Archeologia. Il consumo del porchetto (maiale da latte) nell'età del Ferro presso le comunità della Sardegna: leggi, tabù e consuetudini alimentari
Articolo di Lorenza Campanella e José Á. Zamora
“Eat not this flesh”. “Non mangerai di questa carne”.
Con queste parole Frederick J. Simoons, nel lontano 1961, affrontava, in un volume di grande successo, il tema dei divieti alimentari. Fino a poco tempo fa il convincimento dell’esistenza tra i popoli di età Fenicia di una proibizione gravante sul consumo dei suini era talmente radicata negli studi da condizionare persino la ricerca stessa. Un esempio lampante è rappresentato dallo scavo dei relitti punici individuati a largo di Marsala, a bordo dei quali furono rinvenuti consistenti resti faunistici tra cui alcuni maiali. Non ammettendo che i Fenici potessero cibarsi di carne di maiale, furono avanzate ipotesi azzardate che prevedevano l’uso dei maiali come “strumentazione di bordo”, usati cioè nell'individuazione della terraferma oppure come “segnalatori acustici” durante la navigazione notturna o infine come indicatori dell’approssimarsi di tempeste.
Gli autori classici, incuriositi dalle abitudini alimentari delle popolazioni “barbare”, non perdono occasione di far notare costumi alimentari che risultano loro bizzarri, com'è il caso del mancato consumo, e addirittura del rifiuto, della carne suina, rifiuto che estendono anche alla zona fenicia. In realtà le notizie, isolate, vengono da fonti classiche piuttosto tarde. La principale e più esplicita
testimonianza è contenuta in Erodiano, storico nativo di Antiochia di Siria vissuto tra il II e il III d.C. Nella sua narrazione del regno di Eliogabalo è contenuta la citazione che ci interessa e che appare
affidabile. “(Eliogabalo) gettava tra la folla ogni specie di animale domestico eccetto i maiali, da cui si asteneva, secondo la legge fenicia” (HDN., V, 6, 9). La traduzione non deve però ingannarci: il testo greco parla di nomoi, cioè non necessariamente leggi, ma anche consuetudini e costumi culturali. Una seconda testimonianza, più tarda, è fornita da Porfirio (232 - 304 d.C.), anche lui di origini orientali, forse nativo della stessa Tiro. Al filosofo neoplatonico si deve la seguente informazione: “I Fenici e i Giudei se ne astenevano perché non se ne trovava [il maiale] assolutamente in quei luoghi, [...] né in Cipro né in Fenicia era offerto agli dei questo animale, poiché in quei luoghi mancava” (PORPH., Abst., I, 14).
Porfirio antepone quindi l’inesistenza di suini in area fenicia ed ebrea alla consuetudine di questi popoli di non mangiarli, anticipando così, in un certo modo, moderne convinzioni proprie degli antropologi materialisti. Nelle fonti classiche descritte si profila quindi l’esistenza di una consuetudine a non cibarsi di carne di maiale; tuttavia per risalire all’origine del divieto bisogna ricorrere alle fonti bibliche. Il rifiuto della carne di maiale diventa un fatto identitario e rappresenta una delle più note proibizioni del Deuteronomio, cioè della legge sacra dell’intera comunità giudaica (almeno sin da epoca postesilica). Senza voler entrare nello specifico va ricordato come questa azione normativa fu prodotta per rispondere a precise necessità ideologico-identitarie del gruppo in un determinato momento storico, comunque tardo, ed è il risultato di una progressiva costruzione culturale dovuta, secondo alcuni, a fattori di natura economico-ambientale. I tabù alimentari ebrei, per la loro notorietà, sono stati uno dei primi casi storici ad essere affrontati con criteri moderni. Dopo qualche prima, e polemica, spiegazione igienico-sanitaria (la trichinosi come base dell’astinenza dal consumo del maiale), le spiegazioni fornite dal materialismo culturale sono state senz’altro le principali protagoniste, dalla metà del secolo scorso in poi.
Ad ogni modo ciò che ci interessa sottolineare è che:
- non vi sono elementi che permettano di postulare l’esistenza tra i Fenici di tabù alimentari così forti e legati a necessità collettive o identitarie (anche perché una vera identità collettiva i Fenici non l’hanno mai avuta);
- e anche ammettendo che tra i Fenici ci fosse stato un tabù simile a quello ebraico, questo non può immaginarsi immutabile e legato continuativamente ad una fantomatica identità alimentare fenicia.
Le fonti epigrafiche forniscono abbondanti testimonianze della presenza del maiale (sia selvatico sia domestico) nei diversi territori del Vicino Oriente. L’animale figura nelle liste lessicali sumere sin dai periodi più antichi e sembra che l’allevamento suino rivestisse un ruolo non marginale nelle economie sud-mesopotamiche. L’esistenza della pratica dell’allevamento destinato al consumo di carne e grassi emerge da diversi corpora documentari: i testi mesopotamici del III millennio a.C., quelli della colonia mercantile assira di Kanish all'inizio del II millennio (lo strutto compare spesso; l’allevamento dei maiali è attuato dalle popolazioni locali, anatoliche) o ancora i testi siriani e mesopotamici di epoca paleo-babilonese (In Siria e nell'alta Mesopotamia è attestato soprattutto l’allevamento istituzionale, specializzato, su grande scala; a sud i documenti riflettono invece un allevamento e un consumo diffuso tra tutti gli strati sociali). Alla fine del secondo millennio l’allevamento e il consumo sono attestati sia nell’alta sia nella bassa Mesopotamia, e anche nella zona assira, così come nei testi hittiti e micenei. Nel I millennio a.C., i riferimenti al maiale nelle fonti scritte mesopotamiche sembrano diminuire, ma comunque ci sono. La costa siro-palestinese sembra mostrare invece un panorama contrastante con il resto dell’area vicino-orientale. Alla fine del II millennio a.C. nelle fonti alfabetiche ugaritiche il maiale (domestico e selvatico) è attestato in alcune tavolette amministrative, ma solo come antroponimo. L’assenza di maiali nella documentazione economica sembra segnalare l’effettiva assenza dell’animale nei normali processi produttivi, commerciali e di consumo e quindi la sua esclusione dall’alimentazione quotidiana. Le fonti epigrafiche fenicie forniscono unicamente un argomento ex silentio: maiale e cinghiale non sembrano mai comparire nei testi fenici conservati. La natura della documentazione impone cautela: sono infatti pochi i testi quotidiani, riflesso di transazioni economiche e di attività produttive, nei quali ci si potrebbe aspettare la comparsa del maiale (e nei quali la sua assenza sarebbe molto più indicativa). Non ci sono nemmeno dei veri testi mitologici dove, per lo meno, sarebbe stato possibile interpretare quest’assenza o presenza in modo più articolato. Tuttavia, vista l’esistenza d’iscrizioni votive (che talora indicano la natura delle offerte alle divinità) e di qualche “tariffa” sacrificale, l’assenza del maiale in questi contesti sacri non sembra un semplice caso. In sintesi, le fonti epigrafiche fenicie non mostrano alcun cambiamento importante rispetto alle fonti testuali levantine anteriori, confermando forse l’assenza di una consistente pratica di allevamento e di un consumo regolare della carne suina tra i Fenici orientali e lasciando aperto il caso dei Fenici occidentali.
Passando ai dati archeologici, un diffuso allevamento del maiale nel Vicino Oriente, agevolato dall’esistenza di numerose aree ecologicamente favorevoli, è provato dai resti di suini (Va tenuto presente che non è sempre agevole distinguere tra la specie selvatica e quella domestica), attestati sin dal Neolitico. Nell’area levantina meridionale le stratigrafie archeologiche attestano la presenza di maiali fino alla metà del II millennio a.C. per poi scomparire alla fine dello stesso periodo. Sembra che in tutta questa zona ci sia stato un abbandono, probabilmente progressivo, dell’allevamento suino con una lenta scomparsa del maiale che non fu comunque mai totale. Va osservato che questo fenomeno non si produsse con un ipotetico arrivo dirompente, agli inizi dell’Età del Ferro, di nuove genti connotate da una diversa cultura anche alimentare, ma ha luogo progressivamente lungo fasi cronologiche anteriori. A Ugarit oltre alla presenza, sin da epoca preistorica, di diverse raffigurazioni di cinghiali e di oggetti elaborati con le loro ossa, sono attestati resti di suini dalle fasi più antiche sino alla fine del Tardo Bronzo. Questi, recanti spesso segni di macellazione e destinati quindi al consumo, sembrano tutti corrispondere alla specie selvatica, senza esemplari d’allevamento. Sembra quindi che il mancato sviluppo produttivo non fosse dovuto ad un rifiuto culturale verso il consumo della carne suina, dato che quella di cinghiale veniva mangiata.
Occorre ora indagare i motivi per i quali il maiale era tabù pur essendo un animale adatto all’allevamento e al consumo umano, ottimo produttore di alimenti proteici, efficace trasformatore di rifiuti, prolifico e di crescita veloce, altamente vantaggioso per il consumo e con sottoprodotti utili ad altri scopi, senza specifici rischi sanitari. Mentre in passato si tendeva a spiegare le leggi Deuteronimiche relative al consumo di carne suina in chiave igienico – sanitaria, come protezione contro la trichinosi, le attuali conoscenze hanno posto in rilievo che il parassita che provoca la malattia non è esclusivo del maiale: per evitarlo è sufficiente non mangiare carne troppo cruda, inoltre anche la carne non cotta di altri animali è potenzialmente pericolosa. La semplice (pre)esistenza di motivazioni di tipo ideologico non è sufficiente a fornire una spiegazione, così come non lo sono generiche spiegazioni fondate su fatti ambientali (visto che il maiale - animale proprio delle zone umide, boscose e ben irrigate - poteva trovare queste stesse condizioni anche in area levantina). Parimenti non sembra convincente una spiegazione esclusivamente fondata sullo stanziamento di gruppi con una diversa cultura alimentare basata sul consumo dei ruminanti (o sulla influenza di questi stessi gruppi sulle popolazioni già insediate). Più condivisibili appaiono le spiegazioni avanzate dai “materialisti culturali” che sottolineando i fattori economici (integrati a considerazioni socio-demografiche ed ecologiche) hanno individuato le circostanze per le quali l’allevamento del maiale avrebbe comportato uno sforzo produttivo svantaggioso. In effetti, a differenza dei ruminanti che si nutrono di vegetali a crescita spontanea e ricchi in cellulosa indigeribile per l’uomo, l’alimentazione dei suini entra in diretta concorrenza con quella dell’uomo: nel processo di allevamento l’uomo deve destinare allo scopo una parte della sua produzione agricola oltre che rifornirli di acqua e di ambienti chiusi e riparati dal sole. In sintesi: l’allevamento dei suini può rivelarsi costoso e a volte problematico. Inoltre, a differenza di quello bovino od ovicaprino, è un allevamento esclusivamente finalizzato al consumo delle carni: infatti pur potendo fornire qualche utile sottoprodotto come il cuoio, non fornisce né latticini, né lana, né forza-lavoro. Per tali motivi, cambiamenti (sociali, demografici, ecologici) e crisi recessive potevano portare alla cessazione del suo allevamento. Una analoga linea interpretativa può essere proposta per la Fenicia dove nel corso del II millennio a.C. l’animale potrebbe essere progressivamente scomparso dalla cultura alimentare e aver ricevuto più forti connotazioni negative in seguito agli accadimenti avvenuti tra il Tardo Bronzo e gli inizi della Età del Ferro. In effetti, come abbiamo potuto osservare, le fonti archeologiche e testuali indicano concordemente una progressiva diminuzione dell’allevamento suino nel corso del Tardo Bronzo, sino alla sua definitiva scomparsa. In questa fase però non deve ancora essersi affermato un pregiudizio culturale nei confronti della carne suina poiché il cinghiale viene invece cacciato e mangiato. Si tratta comunque di una attività elitaria che favorisce lo sviluppo di una specifica valenza ideologica correlata al consumo della carne suina. D’altra parte è un fatto che, già nella tarda Età del Bronzo, l’allevamento dei suini non è promosso né dalle istituzioni (cioè, fondamentalmente, i palazzi) né dalla popolazione in generale. La produzione di carne di maiale era, verosimilmente, troppo esigente per un allevamento su scala ridotta gestito da semplici contadini che, con l’ampliamento delle zone di coltivazione e la scomparsa dei boschi vicini agli insediamenti costieri, non avrebbero potuto nutrire gli animali in modo semi-selvatico sfruttando le risorse ambientali né tanto meno sarebbero stati in grado di destinare allo scopo parte della propria produzione agricola. Analogamente poco conveniente poteva risultare un allevamento su scala maggiore gestito dai centri palatini sia per il fatto che sottraeva alimenti di base al meccanismo di centralizzazione/redistribuzione sia perché esigeva manodopera (di acquisizione problematica) per poi fornire in definitiva, un prodotto estremamente specializzato. Da ciò è possibile ipotizzare lo sviluppo e l’affermazione di un’ideologia, tra quelle preesistenti, che rimarcasse le caratteristiche negative dell’animale e fondasse la sua assenza tra i prodotti in uso da questi gruppi umani.
Il maiale nelle comunità della Sardegna
Affrontiamo a questo punto il caso concreto del consumo in una specifica area dell’Occidente mediterraneo, la Sardegna. L’incremento delle analisi archeozoologiche condotte su resti faunistici provenienti da siti fenici e punici dell’isola ha recentemente contribuito a creare un quadro piuttosto ben documentato delle abitudini alimentari nelle comunità fenicie e puniche dell’isola. Lo studio dell’archeofauna nei contesti descritti può altresì essere utilmente confrontato con i dati desumibili dai contesti nuragici. L’allevamento del suino in Sardegna, oggi fiorente e recentemente potenziato in seguito al riconoscimento ufficiale di una “razza suina sarda”, ha radici molto antiche che risalgono certamente all’età Neolitica. Anche in seguito, nel corso dell’Eneolitico fino alla piena età del Ferro, i maiali sono costantemente compresi nelle tre principali specie domestiche allevate nell’isola, accanto ai bovini e agli ovicaprini. Interessanti sono ad esempio i dati restituiti da Monte d’Accodi, dove i suini sono tra gli animali maggiormente usati nei sacrifici, insieme agli ovicaprini e ai bovini. L’utilizzo alimentare delle vittime sacrificali è reso perspicuo dalla diffusa presenza di segni di macellazione sui resti faunistici. In Età Nuragica la specie prevalente è generalmente quella degli ovicaprini seguita dai bovini che occasionalmente possono essere la specie dominante. I suini sono comunque sempre ben attestati. Notevole è la forte predominanza di suini che si registra nel sito nuragico di Sant’Imbenia, dove i maiali raggiungono il 39%, seguiti dagli ovicaprini (34%) e dai bovini (17%). Con l’arrivo dei coloni fenici il panorama delle attestazioni non appare significativamente modificato. Negli insediamenti fenici e punici i suini sono generalmente ben attestati, anche se di norma - ancora una volta - sono quantitativamente inferiori ai bovini (Bos taurus) e agli ovicaprini (Ovis / Capra). Così ad esempio nella Tharros di VI e V a.C. i suini costituiscono il 14% dei resti faunistici, preceduti quantitativamente dai bovini (43%) e dagli ovini (39%). Nell’area dell’abitato di Sant’Antioco il materiale rinvenuto all’interno di una cisterna defunzionalizzata e utilizzata, a partire dall’età punica, come immondezzaio, i suini rappresentano il 18% del totale dell’archeofauna, mentre i frammenti attribuiti ad ovicaprini raggiungono il 41% e quelli pertinenti ai bovini il 26%. Nello stesso insediamento l’indagine del vano IIf ha restituito per l’età fenicia una presenza assai abbondante di suini (37%), quasi pari a quella di ovini (38%), mentre i bovini sono quantitativamente inferiori (18%); nella successiva età punica la quantità di ovini si accresce notevolmente (55%) ma i suini (22%) sono comunque ben presenti e superiori ai bovini (11%). Peculiare, e di grande interesse, è il quadro fornito dai siti più interni dell’area sulcitana dove l’attività venatoria, in età fenicia, continua ad avere una rilevanza notevole, addirittura superiore all’allevamento e dove l’allevamento suino appare largamente praticato. Nell’abitato di Monte Sirai, una unità domestica databile tra la fine del VII e il VI a.C. ha restituito una quantità davvero consistente di cervi (48%), certamente cacciati per la loro importanza nell’industria della lavorazione dell’osso e del corno, ma anche utilizzati nell’alimentazione. Le curve di mortalità mostrano infatti una grande variabilità di morte e l’uccisione di numerosi animali giovani non ancora utilizzabili per lo sfruttamento dei palchi. Tra le specie allevate predominavano invece i maiali (21%) e gli ovicaprini (20%) mentre trascurabile era l’apporto dei bovini (8%). Una situazione simile è quella attestata nella vicina fortezza fenicia collocata a ridosso dell’antemurale del Nuraghe Sirai, 1 km a sud-est di Monte Sirai, dove l’analisi dei resti faunistici contenuti
all’interno di unità stratigrafiche databili tra l’ultimo quarto del VII sec. a.C. e l’inizio del VI a.C. ha rilevato come il maiale fosse la specie maggiormente consumata, rappresentando il 36% dei frammenti, seguita dal cervo (32%). Tra i suini sono largamente prevalenti i maiali, con un numero minimo di 27 individui, sui cinghiali, che assommano a 5 individui. Osservando le curve di mortalità nei campioni esaminati si nota che quelle dei cinghiali sono tipici dell’attività venatoria, nella quale si predilige l’abbattimento di animali adulti (di età superiore ai due anni e mezzo) in grado di fornire maggiori quantità di carne, pelle e grasso rispetto agli esemplari più giovani. La curva di mortalità dei maiali è invece del tutto caratteristica delle attività di allevamento nelle quali alcuni animali sono lasciati in vita sino ai 2-3 anni di età (per essere abbattuti quando la resa della carne è massima), pochissimi individui arrivano fino ai 4 anni e sono evidentemente ritenuti utili a fini riproduttivi mentre la maggior parte degli esemplari sono uccisi molto giovani, entro il primo anno di età, per evitare inutili sovraffollamenti. La curva di mortalità dei suini che si registra nel sito del Nuraghe Sirai non solo testimonia con certezza lo svolgimento di un’attività di allevamento ma indica anche che questo era assai prolifico. Nel sito è inoltre presente, sebbene in misura minore, l’allevamento bovino e ovicaprino. Gli animali erano tendenzialmente abbattuti in età avanzata quando la resa della carne era massima ma soprattutto quando gli animali avevano pienamente svolto il loro utilizzo primario che era quello dei lavori agricoli, per i bovini, e della produzione di lana e latticini, per gli ovini. I dati riportati mostrano come in questa zona più interna del quadrante sud-occidentale dell’isola, intensivamente popolata dai Fenici che sin dalle prime fasi si mostrano interessati ad uno sfruttamento delle risorse territoriali attraverso la fondazione di diversi centri a distanza ravvicinata, i maiali non solo erano allevati ma costituivano la principale fonte di approvvigionamento di carne. Una plausibile spiegazione potrebbe essere trovata nell’habitat profondamente diverso rispetto ad oggi, ricco di acqua e interessato da una rigogliosa vegetazione boschiva (testimoniata ad esempio dalla consistente quantità di resti faunistici riconducibili a cervi) particolarmente adatta all’allevamento dei suini. Una situazione non dissimile si registra anche negli insediamenti della Penisola Iberica dove il maiale era consumato sia negli abitati fenici e punici sia in quelli indigeni. Di norma, come in Sardegna, i suini seguono quantitativamente gli ovicaprini e gli ovini con qualche eccezione come il caso dell’insediamento indigeno di Acinipo dove i suini sono quantitativamente molto ben attestati forse proprio a causa delle condizioni ambientali della Serrania de Ronda che, analogamente all’area sulcitana, erano particolarmente idonee all’allevamento dei suini.
Conclusioni
In conclusione mentre le fonti testuali ed archeologiche ci spingono ad accettare l’esistenza, tra i Fenici della madrepatria, di un abbandono dell’uso alimentare dei suini, nessuna di queste stesse fonti ci deve indurre ad interpretare tale privazione in termini di legge o proibizione. Soprattutto va escluso che potesse esistere nel corso dell’intera età fenicia, un tabù rigidamente codificato, inamovibile e diffuso con gli stessi Fenici. Per quanto lacunosa possa essere la documentazione epigrafica e frammentaria quella archeologica, ci sembra che un dato emerga in modo evidente: nel corso dell’imponente espansione fenicia verso l’Occidente ogni territorio in cui i Fenici si stabilirono deve diventare un caso di studio specifico e ogni singolo caso deve essere studiato e compreso alla luce dell’interazione tra i Fenici e le popolazioni che da tempo occupavano le aree colonizzate. In particolare in Sardegna, come pure nella Penisola Iberica, il contatto tra le genti fenicie e quelle indigene ha portato a rimodellare in entrambi i gruppi la propria cultura alimentare senz’altro a beneficio di entrambi i nuclei. In proposito il pensiero va necessariamente ai dati più recenti riguardo alla diffusione del consumo di vino resinato tra le genti autoctone. Pertanto, nei luoghi in cui l’allevamento e il consumo del maiale costituivano una tradizione alimentare produttiva ed efficace, verosimilmente anche in virtù delle caratteristiche geografico-ambientali, il consumo e l’allevamento, per lo meno a lungo termine, presero piede anche tra i coloni. Se nella cultura alimentare dei migranti Fenici preesisteva qualche tabù (e se, come supponiamo, questo tabù non fu loro ideologicamente necessario e tanto meno legalmente regolato) questa interazione dovette eliminarlo.
Lorenza Campanella
Università degli Studi della Tuscia, Dipartimento di Scienze del Mondo Antico
José Á. Zamora
Centro de Ciencias Humanas y Sociales Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid
Fonte: Bollettino di Archeologia. Tratto da: Congresso internazionale di Archeologia Classica dedicato alle culture del Mediterraneo antico – Roma 2008
un articolo molto interessante ed esplicativo che aggiunge conoscenza di un argomento dato a volte per scontato. Complimenti
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