Accabadoras, le sacerdotesse della morte
di Claudia Zedda
C’era un tempo in cui la gente di uno stesso paese si conosceva per soprannome, un tempo nel quale la morte non era fatto di stato, un tempo in cui le strade al crepuscolo, poteva succedere venissero attraversate da piccole donnicciole che è d’obbligo immaginare vestite di nero. Non foss’altro per il loro tentativo di passare inosservate. C’era un tempo chi le chiamava sacerdotesse della morte e chi le chiamava donne esperte. Avete compreso delle nonnette alle quali mi riferisco? C’era chi le chiamava più sbrigativamente Accabadoras. Il termine è pregno di una sonorità tutta spagnola, e mai nessun altro sarà tanto evocativo. Degradazione di acabar, queste donne che l’immaginario racconta d’età avanzata, “accabavano” appunto, ponevano la parola fine alla vita degli agonizzanti, che stentavano nell’abbandonarla. Ci si è interrogati ampiamente sulla veridicità della figura, ci si è spesso chiesti se non si tratti di un residuo tradizionale, che in effetti non faccia capo ad alcuna realtà. Quesiti questi che altri prima di noi si posero. Alberto Della Marmora nel 1826 era quasi sicuro che queste donnette fossero esistite per davvero, e per quanto sottovoce, avessero operato. Ne sarà certo almeno fino al 1839, quando con la seconda edizione del suo Voyage en Sardaigne, cercherà di smorzare i toni. In meno di dieci anni era nata una polemica infuocata, e di offese malcelate ne erano volate un bel po’. Protagonisti l’eccellente ricercatore e abate Vittorio Angius, osservatore oggettivo della realtà che nuda gli si proponeva e Giuseppe Pasella che sfruttando L’indicatore Sardo, di cui era direttore, lo accusò di screditare Sardegna e sardi. Quasi che lo si potesse fare con le parole, piuttosto che non con i gesti. Un vespaio insomma, per niente dissimile da quelli moderni che non si esaurì troppo rapidamente. Il risultato fu duplice. Creare confusione nell’opinione pubblica e silenzio fra i sardi, che meglio d’altri popoli sapevano chiudersi a riccio e tacere. La confusione ha trovato un attimo di tregua quando Della Maria nel Bollettino Bibliografico Sardo ha riportato ciò che Monsignor Raimondo Calvisi gli aveva riferito qualche tempo addietro. Uno scoop davvero. Calvisi aveva avuto modo nel 1906, in Bitti, di assistere alla conversazione intervenuta fra la madre di un bimbo morente, e una donna anziana. Gli parve chiaro che la vecchia fosse un’accabadora, dato che la madre rifiutando il suo aiuto, le disse che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da solo. Da questo momento le attestazioni della presenza reale de s’accabadora aumentano notevolmente. Padre Vassallo e il gesuita Licheri, non solamente crederanno nell’esistenza di questa enigmatica figura, ma se ne faranno accaniti oppositori, definendo la morte aiutata dalla mano de s’accabadora, niente po po di meno che peccato mortale. Oggi le attestazioni in merito alla figura abbondano. “Eutanasia ante litteram in Sardegna” - Sa femmina accabadora, di Alessandro Bucarelli, medico legale all’Università di Sassari e Carlo Lubrano, medico anch’esso, o il più noto “Ho visto agire s’accabadora” di Dolores Turchi, non lasciano più adito a dubbi. E che questa abbia fatto parte della storia sarda, non è cosa che debba infondo sorprendere più di tanto. Non solo una figura simile è stata condivisa da quasi tutte le realtà agro pastorali tradizionali, ma soprattutto il suo scopo sociale doveva essere sentito importante. Diversamente l’inquisizione l’avrebbe scovata, e bruciata al rogo, imputandole certo qualche vizioso legame con su tentadori. La tradizione vuole che la donna agisse solo in casi del tutto eccezionali. Soprattutto quando il moribondo, sofferente e stremato comunque non riuscisse ad abbandonare la vita. I motivi potevano essere differenti. Si poteva immaginare che l’anima non abbandonasse il corpo perché ostinatamente protetta dagli amuleti che ogni sardo che si rispettasse, indossava. Questo era infondo lo scopo delle pungas, quello di impedire alla morte d’accostarsi. Nel caso peggiore si poteva pensare che in gioventù chi stentava ora a morire, avesse commesso uno di quei crimini che non conoscono perdono, e che si sapeva, avrebbero alla fine causato una grossa agonia. Poteva aver spostato una pietra di confine, o peggio ancora bruciato un giogo. Si trattava di elementi sacri, l’uno connesso alla intoccabile proprietà privata, l’altro al mito del quale si perse significato ma non ricordo.
Per i più curiosi diremo come si racconta agisse s’accabadora. Se ricevuta l’estrema unzione il moribondo non moriva, si dice che una “donna esperta” venisse mandata a chiamare. Con estrema probabilità proveniva da un altro paese, non troppo distante da quello del nostro sfortunato agonizzante. E’ probabile che i tentativi di accompagnarlo nell’ultimo viaggio, inizialmente fossero del tutto rituali. L’accabadora l’avrebbe privato degli amuleti, avrebbe tolto dalla stanza tutte le icone sacre, (intesi come amuleti anch’essi), avrebbe posto accanto al capezzale un giogo, o magari un pettine. Gli oggetti potevano essere vari. Se tutte queste attenzioni non avevano successo, le si richiedeva l’uso di maniere un poco più fisiche, l’uso de sa mazzucca. Vittorio Angius ci racconta si trattasse di un corto mazzero che veniva battuto o contro il petto o contro il capo. Poco davvero si sa della pratica, dato che la donna veniva lasciata sola con il moribondo.
Questa non risulta domandasse in cambio alcun compenso, e sembra più probabile svolgesse la sua funzione sociale.
La vita era infondo intesa in maniera più concreta. Era fatta di nascita, di crescita e di morte. E di quest’ultima si parlava, si sapeva che sarebbe venuta. Per affrontarla baldamente la realtà sarda la ritualizzò istituzionalizzandola, tanto che si arrivò a poterla prevedere, affrontare, e superare. La famiglia che ne veniva colpita per un determinato periodo di tempo si allontanava dalla società, ma da questa veniva aiutata, attraverso quegli strumenti di mutuo soccorso che oggi sono stati completamente dimenticati.
Della morte oggi non si parla, sembra quasi faccia un po’ più paura che ieri, e la nostra società ha elaborato un nuovo modo per istituzionalizzarla. La ignora. Sempre che, è chiaro, non si trasformi in business politico. La parte conclusiva della vita di ciascuno è divenuta un tabù, e quando sopraggiunge sorprende e spaventa. Tanto più che non esistono ormai quei circuiti sociali di sostegno, che decenni addietro aiutavano la famiglia dell’individuo che veniva a mancare.
Ossessione silenziosa per la morte che spaventa che va a braccetto con la nuova ossessiva curiosità che circonda la figura de s’accabadora. E per ironia della sorte, quella figura che amava passare inosservata è oggi protagonista di un’accesa polemica, che infondo non è dissimile dalle precedenti. I protagonisti pure sono gli stessi, solo il cambiato nome, ma chi la storia la conosce, non si fa
ingannare. Gli ecclesiastici di allora sono i politici di oggi, ma il ritornello non è cambiato: morire per mano de s’accabadora è un peccato mortale. E chi si dovrebbe far portavoce del principio democratico, s’insinua come serpe nella sfera d’azione privata, cancellando il diritto fondamentale: quello di scelta. Quello che la tradizione, mossa dal buon senso concedeva senza dubbio alcuno. Quello che nel 1906 faceva dire ad una madre che il figlio il paradiso se lo sarebbe guadagnato da se, o con l’aiuto de s’accabadora. Il diritto naturale alla libertà di scelta.
Fonte: www.contus.it
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