tutto sporadici al mondo egeo ed all’Europa in generale. Affascinante, certo, che in questi archivi si parli di una città occidentale chiamata Wilusa (“pericolosamente” affine al termine Ilio, altro nome di Troia) in guerra con certi Ahhiyawa (Achei?) in documentazioni in cui nomi assai famigliari quali Paride, Alessandro, Achille e così via emergono improvvisi e del tutto inattesi.
Detto ciò, risalire tramite documenti storici al periodo ancora più antico, e sicuramente decisivo nella formazione dell’identità europea – a quelle prime fasi di “storia” europea indissolubilmente intrecciate con la fine della “preistoria” è praticamente impossibile.
Su questa mancanza di documentazione scritta, e sulla carenza dei dati archeologici, la storiografia del primo ‘900 ha ampiamente ricamato: in analogia al citato esempio degli Ittiti come leggendari precursori dell’Impero Germanico, le potenze coloniali europee hanno variamente fatto proprie le diverse civiltà portate alla luce dalla nascente ricerca archeologica, gareggiando nel riconoscere in esse più o meno diretti precursori della propria identità culturale. Basandosi sulla narrazione di Tucidide relativa alla più antica storia greca e su Erodoto, Evans – lo scopritore di Cnossos e del cosiddetto “Palazzo di Re Minosse”, immaginò ad esempio la civiltà minoica come un Impero dei Mari (Talassocrazia) assai più simile all’Impero Britannico di sua Maestà Britannica la Regina Vittoria che al mondo minoico quale noi oggi effettivamente abbiamo imparato a conoscere.
Il passo che separa queste fantasiose ricostruzioni storiche (comunque ancora dotate di una base documentale) alle affermazioni pseudostoriche del nazionalsocialismo (che vedeva nel Volk tedesco l’ultima e più pura espressione di una primitiva civiltà eurasiatica, esistente piuttosto nei racconti di fantascienza che nella realtà storica), è pericolosamente breve.
Non immaginando le drammatiche conseguenze che tale approccio avrebbe prodotto di lì ad alcuni decenni, la storiografia del tardo ‘800 immaginò che l’Europa preistorica fosse stata la culla di una remota cultura megalitica (di cui per altro ancora si trova purtroppo traccia nei moderni libri di storia delle scuole medie e superiori) che, in perfetta analogia alle potenze coloniali europee del tempo, si sarebbe quindi diffusa a tutto il continente eurasiatico “portando civiltà” (per usare le formulazioni care agli scrittori del tempo) ed acquisendo da una regione all’altra caratteristiche specifiche. In altre parole, i dolmen ed i menhir propri dell’area nordica, rappresenterebbero l’improvvisa ed ancora primitiva fioritura di una stessa medesima civiltà che quindi avrebbe partorito il cerchio di pietra di Stonehenge, le grandi fortezze micenee, e persino le Piramidi di Giza! I responsabili di questa fiuritura? Le popolazioni che abbiamo già definito come indoeuropee.
Il gruppo indoeuropeo comprende un vasto spettro di lingue diffusesi nel continente Europeo ed Asiatico in un periodo compreso fra il 2500 a.C. ed il 1200 a.C. Se parlare di lingue indoeuropee (fatte salve alcune critiche isolate) è un fatto assolutamente accettato dalla larga maggioranza dei ricercatori, ammettere che ad una lingua indoeuropea si sia associata una cultura, e soprattutto popoli chiaramente definibili come indoeuropei rappresenta comprensibilmente una tematica tuttora assai spinosa. La scoperta dell’indoeuropeo, inteso come gruppo linguistico da cui molte lingue moderne sarebbero in ultima analisi discese, risale infatti all’epoca romantica (Franz Bopp), in cui l’assioma lingua = popolo era considerato pressoché inattaccabile e la riscoperta dei valori originari del proprio popolo un dovere quasi ineluttabile della ricerca culturale. E quale antichità più remota – e quindi più “nobile” di quella delle più precoci origini? Origini che, per altro, stando alla ricostruzione di Bopp (che per altro noi stessi moderni accettiamo) vedrebbero una sola lingua comune all’origine del Latino, del Greco, di tutte le lingue germaniche, del Persiano, e persino dell’antichissima lingua delle più grandi civiltà indiane – il Sanscrito.
Da qui l’identificazione fra gli indoeuropei ed i cosiddetti popoli megalitici. Identificazione che solo fatti relativamente recenti hanno rimosso: prima di tutto, l’applicazione delle metodiche di datazione (ad esempio, la datazione al radiocarbonio) che permesso di scoprire che le opere attribuite ai “megalitici” fossero in realtà del tutto eterogee dal punto di vista cronologico – comprendendo costruzioni risalenti ad un passato effettivamente remotissimo (fino a 6,000 anni prima di Cristo), ma anche molto più recenti (epoca romana), non essendo quindi omolagabili in quando espressione di una sola civiltà. Secondariamente, proprio la datazione al radiocarbonio (primo apporto della moderna ricerca scientifica a discipline storicamente “letterarie” quali l’archeologia e la storiografia) ha permesso di scoprire che la popolazione dell’Europa da parte delle civiltà responsabili delle opere “megalitiche” sarebbe avvenuta per una serie di ondate diverse, accomunate da un solo carattere: provenire dall’oriente, e di cui l’ondata migratoria indoeuropea sarebbe stata solo l’ultima, in ordine cronologico.
Certamente l’Europa è caratterizzata da siti archeologici molto antichi: sulle rive del Danubio, fra il 7,000 ed il 4,800 a.C. fiorì l’insediamento preistorico di Lepenski Vir, già caratterizzata da un notevole sviluppo culturale (testimoniato dal culto dei morti, espressione di viva attività religiosa), tecnico (come sottolineato dalla strumentazione agricola e progettata per la pesca), sociale (i reperti storici suggeriscono che l’insediamento fosse caratterizzato da un minuto sviluppo sociale) e persino artistico. Considerando l’area anatolica come ultima propaggine orientale dell’Europa, proprio in quest’area si trova la più antica città conosciuta al mondo – il cosiddetto insediamento di Catalhöyük, che all’apice della propria fioritura (fra 6,000 e 8,000) fu popolata da quasi 10000 persone risiedenti in una intricata struttura residenziale in muratura a forma di alveare, arricchita da rappresentazioni pittoriche ed aree cultuali con caratteri di veri e propri templi. Persino nelle estreme propaggini del nord Europa – nelle isole Orcadi, è possibile trovare insediamenti di sorprendente complessità, come quello di Skara Brae, popolato dal 3,100 al 2,500 a.C.
In ogni caso, come emergente da questo rapido excursus e dalla verifica delle date proposte (dal IX millennio di Catalhöyük si passa al IV millennio di Skara Brae) se di diffusione culturale si può parlare attraverso il territorio europeo nel corso della preistoria del continente, questa avvenne sempre, ed invariabilmente, con una sola direzione: da Oriente (cioè dall’Asia e dall’Africa) verso Occidente. Mai il contrario ipotizzato dagli storici inglesi e tedeschi del tardo 1800/primo 1900. Persino la migrazione indoeuropea ebbe origine dall’Asia, e non dall’Europa – che invece fu, al pari dell’India, il sito terminale di una parte di questo evento.
Ciò detto, possiamo ribadire che le modalità di colonizzazione dell’Europa, e soprattutto le vicende che determinarono la conformazione etnografica del continente rimangono confuse, difficilmente districabili dalle più comuni metodiche di indagine archeologica e storiografica prese per se– ovvero, la ricerca sul campo e l’indagine di documentazione, primaria (i.e. documenti coevi del periodo oggetto dell’indagine) o secondaria (e.g. rapporti di storici antichi), di cui l’applicazione delle citate tecniche di datazione rappresenta solo la più moderna estensione.
La ricerca sul campo è infatti compromessa dalla forte antropizzazione del continente europeo e dalla sua peculiare storia di civiltà urbane: quasi tutti i siti preistorici si sono infatti trasformati in insediamenti di varia natura (etruschi, celtici, germanici, e così via), quindi convertite in città romane che, in qualche modo sopravvissute alle alterne vicende del medioevo, sono quindi le nostre città moderne. Per restare alla sola Emilia Romagna: la moderna Bologna è il risultato della trasformazione degli insediamenti villanoviani nell’etrusca Felsinea, quindi conquistata dai Celti e da questi ridisegnata a proprio uso e consumo fino alla conquista romana ed alla nascita di Bonomia, precursore della Bologna medievale (basta passeggiare per il centro storico per scoprire, innestate ed integrate nei palazzi due-trecenteschi colonne di chiara origine romana) e quindi della città rinascimentale, e così via, fino ai giorni nostri. Indagare (ovvero: scavare) in questo contesto è chiaramente difficile, se non impossibile: non è un caso che alcune delle più sorprendenti scoperte archeologiche recenti siano state casuali, e legate ai lavori per opere urbane di tutt’altra destinazione (emblematico il ritrovamento degli archivi micenei di Tebe durante gli scavi per la circonvallazione cittadina). Per quanto riguarda l’aspetto documentario, la risposta è ancora più semplice ed in qualche modo deprimente: la documentazione che a noi interesserebbe avere non esiste. Come detto, l’Europa iniziò a “scrivere” (e soprattutto: a scrivere di ciò che noi potremmo chiamare storia, o comunque impiegare per ricostruire la storia) solo in tempi sorprendentemente recenti. Ovverosia, non prima del VI secolo a.C., ed anche in questo caso gli acconti storici presentano ampi varchi. Chi dell’Europa poteva scrivere (riprendiamo l’esempio degli Ittiti) semplicemente non aveva motivo per farlo.
Per meglio capire cosa si intenda, basterà una banale riflessione terminologica. Premesso che il termine Europa sia di etimologia tutt’altro che certa, l’interpretazione più moderna lo vede come derivato di una radice semitica (per l’esattezza, accadica): “erebu”, ovvero “tramonto / terra del tramonto” (i.e. “occidente”) da cui il termine omerico “Erebo”. Nel mondo di Omero, l’Erebo (che geograficamente corrisponderebbe al moderno Portogallo) è la terra dei morti. Un luogo in cui i vivi non possono accedere se non in particolarissime condizioni. Avvicinandoci alla nostra specifica realtà, ricordiamo come il più antico nome di Italia (che a sua volta deriverebbe dall’osco Viteliù, ovvero “terra dei vitelli”) sarebbe Esperia (“terra della sera”) – ugualmente associato ad un mondo fantastico. In altre parole: l’Occidente rappresentò a lungo e fino a tempi relativamente prossimi un vero e proprio enigma. Una frontiera nella quale confinare mostri (da Gerione a Scilla e Cariddi) o l’accesso al mondo sotterraneo, ovvero popolata da genti primitivi che, per usare i termini omerici, non sanno distinguere un remo da falce, o sottoposte a misteriose ed incomprensibili divinità – i cosiddetti Iperborei (coloro che vivono sopra il soffiare di Borea, uno dei 4 venti antichi).
Per cercare di superare la barriera rappresentata dalla carenza di fonti storiche dirette, la moderna ricerca può tuttavia avvalersi di strumenti di pari validità scientifica, quali l’indagine linguistica e mitografica e, aspetto subentrato solo nel corso degli ultimi 20 anni, le più avanzate pratiche laboratoristiche – fra le quali, la ricerca genetica.
L’uso dei miti antichi come fonte informativa è in realtà una procedura molto antica: anticamente – quantomeno, fino agli albori della civiltà giudaico cristiana, e quindi per larghi tratti del medioevo, eventi propri del mito erano considerati come storici. Nessun ateniese di età classica avrebbe mai dubitato della realtà storica dei personaggi omerici: non lo fa Tucidide,
ad esempio, che nel “prologo” alla Guerra del Peloponneso parte proprio da fatti narrati nell’Iliade e nell’Odissea e critica l’operato di Menelao ed Agamennone come avrebbe fatto con un generale del suo tempo. Ovviamente, il nostro approccio ai racconti mitici e leggendari non è più quello di una diretta ed acritica accettazione: complice la moderna scuola interpretativa, incarnata ad esempio da Dumezil ed Eliade, l’attenzione della ricerca è ora rivolto – più ancora che al mito in se, al confronto, ovverosia alla comparazione con altri repertori mitici, ed all’analisi della sua forma. Scopo di questo confronto è di riconoscere affinità, strutturali o tematiche, e/o le eventuali divergenze. Questi dati, interlacciati con le informazioni provenienti dalle più convenzionali metodiche di indagine, permettono di ricostruire un’immagine più complessa ed articolata – non priva, tuttavia, di numerosi e critici caveat.
Un esempio piuttosto semplice delle conseguenze di questa modalità di approccio alla tematica storica ci viene offerto dall’analisi del mito della creazione greco, narrato da Esiodo. Esso ci narra di tre generazioni divine, in cui da entità confuse e dai caratteri del tutto animistici (Urano, il cielo e Gea, la madre terra) si passa quindi a divinità sempre più antropomorfe (Crono e Rea), fino a diventare in un certo senso “più umane degli stessi uomini” (Zeus e Hera), in cui il passaggio da una generazione all’altra è segnata da conflitti e faide del tutto simili a quelle che un antico greco poteva riconoscere fra le grandi famiglie nobiliari del suo tempo. Sulla base della successione di tre generazioni divine, è stato ipotizzato che anche la Grecia antica avesse conosciuto tre colonizzazioni successive: un modello apparentemente appropriato in cui, da divinità molto primitive legate a fenomeni atmosferici (la prima generazione divina), attribuite alla primitiva popolazione ellenica – i cosiddetti pelasgi, termine già impiegato da Tucidide e Plutarco, si sarebbe passati al panteon classico a seguito delle progressive invasioni di popoli (e quindi di cultura: e quindi di dèi) indoeuropei sempre meglio delineati. Zeus, inteso come Dio del Fulmine e leader della compagine divina è infatti una “vecchia conoscenza” per chi si dedica alla mitologia comparata, e del resto già gli antichi (da Erodoto a Tucidide, passando per Cesare e Tacito) procedevano ad una pressoché automatica identificazione di tale divinità con i vari Odino/Wotan (il dio supremo germanico), Indra (il dio delle tempeste indiano), e così via. In realtà, la realtà archeologica ha dimostrato inequivocabilmente che gli dèi venerati in epoca micenea, quindi prima dell’ultima grande migrazione in area ellenica (quella dei Dori), già fossero quelli a noi meglio noti tramite i racconti omerici ed esiodei, demolendo quindi questa parte dell’ipotesi iniziale.
D’altra parte, l’avanzamento della ricerca linguistica e proprio la comparazione mitologica hanno suggerito che le suddette generazioni divine siano associate ad una dinamica culturale assai più complessa. La deificazione di Cielo e Terra è un fenomeno diffuso in culture molto diverse, e del tutto prive di contatti e relazione: la loro presenza nel mito delle generazioni divine è probabilmente spia, piuttosto che di uno strato culturale pre-esistente l’arrivo dei greci storici nell’area ellenica, di uno strato culturale preistorico di questi ultimi. E’ invece il secondo strato, quello della generazione di Crono e Rea, a rappresentare un possibile lascito delle popolazioni pre-elleniche e della loro cultura. Prima di tutto, la funzione narrativa esercitata da Crono non è reperibile in analoghi miti della creazione, o comunque non con le caratteristiche proprie del mito greco. La ricerca linguistica ha dimostrato che il nome Crono sia di origine pre- ellenica, derivando da un radicale comune al termine “falce”, ed in particolare “falce di luna”. Crono, che nella tradizione romana viene identificata con la divinità delle messi (Saturno) sarebbe dunque un’antica divinità implicata sia con i raccolti che con i cicli stagionali, esattamente come la divinità latina (per di più corradicalica) Cerere. Poiché i reperti archeologici ed un controverso passo di Erodoto suggeriscono che il culto
delle popolazioni greche più antiche fosse associato a divinità del mondo sotterraneo e dei raccolti (Crono è anche custode del Tartaro, il mondo sotterraneo, prima che il figlio Hades lo rimpiazzi alla fine dell’ultima ribellione divina), è quindi Crono la divinità più propriamente indicata. Esiste inoltre buona evidenza che divinità mediterranee del raccolto e delle messi (come il semitico El) siano strettamente correlate a tale figura.
È a questo punto che entra in gioco la moderna ricerca laboratoristica, ed in particolare l’indagine genetica. Se alla comparsa di una determinata cultura (e quindi di una determinata lingua, dei miti fondatori, di una religione, e così via) si associa infatti il movimento fisico di esseri umani, questo si associa alla comparsa od alla scomparsa del relativo patrimonio genetico.
La ricerca scientifica ha sfruttato varie possibili modalità di indagine genetica rispetto alle popolazioni umane. Le più classiche strategie hanno riguardato la determinazione delle frequenza dei gruppi sanguigni umani, così come del fenotipo Rh-. L’epocale ricerca di Cavalli Sforza ha, per esempio, sottolineato come particolari popolazioni europee siano caratterizzate una prevalenza estremamente elevata del suddetto fenotipo. Poiché questo appare più frequente in area mediterranea, ed in regioni storicamente caratterizzate da culture sostanzialmente slegate dalla “koiné mediterranea” tanto cara alla cultura classica – come l’area pirenaica ed i paesi baschi, l’area anatolica e, in misura minore, la Toscana, esso è stato considerato un classico marcatore dei popoli europei più antichi. In realtà, i gruppi sanguigni rappresentano solo una, e forse la più rozza, delle strategie di indagine applicabili e che possono riguardare la ricerca di specifiche mutazioni di determinati geni, la cui particolare prevalenza in una data popolazione può essere considerata conseguenza del più classico effetto fondatore. Un esempio molto noto è quello di HFE, il gene implicato in una specifica variante dell’emocromatosi idiopatica: la mutazione, originata in epoca storica in area scandinava, ha quindi seguito le migrazioni del clan ancestrale, diffondendosi nell’Inghilterra Orientale ed in Scozia, in Francia settentrionale, ed in alcune zone dell’Italia meridionale. Un altro esempio è quello della cosiddetto sickle cell disease (anemia a cellule falciformi): una mutazione di singolo nucleotide determina in tale patologia la formazione di emazie deformi (da cui il nome), che però in condizione di eterozigosi garantiscono un vantaggio selettivo nei confronti dell’infestazione da P falciparum, l’agente eziologico della malaria. Per quanto essa sia comparsa in varie popolazioni, in tempi ed in modi diversi, nell’area mediterranea essa raggiunge i massimi livelli di prevalenza in aree oggetto della colonizzazione fenicia a partire dal XII secolo a.C. - quindi Africa settentrionale, Italia meridionale ed insulare. Anche mutazioni assai più frequenti a livello di popolazione si sono rivelate marcatori di antichi eventi migratori: è il caso della celebre mutazione DF508 del gene dei canali del sodio, riscontrato in corso di fibrosi cistica. Il gene mutato è presente in condizione di eterozigosi con prevalenza media di 1/50 nella popolazione europea (da cui la prevalenza di 1/2500), di cui è del tutto esclusivo. In altre parole, il gene della fibrosi cistica può essere considerato un marcatore delle migrazioni dei più antichi popoli europei, ed in particolare proprio della migrazione indoeuropea.
Tornando all’esempio dell’antico mondo ellenico, ricerche condotte sul fenotipo HLA hanno rilevato come la moderna popolazione greca sia il risultato della progressiva stratificazione di pool genetici: in molti casi, essi sono stati agevolmente identificati in base ai dati storici (è il caso di geni associati a popolazioni turche), ma un’ampia base genetica, comune con popolazioni dell’area mediterranea, può essere spiegata come lascito delle più remote popolazioni agricole dell’area ellenica, sulle quali le successive migrazioni indoeuropee sarebbero andate a sovrapporsi.
Questa vicenda di sovrapposizioni, suggerita dai reperti archeologici è dunque confermata dalla ricerca genetica, che tuttavia non è in grado di determinare con certezza il periodo storico in cui l’evento avrebbe avuto luogo – il che rende dunque essenziale il costante incrocio delle diverse fonti informative. Sebbene sia stato osservato che tali frequenze geniche proprie dell’area ellenica potrebbero trovare una spiegazione in eventi storici medievali (le invasioni araba, slava, avara e turca), è pur vero che la ricerca linguistica ha chiaramente dimostrato che in quasi la metà del vocabolario di base del greco antico non sia effettivamente ricostruibile una radice indoeuropea. Questo può essere solo parzialmente spiegato nell’ambito di potenziali prestiti linguistici, in particolare con l’area del vicino oriente. Ancora una volta, l’archeologia ci dice che, quantomeno fino alla nascita delle grandi potenze imperiali assira e persiana, la Grecia continentale guardasse più ad oriente che ad occidente – e con gli scambi culturali arrivano stilemi artistici, e soprattutto terminologie e nuove parole che vanno ad arricchire il vocabolario di un popolo, affiancandosi o sostituendo termini preesistenti.
La ricerca linguistica, condotta sui più antichi testi greci a nostra disposizione, dimostra che buona parte di queste parole siano state importate nel vocabolario comune del mondo greco assai prima che questi scambi si installassero in modo stabile. Da rilevare che questo vocabolario presenta particolarità specifiche a livello di significato e di significante (ovvero di aspetto fonetico): quasi tutti i nomi della flora e della fauna propria dell’area mediterranea presentano fatti e fenomeni linguistici che possono essere spiegati solo come esito di importazione da un sostrato linguistico preesistente, con caratteristiche fonetiche, per altro, del tutto diverse dal mondo semitico ed anatolico. Un sostrato, per di più, comune a buona parte delle culture di derivazione più o meno diretta dal mondo indoeuropeo ed installatesi nell’area mediterranea. L’esempio più celebre è rappresentato dal termine “rodon”, “rosa” in latino in cui si rileva una particolare alternanza consonantica fra s/d, analoga a quella riscontrabile nel nome dell’eroe omerico meno “indoeuropeo” che si possa immaginare – Ulisse (Odusseus/Ulixes) o nel termine per “lacrima” (dacruma/lacruma). Una regola molto semplice della linguistica, teorizzata da DeSaussurre nel corso del secolo scorso, è che suoni “instabili” (l’instabilità è determinata dalla necessità di articolare in modo particolarmente complesso l’azione degli organi fonatori) evolvano per semplificazione verso suoni più “stabili” (e quindi più semplici da articolare). In altre parole, per giustificare questa particolare alternanza fonetica, è stato ipotizzato che quel pool terminologico deriverebbe da una o più lingue (oggi perdute) caratterizzate da suoni complessi, estranei alla fonetica indoeuropea, ed acquisiti dalle lingue indoeuropee a prezzo di semplificazione dei suoni complessi, con modalità diverse da una lingua all’altra.
A questo strato remotissimo è stato dato il nome di “mediterraneo” o “pelasgico” (sempre dal nome delle più antiche popolazioni che, stando agli antichi greci, avrebbero popolato l’area mediterranea). Chi fossero queste popolazioni è tutt’altro che chiaro. Ancora una volta, l’indagine genetica suggerisce che si tratterebbe di popoli emigrati dal continente africano – o forse dall’area asiatica, al termine dell’ultima glaciazione e che avrebbero uniformemente popolato l’area europea fino all’arrivo delle popolazioni indoeuropee. Questa ricostruzione viene confermata dall’indagine sui geni del grano e dei principali cereali coltivati in area europea, sia in epoca storica, che contemporanea, che rinvenuti in reperti archeologici. Ancora una volta, la ricerca genetica conferma le ipotesi archeologiche e ribadisce come il flusso informativo – e probabilmente etnico, sia sempre stato verso l’Europa, piuttosto che dall’Europa, proveniente dall’Africa settentrionale e dall’Asia occidentale.
Secondo l’interpretazione classica, i popoli indoeuropei avrebbero esercitato un’inarrestabile forza d’impatto grazie alla
particolare struttura sociale, in cui un sistema di caste (quello indiano di epoca storica sarebbe derivato proprio dall’originaria stratificazione indoeuropea) sosteneva l’esistenza di un classe di guerrieri professionali, cui la disponibilità di armi “hi-tech” (per gli standard preistorici) quali il cavallo, il carro e l’arco da guerra, avrebbero dato un vantaggio sostanzialmente non pareggiabile né dal numero né dalla conoscenza del territorio delle popolazioni stanziali.
La migrazione indoeuropea sarebbe iniziata nel corso del III millennio a.C., originando dall’area del mar Caspio. A suggerire tale areale di origine sono vari fatti, ancora una volta archeologici, mitografici, linguistici e genetici.
Per prima cosa, i dati archeologici dimostrano che a partire dal III millennio a.C. determinate tipologie sepolcrali originarie dell’area suddetta, con presenza di specifiche armi (come appunto l’arco) si diffondono per cerchi concentrici verso oriente e verso occidente. Non va comunque dimenticato che la migrazione della cultura non sia necessariamente associata alla migrazione dei popoli, e che l’adesione ad una cultura non significa necessariamente una sostituzione etnografica (ad esempio: le popolazioni ungheresi sono affini a quelle germaniche e slave, ma parlano una lingua del tutto dissociata da quelle circumvicine; la Persia moderna manifesta una radicale islamizzazione della propria cultura, ma questo non ha significato né l’adozione dell’arabo come lingua né tantomeno la sostituzione dell’etnia persiana) senza contare che non si ha la certezza che questi popoli siano effettivamente identificabili negli indoeuropei.
L’estrema antichità di questa migrazione ha ovviamente impedito la conservazione di reperti storiografici (diversamente dalle migrazioni dei popoli medievali – le invasioni barbariche dei libri di scuola), ma che eventi drammatici abbiano colpito l’Europa preistorica, con un confronto fra popoli nomadi provenienti dall’Asia e popolazioni agricole residenti è suggerito da alcuni reperti archeologici e confermato da una vasta base mitografica.
L’Edda di Snorri (testo redatto nel medioevo, ma contenente accurata descrizione di miti risalenti all’epoca preistorica) ci racconta che gli Asi, divinità provenienti dall’Asia (sic), nelle quali sono facilmente riconoscibili omologi delle divinità olimpiche (ovvero: il panteon di base del mondo indoeuropeo), avrebbero avuto un aspro e sanguinoso conflitto con i primitivi signori del mondo, i Wani (termine corradicalico di Venere), esseri ugualmente divini strettamente associati con la sfera delle fertilità e con i cicli dei campi coltivati e della natura. Non casualmente, i due Wani più importanti sono Freyr e Freya, divinità associate alla sfera sessuale e germinativa (vedasi il latino fruor), ed a tutto l’ambito della magia. Sempre stando al mito nordico, Odino avrebbe acquisito potere dai e sui Wani nel corso della propria ascesa al sommo potere fra gli dèi, probabilmente trasmettendo il ricordo di una prima fase di incontro-scontro con le popolazioni pre-esistenti, e delle prime fasi della fusione dei popoli più antichi e di quelli immigrati (non a caso, la sposa di Odino è Frigg, ugualmente derivante dalla radice di fruor, o addirittura Freya secondo altre versioni).
Cosa abbia determinato l’originaria migrazione indoeuropea è tutt’altro che chiaro. Esiste un resoconto storico di Ammiano Marcellino, quindi di età relativamente recente (IV secolo d.C.), secondo il quale a scatenare le più antiche migrazioni di Celti e Germani sarebbe stata una disastrosa inondazione, il cui ricordo era conservato dalle relative caste sacerdotali.
Poiché il T0 della migrazione indoeuropea corrisponde in modo sorprendente con la forbice temporale per le grandi inondazioni di cui i miti del diluvio mesopotamici (dal diluvio di Utnapishtim a quello biblico) conservano il ricordo, è stato ipotizzato che la scintilla della migrazione indoeuropea possano essere stati sconvolgimenti climatici nell’area compresa fra Mar Nero, Mar Caspio e Mesopotamia settentrionale.
A confermare ulteriormente questa ricostruzione è nuovamente una fonte letteraria, indipendente dal mito del diluvio, avvalorata da dati genetici.
Nel racconto del Ragnarok, la cosiddetta “apocalisse nordica” (o “crepuscolo degli dèi”), pervenutaci in una redazione islandese del X secolo d.C., viene descritto come le divinità sopravvissute alla “resa dei conti” fra le diverse forze della natura e destinate ad aprire un nuovo ciclo temporale, entreranno in possesso delle “tavole del destino”. Un passo piuttosto enigmatico, giacché i suddetti “oggetti” non sono reperibili in nessun altro mito nordico conosciuto. E che trova l’unica, sorprendente, analogia, con la conclusione dell’Enuma Elish, un testo sumero del IV millennio a.C., in cui una guerra fra diverse generazioni di dei – culminante a sua volta in una vera e propria apocalisse, è proprio incentrata sul possesso delle suddette “tavole del destino”. Analogia ancor più sorprendente quando si pensi che i primi versi dell’Enuna Elish (“quando in alto il cielo non c’era...”) echeggiano in modo assai sospetto i primi versi del mito della creazione norreno (“in principio il cielo non c’era...”), sebbene a separare questi versi sia un vero e proprio abisso geografico, culturale e cronologico (quasi quattromila anni).
Certamente, questi riscontri potrebbero essere solo analogie casuali (il risultato, per così dire, di un’evoluzione parallela), ma come si diceva alcuni dati genetici ci portano ad ipotizzare non soltanto che la migrazione indoeuropea abbia avuto inizio nel 2500 a.C. - e quindi nella fascia cronologica sospetta, ma anche con l’epicentro di cui sopra, nelle aree geografiche di cui sopra, interessando nelle sue aree di origine anche l’area nord- mesopotamica. Pertanto, i reperti citati potrebbero essere un vero e proprio “fossile” letterario, determinato dal particolare ambito di riferimento (quello religioso).
La delezione del recettore per le chemochine CCR5 (CCR5- delta 32) è infatti un carattere genetico ampiamente diffuso nelle popolazioni europee, distribuendosi sui due versanti del mar Caspio con andamento sovrapponibile a quello delle due principali branche delle lingue indoeuropee (gruppo occidentale o centum e gruppo orientale o satem, così detti dalla diversa pronuncia del numero 100, a sua volta determinata dal diverso trattamento fonetico del radicale più primitivo), dei gruppi sanguigni, degli ambiti culturali considerati indoeuropei. La suddetta mutazione offre una certa resistenza costitutiva per i suoi portatori nei confronti di alcune infezioni virali, come HIV, e garantirebbe resistenza anche nei confronti di Y pestis, l’agente eziologico della peste bubbonica. I primi studi sull’argomento avevano ipotizzato che CCR5-delta 32 fosse il risultato di una selezione darwiniana subentrata all’epoca della Peste Nera del 1348.
In realtà, la presenza del gene in aree sostanzialmente trascurate dall’epidemia (e quindi non oggetto della suddetta selezione) e piuttosto caratterizzate da un profondo isolamento geografico sin dall’epoca pre-romana (e.g. le isole della Dalmazia), ovvero in aree del tutto ignorate dall’epidemia del 1348 (l’area caucasica e centrasiatica) ha suggerito che la diffusione di tale carattere genetico sia estremamente più remota. Poiché Y pestis è emerso come patogeno in epoca storica, e poiché la forbice ipotizzata vede il fatidico 2500 a.C. dell’originaria radiazione indoeuropea come perno centrale, è ugualmente possibile che la migrazione sia stata avvantaggiata da una maggiore resistenza delle popolazioni migranti nei confronti di questo specifico patogeno – o di patogeni simili, attualmente ignoti ed ugualmente impieganti il CCR5 come recettore di adesione.
I semplici esempi qui proposti dimostrano che le indagini genetiche siano quindi diventate un essenziale strumento di ricerca storiografica, affiancandosi a metodiche più tradizionali, che vanno ad integrare e completare. Con risultati talora sorprendenti. Un caso molto particolare è rappresentato dal secolare problema dell’origine degli etruschi. I cosiddetti Tirreni, o Rasna (nome che essi stessi si davano, a quanto ne sappiamo), fiorirono nella penisola italica nel corso del I millennio a.C., dando vita ad una civiltà del tutto particolare, che ha esercitato estremo fascino sui popoli del mondo antico, e sui moderni. In ragione della capillare diffusione di stilemi artistici di area orientale piuttosto che greca, scrittori antichi ipotizzarono che i Tirreni fossero il risultato di una migrazione preistorica proveniente dall’Anatolia. Questo, quantomeno, il resoconto storico di Erodoto: stando al celebre storico ateniese, l’élite di alcune popolazioni della Lidia (una regione dell’Anatolia meridionale) sarebbe stata spinta all’emigrazione da anni di gravissima carestia, giungendo infine alle coste dell’Italia e lì installandosi, e quindi fondendosi con le popolazioni italiche originarie.
L’evento sarebbe successo tra il XIV ed il XII secolo a.C. - un periodo anche in questo caso molto sospetto, in quanto corrispondente al tracollo della civiltà minoica ed al tracollo delle strutture statuali egizie del tempo. Non abbiamo ovviamente prove che tali eventi siano simultanei ma, poiché si ha buona evidenza che a provocare almeno la fine della potenza minoica sia stata l’esplosione dell’isola di Santorini, con il conseguente tsunami ad investire le coste di tutto il mediterraneo orientale, ipotizzare che effettivamente aree anatoliche siano state ugualmente investite e duramente colpite non è affatto improbabile.
L’archeologia, da cui la sostanziale ribellione di Sabatino Moscati e Massimo Pallottino a quest’interpretazione degli Etruschi come popolo dell’Oriente, non rivela in realtà una radicale cesura fra le civiltà centro-italiche del tempo (ed in particolare, la cosiddetta “cultura villanoviana”) e le prime fasi della cultura cittadina etrusca. Anche i caratteri fortemente orientalizzanti della società etrusca possono essere interpretati nell’ambito della già citata koiné mediterranea: l’analoga orientalizzazione del mondo ellenico coevo ci sfugge solo a causa della sistematica azione distruttiva esercitata dall’età classica ed ellenistica sulle grandi opere urbane e cittadine del mondo greco delle origini, e che invece traspare immediatamente una volta esaminati i reperti del tempo fino a noi sopravvissuti (spesso proprio tramite i monumenti sepolcrali etruschi).
Anche per quanto riguarda gli aspetti più misteriosi della civiltà etrusca – ovverosia la lingua e la religione, non è necessario chiamare in causa un’emigrazione dall’oriente. La lingua etrusca non rappresenta, di per sé, un mistero inestricabile. Semplicemente, ci mancano i testi. Benché il mondo etrusco abbia prodotto una grande mole di prodotti letterari – così di raccontano gli antichi, ed in prima persona nientemeno l’Imperatore Claudio, autore di una Storia Etrusca purtroppo perduta – essi non sono sopravvissuti al II secolo d.C. ed alla sistematica romanizzazione dei popoli dell’area toscana. I nostri tentativi di approcciarci alla lingua estrusca sono limitati dal fatto che i documenti a nostra disposizione sono niente di più che qualche lapide tombale, incisioni su oggetti (vedasi il fegato di Piacenza) e qualche documento di valore legale. L’analisi linguistica ha rivelato come l’Etrusco sia una lingua a carattere agglutinante, come le lingue ungro finniche (ovverosia l’ungherese ed il finlandese, ma anche come il turco, e come molte lingue asiatiche ovviamente non connesse all’evoluzione della società etrusca): è stato ipotizzato che esso sia strettamente imparentato con il basco, il che renderebbe queste due realtà espressione di una civiltà pre-indoeuropea (diciamo pure “mediterranea”) giunta, ad una piena maturazione. Chi sostiene questa ipotesi, sottolinea che gli Etruschi praticassero una religione in cui divinità del mondo sotterraneo rivestissero
un ruolo primario, in sostanziale analogia a quelle popolazioni pre-elleniche di cui Erodoto aveva potuto studiare la lingue e le usanze perché isolate sulle più remote montagne greche. Su quest’ultimo punto va tuttavia sottolineato come le divinità etrusche, piuttosto che ctonie, fossero celesti (in analogia al panteon indoeuropeo), quantomeno nelle prime e più remote fasi, acquisendo caratteri ctoni solo in una seconda e più recente frase.
D’altro canto, tali argomentazioni, anche pienamente accolte, non bastano ad escludere l’ipotesi erodotica. Per prima cosa, popoli dell’Asia minore emigrati in occidente avrebbero potuto importare una cultura mediterranea affine a quella riscontrabile nel territorio di arrivo – evento tanto più probabile se si accetta una certa uniformità delle popolazione e delle culture mediterranee alla vigilia della radiazione indoeuropea (ancora in corso all’epoca della supposta migrazione in occidente delle popolazioni anatoliche). Ed il loro impatto non sarebbe stato necessariamente quello di un’esplosione o di una rivoluzione – ma piuttosto un effetto simile al lievito: l’importazione di tecnologie avanzate provenienti dal più civilizzato oriente, e di nuovi animali avrebbe piuttosto consentito l’accelerazione dell’evoluzione sociale.
Ad avvalorare questa possibilità, la celebre “stele di Lemno”, incisa con caratteri alfabetici molto primitivi, ma molto simili a quelli usati in epoca storica dai popoli etruschi, ed espressione dell’unica lingua a noi nota effettivamente imparentata con l’etrusco. Poiché la posizione della stele sarebbe proprio sulla strada seguita da eventuali emigranti diretti dall’Asia minore all’Occidente, l’idea che essa sia il lascito di questa migrazione è molto suggestiva – sebbene controversa.
In questa situazione confusa, i dati genetici hanno dato una svolta sostanzialmente inaspettata. Per prima cosa, le ricerche di Cavalli Sforza sul DNA mitocondriale hanno sottolineato come la popolazione toscana sia, all’atto pratico, geneticamente più affine ad isolati anatolici (ovvero: a popolazioni che, risiedendo in aree geograficamente delimitate, sarebbero sopravvissute alla robusta iniezione di caratteri genetici nel corso delle travagliate vicende della penisola anatolica) che alle circumvicine popolazioni europee, e non solo.
La ricerca veterinaria ha recentemente dimostrato che alcuni animali da allevamento considerati tipici dell’area toscana (in particolare i buoi di razza chianina) siano direttamente discendenti di un antenato di origine anatolica, ed in questo senso del tutto distinte dalle altre specie bovine allevate in Europa occidentale. Poiché si ha buona evidenza che la razza chianina sia allevata sin dall’epoca Romana, non si può escludere che proprio questi animali siano una prova dell’antica narrazione di Erodoto.
Nelle immagini: una serie di affreschi minoici.