giovedì 12 agosto 2010

Bronze Age - Storia delle navicelle bronzee nuragiche - Ancient boat


Quasi mai lo studio delle navicelle è stato separato da quello più generale della produzione dei bronzi figurati sardi. Questo avviene sin dai tempi del Lamarmora che, nel 1840, li classificava come “oggetti votivi d'origine orientale con una colomba in cima all'albero, animale dedicato a Venere”. Poiché, secondo Tacito, Iside era adorata attraverso il simbolo della barchetta (per la sua forma lunata), il Lamarmora avanza l'ipotesi che le navicelle fossero dedicate ad Astarte, che riuniva in sé i caratteri di Iside e di Artemide. Nel 1884 il Crespi rifiuta l'opinione di coloro che vedono in questi bronzi delle lucerne. Questo perché “la funzione ne sarebbe impedita dalla forma, inadatta ad accogliere un eventuale lucignolo, e perché i fianchi delle navicelle sono talvolta traforati”. Tuttavia la poppa di molte navicelle disegna una sorta di beccuccio, simile a quel che si osserva su molte lucerne, e trafori sono sempre al disopra dell'orlo dello scafo, consentendo quindi il perfetto contenimento dell'eventuale liquido.
La protome, comune a tutte le navi antiche, rappresenta per il Crespi una "divinità tutelare, sotto la cui protezione si mettevano le navi. Altre volte la stessa è considerata un’insegna, per richiamare qualche caratteristica particolare o da cui prendeva il nome la nave. Così, ad esempio, la testa del daino può significare leggerezza e velocità”. La protome era destinata a urtare come rostro. Le barchette erano per il Crespi modelli di navi reali, e a suo avviso potevano essere appese, in qualità di ex voto, nell’ambiente domestico della casa per la scampata avventura o per il felice arrivo nella nuova terra.
Nel 1884 il Pais si sofferma sull'uso, comune tra le popolazioni antiche, di ornare la prora e la poppa delle navi con un'immagine animale: d’oca, di cigno, di leone, di cavallo. Mai però di toro, di daino, d'antilope, come invece accade sulla navicelle sarde. Riprendendo il discorso del Crespi, che voleva espresse nella protome le caratteristiche di agilità e di velocità dell'imbarcazione, il Pais si domanda quale significato possa in tal senso assumere la figura, predominante, del toro. Egli nota come nell'antichità il cavallo fosse poco conosciuto nell'isola, e come siano pochissimi i bronzi raffiguranti uomini a cavallo, in confronto a quelli che invece mostrano uomini sul dorso del toro. Così, d'altronde, è anche vero che le monete puniche battute a Cartagine hanno impresso il cavallo mentre i coni coevi in Sardegna mostrano il toro.
Il toro, dunque, sostituirebbe nella decorazione prodiera il cavallo, animale che caratterizza la protome della hippos fenicia. La protome ritenuta di antilope dimostrerebbe per il Pais e il Crespi che queste navicelle appartenevano a un popolo che aveva navigato fuori dalle coste di Sardegna. Poteva anche trattarsi di ex-voti dei soldati sardi che militavano presso potenze d’oltremare. Nel 1884 era già ampiamente nota la cosiddetta navicella proveniente dalla Tomba del Duce, che per prima offriva la possibilità di una attendibile datazione da parte di Lilliu, visto che il contesto etrusco di ritrovamento la situava con ragionevole certezza intorno alla seconda metà del VII a.C., suscitando nel contempo in campo nazionale l'attenzione di un gran numero di studiosi.
L'idea che le barchette nuragiche fossero un oggetto in qualche modo legato all'uso funerario e votivo, accreditato dai luoghi e dal contesto dei rinvenimenti (tombe o templi), nonché dall'immediato confronto con le navicelle dell'antichità orientale ed egizia, è condiviso anche dal Taramelli nel 1913. Lo Zervos considera non diversamente le navicelle come barche simbolico-funerarie ma nel 1954 riconosce nelle navicelle da Oliena e da Vetulonia, ambedue con scafo di tipo carenato, un possibile modello di vere imbarcazioni. In particolare distingue le barche con scafo ellittico-convesso, di uso votivo e funerario, da quelle con scafo a sezione trapezoidale, modelli di barche reali.
Nel 1962 Lilliu, rilevando sulla navicella proveniente da Aritzo, tracce certe di un restauro antico, ribalta per primo molte di queste convinzioni leggendo il rozzo rappezzo come un’incontrovertibile prova dell'uso non solo votivo, ma anche quotidiano, domestico di questi oggetti, nei quali riconosce delle lucerne. Egli distingue tra un tipo lungo esplicitamente paragonato alla hippos fenicia e un tipo corto simile alla gôlah. Sostenendo l'uso sia pratico, come lampada, che votivo funerario dell'oggetto, Lilliu vede nelle barchette sarde una prova dell'esistenza di una marineria nuragica di cabotaggio e d'alto mare.
Una seconda prova, questa volta di fonte letteraria, andrebbe ricercata nel noto passo in cui Strabone scrive di atti di pirateria ripetutamente compiuti sulle coste della Toscana da montanari provenienti dalla Sardegna. Ciò non è condiviso dallo storico Meloni nel 1975, il quale, riportando integralmente il brano, nota che conseguentemente a tali incursioni fu deciso da Roma l'invio in Sardegna di governatori militari, e che pertanto i fatti narrati andrebbero datati non in epoca nuragica, bensì intorno all'anno 6 d.C., nel quadro di generale insicurezza che caratterizza l'isola sotto Augusto. In quell'epoca i sardi, avendo già assimilato dai Cartaginesi i segreti dell'arte nautica, e da Sesto Pompeo la tecnica dell'assalto piratesco, sarebbero stati perfettamente in grado di minacciare le coste tirreniche, ma occorre rilevare che si trattava di Sardi delle aree interne e ciò implica un legame comunque tra i sardi indigeni e il mare, continuato nel tempo e persistito sino all’età romana, quando ancora molti sardi erano imbarcati in diverse flotte come quella di Miseno.
La cronologia delle navicelle viene fatta sostanzialmente concordare con quella degli altri bronzi, con inizio nel IX a.C. Un altro studioso, il Gras, ritornerà sull'argomento nel 1985, riconoscendo come assimilabile al tipo sardo una navicella dipinta su un vaso proveniente da Skyros, databile al Miceneo III c. Non sarebbe così da escludere una retrodatazione delle sculture sarde al XII a.C. La tesi è accolta con favore dal Lilliu, che vede nella navicella di Skyros il segno della presenza d'una marineria sarda già nel XII a.C. e di mercanti nuragici che partecipano ai negozi mediterranei in tutte le direzioni.
Ma l'idea di una o più popolazioni nuragiche dedite all'arte della marineria e della carpenteria navale, che solcano il Mediterraneo tessendo fruttuosi commerci con altre genti rivierasche, per quanto stimolante e affascinante, necessita ancora di più attente disamine e verifiche. E poiché le fonti letterarie tacciono, ci pare che un contributo alla risoluzione di alcuni di questi interrogativi possa giungere da un esame delle attitudini e funzionalità nautiche delle imbarcazioni raffigurate nelle antiche sculture in bronzo, così da poter in qualche modo valutare se e in quale misura scafi di foggia simile a quelli presumibilmente riprodotti nei bronzi sardi fossero in grado di intraprendere viaggi e trasporti marittimi e, in caso affermativo, in quale ambito geografico. In particolare si cercherà di verificare la presenza, sulle navicelle sarde, di raffigurazioni di attrezzature e strumenti atti alla navigazione, come alberi, vele, timonerie, remi, scalmi, ponti, rostri, valutando dove possibile anche la congruità dei dimensionamenti.

Nell'immagine il vaso con la nave di Skyros

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