Sardi nuragici, Pelasgi ed etruschi
di Massimo Pittau
Da più di trenta autori antichi, greci e latini, vengono chiamati Pelasgi/Pelasgói “naviganti e pirati” che risultavano segnalati in quasi tutta la Penisola italiana e poi in quella greca e infine in molte località del Mar Egeo.
Nel mondo antico correva un’etimologia di questo vocabolo: Pelasgós = pelargós «cicogna» (uccello migratore); ma in realtà questa non era altro che una paretimologia o “etimologia popolare” (cioè errata), conseguente al fatto che i Pelasgi si spostavano spesso dal Mar Tirreno a quelli Ionio, Adriatico ed Egeo. E come dimostra soprattutto il fatto che i Pelasgi o Pelasgói sono citati dagli autori antichi, greci e latini, quasi sempre e soltanto in questo esatto modo.
A mio avviso, invece, Pelasgus/Pelasgós significava anch’esso «costruttore e abitante delle torri, torrigiano, turritano», derivando dalla glossa latino-etrusca fala «torre di legno, torre d'assedio» (DELL). E c’è da precisare che dell’appellativo fala i Glossari latini riportano pure la variante phala e inoltre che le alternanze delle vocali A/E e delle consonanti F/PH/P sono ampiamente accertate nella lingua etrusca (DICLE 13; LIOE, LLE Norme).
A mio giudizio dunque ha un elevato grado di probabilità e di verosimiglianza il fatto che anche l’etnico lat. Pelasgus e greco Pelasgós corrispondesse esattamente all’altro etnico Tyrsenós, Tyrrhenós = «costruttore e abitante delle torri», ma avendo come base la glossa latino-etrusca fala, phala «torre» invece dell’altra greco-etrusca tyrsis, tyrrhis «torre». Anzi, prendendo in esame la forma dell’etnico Tuscus «Etrusco, Toscano» (che deriva da Tur-sc-us), si vede chiaramente che Tuscus e Pelasgus sono due perfetti sinonimi, dato che hanno la stessa identica struttura: Turr-scus, Pela-sgus.
E come i veri e propri e originari Tyrsenói, Tyrrhenói erano i Sardi Nuragici, costruttori delle «torri nuragiche», così pure i Pelasgi in origine indicavano anch’essi i «Sardi Nuragici».
Nella lingua etrusca il nostro appellativo potrebbe aver avuto la forma di *PELASXA e di fatto forse potrebbe corrispondere all’antroponimo femm. FELSCIA, da interpretarsi come FEL(A)SC-IA (CIE, Per. 4513), con accertate e ben conosciute alternanze fonetiche etrusco/latine P/F, X/G, A/E (DICLE 13; LIOE, LLE Norme).
Preciso e sottolineo che a favore di questa mia etimologia di Pelasgus/Pelasgós interviene una notevole prova di carattere metodologico: questa etimologia in effetti ha il grande pregio di costituire la principale “chiave di lettura e di soluzione” della intricatissima questione degli antichi Pelasgi, la quale diversamente continuerebbe a rimanere senza alcuna soluzione.
Proprio su questo argomento è da citare una ampia e importante opera dello studioso francese Domenique Briquel, Les Pélasges en Italie - Recerches sur l’histoire de la légende\1\. Si tratta di un’opera che da un lato è degna di grande lode, dall’altro è da respingersi con decisione per le analisi e le conclusioni che l’Autore ha ritenuto di doverne trarre. È degna di lode poiché l’Autore vi presenta e discute minutamente tutte le numerosissime citazioni antiche dei Pelasgi, invece è da respingersi per questi che a me sembrano i suoi difetti fondamentali: I) Il Briquel, dalla prima all’ultima pagina, anzi dallo stesso titolo della sua opera definisce quella dei Pelasgi una “légende”. Ed io obietto: come è possibile che quella dei Pelasgi citati da più di trenta autori antichi sia solamente una «leggenda»? II) Il Briquel dedica numerosissime e minutissime analisi e interpretazioni ai testi studiati, finendo però col restarvi come impaniato o irretito nelle stesse e col non prospettare nessuna soluzione del problema. Ne deriva pertanto l’impressione che egli abbia agito come la famosa volpe rispetto all’uva del pergolato: ha definito il problema dei Pelasgi una “leggenda”, per il motivo che non è riuscito a prospettarne la benché minima soluzione.
In effetti il Briquel ha ignorato del tutto quella che poteva essere ed era la vera ed esatta “chiave di lettura” di tutta la questione: che il vocabolo Pelasgus/Pelasgós era un etnico, che indicava un popolo specifico, caratterizzato da una particolarità specifica: la “costruzione di torri”. E siccome la presenza dei Pelasgi nella Penisola italiana era segnalata soprattutto in località rivierasche del Mar Tirreno, Pisa, Regisvilla, Tarquinia, Falerii, Pyrgi, Caere, Alsium, Roma, Ercolano, Pompei, era facile dedurne che i “naviganti e pirati” che devastavano quelle località partivano dalla Sardegna e dalla Corsica meridionale, con la sua appendice della “civiltà torreana”, cioè ancora delle “torri nuragiche”.
Abbiamo infatti una importante notizia di Strabone, nel passo già citato (V, 2, 7 [225]), che dice che i Tirreni della Sardegna effettuavano azioni di pirateria nelle coste dell’Etruria, soprattutto in quelle di Pisa. Questa notizia di Strabone di certo è molto più recente di quella relativa ai Pelasgi segnalati a Pisa, ma è probabile che in realtà non si riferisse ai tempi del geografo greco (vissuto nel 63 a.C.-19 d.C.), ma si riferisse al passato, di cui pertanto costituirebbe il lontano ricordo.
A questo proposito si deve considerare che per tutta l’antichità, fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando fu inventata, costruita e adoperata in larga misura la ferrovia, “viaggiare” significava e consisteva nel “navigare”, come dimostra anche il fatto che il verbo italiano e romanzo arrivare in origine significava “attraccare”, derivando dalla espressione marinara ad ripam venire «arrivare alla riva». Pertanto, anche in virtù della presenza delle isole dell’Arcipelago Toscano, era immensamente più comodo, più sicuro e più veloce andare dalla Sardegna in Toscana, nel Lazio e in Campania che non andare per via terrestre dalla costa tirrenica a quella adriatica della Penisola italiana.
D’altra parte è un fatto che la presenza dei Pelasgi nelle coste occidentali dell’Italia centrale non è indicata dagli antichi autori soltanto a titolo di “incursioni piratesche”, ma è indicata pure a titolo di “stanziamenti” più o meno stabili. Lo scrittore greco Philisto (in Dionigi di Alicarnasso I, 22, 4 = FGH 556 F 46) divulga la notizia che i Pelasgi, assieme con gli Umbri, costrinsero i Siculi ad abbandonare il Lazio ed emigrare in Sicilia.
Addirittura i Pelasgi sono citati da Plutarco (Rom., 1, 2) come quelli che diedero il nome alla città di Roma; notizia che viene confermata in maniera clamorosa da quella di Dionigi di Alicarnasso (I, 29, 2), secondo cui «molti degli scrittori sostennero che la stessa Roma era un città Tirrena» (cioè Etrusca).
Pelasgi e Tirreni
A questo punto è importante precisare che la presenza dei Pelasgi risulta segnalata dagli autori antichi non solamente nelle aree del Tirreno e dell’Adriatico, ma risulta segnalata anche in quasi tutte le località del Mare Egeo. Anche in quest’area i Pelasgi risultano segnalati assieme coi Tirreni/Tirseni ed inoltre quasi sempre identificati fra loro. Qualche rara volta Pelasgi e Tirreni/Tirseni sono citati come distinti o differenti e addirittura come avversari.
Ma questo fatto non deve stupire più di tanto, quando si consideri che in effetti il nome di Tirreni/Tirseni e quello di Pelasgi erano riferiti non ad un popolo strettamente unitario, bensì a suoi differenti rami un po’ sparsi in tutte le coste settentrionali del Mediterraneo, cioè nei Mari Tirreno, Adriatico, Ionio ed Egeo. ***
\1\ École Française de Rome 1984, pgg. LI – 657.
*** Estratto dall'opera di Massimo Pittau, Il dominio sui mari dei Popoli Tirreni – Sardi Nuragici Pelasgi Etruschi, che è di recente è stata pubblicata in edizione digitale dalla editrice Ipazia Books e si può acquistare da Amazon.it al prezzo di € 5,47.
Massimo Pittau è un linguista e glottologo italiano, studioso della lingua etrusca, della lingua sarda e protosarda. Ha pubblicato numerosi studi sulla civiltà nuragica e sulla Sardegna storica.
Nell'immagine: Navicella bronzea nuragica da Padria, denominata del "Re Sole".
Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
martedì 31 dicembre 2013
lunedì 30 dicembre 2013
Iscrizione punica con dedica a Bashamem, il Signore dei Cieli, da ’YNṢM nome punico dell’isola di San Pietro
Iscrizione punica con dedica a Bashamem, il Signore dei Cieli, da ’YNṢM nome punico dell’isola di San Pietro
di Roberto Casti
Sempre con l’obiettivo di rendere maggiormente fruibile la conoscenza delle iscrizioni fenicie, puniche e neopuniche ritrovate in Sardegna, finora riservate ai soli studiosi e a pochissimi lettori di nicchia, presentiamo oggi una tra le più belle iscrizioni puniche ritrovate in Sardegna.
È la dedica a Bashamem (il signore dei cieli) incisa su un blocco in pietra dolomitica (dim. cm. 61x20x29) provvista nella sua parte superiore di una cavità rettangolare funzionale all’inserimento di una statua, scultura o altro oggetto votivo legato al culto della divinità (Cooke 1903 p. 108). Rinvenuta nel 1877 a Cagliari nel quartiere della Marina e precisamente nella piazza Sant’Eulalia (E. Pais 1884 p. 185; Taramelli 1914 p. 298), fu erroneamente considerata proveniente dal quartiere di Stampace in zona l’Annunziata (cfr. Amadasi Guzzo 1967 sard. 23; idem 1990 p. 43, 74).
Su tali basi é stata ipotizzata la presenza a Cagliari di un tempio dedicato a questa divinità ubicato presso il luogo di ritrovamento, la Marina. Secondo un’altra proposta la pietra dolomitica utilizzata sembrerebbe provenire invece dall’isola di San Pietro, dal santuario dove l’epigrafe sarebbe stata collocata in età tardo punica e solo successivamente prelevata e trasportata a Cagliari non si sa bene come e quando. Va inoltre precisato che Il santuario di Bashamem da cui forse proverrebbe la nostra iscrizione era stato individuato, almeno a livello d’ipotesi, da Gennaro Pesce e Ferruccio Barreca alla periferia di Carloforte, in regione San Vittorio, nei primi anni ’60, ma dopo cinquant’anni, quell’ipotesi è purtroppo rimasta ancora tale.
La cronologia, stabilita dal solo riscontro paleografico, si inquadra intorno al III sec. a.C.
Cagliari Museo Archeologico Nazionale.
Trascrizione
L1 L’DN LB‘ŠMM B’YNṢM NṢBM WḤNWṬM ŠNM 2 ’Š NDR B‘
L2 LḤN’ Š BDMLQRT BN ḤN’ BN ’ŠMN‘MS BN MHRB‘L
L3 BN ’TŠ
Traduzione
Al Signore, a Bashamem, nell’isola dei falchi, stele e ḥnwṭm due 2, che ha offerto Baalhanno, (servo/proprietà) di Bodmelqart, figlio di Hannò, figlio di Eshmunamas, figlio di Maherbaal, figlio di Atish.
Annotazioni
Incerto fino a qualche anno fa il significato dei 2 ḤNWṬ; alcuni ipotizzavano due falchi imbalsamati offerti alla divinità dalla radice ḤNṬ oppure due immagini fuse dalla parola greca χωνευτά (Cfr. Amadasi 1990 p. 75). A seguito del ritrovamento a Cagliari di un’iscrizione punica incisa su un cippo di marmo dove compare la stessa parola ḤNWṬ, in questo caso al singolare, la studiosa della Sapienza ha riconosciuto in quel termine lo stesso cippo in pietra allungata (’BN ’RKT) su cui è inciso il testo di quest’altra iscrizione dedicata a Melqart peraltro simile ad altri due cippi - Agyiei con due iscrizioni bilingui dedicate ad Herakles-Melkart e rinvenuti a Malta intorno alla metà del XVII secolo. Notevole è anche la menzione della divinità a cui è abbinato, caso piuttosto raro, anche il luogo della sua venerazione.
Così come per la dedica ad Ashtarte di Erice rinvenuta a Cagliari sul promontorio della Sella del Diavolo, anche in questa iscrizione al nome della divinità viene associato il principale luogo di venerazione (cfr. Ribichini –Xella 1994 p. 98 ; Moscati 1986 p. 163); in questo caso infatti il luogo di culto di Bashamem è localizzato a ’YNṢM, ossia l’isola dei falchi detta anche isola degli sparvieri (‘Y= isola; NṢM plurale semitico di NṢ = rapaci).
Oltre che nella nostra iscrizione, il nome punico dell’isola, ENOSIM è ricordato da Plinio con queste testuali parole: “Habet (Sardinia) et a Gorditano promontorio duas insulas quae vocantur Herculis: a Sulcensi Enosim , a Caralitano Ficariam” (Naturalis Historia III.7.84) e, sempre in età romana, anche Marziano Capella (De Nuptiis Philologiae et Mercurii, VI 645) la ricorda come ENUSIN. ENOSIM o ENUSIN indicano dunque la stessa isola ’YNṢM come era chiamata in età tardo punica; ma sappiamo che ’YNṢM è anche la Iεράχων νήσος di Tolomeo (III,3,2) e l’Accipitrum insula dei romani; insomma tanti nomi diversi dati da genti diverse che parlano lingue diverse ma che nella sostanza indicano la stessa isola con l’unico appellativo che tutti conoscono: l’isola dei falchi come ognuno con la propria lingua denominava allora l’attuale isola di San Pietro - Carloforte.
È evidente come entrambi i toponimi, sia quello greco che quello latino, facciano riferimento ai rapaci e siano tutti l’identico calco del termine punico originario; e, come quasi sempre accade, i vari toponimi coesistettero per secoli sovrapponendosi finché non furono tutti dimenticati e sostituiti da altro toponimo. Così come potrebbe essere avvenuto anche per l’attuale denominazione dell’isola, forse da attribuire - secondo quanto afferma Battantier- a una errata interpretazione dell’antico termine latino Accipitrum insula, dove il segmento -pitrum di tale toponimo sarebbe stato successivamente corrotto in Pietro e da cui, Isola di San Pietro.
Ritengo possibile che la nuova denominazione si sia imposta in una fase molto più tarda, quando furono modificati centinaia di toponimi, soprattutto riferiti a villaggi e nuraghi in onore dei santi. Il toponimo 'YNSM è documentato anche in un’altra iscrizione votiva del nord Africa, sempre del III secolo a. C., proveniente dal tofet di Cartagine (CIS I 5606). Si tratta di una dedica a TNT PN B’L ( Tinnit volto di Baal) e a B’L Hammon da parte di un personaggio di nome ŠLM, figlio di ḤN’ ŠLM, dove viene anche precisato che appartiene al popolo di 'YNSM (Sznycer 1975 p. 61) .
È opportuno osservare infine come il culto di Bashamem, riconosciuto in Sardegna attraverso quest’ iscrizione il cui nome della divinità si presenta in forma contratta con caduta di L (lamed), lo si ritrova attestato già nel X sec. a.C. in Fenicia nella più consueta forma Baalshamem e più esattamente nell’iscrizione di Yehimilk re di Biblo (KAI 4).
Lo stesso culto è ampiamente diffuso anche tra le popolazioni di lingua aramaica fino ai primi secoli d. C., culto che si propagherà da Oriente a Occidente come attestano diverse iscrizioni puniche del nord Africa. Βάάλσάμην è la stessa divinità richiamata in Filone di Biblo e successivamente verrà menzionata anche nel Poenulus di Plauto nella forma Balsamem (Poenulus, V, 2, 67).
Affinché sia ancora più chiara quale sia stata la portata e la diffusione del culto di Bashamem venerato ad 'YNSM nel III sec. a.C., aggiungiamo quest’ultima nota dell’africano Sant’Agostino (Quaestiones in Heptath., VII, 16, in Migne, Patrol. Lat., XXXIV, col. 797) che dopo circa quindici secoli ci parla ancora di genti per le quali quella stessa divinità, seppur con piccole differenze nella vocalizzazione del nome, è ancora presente e vitale.
“…Nam Baal Punici videntur dicere Dominum; unde Baalsamen quasi Dominum coeli intelliguntur dicere: Samem quippe apud eos coeli appellantur ”
Alcuni riferimenti bibliografici
G. Cara, Sopra un’iscrizione fenicia scoperta in Cagliari, Lettera del Dr. P. F. Elena al Ch.mo Sig. Cav. D. Gaetano Cara, direttore del R. Museo archeologico di Cagliari, Livorno 1878.
A. Renan e P. Berger, CIS I n° 139 pp. 182-184; Tav. XXX , Paris 1883.
M. Lidzbarski, Handbuch der Nordsemitischen Epigraphik 1898 p. 427 a; Tav X, 3.
S. Moscati, Italia Punica, Rusconi editore Milano 1986 pp. 163-164.
E. Pais , Bibliografia, Corpus Inscriptionum….. in BAS Anno I Serie II ed. A. Forni, p. 185, Cagliari 1884.
G.A.Cooke, A Text –Book of North-Semitic Inscriptions Oxford 1903 pp. 108-109.
M. Lidzbarski, Altsemitische Texte Kanaanäische Inschriften n. 58 Giessen 1907 p. 45.
A. Taramelli, Guida del Museo Nazionale di Cagliari in Archivio Storico Sardo 1914 p. 264- 279 spec. p. 298.
G. Pesce, Sardegna Punica, Fratelli Fossataro 1962 p. 39; p.44; p 54. Idem, Sardegna Punica (R. Zucca a cura di) edizione Ilisso Bibliotheca Sarda n. 56 Nuoro 2000 p. 87; 92;102.
H. Donner & W. Röllig, Kanaanaische und Aramaische Inschriften, KAI 64 1962-64 tav. V.
M.G. Amadasi Guzzo, IFPCO Sard. 23, Roma 1967 pp. 101-102 Tav. XXXV
M. Sznycer, L’ “Assemblée du peuple“ dans les cités puniques d’après les témoignages épigraphique in Semitica XXV Paris 1975 pp. 47-68 spec. 61.
M. Marcel Simon, Un document du syncrétisme religieux dans l’Afrique romaine in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions…122e année N. 2 1978 pp. 500-525.
C. Grottanelli, Santuari e divinità delle colonie d’Occidente: La religione fenicia. Matrici orientali e sviluppi occidentali (Atti del colloquio, Roma 1979 ) 1981 p.114, nota 17.
G.Tore , Religiosità Semitica in Sardegna …..1989 p. 60 nota 37.
P. Bartoloni, La civiltà fenicia e punica……. in il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Sassari 1989 pp. 167-168 fig.16.
M.G. Amadasi Guzzo, IFPI Roma 1990 p. 44, 74-75, 106 fig 5.
R. Zucca, Le persistenze preromane nei paleonimi e negli antroponimi della Sardinia, in l’Africa Romana VII, Ed. Gallizzi 1990 p. 658.
S. Ribichini- P. Xella, La religione fenicia e punica in Italia, Divinità: Baal Shamem. 1994 p. 98; fig. 30.
M.G. Amadasi Guzzo, Iscrizione punica a Cagliari in Quaderni della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano( QuadCA 19/2002 pp. 173-179.
M.G. Amadasi Guzzo - M. P. Rossignani, Le iscrizioni bilingui e gli Agyiei di Malta in Da Pyrgi a Mozia. Studi sull’archeologia del Mediterraneo in memoria di Antonia Ciasca a cura di M. G. Amadasi Guzzo, M. Liverani, P.Matthiae (Vicino Oriente – Quaderno 3/1) 2002 pp. 5-28.
R. Zucca, Nota preliminare sull’Accipitrum Insula, in AAVV. Studi in onore di Ercole Contu, Sassari 2003 pp. 251-268.
R. Zucca, Insulae Sardinia et Corsica: con la collaborazione di P. Ruggeri, Roma, Carocci, 2003 pp. 275-287.
M. Adele Ibba, Nota sulle testimonianze archeologiche, epigrafiche e agiografiche delle aree di culto di Karali punica e di Carales romana in Aristeo 2004 p. 120.
P. Bernardini, La regione del Sulcis in età fenicia, in Sardinia, Corsica et Baleares Antiquae, n. IV Pisa- Roma 2006 pp. 109- 150; spec. p. 128 sgg..
P. Bernardini - R. Zucca, "Indigeni e fenici nelle isole di San Vittorio e Mal Di Ventre", Actes du Congrès de Siliana (Siliana, 10 marzo 2004) in Tarros felix 3: Naves Plenis velis euntes
A. Mastino, P.G. Spanu, R. Zucca ( a cura di ) Carocci editore 2009 pp. 193- 201.
G.F. Battantier, L’archeologia dell’isola di San Pietro: dalle prime fonti documentarie all’arrivo dei Tabarchini…..in Atti del I seminario di studi sull’archeologia e sulle prospettive di sviluppo turistico dell’isola di San Pietro Rivista Aidu Entos Archeologia e Beni Culturali Anno III 2009 pp. 59-73.
A. Stiglitz, Cagliari fenicia e punica in Rivista di Studi Fenici XXXV, 1-2007 Agnano Pisano (Pisa) 2009 pp. 54-57, fig. 6:3.
L.A. Ruiz Cabrero, Sociedad, Jerarqìa y Clases Sociales de Cartago, in Instituciones, Demo y Ejésercito en Cartago XXIII Jornadas de Arqueologìa Fenicio-Punica ( Eivissa, 2008 ) Eivissa 2009 pp. 7- 80 spec. p. 57.
M. Minoja - Consuelo Cossu - Michela Migaleddu, Parole di Segni L’alba della Scrittura in Sardegna, Collana Sardegna Archeologica- Guide e Itinerari n. 47 C. Delfino editore 2012 ; cat. n. 54 p. 82.
W. Kahlil – N. Kallas, Mission Archéologique de Carloforte, in Quaderni della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano 24/2013 pp. 261-282.
di Roberto Casti
Sempre con l’obiettivo di rendere maggiormente fruibile la conoscenza delle iscrizioni fenicie, puniche e neopuniche ritrovate in Sardegna, finora riservate ai soli studiosi e a pochissimi lettori di nicchia, presentiamo oggi una tra le più belle iscrizioni puniche ritrovate in Sardegna.
È la dedica a Bashamem (il signore dei cieli) incisa su un blocco in pietra dolomitica (dim. cm. 61x20x29) provvista nella sua parte superiore di una cavità rettangolare funzionale all’inserimento di una statua, scultura o altro oggetto votivo legato al culto della divinità (Cooke 1903 p. 108). Rinvenuta nel 1877 a Cagliari nel quartiere della Marina e precisamente nella piazza Sant’Eulalia (E. Pais 1884 p. 185; Taramelli 1914 p. 298), fu erroneamente considerata proveniente dal quartiere di Stampace in zona l’Annunziata (cfr. Amadasi Guzzo 1967 sard. 23; idem 1990 p. 43, 74).
Su tali basi é stata ipotizzata la presenza a Cagliari di un tempio dedicato a questa divinità ubicato presso il luogo di ritrovamento, la Marina. Secondo un’altra proposta la pietra dolomitica utilizzata sembrerebbe provenire invece dall’isola di San Pietro, dal santuario dove l’epigrafe sarebbe stata collocata in età tardo punica e solo successivamente prelevata e trasportata a Cagliari non si sa bene come e quando. Va inoltre precisato che Il santuario di Bashamem da cui forse proverrebbe la nostra iscrizione era stato individuato, almeno a livello d’ipotesi, da Gennaro Pesce e Ferruccio Barreca alla periferia di Carloforte, in regione San Vittorio, nei primi anni ’60, ma dopo cinquant’anni, quell’ipotesi è purtroppo rimasta ancora tale.
La cronologia, stabilita dal solo riscontro paleografico, si inquadra intorno al III sec. a.C.
Cagliari Museo Archeologico Nazionale.
Trascrizione
L1 L’DN LB‘ŠMM B’YNṢM NṢBM WḤNWṬM ŠNM 2 ’Š NDR B‘
L2 LḤN’ Š BDMLQRT BN ḤN’ BN ’ŠMN‘MS BN MHRB‘L
L3 BN ’TŠ
Traduzione
Al Signore, a Bashamem, nell’isola dei falchi, stele e ḥnwṭm due 2, che ha offerto Baalhanno, (servo/proprietà) di Bodmelqart, figlio di Hannò, figlio di Eshmunamas, figlio di Maherbaal, figlio di Atish.
Annotazioni
Incerto fino a qualche anno fa il significato dei 2 ḤNWṬ; alcuni ipotizzavano due falchi imbalsamati offerti alla divinità dalla radice ḤNṬ oppure due immagini fuse dalla parola greca χωνευτά (Cfr. Amadasi 1990 p. 75). A seguito del ritrovamento a Cagliari di un’iscrizione punica incisa su un cippo di marmo dove compare la stessa parola ḤNWṬ, in questo caso al singolare, la studiosa della Sapienza ha riconosciuto in quel termine lo stesso cippo in pietra allungata (’BN ’RKT) su cui è inciso il testo di quest’altra iscrizione dedicata a Melqart peraltro simile ad altri due cippi - Agyiei con due iscrizioni bilingui dedicate ad Herakles-Melkart e rinvenuti a Malta intorno alla metà del XVII secolo. Notevole è anche la menzione della divinità a cui è abbinato, caso piuttosto raro, anche il luogo della sua venerazione.
Così come per la dedica ad Ashtarte di Erice rinvenuta a Cagliari sul promontorio della Sella del Diavolo, anche in questa iscrizione al nome della divinità viene associato il principale luogo di venerazione (cfr. Ribichini –Xella 1994 p. 98 ; Moscati 1986 p. 163); in questo caso infatti il luogo di culto di Bashamem è localizzato a ’YNṢM, ossia l’isola dei falchi detta anche isola degli sparvieri (‘Y= isola; NṢM plurale semitico di NṢ = rapaci).
Oltre che nella nostra iscrizione, il nome punico dell’isola, ENOSIM è ricordato da Plinio con queste testuali parole: “Habet (Sardinia) et a Gorditano promontorio duas insulas quae vocantur Herculis: a Sulcensi Enosim , a Caralitano Ficariam” (Naturalis Historia III.7.84) e, sempre in età romana, anche Marziano Capella (De Nuptiis Philologiae et Mercurii, VI 645) la ricorda come ENUSIN. ENOSIM o ENUSIN indicano dunque la stessa isola ’YNṢM come era chiamata in età tardo punica; ma sappiamo che ’YNṢM è anche la Iεράχων νήσος di Tolomeo (III,3,2) e l’Accipitrum insula dei romani; insomma tanti nomi diversi dati da genti diverse che parlano lingue diverse ma che nella sostanza indicano la stessa isola con l’unico appellativo che tutti conoscono: l’isola dei falchi come ognuno con la propria lingua denominava allora l’attuale isola di San Pietro - Carloforte.
È evidente come entrambi i toponimi, sia quello greco che quello latino, facciano riferimento ai rapaci e siano tutti l’identico calco del termine punico originario; e, come quasi sempre accade, i vari toponimi coesistettero per secoli sovrapponendosi finché non furono tutti dimenticati e sostituiti da altro toponimo. Così come potrebbe essere avvenuto anche per l’attuale denominazione dell’isola, forse da attribuire - secondo quanto afferma Battantier- a una errata interpretazione dell’antico termine latino Accipitrum insula, dove il segmento -pitrum di tale toponimo sarebbe stato successivamente corrotto in Pietro e da cui, Isola di San Pietro.
Ritengo possibile che la nuova denominazione si sia imposta in una fase molto più tarda, quando furono modificati centinaia di toponimi, soprattutto riferiti a villaggi e nuraghi in onore dei santi. Il toponimo 'YNSM è documentato anche in un’altra iscrizione votiva del nord Africa, sempre del III secolo a. C., proveniente dal tofet di Cartagine (CIS I 5606). Si tratta di una dedica a TNT PN B’L ( Tinnit volto di Baal) e a B’L Hammon da parte di un personaggio di nome ŠLM, figlio di ḤN’ ŠLM, dove viene anche precisato che appartiene al popolo di 'YNSM (Sznycer 1975 p. 61) .
È opportuno osservare infine come il culto di Bashamem, riconosciuto in Sardegna attraverso quest’ iscrizione il cui nome della divinità si presenta in forma contratta con caduta di L (lamed), lo si ritrova attestato già nel X sec. a.C. in Fenicia nella più consueta forma Baalshamem e più esattamente nell’iscrizione di Yehimilk re di Biblo (KAI 4).
Lo stesso culto è ampiamente diffuso anche tra le popolazioni di lingua aramaica fino ai primi secoli d. C., culto che si propagherà da Oriente a Occidente come attestano diverse iscrizioni puniche del nord Africa. Βάάλσάμην è la stessa divinità richiamata in Filone di Biblo e successivamente verrà menzionata anche nel Poenulus di Plauto nella forma Balsamem (Poenulus, V, 2, 67).
Affinché sia ancora più chiara quale sia stata la portata e la diffusione del culto di Bashamem venerato ad 'YNSM nel III sec. a.C., aggiungiamo quest’ultima nota dell’africano Sant’Agostino (Quaestiones in Heptath., VII, 16, in Migne, Patrol. Lat., XXXIV, col. 797) che dopo circa quindici secoli ci parla ancora di genti per le quali quella stessa divinità, seppur con piccole differenze nella vocalizzazione del nome, è ancora presente e vitale.
“…Nam Baal Punici videntur dicere Dominum; unde Baalsamen quasi Dominum coeli intelliguntur dicere: Samem quippe apud eos coeli appellantur ”
Alcuni riferimenti bibliografici
G. Cara, Sopra un’iscrizione fenicia scoperta in Cagliari, Lettera del Dr. P. F. Elena al Ch.mo Sig. Cav. D. Gaetano Cara, direttore del R. Museo archeologico di Cagliari, Livorno 1878.
A. Renan e P. Berger, CIS I n° 139 pp. 182-184; Tav. XXX , Paris 1883.
M. Lidzbarski, Handbuch der Nordsemitischen Epigraphik 1898 p. 427 a; Tav X, 3.
S. Moscati, Italia Punica, Rusconi editore Milano 1986 pp. 163-164.
E. Pais , Bibliografia, Corpus Inscriptionum….. in BAS Anno I Serie II ed. A. Forni, p. 185, Cagliari 1884.
G.A.Cooke, A Text –Book of North-Semitic Inscriptions Oxford 1903 pp. 108-109.
M. Lidzbarski, Altsemitische Texte Kanaanäische Inschriften n. 58 Giessen 1907 p. 45.
A. Taramelli, Guida del Museo Nazionale di Cagliari in Archivio Storico Sardo 1914 p. 264- 279 spec. p. 298.
G. Pesce, Sardegna Punica, Fratelli Fossataro 1962 p. 39; p.44; p 54. Idem, Sardegna Punica (R. Zucca a cura di) edizione Ilisso Bibliotheca Sarda n. 56 Nuoro 2000 p. 87; 92;102.
H. Donner & W. Röllig, Kanaanaische und Aramaische Inschriften, KAI 64 1962-64 tav. V.
M.G. Amadasi Guzzo, IFPCO Sard. 23, Roma 1967 pp. 101-102 Tav. XXXV
M. Sznycer, L’ “Assemblée du peuple“ dans les cités puniques d’après les témoignages épigraphique in Semitica XXV Paris 1975 pp. 47-68 spec. 61.
M. Marcel Simon, Un document du syncrétisme religieux dans l’Afrique romaine in Comptes rendus de l’Académie des inscriptions…122e année N. 2 1978 pp. 500-525.
C. Grottanelli, Santuari e divinità delle colonie d’Occidente: La religione fenicia. Matrici orientali e sviluppi occidentali (Atti del colloquio, Roma 1979 ) 1981 p.114, nota 17.
G.Tore , Religiosità Semitica in Sardegna …..1989 p. 60 nota 37.
P. Bartoloni, La civiltà fenicia e punica……. in il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Sassari 1989 pp. 167-168 fig.16.
M.G. Amadasi Guzzo, IFPI Roma 1990 p. 44, 74-75, 106 fig 5.
R. Zucca, Le persistenze preromane nei paleonimi e negli antroponimi della Sardinia, in l’Africa Romana VII, Ed. Gallizzi 1990 p. 658.
S. Ribichini- P. Xella, La religione fenicia e punica in Italia, Divinità: Baal Shamem. 1994 p. 98; fig. 30.
M.G. Amadasi Guzzo, Iscrizione punica a Cagliari in Quaderni della Soprintendenza Archeologica per le Province di Cagliari e Oristano( QuadCA 19/2002 pp. 173-179.
M.G. Amadasi Guzzo - M. P. Rossignani, Le iscrizioni bilingui e gli Agyiei di Malta in Da Pyrgi a Mozia. Studi sull’archeologia del Mediterraneo in memoria di Antonia Ciasca a cura di M. G. Amadasi Guzzo, M. Liverani, P.Matthiae (Vicino Oriente – Quaderno 3/1) 2002 pp. 5-28.
R. Zucca, Nota preliminare sull’Accipitrum Insula, in AAVV. Studi in onore di Ercole Contu, Sassari 2003 pp. 251-268.
R. Zucca, Insulae Sardinia et Corsica: con la collaborazione di P. Ruggeri, Roma, Carocci, 2003 pp. 275-287.
M. Adele Ibba, Nota sulle testimonianze archeologiche, epigrafiche e agiografiche delle aree di culto di Karali punica e di Carales romana in Aristeo 2004 p. 120.
P. Bernardini, La regione del Sulcis in età fenicia, in Sardinia, Corsica et Baleares Antiquae, n. IV Pisa- Roma 2006 pp. 109- 150; spec. p. 128 sgg..
P. Bernardini - R. Zucca, "Indigeni e fenici nelle isole di San Vittorio e Mal Di Ventre", Actes du Congrès de Siliana (Siliana, 10 marzo 2004) in Tarros felix 3: Naves Plenis velis euntes
A. Mastino, P.G. Spanu, R. Zucca ( a cura di ) Carocci editore 2009 pp. 193- 201.
G.F. Battantier, L’archeologia dell’isola di San Pietro: dalle prime fonti documentarie all’arrivo dei Tabarchini…..in Atti del I seminario di studi sull’archeologia e sulle prospettive di sviluppo turistico dell’isola di San Pietro Rivista Aidu Entos Archeologia e Beni Culturali Anno III 2009 pp. 59-73.
A. Stiglitz, Cagliari fenicia e punica in Rivista di Studi Fenici XXXV, 1-2007 Agnano Pisano (Pisa) 2009 pp. 54-57, fig. 6:3.
L.A. Ruiz Cabrero, Sociedad, Jerarqìa y Clases Sociales de Cartago, in Instituciones, Demo y Ejésercito en Cartago XXIII Jornadas de Arqueologìa Fenicio-Punica ( Eivissa, 2008 ) Eivissa 2009 pp. 7- 80 spec. p. 57.
M. Minoja - Consuelo Cossu - Michela Migaleddu, Parole di Segni L’alba della Scrittura in Sardegna, Collana Sardegna Archeologica- Guide e Itinerari n. 47 C. Delfino editore 2012 ; cat. n. 54 p. 82.
W. Kahlil – N. Kallas, Mission Archéologique de Carloforte, in Quaderni della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Cagliari e Oristano 24/2013 pp. 261-282.
domenica 29 dicembre 2013
La preistoria
La preistoria
di Pierluigi Montalbano
Com'erano, come vivevano, cosa mangiavano, cosa sapevano fare i nostri lontani progenitori? E come si è evoluta la nostra specie, quella di Homo sapiens sapiens?
Immaginiamo di entrare in una biblioteca. Sugli scaffali vediamo centinaia di volumi ma in un angolo, tutta impolverata, c'è una lunga fila di grandi volumi con centinaia di pagine piene di figure. Il titolo è scritto in caratteri dorati: Storia della vita sulla Terra. I primi volumi raccontano di quando sul nostro pianeta c’erano continui terremoti, e vulcani in eruzione. Poi abbiamo i libri che parlano delle prime forme viventi e della loro evoluzione, e uno di questi racconta la storia dei dinosauri, i giganteschi animali che hanno popolato la Terra per 160 milioni di anni e poi sono scomparsi per sempre.
Soltanto l'ultimo di questi volumi racconta la storia della nostra specie. A quei tempi non c'erano gli uomini e le scimmie così come le conosciamo oggi. Da un'unica specie originaria, molto lentamente, se ne sono formate altre: alcune specie somigliavano alle scimmie, altre, quelle degli ominidi, più simili a noi:gli australopitechi.
Questi ominidi erano bassi e pelosi, con il cranio più piccolo di quello odierno, e avevano denti grandi e robusti, anche se mangiavano prevalentemente vegetali. Si muovevano su due piedi, usando le mani per raccogliere, spezzare o portare alla bocca le cose che trovavano. In Africa sono state scoperte impronte fossili lasciate da tre ominidi che, tre milioni e mezzo di anni fa, si stavano allontanando da un'eruzione vulcanica. Due camminavano affiancati e il terzo seguiva i loro passi, ricalcando le orme dell'individuo più grande.
L’ominide più famoso si chiama Lucy, una femmina alta circa un metro e dieci centimetri, vissuta in Etiopia tre milioni di anni fa. Questi nostri lontani antenati si sono estinti, ma per lungo tempo hanno condiviso il Pianeta con ominidi appartenenti ad altre specie simili all’uomo, sviluppatesi nel corso del tempo. Gli archeologi hanno scoperto un ragazzo di 11 anni nato 1,5 milioni di anni fa. Viveva in Africa vicino al lago Turkana (nell'attuale Kenya), era alto quasi come noi, con gambe lunghe e fianchi stretti, e il suo corpo non aveva caratteristiche scimmiesche. Apparteneva alla specie Homo erectus, la specie dalla quale circa 125 mila anni fa, si è evoluta la nostra, l’ Homo sapiens sapiens. Con armi rudimentali come lance con la punta di pietra e sassi, gli uomini primitivi catturavano le piccole prede. Per uccidere orsi e mammut, invece, si andava a caccia in gruppo.
Continuando a sfogliare il libro della preistoria, scopriamo che dalle ossa fossili gli scienziati hanno capito che mezzo milione di anni fa l’Homo Sapiens viveva in Africa. Era simile a noi, ma con mascelle e naso leggermente più larghi. Riusciva a controllare le fiamme che si sviluppavano in natura e imparò a conservarle e a produrle ogni volta che voleva.
di Pierluigi Montalbano
Com'erano, come vivevano, cosa mangiavano, cosa sapevano fare i nostri lontani progenitori? E come si è evoluta la nostra specie, quella di Homo sapiens sapiens?
Immaginiamo di entrare in una biblioteca. Sugli scaffali vediamo centinaia di volumi ma in un angolo, tutta impolverata, c'è una lunga fila di grandi volumi con centinaia di pagine piene di figure. Il titolo è scritto in caratteri dorati: Storia della vita sulla Terra. I primi volumi raccontano di quando sul nostro pianeta c’erano continui terremoti, e vulcani in eruzione. Poi abbiamo i libri che parlano delle prime forme viventi e della loro evoluzione, e uno di questi racconta la storia dei dinosauri, i giganteschi animali che hanno popolato la Terra per 160 milioni di anni e poi sono scomparsi per sempre.
Soltanto l'ultimo di questi volumi racconta la storia della nostra specie. A quei tempi non c'erano gli uomini e le scimmie così come le conosciamo oggi. Da un'unica specie originaria, molto lentamente, se ne sono formate altre: alcune specie somigliavano alle scimmie, altre, quelle degli ominidi, più simili a noi:gli australopitechi.
Questi ominidi erano bassi e pelosi, con il cranio più piccolo di quello odierno, e avevano denti grandi e robusti, anche se mangiavano prevalentemente vegetali. Si muovevano su due piedi, usando le mani per raccogliere, spezzare o portare alla bocca le cose che trovavano. In Africa sono state scoperte impronte fossili lasciate da tre ominidi che, tre milioni e mezzo di anni fa, si stavano allontanando da un'eruzione vulcanica. Due camminavano affiancati e il terzo seguiva i loro passi, ricalcando le orme dell'individuo più grande.
L’ominide più famoso si chiama Lucy, una femmina alta circa un metro e dieci centimetri, vissuta in Etiopia tre milioni di anni fa. Questi nostri lontani antenati si sono estinti, ma per lungo tempo hanno condiviso il Pianeta con ominidi appartenenti ad altre specie simili all’uomo, sviluppatesi nel corso del tempo. Gli archeologi hanno scoperto un ragazzo di 11 anni nato 1,5 milioni di anni fa. Viveva in Africa vicino al lago Turkana (nell'attuale Kenya), era alto quasi come noi, con gambe lunghe e fianchi stretti, e il suo corpo non aveva caratteristiche scimmiesche. Apparteneva alla specie Homo erectus, la specie dalla quale circa 125 mila anni fa, si è evoluta la nostra, l’ Homo sapiens sapiens. Con armi rudimentali come lance con la punta di pietra e sassi, gli uomini primitivi catturavano le piccole prede. Per uccidere orsi e mammut, invece, si andava a caccia in gruppo.
Continuando a sfogliare il libro della preistoria, scopriamo che dalle ossa fossili gli scienziati hanno capito che mezzo milione di anni fa l’Homo Sapiens viveva in Africa. Era simile a noi, ma con mascelle e naso leggermente più larghi. Riusciva a controllare le fiamme che si sviluppavano in natura e imparò a conservarle e a produrle ogni volta che voleva.
sabato 28 dicembre 2013
La nascita dell’agricoltura: l'arte di coltivare la terra
La nascita dell’agricoltura: l'arte di coltivare la terra
di Pierluigi Montalbano
L'agricoltura è, a mio avviso, la tappa più significativa nella storia dell'uomo. Ha rivoluzionato le abitudini segnando l'abbandono del nomadismo, la nascita di gruppi stanziali e un nuovo modo di organizzare i rapporti sociali e la struttura politica.
La coltivazione della terra, inoltre, fu il primo tentativo dell'uomo di controllare la natura, e quindi dominarla. Tuttavia, nei secoli gli interventi sono diventati così radicali da costituire una violazione dei ritmi e delle leggi della natura stessa.
Le origini dell'agricoltura risalgono al 20.000 a.C. in Mesopotamia, l'attuale Iraq. Gli antichi iniziarono la semina spinti dalla osservazione dei cicli vitali delle piante, conservando una parte dei semi raccolti e piantandoli la stagione successiva. I piccoli gruppi nomadi, dediti principalmente alla caccia e alla raccolta di frutti e radici, iniziarono a stanziarsi nei luoghi più favorevoli alla sopravvivenza, prediligendo il clima mite e la ricchezza d’acqua. La caccia portava questi nuclei a spostarsi in continuazione, seguendo le mandrie di bufali e i mammuth. Alle donne era affidata gran parte delle attività del gruppo: la macellazione degli animali e la conciatura delle pelli. La raccolta di bacche, frutti ed erbe affinò la capacità di riconoscere i prodotti commestibili e non velenosi. Questa rivoluzione organizzativa fu all'origine della progressiva sedentarietà, e le prime testimonianze di un'economia a base agricola si ebbero in Mesopotamia e in Egitto, due zone in cui il costante flusso di acque e di inondazioni determinava la periodica fertilità dei terreni. Il diffondersi dell'agricoltura non fu né rapido, né uniforme.
Lo sfruttamento pianificato della terra portò una rivoluzione non solo nell'alimentazione, ma anche nelle abitudini: nacquero infatti i primi insediamenti fissi, capanne di legno ed erba secca che nei millenni si trasformarono in costruzioni di fango e mattoni.
Altra novità legata all’agricoltura fu lo sviluppo dell'artigianato, con l’utilizzo di strumenti sempre più perfezionati per lavorare le campagne, immagazzinare e trasportare il cibo e l'acqua, fabbricare indumenti. Nacquero i primi recipienti, in pelle e poi in argilla, ma anche i primi telai per la tessitura.
Con il passare del tempo furono introdotti i primi strumenti per facilitare la lavorazione della terra, ad esempio la zappa e l'aratro. La prima permetteva di rivoltare la terra dopo che questa era stata fertilizzata con la tecnica del debbio, cioè la bruciatura delle stoppie. Il terreno così trattato riceveva sostanze nutritive, si aerava e tratteneva più a lungo l'acqua. L'aratro era ancora più efficace: introdotto intorno al V millennio a.C. in Mesopotamia, consentiva di scavare in profondità il terreno e favorire l’assorbimento dell'acqua e il conseguente attecchimento delle sementi. Altri strumenti agricoli che aiutavano il contadino furono la vanga, il badile, la falce, la roncola, l'ascia e l'accetta.
Un altro progresso fu l'irrigazione artificiale dei campi. In origine la lavorazione dei terreni prevedeva la semplice semina, e l'apporto di acqua era fornito da fenomeni naturali come lo straripamento dei fiumi e le piogge, ma questi fenomeni non avevano margini di controllo. Fu sempre in area mesopotamica che nacquero, intorno al V millennio a.C., le prime forme di canalizzazione dei corsi d'acqua, una soluzione che consentiva di controllare parzialmente la natura.
Nelle prime fasi di sviluppo dell'agricoltura l'uomo scoprì che dopo qualche anno il terreno non forniva più frutti abbondanti perciò, una volta sfruttato il terreno a disposizione, la comunità si spostava e sceglieva nuovi territori dove continuare a lavorare la terra e a seminare. Furono introdotte la concimazione e la rotazione dei terreni, e ancora oggi per rivitalizzare i terreni si usa la bruciatura delle stoppie, le cui ceneri alimentano i terreni, e la rotazione, che prevede la coltivazione del campo per uno o due anni e poi la sua messa a maggese, ossia un riposo per qualche stagione.
L'agricoltura favorì la nascita delle prime società stanziali e attività come il commercio e l'artigianato. Queste nuove forme di organizzazione sociale diedero origine ai primi regni, spesso con struttura piramidale che vedeva al vertice i guerrieri e la casta sacerdotale, e alla base gli agricoltori. Questo modello durò, con poche modifiche, fino all'età repubblicana di Roma quando il rapporto uomo-terra iniziò a mutare: il soldato-agricoltore rientrava dalle campagne di guerra e trovava le terre nuovamente incolte, si indebitava per comperare nuove sementi, e spesso finiva per vendere a poco prezzo la sua terra ai ricchi proprietari, per lo più senatori e cavalieri. Questo processo originò il latifondo, un sistema di gestione che rivoluzionò la geografia di ampi territori. Con le centuriazioni, ossia le divisioni di terreni da assegnare ai veterani o a gruppi di emigranti che fondavano nuove colonie, iniziarono ampi disboscamenti e opere di bonifica che resero fertili regioni fino ad allora dominate dalle foreste, dalle paludi o comunque da una natura aspra e inospitale.
di Pierluigi Montalbano
L'agricoltura è, a mio avviso, la tappa più significativa nella storia dell'uomo. Ha rivoluzionato le abitudini segnando l'abbandono del nomadismo, la nascita di gruppi stanziali e un nuovo modo di organizzare i rapporti sociali e la struttura politica.
La coltivazione della terra, inoltre, fu il primo tentativo dell'uomo di controllare la natura, e quindi dominarla. Tuttavia, nei secoli gli interventi sono diventati così radicali da costituire una violazione dei ritmi e delle leggi della natura stessa.
Le origini dell'agricoltura risalgono al 20.000 a.C. in Mesopotamia, l'attuale Iraq. Gli antichi iniziarono la semina spinti dalla osservazione dei cicli vitali delle piante, conservando una parte dei semi raccolti e piantandoli la stagione successiva. I piccoli gruppi nomadi, dediti principalmente alla caccia e alla raccolta di frutti e radici, iniziarono a stanziarsi nei luoghi più favorevoli alla sopravvivenza, prediligendo il clima mite e la ricchezza d’acqua. La caccia portava questi nuclei a spostarsi in continuazione, seguendo le mandrie di bufali e i mammuth. Alle donne era affidata gran parte delle attività del gruppo: la macellazione degli animali e la conciatura delle pelli. La raccolta di bacche, frutti ed erbe affinò la capacità di riconoscere i prodotti commestibili e non velenosi. Questa rivoluzione organizzativa fu all'origine della progressiva sedentarietà, e le prime testimonianze di un'economia a base agricola si ebbero in Mesopotamia e in Egitto, due zone in cui il costante flusso di acque e di inondazioni determinava la periodica fertilità dei terreni. Il diffondersi dell'agricoltura non fu né rapido, né uniforme.
Lo sfruttamento pianificato della terra portò una rivoluzione non solo nell'alimentazione, ma anche nelle abitudini: nacquero infatti i primi insediamenti fissi, capanne di legno ed erba secca che nei millenni si trasformarono in costruzioni di fango e mattoni.
Altra novità legata all’agricoltura fu lo sviluppo dell'artigianato, con l’utilizzo di strumenti sempre più perfezionati per lavorare le campagne, immagazzinare e trasportare il cibo e l'acqua, fabbricare indumenti. Nacquero i primi recipienti, in pelle e poi in argilla, ma anche i primi telai per la tessitura.
Con il passare del tempo furono introdotti i primi strumenti per facilitare la lavorazione della terra, ad esempio la zappa e l'aratro. La prima permetteva di rivoltare la terra dopo che questa era stata fertilizzata con la tecnica del debbio, cioè la bruciatura delle stoppie. Il terreno così trattato riceveva sostanze nutritive, si aerava e tratteneva più a lungo l'acqua. L'aratro era ancora più efficace: introdotto intorno al V millennio a.C. in Mesopotamia, consentiva di scavare in profondità il terreno e favorire l’assorbimento dell'acqua e il conseguente attecchimento delle sementi. Altri strumenti agricoli che aiutavano il contadino furono la vanga, il badile, la falce, la roncola, l'ascia e l'accetta.
Un altro progresso fu l'irrigazione artificiale dei campi. In origine la lavorazione dei terreni prevedeva la semplice semina, e l'apporto di acqua era fornito da fenomeni naturali come lo straripamento dei fiumi e le piogge, ma questi fenomeni non avevano margini di controllo. Fu sempre in area mesopotamica che nacquero, intorno al V millennio a.C., le prime forme di canalizzazione dei corsi d'acqua, una soluzione che consentiva di controllare parzialmente la natura.
Nelle prime fasi di sviluppo dell'agricoltura l'uomo scoprì che dopo qualche anno il terreno non forniva più frutti abbondanti perciò, una volta sfruttato il terreno a disposizione, la comunità si spostava e sceglieva nuovi territori dove continuare a lavorare la terra e a seminare. Furono introdotte la concimazione e la rotazione dei terreni, e ancora oggi per rivitalizzare i terreni si usa la bruciatura delle stoppie, le cui ceneri alimentano i terreni, e la rotazione, che prevede la coltivazione del campo per uno o due anni e poi la sua messa a maggese, ossia un riposo per qualche stagione.
L'agricoltura favorì la nascita delle prime società stanziali e attività come il commercio e l'artigianato. Queste nuove forme di organizzazione sociale diedero origine ai primi regni, spesso con struttura piramidale che vedeva al vertice i guerrieri e la casta sacerdotale, e alla base gli agricoltori. Questo modello durò, con poche modifiche, fino all'età repubblicana di Roma quando il rapporto uomo-terra iniziò a mutare: il soldato-agricoltore rientrava dalle campagne di guerra e trovava le terre nuovamente incolte, si indebitava per comperare nuove sementi, e spesso finiva per vendere a poco prezzo la sua terra ai ricchi proprietari, per lo più senatori e cavalieri. Questo processo originò il latifondo, un sistema di gestione che rivoluzionò la geografia di ampi territori. Con le centuriazioni, ossia le divisioni di terreni da assegnare ai veterani o a gruppi di emigranti che fondavano nuove colonie, iniziarono ampi disboscamenti e opere di bonifica che resero fertili regioni fino ad allora dominate dalle foreste, dalle paludi o comunque da una natura aspra e inospitale.
venerdì 27 dicembre 2013
Pozzo sacro nuragico di San Salvatore di Cabras
Pozzo sacro nuragico di San Salvatore di Cabras
di Pierluigi Montalbano
Questa località è situata nella penisola del Sinis, al centro della costa occidentale della Sardegna, a pochi km dal promontorio di Capo San Marco presso il quale sorgono le rovine di Tharros, in una suggestiva pianura lagunare. Il nome deriva da una piccola chiesa, circondata da casupole. All’inizio di Settembre, quando si celebra la festa del Santo, giungono in pellegrinaggio pastori, pescatori e contadini dei territori vicini. Dal pavimento della chiesetta una scalinata scende in un antico ipogeo con tre ambienti raggruppati intorno a un atrio rotondo. L'edificio è scavato nella roccia per la parte inferiore, mentre sopra è costruito a filari di mattoni alternati con filari di blocchetti più grossi in arenaria. Il corridoio e cella hanno volta a botte, mentre l'atrio circolare è sormontato da una bassa cupola, aperta in alto nel centro in corrispondenza a un pozzo, elemento centrale della costruzione.
Un’antica decorazione di disegni e graffiti, eseguita in epoche diverse, copre le pareti fino alla curvatura dei soffitti.
Le caratteristiche strutturali e stilistiche dell’edificio e il carattere dei graffiti più antichi, suggeriscono che si tratti di un tempio pagano dedicato al culto delle acque creato dai nuragici, convertito in santuario cristiano intorno al 500 d.C.
Un bel dipinto rappresenta una divinità delle acque, Ercole, che stringe il collo al leone Nemeo.
Ercole, nella letteratura antica, è legato ai fiumi e alle sorgenti della Grecia, sia per la protezione da lui accordata alle acque terapeutiche, associato in tale veste di salutifer ad Asklepios e alle ninfe. Era considerato benefico per alcuni generi di malattie, come l'epilessia, chiamata appunto "malattia di Ercole", mentre per la colica era raccomandato un amuleto con Eracle che strozza il leone.
Fra le figure che coprono la parte arcuata della camera, una donna con corona radiata, che sposta un velo dietro le spalle scoprendo il torso nudo, ha una collana e regge uno scettro nella mano destra. Di fronte, al di là di un busto che la guarda, dall'aspetto di Hermes, c’è un piccolo Eros volante che porge un panno. Oltre, una ninfa seduta che gli rivolge le spalle e una ninfa che danza.
Le ninfe sono le divinità delle acque per eccellenza, e generalmente sono associate a Hermes.
I culti a divinità salutari e protettrici dei marinai possono spiegare anche la maggior parte dei graffiti che riempiono i vuoti tra le figure originali, prevalentemente navi, barche a remi e velieri. Fra questi si scorgono alcuni a due alberi verticali, rari nella marineria romana, ma anche con il solo albero maestro e l'aggiunta della vela di artimone, questa scomparsa verso la fine del IV sec. d. C., che testimoniano quindi l'esecuzione di graffiti eseguiti in epoca antichissima, forse rappresentazioni di navi ex voto di marinai alla divinità per ringraziamento di scampati pericoli, o preghiera di protezione per le navi del loro viaggio. Altre immagini mostrano aurighi e carri correnti nel circo, e un alfabeto greco con le lettere incise su 4 righe e sormontate da un pesce.
La Sardegna è un’isola dove il culto delle acque è attestato dalla tradizione letteraria, dalla superstizione popolare e dai numerosi pozzi sacri di età nuragica, come questo costruito nella pianura di Cabras, in mezzo agli stagni e vicino alla costa. È rilevante osservare che molte chiese dedicate a S. Salvatore, specialmente in Toscana, sorgono presso acque terapeutiche, e pare che vari culti cristiani odierni in tali località conservano connessioni con culti antichi. Oggi possiamo ipotizzare che il nome stesso di S. Salvatore sia un epiteto di una divinità salutare pagana, e precisamente quello di Ercole, Salvatore.
La chiesetta con l’ipogeo è oggi un luogo di pellegrinaggio cristiano, e la cappella moderna è solo l'ultima erede delle varie ristrutturazioni dell’edificio. Probabilmente l'ipogeo sotto la chiesa rimase ostruito e fu dimenticato per secoli, ma cinquecento anni fa alcuni marinai giunti sul luogo incisero, accanto ai primitivi ex voto delle navi graffite, schematiche immagini delle loro navi, assieme a un’iscrizione col Credo musulmano. Nuovamente caduto nell’oblio per alcuni secoli, questo suggestivo sito è stato riscoperto solo all’inizio del Novecento.
Bibliografia
D. Levi, L'Ipogeo di San Salvatore di Cabras in Sardegna, Roma 1949; id., A Late Roman Water Cult at San Salvatore near Cabras in Sardinia, in Gazette des Beaux Arts, XXXIV, 1948, p. 317 ss.
di Pierluigi Montalbano
Questa località è situata nella penisola del Sinis, al centro della costa occidentale della Sardegna, a pochi km dal promontorio di Capo San Marco presso il quale sorgono le rovine di Tharros, in una suggestiva pianura lagunare. Il nome deriva da una piccola chiesa, circondata da casupole. All’inizio di Settembre, quando si celebra la festa del Santo, giungono in pellegrinaggio pastori, pescatori e contadini dei territori vicini. Dal pavimento della chiesetta una scalinata scende in un antico ipogeo con tre ambienti raggruppati intorno a un atrio rotondo. L'edificio è scavato nella roccia per la parte inferiore, mentre sopra è costruito a filari di mattoni alternati con filari di blocchetti più grossi in arenaria. Il corridoio e cella hanno volta a botte, mentre l'atrio circolare è sormontato da una bassa cupola, aperta in alto nel centro in corrispondenza a un pozzo, elemento centrale della costruzione.
Un’antica decorazione di disegni e graffiti, eseguita in epoche diverse, copre le pareti fino alla curvatura dei soffitti.
Le caratteristiche strutturali e stilistiche dell’edificio e il carattere dei graffiti più antichi, suggeriscono che si tratti di un tempio pagano dedicato al culto delle acque creato dai nuragici, convertito in santuario cristiano intorno al 500 d.C.
Un bel dipinto rappresenta una divinità delle acque, Ercole, che stringe il collo al leone Nemeo.
Ercole, nella letteratura antica, è legato ai fiumi e alle sorgenti della Grecia, sia per la protezione da lui accordata alle acque terapeutiche, associato in tale veste di salutifer ad Asklepios e alle ninfe. Era considerato benefico per alcuni generi di malattie, come l'epilessia, chiamata appunto "malattia di Ercole", mentre per la colica era raccomandato un amuleto con Eracle che strozza il leone.
Fra le figure che coprono la parte arcuata della camera, una donna con corona radiata, che sposta un velo dietro le spalle scoprendo il torso nudo, ha una collana e regge uno scettro nella mano destra. Di fronte, al di là di un busto che la guarda, dall'aspetto di Hermes, c’è un piccolo Eros volante che porge un panno. Oltre, una ninfa seduta che gli rivolge le spalle e una ninfa che danza.
Le ninfe sono le divinità delle acque per eccellenza, e generalmente sono associate a Hermes.
I culti a divinità salutari e protettrici dei marinai possono spiegare anche la maggior parte dei graffiti che riempiono i vuoti tra le figure originali, prevalentemente navi, barche a remi e velieri. Fra questi si scorgono alcuni a due alberi verticali, rari nella marineria romana, ma anche con il solo albero maestro e l'aggiunta della vela di artimone, questa scomparsa verso la fine del IV sec. d. C., che testimoniano quindi l'esecuzione di graffiti eseguiti in epoca antichissima, forse rappresentazioni di navi ex voto di marinai alla divinità per ringraziamento di scampati pericoli, o preghiera di protezione per le navi del loro viaggio. Altre immagini mostrano aurighi e carri correnti nel circo, e un alfabeto greco con le lettere incise su 4 righe e sormontate da un pesce.
La Sardegna è un’isola dove il culto delle acque è attestato dalla tradizione letteraria, dalla superstizione popolare e dai numerosi pozzi sacri di età nuragica, come questo costruito nella pianura di Cabras, in mezzo agli stagni e vicino alla costa. È rilevante osservare che molte chiese dedicate a S. Salvatore, specialmente in Toscana, sorgono presso acque terapeutiche, e pare che vari culti cristiani odierni in tali località conservano connessioni con culti antichi. Oggi possiamo ipotizzare che il nome stesso di S. Salvatore sia un epiteto di una divinità salutare pagana, e precisamente quello di Ercole, Salvatore.
La chiesetta con l’ipogeo è oggi un luogo di pellegrinaggio cristiano, e la cappella moderna è solo l'ultima erede delle varie ristrutturazioni dell’edificio. Probabilmente l'ipogeo sotto la chiesa rimase ostruito e fu dimenticato per secoli, ma cinquecento anni fa alcuni marinai giunti sul luogo incisero, accanto ai primitivi ex voto delle navi graffite, schematiche immagini delle loro navi, assieme a un’iscrizione col Credo musulmano. Nuovamente caduto nell’oblio per alcuni secoli, questo suggestivo sito è stato riscoperto solo all’inizio del Novecento.
Bibliografia
D. Levi, L'Ipogeo di San Salvatore di Cabras in Sardegna, Roma 1949; id., A Late Roman Water Cult at San Salvatore near Cabras in Sardinia, in Gazette des Beaux Arts, XXXIV, 1948, p. 317 ss.
giovedì 26 dicembre 2013
Nuraghe
Nuraghe
di Pierluigi Montalbano
Questa tipologia di edificio preistorico si diffonde in Sardegna (dove se ne trovano 8000 circa) a partire da poco prima della metà del II millennio a.C. La maggior parte di essi si presenta con una torre tronco-conica, ingresso con architrave, corridoio di accesso e camera circolare interna. Tutto l’edificio è costruito con rocce sedimentarie o eruttive, sempre senza malta cementizia.
Si tratta di poderose strutture adibite a varie funzioni, decise volta per volta dalle comunità locali secondo le esigenze del momento, e modificate nel corso dei secoli, a volte cambiando la destinazione d’uso, fino a diventare colossali edifici con torri e bastioni che sovrastavano il villaggio adiacente.
Sono presenti sia sulla fascia costiera sia all’interno dell’isola, specie sugli altipiani. Si hanno tipi semplici, a torre isolata, con camere affiancate, e tipologie più complesse, con camere sovrapposte a 2 o 3 piani con scale elicoidali e vari corpi addossati alla torre più alta, a volte collegati da gallerie. Talora sono parte di sistemi articolati, inglobati entro cinte murarie fortificate da numerose torri, a loro volta raccordate da cortine murarie.
E’ frequente scorgere intorno al nuraghe un villaggio di capanne circolari con fondamenta in pietra. A partire dal X secolo a.C., e poi in epoca punica e romana, è attestata un’utilizzazione dei nuraghi come luoghi di culto.
La civiltà nuragica comprende quell’insieme di aspetti culturali che caratterizzano la Sardegna tra il XVII e il VI secolo a.C. Deve il proprio nome dal nuraghe ed è attribuibile alle popolazioni residenti nell’isola, per le quali l’ipotesi di un’origine iberica trova parziale conferma in indizi di natura archeologica, risalenti al periodo in cui nell’isola si incrociarono, fondendosi più o meno pacificamente, le genti locali di Monte Claro e i commercianti iberici del Vaso Campaniforme. Accanto ai nuraghi, le più caratteristiche testimonianze archeologiche di questa civiltà sono le cosiddette Tombe di Giganti (sepolcri monumentali a corridoio che derivano dai dolmen, preceduti da una facciata a emiciclo e da una stele centrale) e dai templi a pozzo (strutture ipogee, spesso comprese in recinti, con scale d’accesso che scendono verso il fondo del pozzo) che attestano un culto delle acque.
Particolare sviluppo ebbe la lavorazione dei metalli, come dimostrano le sculture miniaturizzate in bronzo, raffiguranti animali, sacerdoti e guerrieri.
La produzione ceramica è d’impasto, decorata a impressione o a incisione, con motivi geometrici e anse di varia fattura che seguivano la “moda” del momento.
Il quadro che emerge è quello di una società protourbana organizzata in piccoli nuclei territoriali, gestiti pacificamente da famiglie che collaboravano con varie attività legate alla pastorizia, all’agricoltura, alla pesca, allo sfruttamento delle miniere e ad altre forme di economia. n tutto il corso della sua evoluzione, la civiltà nuragica fu perfettamente integrata nel circuito del commercio mediterraneo, con attestazioni di frequentazione nel Vicino Oriente, nel nord Africa, nella penisola iberica, nel midi francese e nella penisola italica.
Nelle immagini l'esterno e l'interno del Nuraghe Arrubiu di Orroli.
di Pierluigi Montalbano
Questa tipologia di edificio preistorico si diffonde in Sardegna (dove se ne trovano 8000 circa) a partire da poco prima della metà del II millennio a.C. La maggior parte di essi si presenta con una torre tronco-conica, ingresso con architrave, corridoio di accesso e camera circolare interna. Tutto l’edificio è costruito con rocce sedimentarie o eruttive, sempre senza malta cementizia.
Si tratta di poderose strutture adibite a varie funzioni, decise volta per volta dalle comunità locali secondo le esigenze del momento, e modificate nel corso dei secoli, a volte cambiando la destinazione d’uso, fino a diventare colossali edifici con torri e bastioni che sovrastavano il villaggio adiacente.
Sono presenti sia sulla fascia costiera sia all’interno dell’isola, specie sugli altipiani. Si hanno tipi semplici, a torre isolata, con camere affiancate, e tipologie più complesse, con camere sovrapposte a 2 o 3 piani con scale elicoidali e vari corpi addossati alla torre più alta, a volte collegati da gallerie. Talora sono parte di sistemi articolati, inglobati entro cinte murarie fortificate da numerose torri, a loro volta raccordate da cortine murarie.
E’ frequente scorgere intorno al nuraghe un villaggio di capanne circolari con fondamenta in pietra. A partire dal X secolo a.C., e poi in epoca punica e romana, è attestata un’utilizzazione dei nuraghi come luoghi di culto.
La civiltà nuragica comprende quell’insieme di aspetti culturali che caratterizzano la Sardegna tra il XVII e il VI secolo a.C. Deve il proprio nome dal nuraghe ed è attribuibile alle popolazioni residenti nell’isola, per le quali l’ipotesi di un’origine iberica trova parziale conferma in indizi di natura archeologica, risalenti al periodo in cui nell’isola si incrociarono, fondendosi più o meno pacificamente, le genti locali di Monte Claro e i commercianti iberici del Vaso Campaniforme. Accanto ai nuraghi, le più caratteristiche testimonianze archeologiche di questa civiltà sono le cosiddette Tombe di Giganti (sepolcri monumentali a corridoio che derivano dai dolmen, preceduti da una facciata a emiciclo e da una stele centrale) e dai templi a pozzo (strutture ipogee, spesso comprese in recinti, con scale d’accesso che scendono verso il fondo del pozzo) che attestano un culto delle acque.
Particolare sviluppo ebbe la lavorazione dei metalli, come dimostrano le sculture miniaturizzate in bronzo, raffiguranti animali, sacerdoti e guerrieri.
La produzione ceramica è d’impasto, decorata a impressione o a incisione, con motivi geometrici e anse di varia fattura che seguivano la “moda” del momento.
Il quadro che emerge è quello di una società protourbana organizzata in piccoli nuclei territoriali, gestiti pacificamente da famiglie che collaboravano con varie attività legate alla pastorizia, all’agricoltura, alla pesca, allo sfruttamento delle miniere e ad altre forme di economia. n tutto il corso della sua evoluzione, la civiltà nuragica fu perfettamente integrata nel circuito del commercio mediterraneo, con attestazioni di frequentazione nel Vicino Oriente, nel nord Africa, nella penisola iberica, nel midi francese e nella penisola italica.
Nelle immagini l'esterno e l'interno del Nuraghe Arrubiu di Orroli.
mercoledì 25 dicembre 2013
Uomini, navi e merci nel Mediterraneo Antico
Uomini, navi e merci nel Mediterraneo Antico
di Sebastiano Tusa
«Cinquanta giorni dopo il solstizio, quando volge al colmo l’estate spossante, questo è per i mortali il tempo per navigare […]. Quando i venti sono regolari e il mare sicuro, allora spingi in mare la nave veloce e affidala pure ai venti. Riponivi tutto il tuo carico e affrettati a tornare a casa prima che puoi. Non aspettare il vino nuovo, le piogge d’autunno […]» (Esiodo, Le opere e i giorni)
È questo uno dei passi più antichi che, con la sua sagace prudenza, ci consente di percepire direttamente, attraverso la ‘voce’ di uno dei protagonisti dell’antichità mediterranea, brandelli di una primitiva civiltà nautica che altrimenti soltanto l’archeologia ci svela con il linguaggio delle ‘cose’.
Rotte neolitiche
Già nella più remota preistoria troviamo la prova che i contatti marittimi hanno contraddistinto da sempre la vita delle società mediterranee.
Tra le prime materie a diventare oggetto di scambio, anche a vasto raggio, vi fu l’ossidiana, particolarmente ricercata per la sua duttilità e efficacia nella manifattura di strumenti. La società neolitica, divenendo parzialmente dipendente da questo singolare ‘vetro vulcanico’, ne apprezza a tal punto le doti che ne ricerca le fonti e, anche se lontane dai luoghi di utilizzazione, ne sfrutta i giacimenti facendo viaggiare l’ossidiana per centinaia di chilometri. principalmente per mare. Si creano così le prime rotte di approvvigionamento che possiamo definire commerciali. Si tratta di vie di percorrenza soprattutto marittima, dato che l’ossidiana, almeno nel Mediterraneo centrale e anche nell’Egeo, è particolarmente presente nelle piccole isole. Ciò dimostra come l’uomo neolitico avesse già trovato una completa dimestichezza con il mare. Del resto l’arditezza marinara dei primi neolitici è provata dalla presenza di una colonia presso la Cala Pisana sull’isola di Lampedusa. Raggiungere quest’isola non doveva essere impresa facile dato che è impossibile adottare il sistema della navigazione a vista da costa a costa. La conoscenza di rotte segnate da astri e, probabilmente, di correnti e altre cognizioni marinare doveva stare alla base di tali capacità di percorrenza per mare.
Che esistesse già, sei o sette millenni prima di Cristo, una reale conoscenza di rotte e, quindi, già un sapere marinaro consolidato, è provato sia dalla colonizzazione tra il VI e IV millennio, oltre che di Lampedusa, anche di Malta, Pantelleria, delle isole Eolie e di molte isole dell’Egeo, ma anche dall’insorgere di comprovati sistemi di scambio tra questi arcipelaghi e le terre d’Europa. Per le nascenti società neolitiche il mare non è, dunque, per nulla un ostacolo, bensì un formidabile veicolo di comunicazione che ne agevola le capacità produttive, ne favorisce i contatti e induce alla conquista di nuove terre da colonizzare.
La ricerca dei metalli
Quanto avviene durante il Neolitico si amplifica nelle epoche successive della preistoria e protostoria mediterranea grazie all’insorgere di altri bisogni collettivi da soddisfare. Tra questi la ricerca dei metalli – dapprima il rame, poi lo stagno e altri (oro, argento, piombo ecc.) – costituisce il più potente catalizzatore per imprese commerciali marinare di grande respiro e impatto nei sistemi commerciali del Mediterraneo. Sarà proprio il commercio dei metalli a dare l’avvio per l’insorgere di veri e propri sistemi statali mercantili, tra i quali quelli attribuibili ai Micenei saranno i più rappresentativi. Il commercio per mare sarà, pertanto, la base di grandi fortune e di mirabili espressioni della civiltà mediterranea.
Il Mediterraneo come tramite di intrecci culturali
La consuetudine all’incontro tra le sponde diverse dello stesso mare aveva già determinato, alla vigilia del II millennio a.C., l’emergere di sostrati culturali comuni che determinano indubbie parentele culturali tra le varie società rivierasche più a contatto. Il mare, quindi, è diventato già un elemento di unione tra popoli e culture diverse. Ciò si nota non soltanto nelle relazioni Est-Ovest, ma anche in quelle Nord-Sud. La cultura eoliana di Capo Graziano, per esempio, insieme alla speculare cultura protoappenninica della penisola, manifesta l’embrione di una koinebasso-tirrenica che, dopo qualche secolo, raggiungerà livelli d’integrazione culturale ed etnica tali da rendere plausibile l’enucleazione di una vera e propria regione culturale basso-tirrenica (costa settentrionale della Sicilia, coste calabro-campane con naturale baricentro nelle Eolie).
Parimenti, grazie agli intensi contatti marittimi commerciali, tra le culture dell’antico e meso-elladico della Grecia continentale e insulare, insieme a quelle del medio e tardo bronzo anatolico occidentale, e le culture siciliana di Castelluccio e -seppur in misura inferiore - quelle protoappenniniche dell’Italia continentale, si stabilirà una vera e propria koine culturale che porterà successivamente (con l’arrivo sulla scena dei Micenei) a evidenti processi di assimilazione e acculturazione.
di Sebastiano Tusa
«Cinquanta giorni dopo il solstizio, quando volge al colmo l’estate spossante, questo è per i mortali il tempo per navigare […]. Quando i venti sono regolari e il mare sicuro, allora spingi in mare la nave veloce e affidala pure ai venti. Riponivi tutto il tuo carico e affrettati a tornare a casa prima che puoi. Non aspettare il vino nuovo, le piogge d’autunno […]» (Esiodo, Le opere e i giorni)
È questo uno dei passi più antichi che, con la sua sagace prudenza, ci consente di percepire direttamente, attraverso la ‘voce’ di uno dei protagonisti dell’antichità mediterranea, brandelli di una primitiva civiltà nautica che altrimenti soltanto l’archeologia ci svela con il linguaggio delle ‘cose’.
Rotte neolitiche
Già nella più remota preistoria troviamo la prova che i contatti marittimi hanno contraddistinto da sempre la vita delle società mediterranee.
Tra le prime materie a diventare oggetto di scambio, anche a vasto raggio, vi fu l’ossidiana, particolarmente ricercata per la sua duttilità e efficacia nella manifattura di strumenti. La società neolitica, divenendo parzialmente dipendente da questo singolare ‘vetro vulcanico’, ne apprezza a tal punto le doti che ne ricerca le fonti e, anche se lontane dai luoghi di utilizzazione, ne sfrutta i giacimenti facendo viaggiare l’ossidiana per centinaia di chilometri. principalmente per mare. Si creano così le prime rotte di approvvigionamento che possiamo definire commerciali. Si tratta di vie di percorrenza soprattutto marittima, dato che l’ossidiana, almeno nel Mediterraneo centrale e anche nell’Egeo, è particolarmente presente nelle piccole isole. Ciò dimostra come l’uomo neolitico avesse già trovato una completa dimestichezza con il mare. Del resto l’arditezza marinara dei primi neolitici è provata dalla presenza di una colonia presso la Cala Pisana sull’isola di Lampedusa. Raggiungere quest’isola non doveva essere impresa facile dato che è impossibile adottare il sistema della navigazione a vista da costa a costa. La conoscenza di rotte segnate da astri e, probabilmente, di correnti e altre cognizioni marinare doveva stare alla base di tali capacità di percorrenza per mare.
Che esistesse già, sei o sette millenni prima di Cristo, una reale conoscenza di rotte e, quindi, già un sapere marinaro consolidato, è provato sia dalla colonizzazione tra il VI e IV millennio, oltre che di Lampedusa, anche di Malta, Pantelleria, delle isole Eolie e di molte isole dell’Egeo, ma anche dall’insorgere di comprovati sistemi di scambio tra questi arcipelaghi e le terre d’Europa. Per le nascenti società neolitiche il mare non è, dunque, per nulla un ostacolo, bensì un formidabile veicolo di comunicazione che ne agevola le capacità produttive, ne favorisce i contatti e induce alla conquista di nuove terre da colonizzare.
La ricerca dei metalli
Quanto avviene durante il Neolitico si amplifica nelle epoche successive della preistoria e protostoria mediterranea grazie all’insorgere di altri bisogni collettivi da soddisfare. Tra questi la ricerca dei metalli – dapprima il rame, poi lo stagno e altri (oro, argento, piombo ecc.) – costituisce il più potente catalizzatore per imprese commerciali marinare di grande respiro e impatto nei sistemi commerciali del Mediterraneo. Sarà proprio il commercio dei metalli a dare l’avvio per l’insorgere di veri e propri sistemi statali mercantili, tra i quali quelli attribuibili ai Micenei saranno i più rappresentativi. Il commercio per mare sarà, pertanto, la base di grandi fortune e di mirabili espressioni della civiltà mediterranea.
Il Mediterraneo come tramite di intrecci culturali
La consuetudine all’incontro tra le sponde diverse dello stesso mare aveva già determinato, alla vigilia del II millennio a.C., l’emergere di sostrati culturali comuni che determinano indubbie parentele culturali tra le varie società rivierasche più a contatto. Il mare, quindi, è diventato già un elemento di unione tra popoli e culture diverse. Ciò si nota non soltanto nelle relazioni Est-Ovest, ma anche in quelle Nord-Sud. La cultura eoliana di Capo Graziano, per esempio, insieme alla speculare cultura protoappenninica della penisola, manifesta l’embrione di una koinebasso-tirrenica che, dopo qualche secolo, raggiungerà livelli d’integrazione culturale ed etnica tali da rendere plausibile l’enucleazione di una vera e propria regione culturale basso-tirrenica (costa settentrionale della Sicilia, coste calabro-campane con naturale baricentro nelle Eolie).
Parimenti, grazie agli intensi contatti marittimi commerciali, tra le culture dell’antico e meso-elladico della Grecia continentale e insulare, insieme a quelle del medio e tardo bronzo anatolico occidentale, e le culture siciliana di Castelluccio e -seppur in misura inferiore - quelle protoappenniniche dell’Italia continentale, si stabilirà una vera e propria koine culturale che porterà successivamente (con l’arrivo sulla scena dei Micenei) a evidenti processi di assimilazione e acculturazione.
martedì 24 dicembre 2013
Buon Natale
lunedì 23 dicembre 2013
Relitti navali...utili agli archeologi
Relitti navali...utili agli archeologi
di Pierluigi Montalbano
Il Mediterraneo è da sempre una risorsa affidabile per tutte le popolazioni che si affacciano sulle sue coste. Fin dal Neolitico, i viaggi per l'ossidiana costituirono un banco di prova per avviare mercati di scambio per tecnologie, uomini e merci. Genti lontane s'incontrarono e le contaminazioni culturali consentirono una rapida evoluzione nel modo di vivere delle comunità. Le novità attecchirono con facilità in quei luoghi dove gli approdi offrivano una serie di garanzie per indigeni e nuovi arrivati. Certamente i primi approdi furono fondati laddove acqua potabile e ricchezza di risorse locali costituivano un'esca formidabile per i naviganti. Verso il III Millennio a.C. questi traffici si ampliarono notevolmente grazie ai prospector che cercavano metalli, soprattutto rame e oro. In questo periodo assistiamo a un progresso culturale senza precedenti, e i centri nei quali si scambia subiscono uno sviluppo demografico che porterà alla formazione di nuove attività, non più strettamente legate alla produzione agricola o alla pastorizia. E' l'epoca dei primi villaggi fortificati, delle sepolture monumentalizzate dei defunti, della divisione in classi gerarchiche, delle guerre per il predominio sui territori floridi e sul controllo delle rotte navali. Ben presto si giungerà alle classi dominanti nelle quali occorrono alcuni specialisti: sacerdoti, capitribù, maestri d'ascia, fabbri, scriba ed esperti in guarigioni con le erbe. E' l'alba della civiltà del Bronzo, un'epoca nella quale i grandi imperi domineranno sulla Terra.
E' in questo periodo che le merci e gli uomini circolano per mare senza preoccuparsi delle distanze, e visto che il legno non si conserva nell'acqua (a causa di microrganismi che polverizzano le materie organiche), ciò che gli archeologi possono esaminare si riduce al contenuto delle barche che si inabissarono, i cosiddetti relitti navali.
Nell'immagine il relitto di Ulu Burun (Sud Turchia) affondato nel 1350 a.C.
di Pierluigi Montalbano
Il Mediterraneo è da sempre una risorsa affidabile per tutte le popolazioni che si affacciano sulle sue coste. Fin dal Neolitico, i viaggi per l'ossidiana costituirono un banco di prova per avviare mercati di scambio per tecnologie, uomini e merci. Genti lontane s'incontrarono e le contaminazioni culturali consentirono una rapida evoluzione nel modo di vivere delle comunità. Le novità attecchirono con facilità in quei luoghi dove gli approdi offrivano una serie di garanzie per indigeni e nuovi arrivati. Certamente i primi approdi furono fondati laddove acqua potabile e ricchezza di risorse locali costituivano un'esca formidabile per i naviganti. Verso il III Millennio a.C. questi traffici si ampliarono notevolmente grazie ai prospector che cercavano metalli, soprattutto rame e oro. In questo periodo assistiamo a un progresso culturale senza precedenti, e i centri nei quali si scambia subiscono uno sviluppo demografico che porterà alla formazione di nuove attività, non più strettamente legate alla produzione agricola o alla pastorizia. E' l'epoca dei primi villaggi fortificati, delle sepolture monumentalizzate dei defunti, della divisione in classi gerarchiche, delle guerre per il predominio sui territori floridi e sul controllo delle rotte navali. Ben presto si giungerà alle classi dominanti nelle quali occorrono alcuni specialisti: sacerdoti, capitribù, maestri d'ascia, fabbri, scriba ed esperti in guarigioni con le erbe. E' l'alba della civiltà del Bronzo, un'epoca nella quale i grandi imperi domineranno sulla Terra.
E' in questo periodo che le merci e gli uomini circolano per mare senza preoccuparsi delle distanze, e visto che il legno non si conserva nell'acqua (a causa di microrganismi che polverizzano le materie organiche), ciò che gli archeologi possono esaminare si riduce al contenuto delle barche che si inabissarono, i cosiddetti relitti navali.
Nell'immagine il relitto di Ulu Burun (Sud Turchia) affondato nel 1350 a.C.
domenica 22 dicembre 2013
Archeologia: trovati bronzetti nuragici e oro nell'auto di un operaio.
In auto bronzetti e monete romane, denunciato un operaio di Terralba.
Un operaio di Terralba, fermato dai Carabinieri, è stato trovato in possesso di bronzetti nuragici e monete di epoca romana di proprietà dello Stato.
L'operaio, 52 anni, è stato fermato dai carabinieri di Riola Sardo, per un normale controllo stradale. Durante la perquisizione della sua auto i militari hanno trovato all'interno dell'abitacolo una fibula in oro etrusco, sette monete di epoca romana e medievale e due bronzetti nuragici.
L'uomo è stato denunciato con l'accusa di ricettazione e impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato.
Il materiale è stato sequestrato e analizzato dai tecnici della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari: solo la fibula in oro avrebbe fruttato nel mercato illegale circa 200-300 mila euro.
Fonte: L'Unione Sarda
Un operaio di Terralba, fermato dai Carabinieri, è stato trovato in possesso di bronzetti nuragici e monete di epoca romana di proprietà dello Stato.
L'operaio, 52 anni, è stato fermato dai carabinieri di Riola Sardo, per un normale controllo stradale. Durante la perquisizione della sua auto i militari hanno trovato all'interno dell'abitacolo una fibula in oro etrusco, sette monete di epoca romana e medievale e due bronzetti nuragici.
L'uomo è stato denunciato con l'accusa di ricettazione e impossessamento illecito di beni culturali appartenenti allo Stato.
Il materiale è stato sequestrato e analizzato dai tecnici della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Cagliari: solo la fibula in oro avrebbe fruttato nel mercato illegale circa 200-300 mila euro.
Fonte: L'Unione Sarda
Rilettura dell’iscrizione punica di Sant'Elia (Erice CIS I 140)
Rilettura dell’iscrizione punica di Sant'Elia (Erice CIS I 140)
di Roberto Casti
Oggi, riproponiamo l’iscrizione punica nota come iscrizione ‘di Sant’Elia’ o iscrizione ‘di Erice’ dedicata ad Ashtart di Erice (l’Afrodite dei Greci, la Venere Ericina dei romani); L’iscrizione frammentaria (dim. cm.5,5x17x6) fu rinvenuta nel mese di marzo del 1870 da Filippo Nissardi c/o la Torre di Calamosca (ndr. Sella del Diavolo). III sec. a.C.. Cagliari Museo Archeologico Nazionale; inv. 21385.
Incuriosito dalla differente interpretazione della prima riga dell’iscrizione frammentaria c.d. di Erice dove il CIS legge: ad Ashtart di Erice altare di Bronzo...mentre Azzine Moamed Fantar dopo quasi un secolo legge: ad Astarte, madre, ho voluto riesaminare l’iscrizione esposta in vetrina al Museo Nazionale di Cagliari. Ebbene sia il riscontro autoptico che l’attenta osservazione dell’immagine digitalizzata m’inducono ad affermare con ragionevole certezza che là, dove lo studioso tunisino legge due lettere puniche (aleph e mem), vi sono incise tre lettere puniche e quelle lettere sono: aleph, resh e kaf ovvero ’RK. A rafforzare tale lettura vi è un ulteriore riscontro nella particolare forma a tratti rettilinei e spigoli netti dell’unica lettera M presente nella stessa riga di scrittura, ossia la prima lettera della terza parola della prima riga MZBḤ che nulla ha in comune con l'ipotetica lettera mem ipotizzata da Fantar. È pertanto assolutamente certa la lettura ottocentesca che leggeva una dedica ad Ashtart considerato che sono ben evidenti le tracce di tre lettere in sequenza (aleph, res e kaf) e non due (aleph e mem) come asserisce Fantar.
La lettura dell’iscrizione di Philippe Berger (CIS I 140 1883 pp.184-185):
L1 L’ŠTRT ’RK MZBḤ NḤ
L2 …….. N……. T…...ŠR….. LK
che così traduce: Astartae Erycinae altare ae[reum hoc quod vovit…]
Così scriveva M.A. Fantar dopo avere attentamente esaminato l’iscrizione di Erice al Museo di Cagliari (traduco in italiano):
“…Nel corso di un breve soggiorno a Cagliari, noi abbiamo potuto esaminare la pietra da molto vicino e ci è parso difficile seguire i nostri predecessori. Dopo le nostre osservazioni non si tratta di ’RK ma di ’M. Grazie ad un gioco di luci noi abbiamo potuto distinguere molto nettamente l’aleph e il mem. Questa non è, a nostro umile avviso, Ashtart di ’RK ma bisogna leggere Ashtart ’M. Il risultato della nostra lettura (è) che la dea Ashtart, così come Tanit, porta il titolo di Madre…”
Questa é la mia trascrizione e traduzione che corrisponde nella sostanza alla lettura di Philippe Berger a cui aggiungo le probabili lettere mancanti all’inizio della nostra iscrizione, peraltro presenti nell’iscrizione di Erice (CIS I 135) di Sicilia.
1 [LRBT] L‘ŠTRT ’RK MZBḤ N[ḤŠT]…
[Alla Signora], ad Ashtart di Erice, altare di br[onzo]…
Bibliografia:
G. Spano, Memoria sopra l’antica cattedrale di Ottana e Scoperte… Cagliari 1870 pp. 12-17;
Euting, Punische Steine, Serie VII Tomo. XVII, Caralitana 1^, 1871 (Euting legge e disegna ’RM) p. 31 tav. 37;
CIS I 140 pars I Tab. XXX, Paris 1883 pp. 184-185;
E. Pais, Bibliografia in BAS Anno I, serie seconda XI-XII, 1884 p.186;
G. Pesce, Sardegna Punica 1961 p.154 (Idem. Riediz. Ilisso, 2000, p.102);
M.G. Amadasi Guzzo IFPCO 1967, Sard 19 pp.99-100;
Mhmed Fantar, Récentes découvertes dans les domaines de l’archéologie et de l’épigraphie Puniques in BCTH neuve série 7, 1971[1972] pp. 256-258 fig. 17;
R.Zucca, Venus Erycina tra Sicilia, Africa e Sardegna in l’Africa romana VI 1989 pp. 771-779, spec pp. 774-776;
M.G. Amadasi Guzzo 1990 n. 6 p. 75;
R. Zucca, Inscriptiones latinae liberae… in l’Africa romana XI 1996 p.1465 nota 182;
Corinne Bonnet, Astarté. Dossier documentaire et perspectives historiques 1996 p.109-110;
M.A. Ibba, Nota sulle testimonianze archeologiche, epigrafiche e agiografiche delle aree di culto di Karalì punica e di Carales romana, "Aristeo" 1, 2004, pp. 134-135 e nota 179;
S. Angiolillo-R. Sirigu 2009, Astarte /Venere Ericina a Cagliari. Status quaestionis e notizia preliminare della campagna di scavo 2008 sul Capo Sant'Elia, in Studi Sardi Vol. 34 p.179 e sgg.;
M. Minoja - C. Cossu - M. Migaleddu, Parole di Segni, Guide e Itinerari N.47 2012 p. 47.
di Roberto Casti
Oggi, riproponiamo l’iscrizione punica nota come iscrizione ‘di Sant’Elia’ o iscrizione ‘di Erice’ dedicata ad Ashtart di Erice (l’Afrodite dei Greci, la Venere Ericina dei romani); L’iscrizione frammentaria (dim. cm.5,5x17x6) fu rinvenuta nel mese di marzo del 1870 da Filippo Nissardi c/o la Torre di Calamosca (ndr. Sella del Diavolo). III sec. a.C.. Cagliari Museo Archeologico Nazionale; inv. 21385.
Incuriosito dalla differente interpretazione della prima riga dell’iscrizione frammentaria c.d. di Erice dove il CIS legge: ad Ashtart di Erice altare di Bronzo...mentre Azzine Moamed Fantar dopo quasi un secolo legge: ad Astarte, madre, ho voluto riesaminare l’iscrizione esposta in vetrina al Museo Nazionale di Cagliari. Ebbene sia il riscontro autoptico che l’attenta osservazione dell’immagine digitalizzata m’inducono ad affermare con ragionevole certezza che là, dove lo studioso tunisino legge due lettere puniche (aleph e mem), vi sono incise tre lettere puniche e quelle lettere sono: aleph, resh e kaf ovvero ’RK. A rafforzare tale lettura vi è un ulteriore riscontro nella particolare forma a tratti rettilinei e spigoli netti dell’unica lettera M presente nella stessa riga di scrittura, ossia la prima lettera della terza parola della prima riga MZBḤ che nulla ha in comune con l'ipotetica lettera mem ipotizzata da Fantar. È pertanto assolutamente certa la lettura ottocentesca che leggeva una dedica ad Ashtart considerato che sono ben evidenti le tracce di tre lettere in sequenza (aleph, res e kaf) e non due (aleph e mem) come asserisce Fantar.
La lettura dell’iscrizione di Philippe Berger (CIS I 140 1883 pp.184-185):
L1 L’ŠTRT ’RK MZBḤ NḤ
L2 …….. N……. T…...ŠR….. LK
che così traduce: Astartae Erycinae altare ae[reum hoc quod vovit…]
Così scriveva M.A. Fantar dopo avere attentamente esaminato l’iscrizione di Erice al Museo di Cagliari (traduco in italiano):
“…Nel corso di un breve soggiorno a Cagliari, noi abbiamo potuto esaminare la pietra da molto vicino e ci è parso difficile seguire i nostri predecessori. Dopo le nostre osservazioni non si tratta di ’RK ma di ’M. Grazie ad un gioco di luci noi abbiamo potuto distinguere molto nettamente l’aleph e il mem. Questa non è, a nostro umile avviso, Ashtart di ’RK ma bisogna leggere Ashtart ’M. Il risultato della nostra lettura (è) che la dea Ashtart, così come Tanit, porta il titolo di Madre…”
Questa é la mia trascrizione e traduzione che corrisponde nella sostanza alla lettura di Philippe Berger a cui aggiungo le probabili lettere mancanti all’inizio della nostra iscrizione, peraltro presenti nell’iscrizione di Erice (CIS I 135) di Sicilia.
1 [LRBT] L‘ŠTRT ’RK MZBḤ N[ḤŠT]…
[Alla Signora], ad Ashtart di Erice, altare di br[onzo]…
Bibliografia:
G. Spano, Memoria sopra l’antica cattedrale di Ottana e Scoperte… Cagliari 1870 pp. 12-17;
Euting, Punische Steine, Serie VII Tomo. XVII, Caralitana 1^, 1871 (Euting legge e disegna ’RM) p. 31 tav. 37;
CIS I 140 pars I Tab. XXX, Paris 1883 pp. 184-185;
E. Pais, Bibliografia in BAS Anno I, serie seconda XI-XII, 1884 p.186;
G. Pesce, Sardegna Punica 1961 p.154 (Idem. Riediz. Ilisso, 2000, p.102);
M.G. Amadasi Guzzo IFPCO 1967, Sard 19 pp.99-100;
Mhmed Fantar, Récentes découvertes dans les domaines de l’archéologie et de l’épigraphie Puniques in BCTH neuve série 7, 1971[1972] pp. 256-258 fig. 17;
R.Zucca, Venus Erycina tra Sicilia, Africa e Sardegna in l’Africa romana VI 1989 pp. 771-779, spec pp. 774-776;
M.G. Amadasi Guzzo 1990 n. 6 p. 75;
R. Zucca, Inscriptiones latinae liberae… in l’Africa romana XI 1996 p.1465 nota 182;
Corinne Bonnet, Astarté. Dossier documentaire et perspectives historiques 1996 p.109-110;
M.A. Ibba, Nota sulle testimonianze archeologiche, epigrafiche e agiografiche delle aree di culto di Karalì punica e di Carales romana, "Aristeo" 1, 2004, pp. 134-135 e nota 179;
S. Angiolillo-R. Sirigu 2009, Astarte /Venere Ericina a Cagliari. Status quaestionis e notizia preliminare della campagna di scavo 2008 sul Capo Sant'Elia, in Studi Sardi Vol. 34 p.179 e sgg.;
M. Minoja - C. Cossu - M. Migaleddu, Parole di Segni, Guide e Itinerari N.47 2012 p. 47.
venerdì 20 dicembre 2013
Sgominato traffico reperti archeologici
Sgominato traffico reperti archeologici, dieci arresti per un giro da 1,5 milioni di Euro
Un'associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici tra la Sardegna, la Corsica e alcune regioni della penisola è stata sgominata dai carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio culturale di Sassari.
Navicelle bronzee di epoca nuragica e altri oggetti di particolare interesse storico partivano dall'Isola prevalentemente in direzione della Corsica, con la complicità di alcuni imprenditori sardi con interessi nell'isola francese e nella Penisola. Al termine di una complessa indagine, coordinata dal sostituto procuratore Giovanni Porcheddu, ieri sono state eseguite dieci ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip Antonello Spanu. Quattro persone sono finite in carcere a Sassari, con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici. Si tratta di Giovanni Battista Pirisi, 47 anni, allevatore di Sassari, Giovanni Puggioni, di 46, allevatore di Torralba (Oristano), Michele Zara, 43 anni, operaio di Codrongianos (Sassari) e Giovanni Antonio Sanna, 50enne, di Torralba, guardia giurata.
Ai domiciliari, con l'accusa di ricettazione, possesso illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, ricerca archeologica clandestina, esportazioni illecite e l'aggravante di aver commesso tutti i reati anche al di fuori dei confini nazionali, sono finiti Salvatore Puggioni, 63 anni di Sorso (Sassari), disoccupato, Pietro Mannghina, 58 anni di Sennori (Sassari), imprenditore, Michele Luca Gerolamo Falchi, 55 anni di Tortolì (Ogliastra), disoccupato, Costantino Ariani, 60 anni di Sassari, e Albino Manunta, 60 anni di Bulzi (Sassari), soci di una ditta che si occupa del trasporto di latticini. Sebastiano Achenza, 58 anni di Sedini (Sassari) ha ottenuto invece l'obbligo di dimora nel comune di Osilo. Domani mattina i 4 arrestati compariranno davanti al Gip per l'interrogatorio di garanzia. Stamattina i dettagli dell'operazione denominata "Bonifacio", per via del traffico tra la Sardegna e la Corsica, sono stati illustrati dal capitano Paolo Montorsi, comandante regionale del Nucleo tutela del patrimonio artistico e dalla Sovrintendente ai beni culturali della provincia di Sassari Luisanna Usai. Il valore dei 150 reperti archeologici e dei circa 60 fossili sequestrati durante l'indagine durata un anno, si aggira intorno al milione e mezzo di euro. Durante le perquisizioni, effettuate anche in Lombardia, Veneto e Umbria, sono stati sequestrati anche due metal detector. L'indagine dei carabinieri era partita nel novembre del 2012 come costola di un'indagine su un traffico di sostanze stupefacenti. In alcuni casi, è stato accertato, gli acquirenti dei reperti ricevevano una mail con la descrizione e la foto dell'oggetto trafugato, prevalentemente nella "Valle dei nuragahi", una vasta area del Sassarese nella quale sono presenti i resti di oltre trenta nuraghi e di dieci tombe di giganti.
Fonte: L'Unione Sarda del 20 Dicembre 2013
Un'associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici tra la Sardegna, la Corsica e alcune regioni della penisola è stata sgominata dai carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio culturale di Sassari.
Navicelle bronzee di epoca nuragica e altri oggetti di particolare interesse storico partivano dall'Isola prevalentemente in direzione della Corsica, con la complicità di alcuni imprenditori sardi con interessi nell'isola francese e nella Penisola. Al termine di una complessa indagine, coordinata dal sostituto procuratore Giovanni Porcheddu, ieri sono state eseguite dieci ordinanze di custodia cautelare firmate dal Gip Antonello Spanu. Quattro persone sono finite in carcere a Sassari, con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici. Si tratta di Giovanni Battista Pirisi, 47 anni, allevatore di Sassari, Giovanni Puggioni, di 46, allevatore di Torralba (Oristano), Michele Zara, 43 anni, operaio di Codrongianos (Sassari) e Giovanni Antonio Sanna, 50enne, di Torralba, guardia giurata.
Ai domiciliari, con l'accusa di ricettazione, possesso illecito di beni culturali appartenenti allo Stato, ricerca archeologica clandestina, esportazioni illecite e l'aggravante di aver commesso tutti i reati anche al di fuori dei confini nazionali, sono finiti Salvatore Puggioni, 63 anni di Sorso (Sassari), disoccupato, Pietro Mannghina, 58 anni di Sennori (Sassari), imprenditore, Michele Luca Gerolamo Falchi, 55 anni di Tortolì (Ogliastra), disoccupato, Costantino Ariani, 60 anni di Sassari, e Albino Manunta, 60 anni di Bulzi (Sassari), soci di una ditta che si occupa del trasporto di latticini. Sebastiano Achenza, 58 anni di Sedini (Sassari) ha ottenuto invece l'obbligo di dimora nel comune di Osilo. Domani mattina i 4 arrestati compariranno davanti al Gip per l'interrogatorio di garanzia. Stamattina i dettagli dell'operazione denominata "Bonifacio", per via del traffico tra la Sardegna e la Corsica, sono stati illustrati dal capitano Paolo Montorsi, comandante regionale del Nucleo tutela del patrimonio artistico e dalla Sovrintendente ai beni culturali della provincia di Sassari Luisanna Usai. Il valore dei 150 reperti archeologici e dei circa 60 fossili sequestrati durante l'indagine durata un anno, si aggira intorno al milione e mezzo di euro. Durante le perquisizioni, effettuate anche in Lombardia, Veneto e Umbria, sono stati sequestrati anche due metal detector. L'indagine dei carabinieri era partita nel novembre del 2012 come costola di un'indagine su un traffico di sostanze stupefacenti. In alcuni casi, è stato accertato, gli acquirenti dei reperti ricevevano una mail con la descrizione e la foto dell'oggetto trafugato, prevalentemente nella "Valle dei nuragahi", una vasta area del Sassarese nella quale sono presenti i resti di oltre trenta nuraghi e di dieci tombe di giganti.
Fonte: L'Unione Sarda del 20 Dicembre 2013
Creta: i Minoici non venivano dall'Africa, lo dice l'analisi del loro Dna
Creta: i Minoici non venivano dall'Africa, lo dice l'analisi del loro Dna
di Massimo Spampani
Sono originari dell'Europa, smentita ipotesi di un arrivo dall'Egitto o dal Medio Oriente. Analogie con i sardi
Ricordate il leggendario re Minosse che, secondo la tradizione, ordinò la costruzione di un labirinto a Creta per rinchiudere la mitica creatura metà uomo e metà toro conosciuta come il Minotauro? Ebbene, la prima civiltà avanzata dell’Europa, quella appunto dei minoici, è originaria del nostro continente e non proviene dall’Asia o dall’Africa come molti studiosi pensavano. L’analisi del Dna di antichi resti umani sull’isola di Creta getta una nuova luce sull’origine della civiltà minoica, concetto quest’ultimo sviluppato da sir Arthur Evans, l'archeologo britannico che dissotterrò il Palazzo di Cnosso a Creta, databile a circa 4 mila anni fa. Evans era del parere che la cultura minoica avesse le sue origini altrove. Fu infatti egli a suggerire che i minoici si fossero rifugiati a Creta provenendo dal delta del Nilo in Egitto, per fuggire alla conquista della loro regione da parte di un re proveniente dal sud del Paese circa 5 mila anni fa.
Ma le analisi del Dna indicano che i minoici erano indigeni europei. I risultati della ricerca sono riportati dalla rivista Nature Communications. «Evans fu sorpreso di trovare una civiltà così avanzata sull'isola di Creta», spiega George Stamatoyannopoulos, uno degli autori, genetista dell'Università di Washington a Seattle. «Per sostenere l’origine nordafricana dei minoici portò come prove le apparenti somiglianze tra l’arte egizia e quella minoica, oltre che le somiglianze tra le tombe circolari costruite dai primi abitanti di Creta meridionale e quelle costruite dagli antichi libici. Ma altri archeologi hanno sostenuto che le origini dei minoici fossero in Palestina, Siria o in Anatolia».
Gli studiosi hanno analizzato il Dna di 37 resti di individui seppelliti in una grotta sull'altopiano di Lassithi, nell'est dell'isola. Si ritiene che la maggior parte di queste sepolture risalgano al periodo minoico medio, cioè a circa 3.700 anni fa. In particolare è stato analizzato il Dna mitocondriale estratto dai denti degli scheletri, localizzato negli organelli cellulari (i mitocondri) e che passa pressoché invariato dalla madre ai figli. Le sequenze sono state confrontate con quelle simili di altre 135 popolazioni europee, dell’Africa e dell’Anatolia, provenienti da campioni sia antichi che moderni. Il confronto ha escluso un’origine nordafricana dei minoici, visto che gli antichi cretesi hanno mostrato poca somiglianza genetica con i libici, gli egiziani e i sudanesi. Ma sono altrettanto distanti geneticamente dalle popolazioni della penisola arabica, tra cui i sauditi e gli yemeniti.
Il Dna antico minoico è invece molto più simile a quello delle popolazioni dall'Europa occidentale e settentrionale. Una particolare affinità genetica è quella con le popolazioni dell’età del bronzo dalla Sardegna e della penisola iberica e con i campioni neolitici provenienti dalla Scandinavia e dalla Francia. Inoltre il Dna minoico assomiglia anche a quello delle persone che vivono oggi sull’altopiano di Lassithi. Gli autori concludono quindi che la civiltà minoica era frutto di uno sviluppo locale, originato da abitanti che probabilmente avevano raggiunto l'isola circa 9 mila anni fa, nel Neolitico. «I minoici sono europei», afferma Stamatoyannopoulos, «e sono anche legati agli odierni cretesi. Ma è anche evidente che poi la loro civiltà ha subito l’influenza culturale di altri popoli del Mediterraneo, compresi gli egiziani».
Nell'immagine: Il principe dei gigli, a Cnosso.
di Massimo Spampani
Sono originari dell'Europa, smentita ipotesi di un arrivo dall'Egitto o dal Medio Oriente. Analogie con i sardi
Ricordate il leggendario re Minosse che, secondo la tradizione, ordinò la costruzione di un labirinto a Creta per rinchiudere la mitica creatura metà uomo e metà toro conosciuta come il Minotauro? Ebbene, la prima civiltà avanzata dell’Europa, quella appunto dei minoici, è originaria del nostro continente e non proviene dall’Asia o dall’Africa come molti studiosi pensavano. L’analisi del Dna di antichi resti umani sull’isola di Creta getta una nuova luce sull’origine della civiltà minoica, concetto quest’ultimo sviluppato da sir Arthur Evans, l'archeologo britannico che dissotterrò il Palazzo di Cnosso a Creta, databile a circa 4 mila anni fa. Evans era del parere che la cultura minoica avesse le sue origini altrove. Fu infatti egli a suggerire che i minoici si fossero rifugiati a Creta provenendo dal delta del Nilo in Egitto, per fuggire alla conquista della loro regione da parte di un re proveniente dal sud del Paese circa 5 mila anni fa.
Ma le analisi del Dna indicano che i minoici erano indigeni europei. I risultati della ricerca sono riportati dalla rivista Nature Communications. «Evans fu sorpreso di trovare una civiltà così avanzata sull'isola di Creta», spiega George Stamatoyannopoulos, uno degli autori, genetista dell'Università di Washington a Seattle. «Per sostenere l’origine nordafricana dei minoici portò come prove le apparenti somiglianze tra l’arte egizia e quella minoica, oltre che le somiglianze tra le tombe circolari costruite dai primi abitanti di Creta meridionale e quelle costruite dagli antichi libici. Ma altri archeologi hanno sostenuto che le origini dei minoici fossero in Palestina, Siria o in Anatolia».
Gli studiosi hanno analizzato il Dna di 37 resti di individui seppelliti in una grotta sull'altopiano di Lassithi, nell'est dell'isola. Si ritiene che la maggior parte di queste sepolture risalgano al periodo minoico medio, cioè a circa 3.700 anni fa. In particolare è stato analizzato il Dna mitocondriale estratto dai denti degli scheletri, localizzato negli organelli cellulari (i mitocondri) e che passa pressoché invariato dalla madre ai figli. Le sequenze sono state confrontate con quelle simili di altre 135 popolazioni europee, dell’Africa e dell’Anatolia, provenienti da campioni sia antichi che moderni. Il confronto ha escluso un’origine nordafricana dei minoici, visto che gli antichi cretesi hanno mostrato poca somiglianza genetica con i libici, gli egiziani e i sudanesi. Ma sono altrettanto distanti geneticamente dalle popolazioni della penisola arabica, tra cui i sauditi e gli yemeniti.
Il Dna antico minoico è invece molto più simile a quello delle popolazioni dall'Europa occidentale e settentrionale. Una particolare affinità genetica è quella con le popolazioni dell’età del bronzo dalla Sardegna e della penisola iberica e con i campioni neolitici provenienti dalla Scandinavia e dalla Francia. Inoltre il Dna minoico assomiglia anche a quello delle persone che vivono oggi sull’altopiano di Lassithi. Gli autori concludono quindi che la civiltà minoica era frutto di uno sviluppo locale, originato da abitanti che probabilmente avevano raggiunto l'isola circa 9 mila anni fa, nel Neolitico. «I minoici sono europei», afferma Stamatoyannopoulos, «e sono anche legati agli odierni cretesi. Ma è anche evidente che poi la loro civiltà ha subito l’influenza culturale di altri popoli del Mediterraneo, compresi gli egiziani».
Nell'immagine: Il principe dei gigli, a Cnosso.
mercoledì 18 dicembre 2013
Archeologia e scrittura: Inedita lettura di una iscrizione fenicia su lamina in oro, dal tofet di Sant'Antioco
Lettura inedita di un'iscrizione fenicia su una lamina d'oro dal Tofet di Sulky (Sant'Antioco)
di Roberto Casti
Oggi presenteremo un nostro schizzo e la nostra proposta interpretativa di un’iscrizione fenicia sostanzialmente ancora inedita dell’ VIII - VII sec. a.C. incisa su una lamina in oro ( dim. cm. 1,8 x 2 c.) che originariamente rivestiva un supporto in ferro di cui restano evidenti le tracce di ossidazione (Barreca 1965); si tratta di due frammenti residui di un’iscrizione ancora incompleta provenienti dal santuario tofet di Sant’Antioco e ritrovati in due momenti diversi. Il primo, rinvenuto nel 1960 da Gennaro Pesce ( assistente Peppino Lai), fu pubblicato da Ferruccio Barreca: ‘Nuove iscrizioni fenicie da Sulcis’ in O.A. IV 1965 pp. 55-57 e successivamente da M .G. Amadasi Guzzo nel 1967 in Studi Semitici 28, IFPCO Sard. 38, p. 121, Tav. 46) riproposto dalla studiosa della Sapienza nel 1990 in IFPI p. 77, fig. 8.;v. anche Tesi di H. M. Dixon 2013 pp. 131-132 e pp.145-146. Il secondo frammento fu ritrovato circa venti anni dopo e la lamina, ricomposta mediante intervento di restauro nella prima metà degli anni ’80, venne inserita all’interno di una lente d’ingrandimento. L’iscrizione è stata presentata per la prima volta al pubblico nel 2012 in occasione della Mostra ‘Parole di Segni’ pubblicata da M. Minoja, C. Cossu e M. Migaleddu nella collana Sardegna Archeologica, Guide e Itinerari n. 47 Carlo Delfino editore.
Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Traslitterazione
Linea 1 [ LB‘L ḤMN ][ MLK ]B‘L ’Z YTN [‘ ?] .….
Linea 2 …. [ BN ] ’BKŠLK B[N] …..
Linea 3 ….W.... III ŠQL III L …..
Traduzione:
Annotazioni:
Sarebbe questa la seconda attestazione in un’iscrizione sarda del sacrificio MLK B‘L. L’altra, incisa su un cippetto in trachite ed esposta in mostra insieme alla laminetta , proviene, come questa dal santuario tofet di Sant’Antioco (M. G. Amadasi Guzzo IFPCO Sard. 17 1967 p. 98; Idem IFPI 1990 p. 77 ; Cfr. anche Idem, IFPCO Malta n. 4 pp. 20-23= CIS I 123; Idem, Scavi a Mozia-Le iscrizioni p.46 nota 6; cfr. H.Benichou-Safar ACIFP III 1995 pp. 142-148. Senza peraltro escludere altre letture alternative come un nome teoforo ( Adnb‘l, Azurbaal, Bodbaal etc), ritengo plausibile che all’inizio dell’iscrizione vi fosse inciso il nome della divinità a cui era destinata l’offerta. Si tratta quasi certamente di Baal Ḥammon, la stessa divinità che ritroviamo attestata nel cippo proveniente dal medesimo santuario tofet. Due sacrifici MLK B‘L offerti nello stesso santuario destinati alla stessa divinità. Queste potrebbero essere in definitiva le lettere perdute del frammento iniziale dell’iscrizione da aggiungere al testo oggi conservato: LB ‘L HMN MLK = A Baal Ḥammon sacrificio MLK .
L2 ’BKŠLK è probabilmente nome proprio, forse inedito, parte di una più lunga genealogia.
L 3 Straordinaria l’attestazione dell’offerta di Sicli che oltre a richiamare per certi versi la famosa iscrizione di Marsiglia trova anche riscontro in un’altra iscrizione analoga soprattutto per i contenuti alla nostra iscrizione sulcitana e dove è attestata l’offerta di 3 sicli anche in quel caso ad un santuaro. È un’ iscrizione dipinta su un ostracon ebraico della collezione Moussaieff dove possiamo leggere di un versamento di 3 sicli d’argento di Tarshish, in quel caso versati al tempio di Yahvéh. Bibl.: P. Bordreuil- F. Israel- D.Pardee, Deux ostraca paléo-hébreux de la collection Sh. Moussaieff in Semitica 46 1996 pp. 49-76; fig a p. 50 e Tav 7. Cfr. anche Lemaire : Tarshish – Tarsisi in Studies in historical and biblical Historiography....... Paleografia paleoebraica p. 50.
Va infine posto in evidenza come la grafia di questa iscrizione (lettere: 'aleph, yod, lamed, qof e shin) richiama in particolare l'iscrizione fenicia su un cippo votivo con dedica di ‘šmunḥlṣ a Resheph rinvenuto nel 1902 a Cipro (Palaeo-Kastro) la cui datazione viene inquadrata da Février al VII sec. a.C.. Il cippo, in due frammenti, ora ricomposto, é conservato al Museo del Louvre a Parigi: inv. AO 4411 (base)= RES, 1214; inv. AM 1196 ( testa di Bes) (cfr. André Caquot et Olivier Masson , Deux Inscriptions Phéniciennes de Chypre, in Syria Revue d'Art Oriental et Arcgéologie. Tomo XLV 1968 pp. 295-300, Fig. 1-2).
di Roberto Casti
Oggi presenteremo un nostro schizzo e la nostra proposta interpretativa di un’iscrizione fenicia sostanzialmente ancora inedita dell’ VIII - VII sec. a.C. incisa su una lamina in oro ( dim. cm. 1,8 x 2 c.) che originariamente rivestiva un supporto in ferro di cui restano evidenti le tracce di ossidazione (Barreca 1965); si tratta di due frammenti residui di un’iscrizione ancora incompleta provenienti dal santuario tofet di Sant’Antioco e ritrovati in due momenti diversi. Il primo, rinvenuto nel 1960 da Gennaro Pesce ( assistente Peppino Lai), fu pubblicato da Ferruccio Barreca: ‘Nuove iscrizioni fenicie da Sulcis’ in O.A. IV 1965 pp. 55-57 e successivamente da M .G. Amadasi Guzzo nel 1967 in Studi Semitici 28, IFPCO Sard. 38, p. 121, Tav. 46) riproposto dalla studiosa della Sapienza nel 1990 in IFPI p. 77, fig. 8.;v. anche Tesi di H. M. Dixon 2013 pp. 131-132 e pp.145-146. Il secondo frammento fu ritrovato circa venti anni dopo e la lamina, ricomposta mediante intervento di restauro nella prima metà degli anni ’80, venne inserita all’interno di una lente d’ingrandimento. L’iscrizione è stata presentata per la prima volta al pubblico nel 2012 in occasione della Mostra ‘Parole di Segni’ pubblicata da M. Minoja, C. Cossu e M. Migaleddu nella collana Sardegna Archeologica, Guide e Itinerari n. 47 Carlo Delfino editore.
Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Traslitterazione
Linea 1 [ LB‘L ḤMN ][ MLK ]B‘L ’Z YTN [‘ ?] .….
Linea 2 …. [ BN ] ’BKŠLK B[N] …..
Linea 3 ….W.... III ŠQL III L …..
Traduzione:
"Linea 1 [A Baal Ḥammon,] questo è un
[sacrificio MLK ]B‘L, e a seguire NP dell'offerente che inizia con il
consueto YTN parte di nome teoforo incompleto del tipo YatonBaal,
YatonSid etc."
Linea 2 …. [ figlio di ] Abakshelek fi[glio di] ….(a
inizio riga s’intravede il primo tratto superiore della probabile lettera nun
di BN=figlio di.
Linea 3 .... e .... 3 sicli 3 per... [il
santuario ? -il sacerdote ?]
Sarebbe questa la seconda attestazione in un’iscrizione sarda del sacrificio MLK B‘L. L’altra, incisa su un cippetto in trachite ed esposta in mostra insieme alla laminetta , proviene, come questa dal santuario tofet di Sant’Antioco (M. G. Amadasi Guzzo IFPCO Sard. 17 1967 p. 98; Idem IFPI 1990 p. 77 ; Cfr. anche Idem, IFPCO Malta n. 4 pp. 20-23= CIS I 123; Idem, Scavi a Mozia-Le iscrizioni p.46 nota 6; cfr. H.Benichou-Safar ACIFP III 1995 pp. 142-148. Senza peraltro escludere altre letture alternative come un nome teoforo ( Adnb‘l, Azurbaal, Bodbaal etc), ritengo plausibile che all’inizio dell’iscrizione vi fosse inciso il nome della divinità a cui era destinata l’offerta. Si tratta quasi certamente di Baal Ḥammon, la stessa divinità che ritroviamo attestata nel cippo proveniente dal medesimo santuario tofet. Due sacrifici MLK B‘L offerti nello stesso santuario destinati alla stessa divinità. Queste potrebbero essere in definitiva le lettere perdute del frammento iniziale dell’iscrizione da aggiungere al testo oggi conservato: LB ‘L HMN MLK = A Baal Ḥammon sacrificio MLK .
L2 ’BKŠLK è probabilmente nome proprio, forse inedito, parte di una più lunga genealogia.
L 3 Straordinaria l’attestazione dell’offerta di Sicli che oltre a richiamare per certi versi la famosa iscrizione di Marsiglia trova anche riscontro in un’altra iscrizione analoga soprattutto per i contenuti alla nostra iscrizione sulcitana e dove è attestata l’offerta di 3 sicli anche in quel caso ad un santuaro. È un’ iscrizione dipinta su un ostracon ebraico della collezione Moussaieff dove possiamo leggere di un versamento di 3 sicli d’argento di Tarshish, in quel caso versati al tempio di Yahvéh. Bibl.: P. Bordreuil- F. Israel- D.Pardee, Deux ostraca paléo-hébreux de la collection Sh. Moussaieff in Semitica 46 1996 pp. 49-76; fig a p. 50 e Tav 7. Cfr. anche Lemaire : Tarshish – Tarsisi in Studies in historical and biblical Historiography....... Paleografia paleoebraica p. 50.
Va infine posto in evidenza come la grafia di questa iscrizione (lettere: 'aleph, yod, lamed, qof e shin) richiama in particolare l'iscrizione fenicia su un cippo votivo con dedica di ‘šmunḥlṣ a Resheph rinvenuto nel 1902 a Cipro (Palaeo-Kastro) la cui datazione viene inquadrata da Février al VII sec. a.C.. Il cippo, in due frammenti, ora ricomposto, é conservato al Museo del Louvre a Parigi: inv. AO 4411 (base)= RES, 1214; inv. AM 1196 ( testa di Bes) (cfr. André Caquot et Olivier Masson , Deux Inscriptions Phéniciennes de Chypre, in Syria Revue d'Art Oriental et Arcgéologie. Tomo XLV 1968 pp. 295-300, Fig. 1-2).
Le lettere ai morti nell’antico Egitto
Le lettere ai morti nell’antico Egitto
Il forte legame degli antichi Egizi con la sfera funeraria e ultraterrena è un concetto noto a grandi linee anche ai profani. Ma dietro i maestosi monumenti tombali e le vestigia dei suggestivi rituali funerari, in che modo gli individui si rapportavano con la morte nel quotidiano? La scoperta di alcuni rari e interessanti testi, le lettere ai morti, ha aiutato a chiarire in parte la questione, aprendo una finestra sulle vicende di vita privata della gente comune.
Il rapporto tra i vivi e i morti
Nell’antico Egitto la morte non era considerata la definitiva conclusione della vita (come, del resto, in molti culti religiosi antichi e odierni), ma il passaggio a una forma di esistenza superiore ed eterna. Il mondo terreno e l’aldilà non erano, però, del tutto separati e, anzi, sussisteva una stretta interazione tra le due sfere.
Da un lato, la pietà dei vivi verso i propri defunti – che si palesava nelle offerte funerarie, nei rituali e nelle pratiche cultuali che interessavano la tomba e la mummia – era indispensabile per garantire a questi ultimi sostentamento, protezione e benessere nell’aldilà. Dall’altro lato, si credeva che i defunti, a loro volta, fossero in grado di influenzare il mondo terreno e di intervenire nelle vicende dei vivi, positivamente o negativamente. Gli antichi Egizi ritenevano, dunque, di poter rimanere in contatto con i loro familiari deceduti quotidianamente. La forma di comunicazione forse più caratteristica era la stesura di vere e proprie missive, denominate, pertanto, “lettere ai morti”.
La scoperta delle lettere
Tali documenti epistolari (1) furono individuati per la prima volta nel 1914 dagli egittologi Alan Gardiner e Kurt Sethe. Da allora, gli studi e le ricerche archeologiche hanno progressivamente arricchito di nuovi esemplari – provenienti da diversi siti egiziani – questo primo nucleo di testi, fino all’ultima epistola scoperta alla fine del secolo scorso dall’egittologo Edward Wente.
Nonostante ci sia pervenuto un numero esiguo di lettere – complessivamente 14 – la loro diffusa distribuzione geografica suggerisce l’esistenza di una pratica religiosa estesa a tutto il territorio egiziano. In base alla datazione dei documenti epistolari rinvenuti, tale consuetudine si mantenne viva per un arco temporale compreso tra la VI e la XXVI dinastia (2), ma il nucleo più consistente – nonché il più antico – risale alla fase tra il Primo Periodo Intermedio e il Medio Regno (fine del III millennio – prima metà del II millennio). La documentazione epistolare riguarda interamente l’élite(per lo meno, la popolazione istruita), ma non è da escludere che ciò sia dovuto soltanto a una casualità dei ritrovamenti (3).
Il forte legame degli antichi Egizi con la sfera funeraria e ultraterrena è un concetto noto a grandi linee anche ai profani. Ma dietro i maestosi monumenti tombali e le vestigia dei suggestivi rituali funerari, in che modo gli individui si rapportavano con la morte nel quotidiano? La scoperta di alcuni rari e interessanti testi, le lettere ai morti, ha aiutato a chiarire in parte la questione, aprendo una finestra sulle vicende di vita privata della gente comune.
Il rapporto tra i vivi e i morti
Nell’antico Egitto la morte non era considerata la definitiva conclusione della vita (come, del resto, in molti culti religiosi antichi e odierni), ma il passaggio a una forma di esistenza superiore ed eterna. Il mondo terreno e l’aldilà non erano, però, del tutto separati e, anzi, sussisteva una stretta interazione tra le due sfere.
Da un lato, la pietà dei vivi verso i propri defunti – che si palesava nelle offerte funerarie, nei rituali e nelle pratiche cultuali che interessavano la tomba e la mummia – era indispensabile per garantire a questi ultimi sostentamento, protezione e benessere nell’aldilà. Dall’altro lato, si credeva che i defunti, a loro volta, fossero in grado di influenzare il mondo terreno e di intervenire nelle vicende dei vivi, positivamente o negativamente. Gli antichi Egizi ritenevano, dunque, di poter rimanere in contatto con i loro familiari deceduti quotidianamente. La forma di comunicazione forse più caratteristica era la stesura di vere e proprie missive, denominate, pertanto, “lettere ai morti”.
La scoperta delle lettere
Tali documenti epistolari (1) furono individuati per la prima volta nel 1914 dagli egittologi Alan Gardiner e Kurt Sethe. Da allora, gli studi e le ricerche archeologiche hanno progressivamente arricchito di nuovi esemplari – provenienti da diversi siti egiziani – questo primo nucleo di testi, fino all’ultima epistola scoperta alla fine del secolo scorso dall’egittologo Edward Wente.
Nonostante ci sia pervenuto un numero esiguo di lettere – complessivamente 14 – la loro diffusa distribuzione geografica suggerisce l’esistenza di una pratica religiosa estesa a tutto il territorio egiziano. In base alla datazione dei documenti epistolari rinvenuti, tale consuetudine si mantenne viva per un arco temporale compreso tra la VI e la XXVI dinastia (2), ma il nucleo più consistente – nonché il più antico – risale alla fase tra il Primo Periodo Intermedio e il Medio Regno (fine del III millennio – prima metà del II millennio). La documentazione epistolare riguarda interamente l’élite(per lo meno, la popolazione istruita), ma non è da escludere che ciò sia dovuto soltanto a una casualità dei ritrovamenti (3).
martedì 17 dicembre 2013
Regalo di Natale dedicato a voi.
Un regalo ai miei più cari amici e amiche, compresi i parenti bravi, quelli belli e quelli brutti. :-D Dedicato a tutti voi come regalo di Natale...anticipato.
I Tofet, gli antichi cimiteri per neonati
I Tofet, gli antichi cimiteri per neonati
di Pierluigi Montalbano
Si tratta di antichi santuari a cielo aperto, dedicati ai neonati defunti, diffusi nell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. Sono circondati da un recinto sacro all’interno del quale si depongono i resti dei bimbi dentro urne in ceramica. In superficie, le sepolture sono segnalate da stele in pietra. I tofet, generalmente, si trovano in posizione periferica a nord degli abitati e non vengono mai spostati: qualora si dovessero fortificare le città si aggirano modificando il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di feti, fanciulli, infanti, agnelli, capretti e uccelli. Ogni tofet è dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt. Il primo è una divinità che i greci identificano con Krono e i romani con Saturno. Tanìt è la paredra femminile, attestata come manifestazione di Baal, lo affianca dal V a.C. per poi sostituirlo. E’ una divinità orientale raramente attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante con Astarte. Greci e romani la assimilavano a Era o Giunone. Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma si pensò a necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. I ricercatori si convinsero che i tofet vicini a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano avere la stessa matrice. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato a un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione. Si tratta, tuttavia, di un rituale non accettato da Dio. Il libro dei Re cita un luogo chiamato tofet in un passo ambientato nei pressi di Gerusalemme. Le fonti riportano: “Lì farò il Tofet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora, in Geremia: “Costruiscono un altare di Tofet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente”. Sempre la stessa fonte riporta:
“Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò questo luogo non si chiamerà più Tofet, né Valle di Ben innom ma Valle della strage”.
Quindi il Tofet è un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui gli archeologi hanno trovato a Cartagine le urne con le ceneri di centinaia di bambini, hanno pensato al santuario citato in oriente dalla Bibbia.
Si conoscono altre fonti che raccontano di sacrifici. Dice Gaudesio:
“Era usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale”.
Secondo Moscati nei tofet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo o circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne. In qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Le iscrizioni dei tofet riportano formule rituali ripetitive: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta. Il rituale si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera, ha concesso la grazia.
I monumenti votivi si dividono convenzionalmente in cippi e stele funerarie. Il primo è una pietra appena sbozzata, generalmente aniconica, dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infisso nel terreno o incastrato sopra un basamento in pietra. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia. Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri e abitativi, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In qualche caso un idolo a forma di bottiglia sostituisce il betilo. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi.
Nell'immagine: oggetti di sepoltura trovati a Tharros esposti al Museo Archeologico di Cabras
di Pierluigi Montalbano
Si tratta di antichi santuari a cielo aperto, dedicati ai neonati defunti, diffusi nell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. Sono circondati da un recinto sacro all’interno del quale si depongono i resti dei bimbi dentro urne in ceramica. In superficie, le sepolture sono segnalate da stele in pietra. I tofet, generalmente, si trovano in posizione periferica a nord degli abitati e non vengono mai spostati: qualora si dovessero fortificare le città si aggirano modificando il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di feti, fanciulli, infanti, agnelli, capretti e uccelli. Ogni tofet è dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt. Il primo è una divinità che i greci identificano con Krono e i romani con Saturno. Tanìt è la paredra femminile, attestata come manifestazione di Baal, lo affianca dal V a.C. per poi sostituirlo. E’ una divinità orientale raramente attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante con Astarte. Greci e romani la assimilavano a Era o Giunone. Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma si pensò a necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. I ricercatori si convinsero che i tofet vicini a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano avere la stessa matrice. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato a un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione. Si tratta, tuttavia, di un rituale non accettato da Dio. Il libro dei Re cita un luogo chiamato tofet in un passo ambientato nei pressi di Gerusalemme. Le fonti riportano: “Lì farò il Tofet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora, in Geremia: “Costruiscono un altare di Tofet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente”. Sempre la stessa fonte riporta:
“Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò questo luogo non si chiamerà più Tofet, né Valle di Ben innom ma Valle della strage”.
Quindi il Tofet è un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui gli archeologi hanno trovato a Cartagine le urne con le ceneri di centinaia di bambini, hanno pensato al santuario citato in oriente dalla Bibbia.
Si conoscono altre fonti che raccontano di sacrifici. Dice Gaudesio:
“Era usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale”.
Secondo Moscati nei tofet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo o circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne. In qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Le iscrizioni dei tofet riportano formule rituali ripetitive: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta. Il rituale si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera, ha concesso la grazia.
I monumenti votivi si dividono convenzionalmente in cippi e stele funerarie. Il primo è una pietra appena sbozzata, generalmente aniconica, dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infisso nel terreno o incastrato sopra un basamento in pietra. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia. Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri e abitativi, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In qualche caso un idolo a forma di bottiglia sostituisce il betilo. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi.
Nell'immagine: oggetti di sepoltura trovati a Tharros esposti al Museo Archeologico di Cabras
lunedì 16 dicembre 2013
Il Popolo Shardana, un libro di Marcello Cabriolu
Il Popolo Shardana, un libro di Marcello Cabriolu
di Salvatore Pili
Nel I capitolo l’autore puntualizza che l’attuale popolazione sarda, fatta eccezione per la gallurese che ha seguito un’altra sorte, analizzata geneticamente risulterebbe in continuità genetica con la popolazione della cultura di Otzieri( 3200-2850), periodo in cui si ritrovarono fissati i caratteri di popolo nella gente sarda.
Con questa affermazione il Cabriolu prende nettamente le distanze dagli studiosi che hanno visto la Sardegna terra di conquista sottomessa alle invasioni di popoli più o meno vicini. Scende nei dettagli l’autore e sostiene che gli studi genetici sull’uomo della cultura di Otzieri rivelano contatti col popolo Basco, Irlandese, dell’Italia centrale, Turco. Nega decisamente l’eventualità d’invasioni che abbiano influito sul mutamento genetico: in appoggio alla sua affermazione di un popolo geneticamente endemico, cita gli studi del glottologo Mario Alinei che sosterrebbe che la lingua attuale sarda sarebbe il risultato di un processo endemico di questo popolo iniziato nel paleolitico.
La Gallura avrebbe, invece, una popolazione che nel linguaggio e nelle caratteristiche genetiche differisce dal rimanente contesto perché più esposta agli influssi esterni provenienti dalla Corsica. L’aver messo in risalto le affermazioni dell’Alinei circa la storia evolutiva della lingua sarda, immagino voglia significare anche che il Cabriolu sia disposto ad avanzare più di una riserva su quanti sostengono tout-court che la lingua sarda derivi dal latino; ritengo voglia aggiungere che la facilità con la quale la gente sarda abbia preso a parlare correttamente il latino, non sia dipeso dall’arretratezza dovuta al suo isolamento, ma forse per la probabile affinità fra le due lingue; e voglia sopraggiungere il dato storico che i primi re di Roma furono Etruschi e che” Reges soliti sunt esse Etruscorum qui Sardi Appellantur…” e questo quindi, anche se ciò potrà far storcere la bocca a parecchia gente, rafforza la possibilità di una certa affinità fra i due linguaggi.
Secondo il Cabriolu è a partire dalla cultura di Otzieri che la gente Sarda si scopre comunità e come tale addotta criteri comuni nelle costruzioni, nell’artigianato ceramico, nell’utilizzo di tante miniere di cui è ricco il sottosuolo dell’isola.” I presupposti della cultura di Otzieri……hanno condotto…..a dare origine…..civiltà…..nuragica”. Anche questa asserzione vuole mettere in chiaro il suo pensiero per quanto riguarda la gente sarda fautrice della cultura Nuragica( non so se qualche volta si sia lasciato andare a parlare o scrivere di “Nuragici” termine di cui non ne approva l’utilizzo come non si è mai usato il termine “Piramidici” riferito agli Egizi): c’è un filo conduttore che unisce le genti della cultura di S. Michele a quelle della civiltà che ha espresso fra le altre cose i Nuraghes; queste non hanno meno sardità di quelle,soprattutto non vengono dalla Lidia o chissà da dove. I Nuraghes anche se è vero che hanno prestato la loro impronta a questa cultura sono, per l’autore, solo la parte più emergente di questo grande mare culturale. Non è meno forte il riconoscimento alla cultura Sarda dal Bronzo Medio(1600-1330) Età del Ferro(900-510) di essere cultura statuale con tutte le prerogative implicite che questo stato comporta.
Passa poi a indicarci le diverse miniere degli svariati minerali, essendo arduo il numerarle mi limiterò a riassumere che esistono miniere di piombo, argento, zinco, rame ,oro, ferro, stagno nativo puro e stagno in lega con altro minerale, così anche con questo dato può tappare la bocca a coloro che, ignorando la presenza dello stagno nell’isola hanno pontificato che la produzione del bronzo debba essere stata necessariamente insegnata da genti che già conoscevano la pratica della fusione dei diversi componenti.
Mette in evidenza come la centralità dell’isola Sarda nel Mediterraneo rende inevitabile il coinvolgimento di questa negli scambi fra l’Europa e l’Africa in tutte le direzioni; come la ricchezza del suolo e sottosuolo in qualche modo la favorissero nelle relazioni di scambio prima, commerciali poi. Chiude il capitolo accennando alla fortuna commerciale incontrata dalle “sarde” e dalle “sardine”, precisando che in origine l’attenzione e il successo commerciale era riservato al tonno giovane di un anno che veniva chiamato chissà perché “sarda”.
Immagine: I Commilitoni - Museo Archeologico di Cagliari
di Salvatore Pili
Nel I capitolo l’autore puntualizza che l’attuale popolazione sarda, fatta eccezione per la gallurese che ha seguito un’altra sorte, analizzata geneticamente risulterebbe in continuità genetica con la popolazione della cultura di Otzieri( 3200-2850), periodo in cui si ritrovarono fissati i caratteri di popolo nella gente sarda.
Con questa affermazione il Cabriolu prende nettamente le distanze dagli studiosi che hanno visto la Sardegna terra di conquista sottomessa alle invasioni di popoli più o meno vicini. Scende nei dettagli l’autore e sostiene che gli studi genetici sull’uomo della cultura di Otzieri rivelano contatti col popolo Basco, Irlandese, dell’Italia centrale, Turco. Nega decisamente l’eventualità d’invasioni che abbiano influito sul mutamento genetico: in appoggio alla sua affermazione di un popolo geneticamente endemico, cita gli studi del glottologo Mario Alinei che sosterrebbe che la lingua attuale sarda sarebbe il risultato di un processo endemico di questo popolo iniziato nel paleolitico.
La Gallura avrebbe, invece, una popolazione che nel linguaggio e nelle caratteristiche genetiche differisce dal rimanente contesto perché più esposta agli influssi esterni provenienti dalla Corsica. L’aver messo in risalto le affermazioni dell’Alinei circa la storia evolutiva della lingua sarda, immagino voglia significare anche che il Cabriolu sia disposto ad avanzare più di una riserva su quanti sostengono tout-court che la lingua sarda derivi dal latino; ritengo voglia aggiungere che la facilità con la quale la gente sarda abbia preso a parlare correttamente il latino, non sia dipeso dall’arretratezza dovuta al suo isolamento, ma forse per la probabile affinità fra le due lingue; e voglia sopraggiungere il dato storico che i primi re di Roma furono Etruschi e che” Reges soliti sunt esse Etruscorum qui Sardi Appellantur…” e questo quindi, anche se ciò potrà far storcere la bocca a parecchia gente, rafforza la possibilità di una certa affinità fra i due linguaggi.
Secondo il Cabriolu è a partire dalla cultura di Otzieri che la gente Sarda si scopre comunità e come tale addotta criteri comuni nelle costruzioni, nell’artigianato ceramico, nell’utilizzo di tante miniere di cui è ricco il sottosuolo dell’isola.” I presupposti della cultura di Otzieri……hanno condotto…..a dare origine…..civiltà…..nuragica”. Anche questa asserzione vuole mettere in chiaro il suo pensiero per quanto riguarda la gente sarda fautrice della cultura Nuragica( non so se qualche volta si sia lasciato andare a parlare o scrivere di “Nuragici” termine di cui non ne approva l’utilizzo come non si è mai usato il termine “Piramidici” riferito agli Egizi): c’è un filo conduttore che unisce le genti della cultura di S. Michele a quelle della civiltà che ha espresso fra le altre cose i Nuraghes; queste non hanno meno sardità di quelle,soprattutto non vengono dalla Lidia o chissà da dove. I Nuraghes anche se è vero che hanno prestato la loro impronta a questa cultura sono, per l’autore, solo la parte più emergente di questo grande mare culturale. Non è meno forte il riconoscimento alla cultura Sarda dal Bronzo Medio(1600-1330) Età del Ferro(900-510) di essere cultura statuale con tutte le prerogative implicite che questo stato comporta.
Passa poi a indicarci le diverse miniere degli svariati minerali, essendo arduo il numerarle mi limiterò a riassumere che esistono miniere di piombo, argento, zinco, rame ,oro, ferro, stagno nativo puro e stagno in lega con altro minerale, così anche con questo dato può tappare la bocca a coloro che, ignorando la presenza dello stagno nell’isola hanno pontificato che la produzione del bronzo debba essere stata necessariamente insegnata da genti che già conoscevano la pratica della fusione dei diversi componenti.
Mette in evidenza come la centralità dell’isola Sarda nel Mediterraneo rende inevitabile il coinvolgimento di questa negli scambi fra l’Europa e l’Africa in tutte le direzioni; come la ricchezza del suolo e sottosuolo in qualche modo la favorissero nelle relazioni di scambio prima, commerciali poi. Chiude il capitolo accennando alla fortuna commerciale incontrata dalle “sarde” e dalle “sardine”, precisando che in origine l’attenzione e il successo commerciale era riservato al tonno giovane di un anno che veniva chiamato chissà perché “sarda”.
Immagine: I Commilitoni - Museo Archeologico di Cagliari
domenica 15 dicembre 2013
Archeologia e divulgazione. Oggi 700.000 lettori. Per i 700.000 grazie voglio dedicare tre immagini di ceramiche sarde antiche.
Ringrazio tutti i 700.000 lettori del quotidiano on line di storia e archeologia mostrando tre immagini di antiche ceramiche sarde.
Iniziai per gioco, cercando di mantenere comunque un taglio divulgativo che lasciava spazio a teorie verosimili, a studi accademici, a ricerche scientifiche, ad appassionati curiosi. L'affetto che dimostrate quotidianamente mi spinge a tentare un traguardo difficile ma possibile: 1.000.000 di visitatori entro il prossimo anno.
Sarebbe un motivo di orgoglio personale e uno stimolo per chi, come me, ritiene che questa disciplina possa diffondersi a macchia d'olio evitando polemiche sterili e tentando di cucire gli strappi che oggi costituiscono un problema per le cronologie ufficiali.
Sopra: Tipologia Ozieri (3.000-2800 a.C. circa)
Centro: Tipologia campaniforme (Da Abealzu 2700 a.C. fino al 2000 a.C. circa)
Sotto: Tipologia nuragica iniziale (1600-1500 a.C. circa)
Iniziai per gioco, cercando di mantenere comunque un taglio divulgativo che lasciava spazio a teorie verosimili, a studi accademici, a ricerche scientifiche, ad appassionati curiosi. L'affetto che dimostrate quotidianamente mi spinge a tentare un traguardo difficile ma possibile: 1.000.000 di visitatori entro il prossimo anno.
Sarebbe un motivo di orgoglio personale e uno stimolo per chi, come me, ritiene che questa disciplina possa diffondersi a macchia d'olio evitando polemiche sterili e tentando di cucire gli strappi che oggi costituiscono un problema per le cronologie ufficiali.
Sopra: Tipologia Ozieri (3.000-2800 a.C. circa)
Centro: Tipologia campaniforme (Da Abealzu 2700 a.C. fino al 2000 a.C. circa)
Sotto: Tipologia nuragica iniziale (1600-1500 a.C. circa)
sabato 14 dicembre 2013
Scrittura punica al Tempio di Antas
Scrittura punica al Tempio di Antas
di Roberto Casti
Iscrizione dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore) con dedica a Sid Adir Baby e con l’attestazione del nome punico della città di Cagliari.
Questa che presentiamo oggi è l’unica iscrizione, tra quelle rinvenute nel corso delle campagne di scavo 1967-1968, sostanzialmente integra a parte una piccola corrosione che cancella parzialmente l’ultima lettera comunque ancora perfettamente leggibile.
Si tratta di un testo in scrittura punica distribuito su due righe incise sulla parte superiore di un supporto cilindrico in bronzo rastremato superiormente (dim. H. cm. 11 circ. 13/16 cm.) che originariamente sosteneva una statuina dello stesso materiale. Elegante è la grafia tipica del periodo ellenistico. Seconda metà del III sec. a. C.. Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Trascrizione (traduco per la prima volta in caratteri latini dal testo in ebraico di M. Fantar)
L1 L’DN LṢD ’DR B’BY MŠ NḤST ’Š NDR ḤLMKT BN
L2 ‘BD’ŠMN BN BDMLQRT ’Š BM ’KRLY
Traduzione di Mohamed Fantar
Au Seigneur, à Sid, puissant (ou glorieux ) de Aby, statue de bronze qu’a vouée Himilkat fils de Abdeshmun, fils de Bodmelqart, qui est au peuple de Caralis.
Rilettura e nuova proposta di traduzione
Al Signore, a Sid potente (o glorioso), a nostro Padre, (questa è la) statua di bronzo che a offerto Himilkat, figlio di Abdeshmun, figlio di Bodmelqart, che appartiene al popolo di KRL[Y].
Trascrizione e traduzione dell’iscrizione coincidono sostanzialmente con la lettura e interpretazione già proposte da Fantar fatta eccezione per B’BY che lo studioso tunisino considera come toponimo e traduce da Aby, da lui ritenuta località di provenienza e principale luogo di culto della divinità punica Sid; alla stessa stregua di altre attestazioni come Tanit del Libano o Bashamem di Ynosim (attuale isola di San Pietro).
Ritengo invece più probabile che il termine B’BY dell’iscrizione punica possa essere più coerentemente interpretato “a Nostro Padre” dove B potrebbe essere la preposizione ; ’B in lingua punica significa Padre e Y potrebbe essere il pronome personale suffisso. Lo stesso termine B’B[Y], purtroppo incompleto , lo ritroviamo infatti anche nell’iscrizione di età romana Sardus Pater Bab[y] che ancora oggi possiamo leggere sull’epistilio del tempio di Antas; una scritta chiaramente rivolta alle popolazioni indigene, puniche e romane da cui emerge in tutta evidenza un’operazione politica mirata a consolidare l’integrazione tra differenti culture.
Di rilievo anche l’attestazione a fine iscrizione del toponimo KRLY, il nome con cui veniva denominata la città di Cagliari in età punica.
Per completezza d'informazione va in ogni caso sottolineato che in altra iscrizione punica con dedica di una statua a Shadrapha l'appellativo di Sid, solitamente scritto B'BY, compare nella forma senza aleph: BBY che potrebbe escludere di fatto sia la nostra ipotesi che quella di Fantar.
Emerge a questo punto una terza ipotesi. B'BY e/o BBY, sempre con significato di padre, potrebbe essere un etimo indigeno fatto proprio sia dai punici che dai romani.
Alcuni riferimenti bibliografici:
Mohamed Fantar, Les Inscriptions, in AA. VV. Ricerche puniche ad Antas, Rapporto preliminare della Missione archeologica dell’Università di Roma e della Soprintendenza alle Antichità di Cagliari, Studi Semitici 30, Istituto di Studi del Vicino Oriente. Roma 1969 pp. 50-60. Tav. XXIII;
Arlette Roobaert, Ṣid, Sardus Pater ou Baal Ḥammon ? A propos d’un bronze de Genoni (Sardaigne) in Studia Phoenicia IV Religio Phoenicia Collection D’études Clasiques Vol. I Acta Colloqui Namurcensis habiti 14 et 15 mensis Decembris anni 1984 ed. C. Bonnet – E. Lipinski – P. Marchetti, Société des Études Classiques Namur 1986 pp. 333- 345;
Federico Mazza, B'BY nelle iscrizioni di Antas: dati per una nuova proposta, in Rivista di Studi Fenici Vol. XVI Roma 1988 pp. 47-56;
Finn Ove Hvidberg-Hansen, Osservazioni su Sardus Pater, in Analecta Romana Instituti Danici XX, ed. Otto Steen Due Karen Ascani Jaspen Carlsen «L’Erma» di Bretischneider, Roma 1992 pp. 7-30;
E. Lipinski, Dieux et Déesses de l'Univers Phénicien et Punique, Sid in OLA 64, Leuven 1995 pp. 332-369;
P. Bernardini , L.I. Manfredi, G. Garbini, Il Santuario di Antas a Flumiimaggiore: nuovi dati, in P. Bernardini, R. D’Oriano , P.G. Spanu (a cura di) Phoinikes BSHRDN I Fenici in Sardegna, nuove acquisizioni, La Memoria Storica 1997 pp. 105-113;
Giuseppe Minunno, Considerazioni sul culto di Antas, in EVO XXVIII, 2005 pp. 269-285;
A. Stiglitz, Cagliari fenicia e punica in Rivista di Studi Fenici XXXV, 1-2007 F. Serra Editore, Roma -Pisa 2009 p. 43;
di Roberto Casti
Iscrizione dal Tempio di Antas (Fluminimaggiore) con dedica a Sid Adir Baby e con l’attestazione del nome punico della città di Cagliari.
Questa che presentiamo oggi è l’unica iscrizione, tra quelle rinvenute nel corso delle campagne di scavo 1967-1968, sostanzialmente integra a parte una piccola corrosione che cancella parzialmente l’ultima lettera comunque ancora perfettamente leggibile.
Si tratta di un testo in scrittura punica distribuito su due righe incise sulla parte superiore di un supporto cilindrico in bronzo rastremato superiormente (dim. H. cm. 11 circ. 13/16 cm.) che originariamente sosteneva una statuina dello stesso materiale. Elegante è la grafia tipica del periodo ellenistico. Seconda metà del III sec. a. C.. Museo Archeologico Nazionale di Cagliari.
Trascrizione (traduco per la prima volta in caratteri latini dal testo in ebraico di M. Fantar)
L1 L’DN LṢD ’DR B’BY MŠ NḤST ’Š NDR ḤLMKT BN
L2 ‘BD’ŠMN BN BDMLQRT ’Š BM ’KRLY
Traduzione di Mohamed Fantar
Au Seigneur, à Sid, puissant (ou glorieux ) de Aby, statue de bronze qu’a vouée Himilkat fils de Abdeshmun, fils de Bodmelqart, qui est au peuple de Caralis.
Rilettura e nuova proposta di traduzione
Al Signore, a Sid potente (o glorioso), a nostro Padre, (questa è la) statua di bronzo che a offerto Himilkat, figlio di Abdeshmun, figlio di Bodmelqart, che appartiene al popolo di KRL[Y].
Trascrizione e traduzione dell’iscrizione coincidono sostanzialmente con la lettura e interpretazione già proposte da Fantar fatta eccezione per B’BY che lo studioso tunisino considera come toponimo e traduce da Aby, da lui ritenuta località di provenienza e principale luogo di culto della divinità punica Sid; alla stessa stregua di altre attestazioni come Tanit del Libano o Bashamem di Ynosim (attuale isola di San Pietro).
Ritengo invece più probabile che il termine B’BY dell’iscrizione punica possa essere più coerentemente interpretato “a Nostro Padre” dove B potrebbe essere la preposizione ; ’B in lingua punica significa Padre e Y potrebbe essere il pronome personale suffisso. Lo stesso termine B’B[Y], purtroppo incompleto , lo ritroviamo infatti anche nell’iscrizione di età romana Sardus Pater Bab[y] che ancora oggi possiamo leggere sull’epistilio del tempio di Antas; una scritta chiaramente rivolta alle popolazioni indigene, puniche e romane da cui emerge in tutta evidenza un’operazione politica mirata a consolidare l’integrazione tra differenti culture.
Di rilievo anche l’attestazione a fine iscrizione del toponimo KRLY, il nome con cui veniva denominata la città di Cagliari in età punica.
Per completezza d'informazione va in ogni caso sottolineato che in altra iscrizione punica con dedica di una statua a Shadrapha l'appellativo di Sid, solitamente scritto B'BY, compare nella forma senza aleph: BBY che potrebbe escludere di fatto sia la nostra ipotesi che quella di Fantar.
Emerge a questo punto una terza ipotesi. B'BY e/o BBY, sempre con significato di padre, potrebbe essere un etimo indigeno fatto proprio sia dai punici che dai romani.
Alcuni riferimenti bibliografici:
Mohamed Fantar, Les Inscriptions, in AA. VV. Ricerche puniche ad Antas, Rapporto preliminare della Missione archeologica dell’Università di Roma e della Soprintendenza alle Antichità di Cagliari, Studi Semitici 30, Istituto di Studi del Vicino Oriente. Roma 1969 pp. 50-60. Tav. XXIII;
Arlette Roobaert, Ṣid, Sardus Pater ou Baal Ḥammon ? A propos d’un bronze de Genoni (Sardaigne) in Studia Phoenicia IV Religio Phoenicia Collection D’études Clasiques Vol. I Acta Colloqui Namurcensis habiti 14 et 15 mensis Decembris anni 1984 ed. C. Bonnet – E. Lipinski – P. Marchetti, Société des Études Classiques Namur 1986 pp. 333- 345;
Federico Mazza, B'BY nelle iscrizioni di Antas: dati per una nuova proposta, in Rivista di Studi Fenici Vol. XVI Roma 1988 pp. 47-56;
Finn Ove Hvidberg-Hansen, Osservazioni su Sardus Pater, in Analecta Romana Instituti Danici XX, ed. Otto Steen Due Karen Ascani Jaspen Carlsen «L’Erma» di Bretischneider, Roma 1992 pp. 7-30;
E. Lipinski, Dieux et Déesses de l'Univers Phénicien et Punique, Sid in OLA 64, Leuven 1995 pp. 332-369;
P. Bernardini , L.I. Manfredi, G. Garbini, Il Santuario di Antas a Flumiimaggiore: nuovi dati, in P. Bernardini, R. D’Oriano , P.G. Spanu (a cura di) Phoinikes BSHRDN I Fenici in Sardegna, nuove acquisizioni, La Memoria Storica 1997 pp. 105-113;
Giuseppe Minunno, Considerazioni sul culto di Antas, in EVO XXVIII, 2005 pp. 269-285;
A. Stiglitz, Cagliari fenicia e punica in Rivista di Studi Fenici XXXV, 1-2007 F. Serra Editore, Roma -Pisa 2009 p. 43;
venerdì 13 dicembre 2013
Simboli della civiltà nuragica
Nuraghe Palmavera - Alghero
di Pierluigi Montalbano
Al centro della "Capanna delle Riunioni", databile intorno al 1000 a.C., adiacente una delle due torri nuragiche, fanno bella mostra di se tre simboli pietrificati della Civiltà Nuragica:
1) La torre miniaturizzata, vero e proprio totem della comunità
2) Il trono, elemento di potere
3) La vasca, elemento di culto
Armonia ed eleganza espresse con una forza vitale che solo le pietre riescono a sprigionare.
I nostri avi riuscirono a mantenere viva la propria identità per oltre mille anni. Pochi altri nella storia dell'umanità ci riuscirono.
di Pierluigi Montalbano
Al centro della "Capanna delle Riunioni", databile intorno al 1000 a.C., adiacente una delle due torri nuragiche, fanno bella mostra di se tre simboli pietrificati della Civiltà Nuragica:
1) La torre miniaturizzata, vero e proprio totem della comunità
2) Il trono, elemento di potere
3) La vasca, elemento di culto
Armonia ed eleganza espresse con una forza vitale che solo le pietre riescono a sprigionare.
I nostri avi riuscirono a mantenere viva la propria identità per oltre mille anni. Pochi altri nella storia dell'umanità ci riuscirono.
Cipro, più antica di quanto si credeva
Cipro, più antica di quanto si credeva
Alcuni manufatti ritrovati nell'isola di Cipro fanno pensare che gli esseri umani occuparono l'isola mille anni prima di quanto si è finora creduto.
Gli scavi di Ayia Varvara-Asprokremnos, condotti dagli archeologi dell'Università di Toronto e dall'Università di Cipro hanno scoperto, tra gli oggetti, la prima figurina umana completa rinvenuta sull'isola. La datazione del sito dove è stata rinvenuta la statuetta parla di un periodo compreso tra l'8800 e l'8600 a.C., verso l'inizio del Periodo Neolitico, quando tutto il Medio Oriente era in un periodo di transizione dall'economia della caccia a quella agricola.
La statuetta è stata rinvenuta in un insieme di oggetti in pietra lavica che comprendeva anche due strumenti in pietra piatta, uno con un residuo di colorazione ocra. La presenza di questi strumenti non è che un'ulteriore prova di una significativa attività di produzione sull'isola.
Il sito Ayia Varvara-Asprokremnos è stato scoperto nei primi anni '90 del secolo scorso. Siti analoghi sono stati ritrovati nel 1998 dagli archeologi dell'Università di Cipro.
Fonte: http://oltre-la-notte.blogspot.it
Immagine di Jessica Lewis
Alcuni manufatti ritrovati nell'isola di Cipro fanno pensare che gli esseri umani occuparono l'isola mille anni prima di quanto si è finora creduto.
Gli scavi di Ayia Varvara-Asprokremnos, condotti dagli archeologi dell'Università di Toronto e dall'Università di Cipro hanno scoperto, tra gli oggetti, la prima figurina umana completa rinvenuta sull'isola. La datazione del sito dove è stata rinvenuta la statuetta parla di un periodo compreso tra l'8800 e l'8600 a.C., verso l'inizio del Periodo Neolitico, quando tutto il Medio Oriente era in un periodo di transizione dall'economia della caccia a quella agricola.
La statuetta è stata rinvenuta in un insieme di oggetti in pietra lavica che comprendeva anche due strumenti in pietra piatta, uno con un residuo di colorazione ocra. La presenza di questi strumenti non è che un'ulteriore prova di una significativa attività di produzione sull'isola.
Il sito Ayia Varvara-Asprokremnos è stato scoperto nei primi anni '90 del secolo scorso. Siti analoghi sono stati ritrovati nel 1998 dagli archeologi dell'Università di Cipro.
Fonte: http://oltre-la-notte.blogspot.it
Immagine di Jessica Lewis
giovedì 12 dicembre 2013
Il Nuraghe fortezza...un insulto all'intelligenza dei nuragici.
Il Nuraghe fortezza...un insulto all'intelligenza dei nuragici.
di Massimo Pittau
Avrei voluto intitolare l'articolo “i nuragici non erano imbecilli”, per dimostrare che si ha il dovere di respingere quell’inquadramento dato dagli accademici dell'archeologia dal quale viene fuori che questo popolo era formato soprattutto da guerrieri che vivevano nelle fortezze nuragiche.
Chi per primo diede fuoco alle polveri in questa battaglia è stato l’Onorevole Michele Columbu, personaggio di spicco della politica isolana. Nel 1966 a Cagliari tenne una conversazione intitolata “i nuraghe non erano fortezze”. Era presente il Prof. Carlo Maxia che si fece immediatamente promotore della divulgazione di questa teoria. Negli anni 70 visitammo il nuraghe di Silanus e il Prof. Maxia affermò che all’interno delle strutture non era possibile abitare, pena ammalarsi di artrosi e artrite. Evidentemente la funzione era ben altra. Uno storico ha il dovere di chiedersi l’origine di certi errori ma 3 avvenimenti convinsero gli archeologi a sposare questa tesi di nuraghe-fortezza:
1) Il confronto con le torri saracene
2) L’epopea della Brigata Sassari
3) L’avvento del fascismo e la convinzione di bellicosità.
Veniamo al primo punto: le torri saracene hanno l’ingresso sopraelevato di circa 15 metri, mentre i nuraghe hanno l’ingresso al pianterreno. Nei pressi dei nuraghi è facile accendere un fuoco e convincere i difensori ad arrendersi perché altrimenti sarebbero bruciati o asfissiati dal fumo. Inoltre le torri saracene avevano la funzione di avvistare le navi piratesche, e lo fecero per 1000 anni, dal 750 d.C. fino al 1830 d.C., quando Carlo X occupò l’Algeria. I pirati incendiavano, rapivano, derubavano e occorreva difendersi. Il nuraghe è diffuso in tutta la Sardegna e non solo sulle coste, quindi la teoria non regge. Troppo complesso e costoso tenere in piedi un sistema di torri di segnalazione.
I nuragici non erano imbecilli, infatti utilizzavano un sistema di comunicazione semplice e perfetto: c’erano i cani e sappiamo bene che quando uno di essi inizia ad abbaiare viene immediatamente seguito da tutti gli altri. I pastori hanno anche un modo di sorvegliare particolare: stanno in disparte, così da non essere visti mentre badano alle pecore. Poteva intervenire senza essere visto, sorprendendo i malcapitati. Se i nuraghi fossero state torri di avvistamento non avrebbero assolto a questa tecnica dettata dal buon senso perché i nemici si sarebbero nascosti nelle vicinanze per sorprendere i nuragici.
Il secondo evento storico è l’epopea della Brigata Sassari, in cui i sardi si sono riconosciuti ma dobbiamo ricordare che i sardi sono stati usati come carne da cannone. Vi invito a visitare qualunque cimitero di qualsiasi paesino…troverete lapidi di guerra che testimoniano le migliaia di vittime di guerra. Questo rappresenta un vero esempio di imbecillaggine da parte dei sardi per il modo in cui si sono fatti usare. Le imprese più pazze erano affidate ai sardi. Da allora abbiamo avuto addosso questa cappa di grandi guerrieri, eroi che andavano ad affiancare gli antichi eroi delle torri nuragiche sarde.
Il terzo punto da affrontare è quello del dramma dell’epoca fascista che ha dato una parola d’ordine: credere, ubbidire, combattere. In questo clima di nazione bellicosa i più forti guerrieri erano i sardi. Eravamo temuti e rispettati dalle altre regioni perché eravamo gli eredi degli eroi della gloriosa Brigata Sassari.
Gli archeologi sardi hanno, inoltre, un grande problema: non leggono, o non memorizzano ciò che leggono. Sabatino Moscati scrisse: l’ultimo strumento che debbono usare gli archeologi è il piccone. Costituiva un vero invito a leggere ciò che gli studiosi precedenti avevano scritto. Esemplare il caso di Lamarmora che visitò la Sardegna palmo a palmo per fare la carta geografica scientifica. Ebbe l’opportunità di visitare i nuraghe in uno stato decisamente migliore di quello odierno. Inoltre non era ancora avvenuto lo scempio della famigerata “legge delle chiudende” con la quale alcuni individui si appropriarono dei terreni comunali e smontarono i nuraghe per realizzare i muri di divisione. Non era neppure iniziata la grande stagione delle ferrovie per la quale molti nuraghe vennero riutilizzati dai costruttori come pietrame per ghiaia. Anche le strade sarde sono state preparate con la ghiaia proveniente dalla frantumazione delle pietre nuragiche. Lamarmora era un alto ufficiale dell’esercito e conosceva bene gli edifici militari ed escluse categoricamente che si trattava di fortezze. Se i nostri archeologi avessero letto quegli scritti avrebbero certamente escluso la funzione militare dei siti.
Un’altra inesattezza degli accademici è costituita dal nome delle custodie dei pugnali…chiamati ancora oggi “faretrine”. In Italiano si chiamano guaine o foderi mentre le faretrine sono le custodie delle frecce.
Nei vari convegni di archeologi non si parla mai della funzione primaria dei nuraghe. Si afferma che erano edifici per il controllo continuato del territorio, con tanto di guarnigione sempre presente. Supponiamo che ci siano 7.000 nuraghe e per ognuno siano necessari 12 guerrieri (per fare almeno un cambio turno), si arriva a oltre 80.000 uomini in servizio permanente effettivo, forse solo gli USA o la Cina dispongono di un simile esercito. E chi li riforniva? E i vecchi e bambini e le donne?
Dobbiamo distinguere i nuraghe semplici da quelli complessi. Gli archeologi si sono fatti condizionare dai grandi nuraghe complessi (che sono pochissimi) e hanno concluso che visto che Barumini è una grande fortezza, anche gli altri 7000 erano fortezze. Si doveva ragionare al contrario: siccome i piccoli nuraghe non sono fortezze…neanche i grandi complessi lo erano.
Alcuni nuraghe, come ad esempio quello di Armungia e quello di Goni, non hanno la scala. Eventuali guerrieri, una volta dentro, non avrebbero avuto la possibilità di salire al piano superiore. Sarebbero stati prigionieri degli assalitori.
Se a Barumini ci fossero stati 200 soldati dovremmo aggiungere donne, vecchi e bambini, perché non è pensabile che la famiglia del capo vivesse nella reggia mentre il popolo era costretto a rimanere nelle pinnettas intorno al nuraghe. Che senso ha questa sproporzione fra la reggia e le pinnettas?
Parliamo della garitta. A destra degli ingressi ci sono le guardiole per i soldati destinati alla funzione di sorveglianti. Questa sistema difensivo era di una sottigliezza incredibile: funzionava al massimo due volte perché il primo nemico entrava e veniva ucciso, il secondo seguiva la stessa sorte ma il terzo certamente non entrava! Ma visto che tutti i nuraghe erano muniti di garitta i nemici ne erano a conoscenza…e quindi? Si immolavano per la gloria? Che dire poi del fatto che queste nicchie sono a destra? Si potrebbe rispondere che visto che lo scudo veniva imbracciato con la sinistra era più facile uccidere l’invasore, ma anch’egli aveva più facilità di rispondere ai colpi visto che nella destra impugnava una spada. Inoltre ci sono nuraghe con garitte anche a sinistra, e allora? Erano studiate per nemici mancini? Si potrebbe aggiungere che i nuragici erano abili nelle strategie difensive ma erano paragonabili a bestioni nelle fasi offensive poiché ceravano di entrare nonostante sapessero bene che c’erano le sentinelle! Pare che non usassero la lancia per uccidere la sentinella, che era bloccata nella garitta senza la minima possibilità di fuggire. Non è possibile sostenere queste tesi.
Parliamo dei nuraghe a corridoio: erano una trappola! Venivano tenuti appositamente in semioscurità e i nemici erano in qualche modo attirati all’interno e bastonati o uccisi. Possibile che i nemici fossero così imbecilli da entrare la dentro? Cosa mettevano dentro come esca?
Le linee fortificate o cortine difensive sono illogiche già dai termini con i quali vengono denominate. Le tecniche in uso nel secolo scorso, che utilizzano quella terminologia, prevedevano filo spinato e nidi di mitragliatrice, con fuoco continuo e tiro incrociato per sbarrare la strada al nemico. Ma durante l’epoca nuragica il filo spinato non c’era…e le mitragliatrici nemmeno, o dobbiamo pensare che per le raffiche si usassero pietre lanciate con fionde o frecce scagliate con gli archi. Ma per quanti minuti poteva essere alimentato un simile tiro incrociato di sbarramento prima che le munizioni finissero?
In conclusione le deduzioni degli archeologici militaristi sono totalmente infondate.
Nell'immagine: Ingresso e finestra del Nuraghe Cuccurrada di Mogoro
di Massimo Pittau
Avrei voluto intitolare l'articolo “i nuragici non erano imbecilli”, per dimostrare che si ha il dovere di respingere quell’inquadramento dato dagli accademici dell'archeologia dal quale viene fuori che questo popolo era formato soprattutto da guerrieri che vivevano nelle fortezze nuragiche.
Chi per primo diede fuoco alle polveri in questa battaglia è stato l’Onorevole Michele Columbu, personaggio di spicco della politica isolana. Nel 1966 a Cagliari tenne una conversazione intitolata “i nuraghe non erano fortezze”. Era presente il Prof. Carlo Maxia che si fece immediatamente promotore della divulgazione di questa teoria. Negli anni 70 visitammo il nuraghe di Silanus e il Prof. Maxia affermò che all’interno delle strutture non era possibile abitare, pena ammalarsi di artrosi e artrite. Evidentemente la funzione era ben altra. Uno storico ha il dovere di chiedersi l’origine di certi errori ma 3 avvenimenti convinsero gli archeologi a sposare questa tesi di nuraghe-fortezza:
1) Il confronto con le torri saracene
2) L’epopea della Brigata Sassari
3) L’avvento del fascismo e la convinzione di bellicosità.
Veniamo al primo punto: le torri saracene hanno l’ingresso sopraelevato di circa 15 metri, mentre i nuraghe hanno l’ingresso al pianterreno. Nei pressi dei nuraghi è facile accendere un fuoco e convincere i difensori ad arrendersi perché altrimenti sarebbero bruciati o asfissiati dal fumo. Inoltre le torri saracene avevano la funzione di avvistare le navi piratesche, e lo fecero per 1000 anni, dal 750 d.C. fino al 1830 d.C., quando Carlo X occupò l’Algeria. I pirati incendiavano, rapivano, derubavano e occorreva difendersi. Il nuraghe è diffuso in tutta la Sardegna e non solo sulle coste, quindi la teoria non regge. Troppo complesso e costoso tenere in piedi un sistema di torri di segnalazione.
I nuragici non erano imbecilli, infatti utilizzavano un sistema di comunicazione semplice e perfetto: c’erano i cani e sappiamo bene che quando uno di essi inizia ad abbaiare viene immediatamente seguito da tutti gli altri. I pastori hanno anche un modo di sorvegliare particolare: stanno in disparte, così da non essere visti mentre badano alle pecore. Poteva intervenire senza essere visto, sorprendendo i malcapitati. Se i nuraghi fossero state torri di avvistamento non avrebbero assolto a questa tecnica dettata dal buon senso perché i nemici si sarebbero nascosti nelle vicinanze per sorprendere i nuragici.
Il secondo evento storico è l’epopea della Brigata Sassari, in cui i sardi si sono riconosciuti ma dobbiamo ricordare che i sardi sono stati usati come carne da cannone. Vi invito a visitare qualunque cimitero di qualsiasi paesino…troverete lapidi di guerra che testimoniano le migliaia di vittime di guerra. Questo rappresenta un vero esempio di imbecillaggine da parte dei sardi per il modo in cui si sono fatti usare. Le imprese più pazze erano affidate ai sardi. Da allora abbiamo avuto addosso questa cappa di grandi guerrieri, eroi che andavano ad affiancare gli antichi eroi delle torri nuragiche sarde.
Il terzo punto da affrontare è quello del dramma dell’epoca fascista che ha dato una parola d’ordine: credere, ubbidire, combattere. In questo clima di nazione bellicosa i più forti guerrieri erano i sardi. Eravamo temuti e rispettati dalle altre regioni perché eravamo gli eredi degli eroi della gloriosa Brigata Sassari.
Gli archeologi sardi hanno, inoltre, un grande problema: non leggono, o non memorizzano ciò che leggono. Sabatino Moscati scrisse: l’ultimo strumento che debbono usare gli archeologi è il piccone. Costituiva un vero invito a leggere ciò che gli studiosi precedenti avevano scritto. Esemplare il caso di Lamarmora che visitò la Sardegna palmo a palmo per fare la carta geografica scientifica. Ebbe l’opportunità di visitare i nuraghe in uno stato decisamente migliore di quello odierno. Inoltre non era ancora avvenuto lo scempio della famigerata “legge delle chiudende” con la quale alcuni individui si appropriarono dei terreni comunali e smontarono i nuraghe per realizzare i muri di divisione. Non era neppure iniziata la grande stagione delle ferrovie per la quale molti nuraghe vennero riutilizzati dai costruttori come pietrame per ghiaia. Anche le strade sarde sono state preparate con la ghiaia proveniente dalla frantumazione delle pietre nuragiche. Lamarmora era un alto ufficiale dell’esercito e conosceva bene gli edifici militari ed escluse categoricamente che si trattava di fortezze. Se i nostri archeologi avessero letto quegli scritti avrebbero certamente escluso la funzione militare dei siti.
Un’altra inesattezza degli accademici è costituita dal nome delle custodie dei pugnali…chiamati ancora oggi “faretrine”. In Italiano si chiamano guaine o foderi mentre le faretrine sono le custodie delle frecce.
Nei vari convegni di archeologi non si parla mai della funzione primaria dei nuraghe. Si afferma che erano edifici per il controllo continuato del territorio, con tanto di guarnigione sempre presente. Supponiamo che ci siano 7.000 nuraghe e per ognuno siano necessari 12 guerrieri (per fare almeno un cambio turno), si arriva a oltre 80.000 uomini in servizio permanente effettivo, forse solo gli USA o la Cina dispongono di un simile esercito. E chi li riforniva? E i vecchi e bambini e le donne?
Dobbiamo distinguere i nuraghe semplici da quelli complessi. Gli archeologi si sono fatti condizionare dai grandi nuraghe complessi (che sono pochissimi) e hanno concluso che visto che Barumini è una grande fortezza, anche gli altri 7000 erano fortezze. Si doveva ragionare al contrario: siccome i piccoli nuraghe non sono fortezze…neanche i grandi complessi lo erano.
Alcuni nuraghe, come ad esempio quello di Armungia e quello di Goni, non hanno la scala. Eventuali guerrieri, una volta dentro, non avrebbero avuto la possibilità di salire al piano superiore. Sarebbero stati prigionieri degli assalitori.
Se a Barumini ci fossero stati 200 soldati dovremmo aggiungere donne, vecchi e bambini, perché non è pensabile che la famiglia del capo vivesse nella reggia mentre il popolo era costretto a rimanere nelle pinnettas intorno al nuraghe. Che senso ha questa sproporzione fra la reggia e le pinnettas?
Parliamo della garitta. A destra degli ingressi ci sono le guardiole per i soldati destinati alla funzione di sorveglianti. Questa sistema difensivo era di una sottigliezza incredibile: funzionava al massimo due volte perché il primo nemico entrava e veniva ucciso, il secondo seguiva la stessa sorte ma il terzo certamente non entrava! Ma visto che tutti i nuraghe erano muniti di garitta i nemici ne erano a conoscenza…e quindi? Si immolavano per la gloria? Che dire poi del fatto che queste nicchie sono a destra? Si potrebbe rispondere che visto che lo scudo veniva imbracciato con la sinistra era più facile uccidere l’invasore, ma anch’egli aveva più facilità di rispondere ai colpi visto che nella destra impugnava una spada. Inoltre ci sono nuraghe con garitte anche a sinistra, e allora? Erano studiate per nemici mancini? Si potrebbe aggiungere che i nuragici erano abili nelle strategie difensive ma erano paragonabili a bestioni nelle fasi offensive poiché ceravano di entrare nonostante sapessero bene che c’erano le sentinelle! Pare che non usassero la lancia per uccidere la sentinella, che era bloccata nella garitta senza la minima possibilità di fuggire. Non è possibile sostenere queste tesi.
Parliamo dei nuraghe a corridoio: erano una trappola! Venivano tenuti appositamente in semioscurità e i nemici erano in qualche modo attirati all’interno e bastonati o uccisi. Possibile che i nemici fossero così imbecilli da entrare la dentro? Cosa mettevano dentro come esca?
Le linee fortificate o cortine difensive sono illogiche già dai termini con i quali vengono denominate. Le tecniche in uso nel secolo scorso, che utilizzano quella terminologia, prevedevano filo spinato e nidi di mitragliatrice, con fuoco continuo e tiro incrociato per sbarrare la strada al nemico. Ma durante l’epoca nuragica il filo spinato non c’era…e le mitragliatrici nemmeno, o dobbiamo pensare che per le raffiche si usassero pietre lanciate con fionde o frecce scagliate con gli archi. Ma per quanti minuti poteva essere alimentato un simile tiro incrociato di sbarramento prima che le munizioni finissero?
In conclusione le deduzioni degli archeologici militaristi sono totalmente infondate.
Nell'immagine: Ingresso e finestra del Nuraghe Cuccurrada di Mogoro