Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
sabato 8 gennaio 2011
Sito funerario da tutelare e valorizzare
Lucca. Sos per i "morticini" di 2150 anni fa scoperti al Frizzone di Capannori. Appello di Michelangelo Zecchini e Francesco Mallegni affinché si eviti di farli morire per sempre.
Nel 2006 e nel 2007, nel corso di un intervento ‘preventivo’ effettuato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e da Autostrade per l’Italia in occasione del costruendo casello autostradale del Frizzone, presso Capannori, è affiorata una vasta e importante area archeologica di epoca tardorepubblicana, in cui spiccano un edificio ligneo, che rappresenta un unicum; resti di viti e di un calcatorium per la produzione del vino; una serie di fossati rituali (bóthroi) colmi di frammenti di anfore e di vasellame; un complesso di sepolture cultuali di neonati; uno scheletro di animale adulto (Canis familiaris L.1758), sostanzialmente integro, sepolto in una fossa a pianta ellittica forse con scopi magico-propiziatori; una splendida terracotta architettonica raffigurante Dioniso su delfino; numerosi frammenti pertinenti al tronco e ai rami di varie specie arboree fra cui Quercus robur L. Al momento dello scavo i reperti suddetti e altri ancora più fragili (semi, foglie, insetti) si presentavano in ottime condizioni di conservazione grazie anche all’effetto protettivo del limo argilloso, esito di varie alluvioni del fiume Serchio, l’antico Auser.
Ci si sarebbe aspettati che, dopo la prima fase di tutela sul campo, altrettanto appropriata fosse la successiva fase di salvaguardia, che consisteva nel dare correttamente la priorità alla sicurezza (consolidamento e quant’altro) dei reperti ad alta deperibilità.. A quanto pare, non è successo così. Ecco cosa ne pensano due noti studiosi.
MICHELANGELO ZECCHINI, archeologo, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti: “Perché si è privilegiato il restauro dei ‘cocci’ escludendo quei fragilissimi scheletrini?”
“Erano i primi giorni del novembre 2006 quando finimmo di scavare al Frizzone di Capannori quegli scheletrini tanto delicati che sembravano soccombere perfino ai morbidi tocchi di spazzolino. Ci accorgemmo subito del loro elevato valore scientifico: allineati lungo il lato occidentale di un edificio di pietra (sacello?), quei piccoli esseri lunghi appena 45-50 cm (neonati o non ancora nati?), accoccolati come se stessero ancora nel grembo materno, ci facevano entrare nell’intimo della sfera religiosa e cultuale di circa 2150 anni fa. Riti di fondazione? Orrendi sacrifici umani? Bambini immolati a una divinità crudele? O piuttosto creaturine che, decedute per cause naturali, furono offerte a un dio per una vita migliore nell’al di là? Comunque stessero le cose, i ‘neonati’ del Frizzone avrebbero potuto dare un contributo fondamentale alla conoscenza di un affascinante aspetto del nostro passato. Chi scrive sperava che, stante la loro importanza, dopo lo scavo venissero affidati senza indugio alle cure dei paleoantropologi. Ma così non fu.
Sono passati quattro anni dal momento in cui gli scheletrini furono ricoverati nel deposito “Cavanis” di Porcari, gestito da Giulio Ciampoltrini, funzionario della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Dalle sue dichiarazioni pubbliche si apprende con sorpresa e sgomento che ancora non ha fatto restaurare quelle esili ossa. La giustificazione è che mancano i soldi. Ma è fuor di dubbio che i soldi ci sono stati, e nemmeno pochi, giacché i reperti del Frizzone, per tramite del Comune di Capannori, hanno beneficiato di un sostanzioso finanziamento da parte di una Fondazione bancaria. Evidentemente, si è preferito utilizzarlo in toto per scopi (restauro di ‘cocci’, un convegno locale…) che attraggono interrogativi amari: si trattava di oggetti e atti connotati da un pregio archeologico tanto alto da assorbire ogni contributo economico? Gli uni e gli altri si qualificavano come bisognosi di attenzioni talmente impellenti da relegare in sott’ordine quei fragilissimi scheletrini che, se non trattati tempestivamente, correvano (e corrono) il pericolo di morire per sempre? Erano interventi così esclusivi da estromettere i ‘morticini, per la cui salvezza sarebbe stato sufficiente qualche spicciolo ( poche centinaia di euro su 45mila), ossia un impegno economico di gran lunga inferiore a quello adottato per lavaggi e restauro di vasellame?
Adottando una terminologia da pronto soccorso, non c’è dubbio che i ‘morticini’, essendo ad alto rischio di deperibilità, si classificano di per sé come reperti da codice rosso. Per quale motivo, pur possedendo gli strumenti necessari (soldi ed esperti più che disponibili), chi ne aveva il dovere non è intervenuto d’urgenza? Sarebbe opportuno, a questo punto, che i resti ossei infantili fossero esaminati da professori di paleoantropologia al fine di accertare le loro attuali condizioni. Con la flebile aspettativa che risultino esenti da deterioramenti irreversibili e, se così fosse, con la pia speranza che gli ulteriori 45.000 euro (già finanziati) non vengano anch’essi totalmente adibiti ad abluzioni di cocci et similia”.
FRANCESCO MALLEGNI, professore ordinario di Antropologia presso l’ Università di Pisa: “Sono sconcertato, quei ‘morticini’ rappresentano un archivio biologico”
“Come docente di paleoantropologia da una vita (1968-2010) sono rimasto sconcertato nell'apprendere ciò che sta succedendo ai "morticini" di epoca romana rinvenuti al Frizzone (Capannori) presso le fondazioni di un edificio forse dedicato a Diòniso. Mi sarei aspettato che, subito dopo lo scavo, fossero affidati a uno o più specialisti del settore. Invece, a quanto pare, sono stati abbandonati per anni in un deposito di materiali archeologici, in attesa di un restauro e conseguente studio, e rischiano di disfarsi e quindi di scomparire per sempre. Furono scoperti e scavati con abilità e pazienza infinita (questo tipo di materiale è fragilissimo) dal prof. Michelangelo Zecchini e dalla sua équipe. Fatiche buttate? Sicuramente no, perché questi reperti (o quel che rimane) possono ancora essere restaurati, reintegrati cum grano salis, ed infine studiati. La loro importanza è enorme, dato che possono avere nel contesto nel luogo in cui sono stati trovati delle valenze straordinarie legate a sacrifici (?), credenze nella sfera del sacro (?), malattie ed altro quando si fosse messi in condizione di operare su di essi. Mai mi sono stancato di sottolineare ai miei studenti e agli allievi - e soprattutto agli archeologi che li trovano - come gli scheletri umani rappresentino un "archivio biologico" capace di rilevare non solo il sesso e l'età alla morte degli inumati ma anche la statura, i caratteri propri dell'ethnos a cui sono appartenuti e, attraverso il loro DNA residuale, le parentele, le malattie e perché no, il loro antico sembiante tramite la ricostruzione fisiognomica partendo dal loro cranio. Non possiamo nemmeno sottacere il tipo di alimentazione (economia della società a cui appartenne la madre se essi sono neonati o anche feti a termine) attraverso le ricerche allo spettrofotometro ad assorbimento atomico o lo spettrometro di massa degli elementi in traccia nelle ossa, guide alla paleonutrizione.
Per questo mi candido allo studio degli infanti del Frizzone, possedendo immodestamente l'esperienza in materia, ma anche gli strumenti per realizzarlo presso i laboratori che dirigo nell'Ateneo pisano o anche al Museo di Archeologia e dell'Uomo di Viareggio, di cui da qualche tempo sono stato nominato direttore. La mia équipe sarebbe pronta e la spesa modestissima, dato il numero limitato dei reperti”.
Nelle immagini uno degli scheletrini portato alla luce dagli archeologi, e alcuni frammenti fittili.
http://www.youtube.com/watch?v=JcP4kDI-lgc
Francesco Mallegni sul caso dei morticini di Frizzone
RispondiEliminaLeggo con stupore, costernazione e un notevole fastidio le dichiarazioni alla stampa del dott. Giulio Ciampoltrini sui resti umani da scavi archeologici. A mio avviso antropologi e studiosi non possono non ribellarsi ad affermazioni di questo tipo: Sono dell’idea che i corpi, anche se di età passate, dovrebbero rimanere sottoterra e non esposti, a meno che non ci sia una notevole rilevanza antropologica…(ipse dixit).
Sembra, dunque, che si debba evitare di scavare i resti umani per una sorta di pietas.
(frase che Egli non è insolito pronunciare), mentre i loro corredi vanno scavati, eccome!
Inoltre, dato che Egli afferma testualmente: a meno che non ci sia una notevole rilevanza antropologica, cosa si deve ritrovare, un pitecantropo? Da parte mia già fatto con l’Homo Cepranensis, antico di oltre 800.000 anni fa, il primo uomo, per ora, arrivato dall’Africa in Europa, rinvenuto ormai una quindicina di anni fa a Ceprano e pubblicato, vivaddio, non su uno strillozzo ma su rivista internazionale. Spero che il dott. Ciampoltrini, e chi la pensa come lui, possa capire che tutti i reperti umani antichi sono degni di attenzione, perché, come archivi biologici, raccontano, a chi sa interpretarli, la storia di una vita, e molti scheletri raccontano la storia di una popolazione. E spero sinceramente di aver male interpretato le dichiarazioni pubbliche del dott. Ciampoltrini perché con un simile modo di pensare, e di procedere, ci sarebbe da ridisegnare l’intera metodologia della ricerca archeologica. Però c’è un fatto, documentato e documentabile, che non posso sottacere e che dimostra che il dott. Ciampoltrini da tempo non apprezza: l’antropologia.
Voglio raccontarlo in breve nel prossimo commento.
...segue
RispondiEliminaAlcuni anni fa ci fu, proprio a Lucca, un convegno sullo stato della ricerca archeologica e antropologica nel territorio. Presiedeva la sessione il prof. Renato Peroni, ordinario di Protostoria europea all’Università di Roma. Un collaboratore di Ciampoltrini mostrò le immagini di uno scavo, diretto dallo stesso Ciampoltrini, effettuato su sepolture di epoca romana in cui ci si era presi cura dei corredi lasciando i resti umani a deteriorarsi in fondo alle fosse. Gli contestai la metodologia d’intervento e ricevetti una risposta stizzita secondo la quale i resti scheletrici nell’ambito di uno scavo contano poco o nulla. Non ebbi esitazioni: replicai che si trattava di una posizione degna di un preilluminista. Il compianto Prof. Peroni, dal canto suo, si alzò di scatto, osservò con una certa veemenza che le affermazioni di Ciampoltrini vanificavano i principi basilari impartiti per 40 anni ai suoi allievi (alcuni dei quali oggi occupano posti di primo piano nelle Università e nelle Soprintendenze) e abbandonò sdegnato la presidenza del convegno. Solo la stima e l’amicizia mia e del Prof. Peroni verso il prof. Zecchini, coordinatore del convegno, resero possibili il ritorno alla normalità e la ripresa delle relazioni congressuali.
Se persiste una mentalità del genere (intendo dire di certi archeologi) i poveri scheletrini del Frizzone, sono sicuro, andranno incontro a una seconda morte: la loro immaturità ossea avrebbe consigliato un restauro repentino, dato anche l’ottimo e meticoloso scavo che ne aveva fatto il Prof. Zecchini, e non l’abbandono in un deposito esposto alle variazioni climatiche più deleterie. Se mi sono offerto di prendermene cura, subito e gratis, non è certo per una qualsiasi forma di interesse personale, ma perché debbono essere salvati. Non è un problema di soldi e di tecniche: i primi non occorrono, le seconde credo che siano acclarate. Se il dott. Ciampoltrini avesse qualche dubbio sulle mie qualità scientifiche e professionali, ecco in sintesi i miei titoli: 44 anni di carriera universitaria fino alla titolarità della cattedra di Antropologia; 360 pubblicazioni su riviste specializzate, anche straniere, con tanto di referee e impact factor; sei manuali per studenti universitari sulla disciplina antropologica, che mi onoro di aver professato e che credo di aver onorato.
Concludo con una osservazione connotata da un forte grado di ovvietà ma che, evidentemente, per certuni ovvia non è: i reperti umani sono a tutti gli effetti, anche giuridici (D. Lgs. 42/2004) beni culturali ancorché del tipo biologico. L’archeologia non è fatta solo di cocci, i quali almeno un tempo, mi si insegna, venivano utilizzati per pavimenti detti in cocciopesto; a meno che (ogni tanto mi piace scherzare) non si voglia trasformarla in una scienza esclusiva da chiamare Cocciologia. Ritornando serio, dico con forza che noi tutti abbiamo il dovere civico, scientifico, intellettuale e morale di preservare anche il patrimonio antropologico (compresi i morticini del Frizzone) per le future generazioni, ma con i fatti e non con le dichiarazioni d’intento.
Francesco Mallegni
Professore Ordinario di Antropologia, Università di Pisa