Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
lunedì 31 dicembre 2012
Felice 2013
Felice 2013 a tutti i lettori, agli appassionati, ai docenti, agli studiosi, agli autori e a tutti gli altri che frequentano il quotidiano on line.
Abbiamo raggiunto le 415.000 visite, è un traguardo che stimola la redazione ad operare con rinnovato entusiamo.
domenica 30 dicembre 2012
Preistoria: La metallurgia antica. Estrazione, fusione e leghe. 2° e ultima parte
Metallurgia antica: estrazione, fusione e leghe. 2° e ultima parte
di Pierluigi Montalbano
Verso il 1500 a.C., cominciò la produzione di leghe a differente tenore di stagno, adatte in maniera specifica alla fabbricazione di armi.
L'introduzione dei metalli per gli utensili delle armi ha segnato l'alba di una nuova era, non tanto per dare un taglio affilato, poiché la selce può essere utilizzata in maniera analoga, ma per la durata e per la varietà della forma ottenibile. Inoltre un utensile di metallo, anche dopo rotto, poteva essere sagomato.
Il rame puro non è facilmente fusibile in una forma chiusa, data la sua tendenza ad assorbire i gas con conseguenti soffiature che generano dei difetti nei getti di fusione. Tenendo conto delle difficoltà della tecnica, non sorprende che i getti di fusione preistorici di forma complessa, fatti con rame non in lega, siano assai rari. Salvo per i piccoli oggetti primitivi quali lesine e spilli, i primi utensili che richiesero un volume considerevole di rame non in lega furono le asce. Le prime daghe di metallo sono piatte e triangolari, in seguito ci fu l'introduzione di una nervatura centrale per aumentare la rigidità laterale e ottenere una lama più sottile. La punta di freccia fu anche riprodotta in metallo, ma gli esemplari sono rari poiché era prezioso per oggetti che sovente andavano perduti.
di Pierluigi Montalbano
Verso il 1500 a.C., cominciò la produzione di leghe a differente tenore di stagno, adatte in maniera specifica alla fabbricazione di armi.
L'introduzione dei metalli per gli utensili delle armi ha segnato l'alba di una nuova era, non tanto per dare un taglio affilato, poiché la selce può essere utilizzata in maniera analoga, ma per la durata e per la varietà della forma ottenibile. Inoltre un utensile di metallo, anche dopo rotto, poteva essere sagomato.
Il rame puro non è facilmente fusibile in una forma chiusa, data la sua tendenza ad assorbire i gas con conseguenti soffiature che generano dei difetti nei getti di fusione. Tenendo conto delle difficoltà della tecnica, non sorprende che i getti di fusione preistorici di forma complessa, fatti con rame non in lega, siano assai rari. Salvo per i piccoli oggetti primitivi quali lesine e spilli, i primi utensili che richiesero un volume considerevole di rame non in lega furono le asce. Le prime daghe di metallo sono piatte e triangolari, in seguito ci fu l'introduzione di una nervatura centrale per aumentare la rigidità laterale e ottenere una lama più sottile. La punta di freccia fu anche riprodotta in metallo, ma gli esemplari sono rari poiché era prezioso per oggetti che sovente andavano perduti.
sabato 29 dicembre 2012
Preistoria: La metallurgia antica. Estrazione, fusione e leghe Parte 1° di 2
Preistoria: La metallurgia antica. Estrazione, fusione e leghe Parte 1° di 2
di Pierluigi Montalbano
La scoperta dei metodi per l'estrazione dei metalli portò gradualmente alla fine della cultura neolitica. Per molti secoli, mentre utilizzavano la pietra, l'osso e il legno come materiali da utensili, gli uomini fecero uso di qualche metallo allo stato nativo (oro, argento, rame e ferro meteorico) per scopi decorativi e per la fabbricazione di piccoli oggetti quali spilli e ami da pesca.
Le ampie possibilità offerte dalla lavorazione dei metalli non erano ancora note. La metallurgia vera e propria iniziò solo quando si comprese che, con la fusione, il riscaldamento e la colata, si poteva impartire al metallo una forma nuova e controllata, al di là dello scopo delle vecchie tecniche di scheggiamento, spaccatura, taglio. Ciò avvenne verso la fine del IV millennio a.C.
Nel giro di un migliaio di anni dalla scoperta dei processi di estrazione, l'uomo era riuscito a padroneggiare la metallurgia e la tecnica della fusione. È probabile che in un primo tempo il metallo puro e la lega fossero usati indiscriminatamente e senza una chiara distinzione.
di Pierluigi Montalbano
La scoperta dei metodi per l'estrazione dei metalli portò gradualmente alla fine della cultura neolitica. Per molti secoli, mentre utilizzavano la pietra, l'osso e il legno come materiali da utensili, gli uomini fecero uso di qualche metallo allo stato nativo (oro, argento, rame e ferro meteorico) per scopi decorativi e per la fabbricazione di piccoli oggetti quali spilli e ami da pesca.
Le ampie possibilità offerte dalla lavorazione dei metalli non erano ancora note. La metallurgia vera e propria iniziò solo quando si comprese che, con la fusione, il riscaldamento e la colata, si poteva impartire al metallo una forma nuova e controllata, al di là dello scopo delle vecchie tecniche di scheggiamento, spaccatura, taglio. Ciò avvenne verso la fine del IV millennio a.C.
Nel giro di un migliaio di anni dalla scoperta dei processi di estrazione, l'uomo era riuscito a padroneggiare la metallurgia e la tecnica della fusione. È probabile che in un primo tempo il metallo puro e la lega fossero usati indiscriminatamente e senza una chiara distinzione.
La trappola nuragica: un caso esemplare di archeologia sperimentale
La trappola nuragica: un caso esemplare di archeologia sperimentale
di Desi Satta.
(Avviso i lettori meno attenti che lo spirito di questo articolo è ironico…ma non troppo)
L’archeologia sperimentale è una disciplina affascinante, sebbene difficile, ostica, perché richiede doti non comuni di cultura archeologica ma anche un profondo bagaglio culturale interdisciplinare e la capacità di confrontarsi con ambiti esterni all’archeologia propriamente detta.
Nell’ambito dell’archeologia sperimentale orientata al periodo nuragico, con riferimento al Bronzo Medio (d’ora in poi BM), un problema particolarmente arduo riguarda l’orientazione delle torri nuragiche, che proprio in quel periodo furono edificate in gran copia determinando un cambiamento drastico, in senso antropico, del panorama Sardo.
Che esse siano astronomicamente orientate, è fuori di ogni ragionevole dubbio, come ha dimostrato il saggio di un illuminato archeoastronomo sardo, purtroppo vessato dalla spietata baronia accademica.
Si pone pertanto l’importante domanda: attraverso quali conoscenze e catene operative, i sardi del BM poterono ottenere questo eclatante risultato? Nelle brevi righe che seguono, esporrò la mia teoria in merito, corredandola dei risultati di un’attività di archeologia sperimentale durata un quindicennio.
Con questa dimostrerò, incontrovertibilmente, da una parte che il Prof. Rota ha interpretato correttamente l’orientazione a sud/sud-est delle torri, dall’altra proporrò una catena operativa, sperimentalmente verificata, al fine di prospettare una possibile spiegazione delle modalità attraverso le quali il popolo nuragico riuscì nello sforzo titanico di orientare tutte le torri in modo da far corrispondere l’ingresso con la direzione opposta al vento di maestrale.
Costruzione delle torri
Rispetto al problema dell’orientazione, quello della costruzione risulta banale. Come ho fatto più volte notare, la teoria del Caos insegna come una torre nuragica sia il risultato dell’ingestione improvvisa di un gallone di Cannonau buono da parte di ciascun componente delle piccole tribù del BM. Sbronzi come cosacchi, anziché vederci doppio, i nuragici, sotto l’influsso della gradevole bevanda, edificarono l’ottuplo, ricoprendo il suolo sardo con torri di cui non sapevano che fare, tant’è che fin da allora cominciarono a chiedersi a che cappero potessero servire. Il vino non migliorò le cose, come ancora oggi avviene, e dei poco illuminati autori, per il solo fatto di ingurgitare spropositate quantità di alcolici, continuano a menare il torrone con questa storia assurda della destinazione d’uso dei nuraghi.
Orientamento delle torri
I nuragici impiegarono secoli a capire quale costellazione si trovasse dalla parte opposta a quella da cui spira il maestrale. Furono anni e anni di studi, intensi e defatiganti, osservazioni puntigliose che portarono molti sull’orlo della depressione nervosa, finché la soluzione apparve nel cielo, fulgida come la costellazione del Sirbone. Se questa sorgeva dalla parte opposta a quella da cui spira il maestrale, verso di essa dovevano essere orientate le torri. A quel punto, individuata la direzione corretta, si pose l’annoso problema: come fare a ruotare le 8000 torri, così che l’ingresso guardasse il sorgere del Sirbone?
La Trappola Nuragica
Eccoci arrivati al dunque. Una volta costruite, le torri dovevano essere orientate facendola ruotare attorno all’asse e, per questo, ci volevano dei personaggi sufficientemente idioti da fare tutta quella faticaccia, per di più gratis e possibilmente senza vino, poiché al volgere del XII secolo a.C. la Peronospera, importata dagli Sherdanu a seguito della scoperta dell’America, faceva strage di viti e riduceva al lumicino le scorte di Cannonau. Che fare? Come spesso accade, l’onere ricadde sui più saggi, coloro che coltivavano le preziose viti e, nei momenti liberi, operavano a favore della comunità osservando le stelle e chiedendosi quale costellazione fosse la più adatta a fungere da faro per l’orientazione delle poderose strutture di pietra. Essi, da tempo immemore, erano raccolti nella setta che aveva la carota come animale totemico e, proprio per questo, ne portavano sempre una con sé. Poiché in tempi di carestia era invalsa l’abitudine di rubare le carote per aggiungerle alla minestra di lenticchie, gli adepti svilupparono una carota OGM particolarmente adatta a essere introdotta nel corpo, così che fosse più difficile da trafugare. Essa, a parte le ragguardevoli dimensioni, spuntava dal terreno con la rossa e invitante radice rivolta verso l’alto (per questo venne chiamata “Gayrota”) e rendeva particolarmente agevole strapparla direttamente con la parte del corpo preposta anche alla conservazione.
La consuetudine di tenere con sé le carote, rese gli adepti della setta particolarmente adatti a ruotare le torri. Essi, infatti, usavano i preziosi ortaggi, che sporgevano per circa una decina di centimetri (erano lunghi circa 25 cm in tutto) per ancorarsi tenacemente al terreno mentre con un complicato sistema di corde e carrucole, imbragavano le strutture di pietra e le facevano ruotare a forza di braccia fino a che l’ingresso non fosse orientato verso il sorgere del Sirbone.
Sfortunatamente, l’eruzione di Santorini oscurò il cielo e provocò un gigantesco Tsunami che, un millennio dopo, diede modo a Platone di raccontare la favola di Atlantide. A causa di questi sconvolgimenti le preziose Gayrote scomparvero. I Nuragici, consci che non sarebbero più riusciti a orientare le torri, smisero di edificarle, ed era ora, perché c’era ormai troppa gente che si domandava per quale accidente di motivo ce ne fossero così tante.
Nel periodo di transizione, verso al fine del XII secolo, la foia costruttiva era al termine e gli adepti scarseggiavano (come le gayrote, difficili da coltivare poiché sparivano immediatamente non appena facevano spuntare il nasino dalla terra).
I nuragici svilupparono allora la ben nota Trappola Nuragica, il cui ricordo è testimoniato da Senofonte nella sua Anabasi e da Esiodo, ripresa da Tucidide, Tacito, Apollodoro, Cirillo e Dante, senza dimenticare l’opera perduta di Ipazia, De Carota. Questa trappola, era diretta alla cattura degli adepti necessari alla rotazione delle torri.
Fonte: http://exxworks.wordpress.com/
Nell'immagine il Nuraghe Piscu di Suelli.
di Desi Satta.
(Avviso i lettori meno attenti che lo spirito di questo articolo è ironico…ma non troppo)
L’archeologia sperimentale è una disciplina affascinante, sebbene difficile, ostica, perché richiede doti non comuni di cultura archeologica ma anche un profondo bagaglio culturale interdisciplinare e la capacità di confrontarsi con ambiti esterni all’archeologia propriamente detta.
Nell’ambito dell’archeologia sperimentale orientata al periodo nuragico, con riferimento al Bronzo Medio (d’ora in poi BM), un problema particolarmente arduo riguarda l’orientazione delle torri nuragiche, che proprio in quel periodo furono edificate in gran copia determinando un cambiamento drastico, in senso antropico, del panorama Sardo.
Che esse siano astronomicamente orientate, è fuori di ogni ragionevole dubbio, come ha dimostrato il saggio di un illuminato archeoastronomo sardo, purtroppo vessato dalla spietata baronia accademica.
Si pone pertanto l’importante domanda: attraverso quali conoscenze e catene operative, i sardi del BM poterono ottenere questo eclatante risultato? Nelle brevi righe che seguono, esporrò la mia teoria in merito, corredandola dei risultati di un’attività di archeologia sperimentale durata un quindicennio.
Con questa dimostrerò, incontrovertibilmente, da una parte che il Prof. Rota ha interpretato correttamente l’orientazione a sud/sud-est delle torri, dall’altra proporrò una catena operativa, sperimentalmente verificata, al fine di prospettare una possibile spiegazione delle modalità attraverso le quali il popolo nuragico riuscì nello sforzo titanico di orientare tutte le torri in modo da far corrispondere l’ingresso con la direzione opposta al vento di maestrale.
Costruzione delle torri
Rispetto al problema dell’orientazione, quello della costruzione risulta banale. Come ho fatto più volte notare, la teoria del Caos insegna come una torre nuragica sia il risultato dell’ingestione improvvisa di un gallone di Cannonau buono da parte di ciascun componente delle piccole tribù del BM. Sbronzi come cosacchi, anziché vederci doppio, i nuragici, sotto l’influsso della gradevole bevanda, edificarono l’ottuplo, ricoprendo il suolo sardo con torri di cui non sapevano che fare, tant’è che fin da allora cominciarono a chiedersi a che cappero potessero servire. Il vino non migliorò le cose, come ancora oggi avviene, e dei poco illuminati autori, per il solo fatto di ingurgitare spropositate quantità di alcolici, continuano a menare il torrone con questa storia assurda della destinazione d’uso dei nuraghi.
Orientamento delle torri
I nuragici impiegarono secoli a capire quale costellazione si trovasse dalla parte opposta a quella da cui spira il maestrale. Furono anni e anni di studi, intensi e defatiganti, osservazioni puntigliose che portarono molti sull’orlo della depressione nervosa, finché la soluzione apparve nel cielo, fulgida come la costellazione del Sirbone. Se questa sorgeva dalla parte opposta a quella da cui spira il maestrale, verso di essa dovevano essere orientate le torri. A quel punto, individuata la direzione corretta, si pose l’annoso problema: come fare a ruotare le 8000 torri, così che l’ingresso guardasse il sorgere del Sirbone?
La Trappola Nuragica
Eccoci arrivati al dunque. Una volta costruite, le torri dovevano essere orientate facendola ruotare attorno all’asse e, per questo, ci volevano dei personaggi sufficientemente idioti da fare tutta quella faticaccia, per di più gratis e possibilmente senza vino, poiché al volgere del XII secolo a.C. la Peronospera, importata dagli Sherdanu a seguito della scoperta dell’America, faceva strage di viti e riduceva al lumicino le scorte di Cannonau. Che fare? Come spesso accade, l’onere ricadde sui più saggi, coloro che coltivavano le preziose viti e, nei momenti liberi, operavano a favore della comunità osservando le stelle e chiedendosi quale costellazione fosse la più adatta a fungere da faro per l’orientazione delle poderose strutture di pietra. Essi, da tempo immemore, erano raccolti nella setta che aveva la carota come animale totemico e, proprio per questo, ne portavano sempre una con sé. Poiché in tempi di carestia era invalsa l’abitudine di rubare le carote per aggiungerle alla minestra di lenticchie, gli adepti svilupparono una carota OGM particolarmente adatta a essere introdotta nel corpo, così che fosse più difficile da trafugare. Essa, a parte le ragguardevoli dimensioni, spuntava dal terreno con la rossa e invitante radice rivolta verso l’alto (per questo venne chiamata “Gayrota”) e rendeva particolarmente agevole strapparla direttamente con la parte del corpo preposta anche alla conservazione.
La consuetudine di tenere con sé le carote, rese gli adepti della setta particolarmente adatti a ruotare le torri. Essi, infatti, usavano i preziosi ortaggi, che sporgevano per circa una decina di centimetri (erano lunghi circa 25 cm in tutto) per ancorarsi tenacemente al terreno mentre con un complicato sistema di corde e carrucole, imbragavano le strutture di pietra e le facevano ruotare a forza di braccia fino a che l’ingresso non fosse orientato verso il sorgere del Sirbone.
Sfortunatamente, l’eruzione di Santorini oscurò il cielo e provocò un gigantesco Tsunami che, un millennio dopo, diede modo a Platone di raccontare la favola di Atlantide. A causa di questi sconvolgimenti le preziose Gayrote scomparvero. I Nuragici, consci che non sarebbero più riusciti a orientare le torri, smisero di edificarle, ed era ora, perché c’era ormai troppa gente che si domandava per quale accidente di motivo ce ne fossero così tante.
Nel periodo di transizione, verso al fine del XII secolo, la foia costruttiva era al termine e gli adepti scarseggiavano (come le gayrote, difficili da coltivare poiché sparivano immediatamente non appena facevano spuntare il nasino dalla terra).
I nuragici svilupparono allora la ben nota Trappola Nuragica, il cui ricordo è testimoniato da Senofonte nella sua Anabasi e da Esiodo, ripresa da Tucidide, Tacito, Apollodoro, Cirillo e Dante, senza dimenticare l’opera perduta di Ipazia, De Carota. Questa trappola, era diretta alla cattura degli adepti necessari alla rotazione delle torri.
Fonte: http://exxworks.wordpress.com/
Nell'immagine il Nuraghe Piscu di Suelli.
venerdì 28 dicembre 2012
Tomba monumentale preistorica scoperta a Suelli
Tomba monumentale preistorica scoperta a Suelli
Una scoperta nel sito archeologico di Pranu Siara, nel comune di Suelli si preannuncia di importanza notevole per la ricostruzione storico-antropologica della preistoria sarda.
Il sindaco di Suelli, Massimiliano Garau, appassionato di archeologia, ha annunciato la rilevante scoperta in un Convegno nella Casa museo del suo comune. Gli scavi del sito sono recenti, pur se tuttavia negli anni Settanta fu violata una tomba e trafugato il suo contenuto, e il sito cadde nel dimenticatoio. Fino ad un mese fa circa, quando Garau ha insistito per far riprendere gli scavi sotto la direzione scientifica della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano, guidata dalla dott.ssa Donatella Cocco e coadiuvata da un team di giovani impegnati nel Progetto Archeo Siara.
La tomba di Pranu Siara, ubicata su un altipiano poco al di fuori dal centro abitato di Suelli, presenta un'architettura unica nel suo genere nel panorama sardo. Oltre a numerosi frammenti del periodo campaniforme (2000 a.C.), utili ad un maggior approfondimento degli studi inerenti la tarda età del Rame, è stato rinvenuto un enorme quantitativo di ossa umane in perfetto stato di conservazione, probabilmente riconducibili a persone di notevole statura, con un'altezza media di 180 cm.
Il materiale ceramico di cultura Monte Claro e Bonnanaro, è risalente ad un arco temporale che copre il periodo dalla metà del III millennio a.C. agli inizi del II millennio a.C. (circa 2500-1900 a.C.), oltre a resti di monili e al rinvenimento di un esemplare di pugnale in rame o bronzo con fori per l'immanicatura e con i relativi ribattini ancora inseriti.
La monumentalità della tomba non ha al momento altri confronti nel resto dell'isola, poiché anche i riferimenti segnalati nel territorio di Barumini e Gesturi risultano sommari e scarsamente rilevanti. L'eccezionalità del sito di Pranu Siara è in particolare riferita al fatto che la tomba non risulta isolata ma fa parte di una estesa necropoli perfettamente allineata per qualche centinaio di metri e sormontato, in corrispondenza del salto di quota, da una sorta di cinta fortificata che sembra configurarsi a protezione del pianoro, secondo modelli insediativi di consimili documentati nell'area nord occidentale dell'isola, nelle zone di Olmedo e Castelsardo.
"Il sito svela potenzialità enormi sia sotto il profilo della ricerca archeologica in ambito preistorico sia per lo sviluppo dell'area di interesse dal punto di vista turistico e occupazionale", rivela con orgoglio e passione il sindaco di Suelli, che conferma il minuzioso lavoro del team che sta riportando alla luce tutti i reperti. L'idea di far diventare il sito di Pranu Siara un polo di attrazione per le giovani generazioni alletta Massimiliano Garau, che sogna in grande.
Una scoperta nel sito archeologico di Pranu Siara, nel comune di Suelli si preannuncia di importanza notevole per la ricostruzione storico-antropologica della preistoria sarda.
Il sindaco di Suelli, Massimiliano Garau, appassionato di archeologia, ha annunciato la rilevante scoperta in un Convegno nella Casa museo del suo comune. Gli scavi del sito sono recenti, pur se tuttavia negli anni Settanta fu violata una tomba e trafugato il suo contenuto, e il sito cadde nel dimenticatoio. Fino ad un mese fa circa, quando Garau ha insistito per far riprendere gli scavi sotto la direzione scientifica della Soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano, guidata dalla dott.ssa Donatella Cocco e coadiuvata da un team di giovani impegnati nel Progetto Archeo Siara.
La tomba di Pranu Siara, ubicata su un altipiano poco al di fuori dal centro abitato di Suelli, presenta un'architettura unica nel suo genere nel panorama sardo. Oltre a numerosi frammenti del periodo campaniforme (2000 a.C.), utili ad un maggior approfondimento degli studi inerenti la tarda età del Rame, è stato rinvenuto un enorme quantitativo di ossa umane in perfetto stato di conservazione, probabilmente riconducibili a persone di notevole statura, con un'altezza media di 180 cm.
Il materiale ceramico di cultura Monte Claro e Bonnanaro, è risalente ad un arco temporale che copre il periodo dalla metà del III millennio a.C. agli inizi del II millennio a.C. (circa 2500-1900 a.C.), oltre a resti di monili e al rinvenimento di un esemplare di pugnale in rame o bronzo con fori per l'immanicatura e con i relativi ribattini ancora inseriti.
La monumentalità della tomba non ha al momento altri confronti nel resto dell'isola, poiché anche i riferimenti segnalati nel territorio di Barumini e Gesturi risultano sommari e scarsamente rilevanti. L'eccezionalità del sito di Pranu Siara è in particolare riferita al fatto che la tomba non risulta isolata ma fa parte di una estesa necropoli perfettamente allineata per qualche centinaio di metri e sormontato, in corrispondenza del salto di quota, da una sorta di cinta fortificata che sembra configurarsi a protezione del pianoro, secondo modelli insediativi di consimili documentati nell'area nord occidentale dell'isola, nelle zone di Olmedo e Castelsardo.
"Il sito svela potenzialità enormi sia sotto il profilo della ricerca archeologica in ambito preistorico sia per lo sviluppo dell'area di interesse dal punto di vista turistico e occupazionale", rivela con orgoglio e passione il sindaco di Suelli, che conferma il minuzioso lavoro del team che sta riportando alla luce tutti i reperti. L'idea di far diventare il sito di Pranu Siara un polo di attrazione per le giovani generazioni alletta Massimiliano Garau, che sogna in grande.
giovedì 27 dicembre 2012
Storia della tecnologia del bronzo:la coltivazione delle miniere
Storia della tecnologia del bronzo:la coltivazione delle miniere
di Pierluigi Montalbano
Come accade per tutti i risultati tecnici raggiunti dalla civiltà, nessuna classificazione per data ha un qualche valore scientifico; ciò che più conta, invece, è il riferimento agli stadi di cultura. Per quanto riguarda l'Europa settentrionale e occidentale, i procedimenti tecnici in uso nella età del Bronzo possono anche risultare analoghi a quelli che in Egitto e nel Vicino Oriente hanno già dietro di sé diversi secoli di storia scritta. Nella stessa Europa nord-occidentale l’età del Ferro è stata posteriore a quella del mondo greco e romano. La classificazione per stadi culturali coincide pressappoco con la disposizione geografica: l'evoluzione avanza verso Occidente e nella sua corsa tende a far sparire i precedenti lavori compiuti in opere di ristretto interesse locale, quali possono essere quelli relativi allo sfruttamento di un filone metallifero. In Grecia, l'estrazione dello zinco nel XX secolo d.C. ha distrutto buona parte degli antichi lavori compiuti nel VI secolo a.C. per lo sfruttamento delle miniere di argento; per fortuna, tale distruzione è avvenuta in epoca successiva alla descrizione che ne era stata fatta.
In epoca preistorica tutti i tipi di scavi erano fatti per avere noduli di selce adatti alla fabbricazione di utensili, quali testi di scuri, coltelli, punte di frecce o di lance e simili. I primi pozzi erano poco profondi e senza galleria. Erano scavati con picconi di osso, ricavati per la maggior parte dagli ossi lunghi di bue. I pozzi perforati dall'uomo del Neolitico giungono fino a 10 metri di profondità e sono dotati di gallerie che accompagnano il filone. Nella costruzione di pozzi e gallerie si utilizzavano svariati tipi di utensili: la selce è di qualità adatta alla fabbricazione di coltelli lunghi e raschietti, ma non a quella di scuri.
Il più antico metallo lavorato dall'uomo fu l'oro, seguito dal rame allo stato nativo e dallo stagno. Il metodo più antico per ottenere il metallo consisteva nel lavaggio dei depositi alluvionali. Il rame era usato tra i Sumeri della Mesopotamia meridionale fin dal 3500 a.C. Proveniva dall'Asia minore e dall'Armenia. Molto più tardi le stesse fonti rifornirono gli Assiri i cui commercianti acquistavano rame cattivo (nero) e rame buono (raffinato), il primo a metà prezzo del secondo. I lingotti avevano la forma di pelle di bue. Spesso il rame era compreso nel bottino di guerra delle campagne intraprese dagli Assiri nel territorio montano del Monte Ararat: per esempio, Sargon II elenca tra il bottino 126 tonnellate di rame grezzo e centinaia di daghe, punte di lancia e recipienti.
Gli egiziani conobbero questo metallo verso il 2600 a.C. Nel deserto orientale dell'Egitto sono state rinvenute alcune miniere di rame, ma il metallo proveniva per la maggior parte dal Sinai. La maggior parte dei pozzi di accesso in queste miniere è orizzontale e segue la vena cuprifera per circa 50 metri nella roccia. Le capanne dei minatori, i templi e i campi fortificati contrassegnano le località. I minatori usavano principalmente attrezzi di pietra e la fusione veniva effettuata sul posto.
Una magnifica descrizione dei metodi usati nello sfruttamento delle miniere dell’età del Bronzo è conservata nel 28° libro di Giobbe. Questo poema, che risale al 400 a.C. circa, descriveva le miniere di rame egizie del Sinai. A Cipro la coltivazione delle miniere di rame cominciò almeno dal 4000 a.C. e da lì si rifornì l'Egitto durante la XVIII dinastia (1580-1350 a.C.). Un notevole tributo fu inviato da Cipro a Thothmes III. Le miniere, che rifornivano anche Troia, Creta e la Grecia, erano anche famose ai tempi omerici e contenevano enormi cumuli di sterili e di scorie.
In Europa vi sono miniere di rame appartenenti all’età del Bronzo dislocate in Austria, Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Russia meridionale e, soprattutto, nel Tirolo dove le miniere di Mitteberg erano coltivate almeno dall’età del Bronzo. L'abbattimento col fuoco era usato per fendere le rocce dure, e per affrettare l'azione di rottura talvolta si versava acqua sulla superficie riscaldata.
Gli utensili erano perlopiù di bronzo fuso. I martelli di bronzo erano usati per sgretolare il minerale della miniera, che poi veniva separato mediante setacci di legno e trasportato in superficie in sacchi di pelle. Giunto in superficie veniva frantumato con piccole pietre-martello, senza però essere macinato. In seguito veniva lavato.
Nell’età del Ferro, i minerali di ferro erano così ampiamente distribuiti e frequenti in superficie che di rado era necessario estrarli dalle miniere, così la storia dello sviluppo del ferro riguarda principalmente la sua metallurgia. I greci e i romani fecero grandi progressi nella tecnica di coltivazione delle miniere, ma i primi metodi si conservarono a lungo e sopravvivono ancora fra le tribù primitive. Inoltre lo scopo delle migliorie tecniche è di ottenere i risultati desiderati con minore fatica.
Nell'immagine: panelle e manufatti in rame.
di Pierluigi Montalbano
Come accade per tutti i risultati tecnici raggiunti dalla civiltà, nessuna classificazione per data ha un qualche valore scientifico; ciò che più conta, invece, è il riferimento agli stadi di cultura. Per quanto riguarda l'Europa settentrionale e occidentale, i procedimenti tecnici in uso nella età del Bronzo possono anche risultare analoghi a quelli che in Egitto e nel Vicino Oriente hanno già dietro di sé diversi secoli di storia scritta. Nella stessa Europa nord-occidentale l’età del Ferro è stata posteriore a quella del mondo greco e romano. La classificazione per stadi culturali coincide pressappoco con la disposizione geografica: l'evoluzione avanza verso Occidente e nella sua corsa tende a far sparire i precedenti lavori compiuti in opere di ristretto interesse locale, quali possono essere quelli relativi allo sfruttamento di un filone metallifero. In Grecia, l'estrazione dello zinco nel XX secolo d.C. ha distrutto buona parte degli antichi lavori compiuti nel VI secolo a.C. per lo sfruttamento delle miniere di argento; per fortuna, tale distruzione è avvenuta in epoca successiva alla descrizione che ne era stata fatta.
In epoca preistorica tutti i tipi di scavi erano fatti per avere noduli di selce adatti alla fabbricazione di utensili, quali testi di scuri, coltelli, punte di frecce o di lance e simili. I primi pozzi erano poco profondi e senza galleria. Erano scavati con picconi di osso, ricavati per la maggior parte dagli ossi lunghi di bue. I pozzi perforati dall'uomo del Neolitico giungono fino a 10 metri di profondità e sono dotati di gallerie che accompagnano il filone. Nella costruzione di pozzi e gallerie si utilizzavano svariati tipi di utensili: la selce è di qualità adatta alla fabbricazione di coltelli lunghi e raschietti, ma non a quella di scuri.
Il più antico metallo lavorato dall'uomo fu l'oro, seguito dal rame allo stato nativo e dallo stagno. Il metodo più antico per ottenere il metallo consisteva nel lavaggio dei depositi alluvionali. Il rame era usato tra i Sumeri della Mesopotamia meridionale fin dal 3500 a.C. Proveniva dall'Asia minore e dall'Armenia. Molto più tardi le stesse fonti rifornirono gli Assiri i cui commercianti acquistavano rame cattivo (nero) e rame buono (raffinato), il primo a metà prezzo del secondo. I lingotti avevano la forma di pelle di bue. Spesso il rame era compreso nel bottino di guerra delle campagne intraprese dagli Assiri nel territorio montano del Monte Ararat: per esempio, Sargon II elenca tra il bottino 126 tonnellate di rame grezzo e centinaia di daghe, punte di lancia e recipienti.
Gli egiziani conobbero questo metallo verso il 2600 a.C. Nel deserto orientale dell'Egitto sono state rinvenute alcune miniere di rame, ma il metallo proveniva per la maggior parte dal Sinai. La maggior parte dei pozzi di accesso in queste miniere è orizzontale e segue la vena cuprifera per circa 50 metri nella roccia. Le capanne dei minatori, i templi e i campi fortificati contrassegnano le località. I minatori usavano principalmente attrezzi di pietra e la fusione veniva effettuata sul posto.
Una magnifica descrizione dei metodi usati nello sfruttamento delle miniere dell’età del Bronzo è conservata nel 28° libro di Giobbe. Questo poema, che risale al 400 a.C. circa, descriveva le miniere di rame egizie del Sinai. A Cipro la coltivazione delle miniere di rame cominciò almeno dal 4000 a.C. e da lì si rifornì l'Egitto durante la XVIII dinastia (1580-1350 a.C.). Un notevole tributo fu inviato da Cipro a Thothmes III. Le miniere, che rifornivano anche Troia, Creta e la Grecia, erano anche famose ai tempi omerici e contenevano enormi cumuli di sterili e di scorie.
In Europa vi sono miniere di rame appartenenti all’età del Bronzo dislocate in Austria, Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Russia meridionale e, soprattutto, nel Tirolo dove le miniere di Mitteberg erano coltivate almeno dall’età del Bronzo. L'abbattimento col fuoco era usato per fendere le rocce dure, e per affrettare l'azione di rottura talvolta si versava acqua sulla superficie riscaldata.
Gli utensili erano perlopiù di bronzo fuso. I martelli di bronzo erano usati per sgretolare il minerale della miniera, che poi veniva separato mediante setacci di legno e trasportato in superficie in sacchi di pelle. Giunto in superficie veniva frantumato con piccole pietre-martello, senza però essere macinato. In seguito veniva lavato.
Nell’età del Ferro, i minerali di ferro erano così ampiamente distribuiti e frequenti in superficie che di rado era necessario estrarli dalle miniere, così la storia dello sviluppo del ferro riguarda principalmente la sua metallurgia. I greci e i romani fecero grandi progressi nella tecnica di coltivazione delle miniere, ma i primi metodi si conservarono a lungo e sopravvivono ancora fra le tribù primitive. Inoltre lo scopo delle migliorie tecniche è di ottenere i risultati desiderati con minore fatica.
Nell'immagine: panelle e manufatti in rame.
martedì 25 dicembre 2012
Archeoattack, come si diventa fisicomici simbolisti in 20 passi.
Archeoattack, facciamo i fisicomici simbolisti.
di Desi Satta
Innumerevole turba di lettori (*), eccomi di nuovo a voi!
Dite la verità: avevate nostalgia, vero? Non sapevate più come fare ed eravate preda di terribili crisi di astinenza, lo so, tuttavia non preoccupatevi, gli Archeo-Attack sono come la provvidenza: quando c’è bisogno di loro cadono dal cielo come la manna.
Avete finalmente demolito il nuraghe costruito nell’orto? La vostra ex-moglie ha raschiato il barile e non vi tormenta più come prima perché sa che siete dei poveri, miserabili barboni? I vostri amici si sono definitivamente stufati di fare gli spazzini (operatori ecologici), della decifrazione dei reperti nuragici e cominciano a sospettare che una lattina di Coca Cola non sia vecchia di tremilacinquecento anni?
E dov’è il problema? Eccomi a voi con un nuovo Archeo-Attack che risolverà buona parte dei vostri problemi esistenziali, se non quelli economici (però ci stiamo lavorando) e vi consentirà di raccattare ancora qualche bicchiere di liquido alcolico per distruggere ulteriormente la vostra già compromessa massa epatica.
Oggi v’insegno come si diventa FISICOMICI SIMBOLISTI, in 20 passi o, più in generale, STUDIOCOMICI SIMBOLISTI, categoria più ampia comprendente la prima.
Per cui, se siete pensionati, disoccupati cronici con poca voglia di lavorare, bamboccioni attaccati alla gonna della mammà e alla tastiera del PC, ex giornalisti frustrati, ex insegnanti dimenticati, protoprofessori universitari con poche chance di cassare il proto- per manifesta incapacità, questo è l’Archeoattack che fa per voi: seguitelo passo dopo passo e non ve ne pentirete!
E poi, vai a sapere dove possono condurre gli insondabili sentieri del caso, potreste addirittura diventare famosi e guadagnare un po’ di grana. In ogni caso, poiché avete un sacco di tempo e poco da fare, nella peggiore delle ipotesi vi sarete dedicati a un’attività piacevole e ricca di soddisfazioni.
Ah, senza bisogno di “aBBondante” colla vinilica.
1) Recatevi nella più vicina biblioteca pubblica (sì, lo so che non vi piace, accidenti, in biblioteca ci sono i libri, oggetti terribili che a voi provocano l’orticaria, però non sarà così faticoso come pensate, solo un paio d’ore, ve l’assicuro, quindi fidatevi e procedete, non avrete da pentirvene!)
2) Fatevi spiegare come funziona il catalogo elettronico (ho capito che non avete voglia di studiare, accidenti, ho capito! E allora chiedete al personale della biblioteca e fatevi trovare da loro i libri che parlano di simbolismo, simbologie, simboli e interpretazioni dei simboli)
3) Ottenuto l’elenco dei libri disponibili, fatevi indicare dove trovarli (potreste anche studiare la catalogazione Dewey, ma per gente come voi non è cosa, quindi siate orgogliosi di non sapere neppure cosa sia e andate avanti).
4) Scartate immediatamente i manuali privi di illustrazioni a colori e stampati su carta comune (potrebbero essere roba seria e per voi sono terribilmente pericolosi: sappiate che di orticaria si può anche morire; per maggiore precauzione portate con voi un mazzo di teste d’aglio ed agitatelo di fronte agli scaffali prima di toccare i libri).
5) Isolate i libri di grande formato costituiti quasi esclusivamente da fotografie e stampati su carta patinata. Con buona probabilità sono ciò che fa per voi. Se siete stati bravi e avete seguito le istruzioni (pur nel pericolo di essere circondati da… “libri”) potreste aver trovato qualcosa del genere (fig 1).(Natale Spineto – I SIMBOLI, nella storia dell’uomo – Jaka Book 2002): un elenco di pretesi simboli che spaziano dalla preistoria ai giorni nostri,
6) Indossate un paio di guanti di lattice (il libro reperito non dovrebbe essere pericoloso, neppure per voi, ma non si sa mai: prevenire è meglio che curare), pelate uno spicchio d’aglio e tenetelo in bocca mentre compulsate il libro (abbatterà i terribili miasmi della carta stampata, responsabili dell’orticaria).
7) Sfogliate il libro ed ammirate le figure. Non state a leggere il cumulo di scempiaggini contenute nel testo, sebbene siano evidenti assurdità, per voi sono comunque troppo.
8) Cercate di capire cosa vi attira di più: le figure geometriche? Carine vero? Tutti i puntolini rossi e neri disegnati sulle pareti delle caverne, i rettangoli, i cerchi, le linee. Vi sembrano aride? Allora gli animali, da quelli stilizzati della preistoria (ma mica poi tanto) alle pitture egiziane, o giapponesi, le stilizzazioni dell’Africa nera, del Sahara. No? Non vi attirano? Insomma che cappero volete? Siete ignoranti come scarpe e fate i pretenziosi? Scarpe? Vi piacciono le scarpe? I piedi? Vi piacciono i piedi! Bene!
9) Partite dall’antichità e cominciate a raccogliere gli esempi dell’espressione simbolica umana legata ai piedi. Prima di tutto quella più antica che si conosca oggi: Lucy, il famosissimo Australopitecus Afarensis di cui sono state trovate le tracce.(fig 2). Come mai Lucy ha lasciato un segno così evidente a memoria dei posteri? Ma è chiarissimo, no? Perché voleva ossequiare la Dea della Terra e, per farlo, posava le piante dei piedi sulla superficie di separazione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti! È per questo che gli australopitechi scesero dagli alberi e cominciarono a camminare: per adorare la Dea! Se così non fosse stato, avrebbero continuato a mangiare banane seduti sui rami, al sicuro dai predatori, oppure avrebbero camminato sulle mani per ossequiare il dio del cielo, e noi avremmo trovato le impronte delle mani e non quelle dei piedi! Le impronte trovate a Laetoli da Mary Leakey, sono la prova provata della vostra teoria: il piede è stato (ed è) l’espressione simbolica umana più antica ed importante, ed è il simbolo della Dea Suprema della terra: GEA!
10) A questo punto la vostra teoria è delineata, però, poiché siete scienziati, altro che storie, ed anche eroici, perché stare dentro una pericolosissima biblioteca non è cosa da tutti, dovete raccogliere altre prove della vostra ardita teoria. Ricordatevi che le teorie si difendono a colpi di PROVE, mica bruscolini negli occhi, dunque procedete a sfogliare il libro.
11) Arrestatevi non appena trovate una figura che abbia a che fare con i piedi, ad esempio questa (fig 3). Come sarebbe: “Mi ricorda qualcos’altro?” Ma siamo matti? Questa è una statuina che rappresenta i due sacri alluci appesi all’albero della conoscenza, vecchia di almeno 25.000 anni e precorre la Bibbia. Dovete piantarla di obiettare anche di fronte alle più semplici interpretazioni simboliche, le più ovvie. Se andate avanti così non diventerete mai Studiocomici, e men che meno Fisicomici! Dovete seguire le istruzioni, che diamine, non far finta di usare i neuroni che neppure avete! Procediamo. (**)
12) Qualunque sia il libro che avete trovato, non potrete fare a mano di trovare le fotografie di alcune figurette riconducibili al paleolitico superiore, ad esempio questa (fig 4). Essa simboleggia la Dea. Visto che non ha i piedi? Come mai? Siete così stupidi? Ma perché non ha bisogno dei piedi visto che non deve adorare nessuno, è lei l’oggetto dell’adorazione, quindi l’ignoto sacerdote paleolitico ha scolpito la statuina per poi privarla dei piedi durante una cerimonia sacra, conferendole in questo modo la dignità riservata agli dei! E infatti…
13) …ecco una rappresentazione umana più o meno dello stesso periodo (cinquemila più cinquemila meno, non stiamo a sottilizzare): rappresenta un sacerdote con le corna (chissà che diamine combinava la moglie mentre lui portava a casa la pagnotta facendo il prete) intento ad adorare la dea della terra calpestando il terreno (fig 5). Visto che lui i piedi li ha? Altrimenti come avrebbe fatto ad adorare la dea?
14) Spostatevi al neolitico (poche pagine in avanti su, non esitate, abbiate coraggio: avete i guanti di lattice, accidenti!! Magari ciucciate un altro spicchio d’aglio, forza!): ecco un’altra statuina della Dea (fig 6). Neppure lei ha i piedi (ovviamente) perché è arcaica e il maschilismo neolitico ancora non aveva preso piede (da cosa credete che derivi “Prender Piede”? dal fatto che i neolitici maschi presero i piedi e li privarono della loro sacralità, cancellando il culto della Dea!).
15) Un salto al periodo egizio. Ormai la Dea che aveva regnato per tutto il paleolitico (inferiore e superiore) ed era arrivata alle soglie del neolitico, è definitivamente sparita. Tutte le raffigurazioni delle dee egizie comprendono i piedi. Eppure il culto della Dea (tramandato dalle sacerdotesse in incognito) persiste, e raffigurazioni segrete lo testimoniano,ad esempio questa (fig 7). Vedete il segno del sacro alluce sulla destra in basso? E quello del sacro mignolo al centro del simbolo circondato dal bianco che simboleggia il fecondo liquido amniotico della Dea Terra? Il piede persiste dunque ma in incognito! (Potrebbe essere un buon titolo se mai scriverete un libro: Il Piede Incognito – Alla ricerca del simbolo della Dea Terra lungo il cammino dell’uomo!).
16) L’adorazione della Dea viene sempre più avversata dai maschilisti e, nel periodo greco, ecco che addirittura si rappresentano i sandali, il simbolo evidente dell’iconoclastia Achea (fig 8). Il sandalo impedisce il contatto della pianta del piede con la terra, ed è evidente pertanto l’impossibilità dell’adorazione! Del resto è noto che le scarpe vennero inventate proprio per questo, per far cadere definitivamente nel dimenticatoio il culto della Dea terra impedendo le pratiche di devozione!
17) Il mondo romano, maschilista per eccellenza, reprime senza pietà il culto dei piedi, tanto da costringere al suicidio una delle sacerdotesse più famose, Cleopatra! Il contatto del piede con laterra viene talmente vietato, che si inventano i primi disinfettanti per i piedi. Ecco un mosaico del IV secolo che mostra tre sacerdoti intenti alla disinfezione dei piedi tramite il succo d’uva (fig 9). È noto che fu tale pratica a generare, quasi per caso, la produzione del vino.
18) Nel medioevo, la repressione e l’odio nei confronti della Dea fu così totale da sconfinare nel ridicolo. Ecco un Adepto del movimento iconoclasta anti-Dea che pur di non toccare terra con i piedi siede in bilico su un cavallo senza neppure l’uso delle staffe (fig 10).
19) Ci vorrà il cristianesimo per riabilitare i piedi: ecco infatti il battesimo di Gesù rappresentato a piedi nudi, addirittura sott’acqua, dunque in contatto ancora più intimo col mondo della Dea! (fig 11). Per ribadire il concetto, fu proprio il vangelo a parlare della lavanda dei piedi, rito di purificazione prima del sacro contatto col terreno!
20) Anche in India il culto della Dea riprese vigore (fig 12).
Ecco qua. In soli venti passi avete “svelato”, in modo assolutamente originale l’antica religione della Dea Madre basata sui piedi! Un culto presente ancora oggi ma del tutto segreto e nascosto, praticato dalle sacerdotesse e sconosciuto alle religioni ufficiali, e tutto con l’aiuto del vostro neurone che è riuscito a interpretare i simboli arcaici fin dalla comparsa dell’umanità, anzi ben prima, poiché avete dato senso alle impronte degli Australopitechi!
Non siete terribilmente orgogliosi di voi stessi? E poi: con quale dovizia di particolari, di prove incontrovertibili che nessuno potrà mai contestare! Chi mai sarà in grado di confutare che le scarpe furono inventate per contrastare la Dea? Che il vino scaturì da una pratica di purificazione anti-Dea?
Siete dei genii, poche storie, lanciati sulla strada della fama se solo saprete gestire il vostro immenso sapere, e tutto in un paio d’ore di pericolosa frequentazione di una biblioteca e lettura di un solo libro!
Adesso siete Studiocomici Simbolisti in pectore e, per esserlo veramente, dovrete solamente raccogliere in uno scritto (anche breve, per cominciare) le fregnacc… le profonde verità scoperte dai lunghi anni di studio (così dovrete dire, mi raccomando) per poi pubblicarlo in un blog compiacente, nel quale, possibilmente, non si accettano commenti contrari.
Se poi, per caso, possedete una strascicata laurea in fisica, allora siete sulla buona strada per divenire Fisicomici Simbolisti e, perché ciò accada, sarà sufficiente non aver paura delle figuracce con i colleghi, che si domanderanno se per caso, nel corso dell’ultimo raffreddore, non vi siate soffiati via l’unico malandato neurone che galleggiava come una particella di sodio nell’acqua minerale, all’interno del misterioso fluido contenuto nella vostra pregiatissima scatola cranica. Qualora non siate del tutto analfabeti, potreste anche decidere di raccogliere le vostre stronz… profonde riflessioni in un libro, nel qual caso cliccate qui per sapere come comportarvi.
E non dimenticate che se andate al bar con gli amici saranno loro a pagare il conto: voi sarete troppo occupati a erudirli sulla religione dei piedi: il vostro malandato fegato ne sarà entusiasta.
Non vi piacciono i piedi? Preferite i rettangoli? Gli icosaedri? Gli occhi? I nodi emorroidali (al mondo c’è di tutto, mai escludere le possibilità)?
E allora? Dove sarebbe il problema? Vi pare che non ci siano libri illustrati a sufficienza? Qualunque sia la vostra preferenza, ci sarà sempre un enorme spazio per propugnarla come una verità.
Basta non aver paura dell’enorme ridicolo che susciterete (soprattutto se volete diventare Fisicomici), senza contare coloro che vi diranno che voi con i piedi ci ragionate (il che costituirà un gran bel complimento).
Dunque avanti, gli impediti mentali vi attendono e vi tributeranno tutto il successo che meritate, commentando a lungo le vostre scempiaggini in area protetta.
(*) Tre! Però non lo sa nessuno e nel mondo virtuale della rete si possono spacciare le balle più enormi senza timore di essere smentiti. Dunque, prendendo esempio da sommi vati e scrittori avventizi, diciamo pure trentamila (o trecentomila, che mi piace anche di più).
(**) Tanto per dire che la realtà supera di gran lunga la fantasia, sappiate che nel libro citato questa foto è descritta come “Statuetta Femminile”!
Fonte: http://www.archeoattack.blogspot.it
di Desi Satta
Innumerevole turba di lettori (*), eccomi di nuovo a voi!
Dite la verità: avevate nostalgia, vero? Non sapevate più come fare ed eravate preda di terribili crisi di astinenza, lo so, tuttavia non preoccupatevi, gli Archeo-Attack sono come la provvidenza: quando c’è bisogno di loro cadono dal cielo come la manna.
Avete finalmente demolito il nuraghe costruito nell’orto? La vostra ex-moglie ha raschiato il barile e non vi tormenta più come prima perché sa che siete dei poveri, miserabili barboni? I vostri amici si sono definitivamente stufati di fare gli spazzini (operatori ecologici), della decifrazione dei reperti nuragici e cominciano a sospettare che una lattina di Coca Cola non sia vecchia di tremilacinquecento anni?
E dov’è il problema? Eccomi a voi con un nuovo Archeo-Attack che risolverà buona parte dei vostri problemi esistenziali, se non quelli economici (però ci stiamo lavorando) e vi consentirà di raccattare ancora qualche bicchiere di liquido alcolico per distruggere ulteriormente la vostra già compromessa massa epatica.
Oggi v’insegno come si diventa FISICOMICI SIMBOLISTI, in 20 passi o, più in generale, STUDIOCOMICI SIMBOLISTI, categoria più ampia comprendente la prima.
Per cui, se siete pensionati, disoccupati cronici con poca voglia di lavorare, bamboccioni attaccati alla gonna della mammà e alla tastiera del PC, ex giornalisti frustrati, ex insegnanti dimenticati, protoprofessori universitari con poche chance di cassare il proto- per manifesta incapacità, questo è l’Archeoattack che fa per voi: seguitelo passo dopo passo e non ve ne pentirete!
E poi, vai a sapere dove possono condurre gli insondabili sentieri del caso, potreste addirittura diventare famosi e guadagnare un po’ di grana. In ogni caso, poiché avete un sacco di tempo e poco da fare, nella peggiore delle ipotesi vi sarete dedicati a un’attività piacevole e ricca di soddisfazioni.
Ah, senza bisogno di “aBBondante” colla vinilica.
1) Recatevi nella più vicina biblioteca pubblica (sì, lo so che non vi piace, accidenti, in biblioteca ci sono i libri, oggetti terribili che a voi provocano l’orticaria, però non sarà così faticoso come pensate, solo un paio d’ore, ve l’assicuro, quindi fidatevi e procedete, non avrete da pentirvene!)
2) Fatevi spiegare come funziona il catalogo elettronico (ho capito che non avete voglia di studiare, accidenti, ho capito! E allora chiedete al personale della biblioteca e fatevi trovare da loro i libri che parlano di simbolismo, simbologie, simboli e interpretazioni dei simboli)
3) Ottenuto l’elenco dei libri disponibili, fatevi indicare dove trovarli (potreste anche studiare la catalogazione Dewey, ma per gente come voi non è cosa, quindi siate orgogliosi di non sapere neppure cosa sia e andate avanti).
4) Scartate immediatamente i manuali privi di illustrazioni a colori e stampati su carta comune (potrebbero essere roba seria e per voi sono terribilmente pericolosi: sappiate che di orticaria si può anche morire; per maggiore precauzione portate con voi un mazzo di teste d’aglio ed agitatelo di fronte agli scaffali prima di toccare i libri).
5) Isolate i libri di grande formato costituiti quasi esclusivamente da fotografie e stampati su carta patinata. Con buona probabilità sono ciò che fa per voi. Se siete stati bravi e avete seguito le istruzioni (pur nel pericolo di essere circondati da… “libri”) potreste aver trovato qualcosa del genere (fig 1).(Natale Spineto – I SIMBOLI, nella storia dell’uomo – Jaka Book 2002): un elenco di pretesi simboli che spaziano dalla preistoria ai giorni nostri,
6) Indossate un paio di guanti di lattice (il libro reperito non dovrebbe essere pericoloso, neppure per voi, ma non si sa mai: prevenire è meglio che curare), pelate uno spicchio d’aglio e tenetelo in bocca mentre compulsate il libro (abbatterà i terribili miasmi della carta stampata, responsabili dell’orticaria).
7) Sfogliate il libro ed ammirate le figure. Non state a leggere il cumulo di scempiaggini contenute nel testo, sebbene siano evidenti assurdità, per voi sono comunque troppo.
8) Cercate di capire cosa vi attira di più: le figure geometriche? Carine vero? Tutti i puntolini rossi e neri disegnati sulle pareti delle caverne, i rettangoli, i cerchi, le linee. Vi sembrano aride? Allora gli animali, da quelli stilizzati della preistoria (ma mica poi tanto) alle pitture egiziane, o giapponesi, le stilizzazioni dell’Africa nera, del Sahara. No? Non vi attirano? Insomma che cappero volete? Siete ignoranti come scarpe e fate i pretenziosi? Scarpe? Vi piacciono le scarpe? I piedi? Vi piacciono i piedi! Bene!
9) Partite dall’antichità e cominciate a raccogliere gli esempi dell’espressione simbolica umana legata ai piedi. Prima di tutto quella più antica che si conosca oggi: Lucy, il famosissimo Australopitecus Afarensis di cui sono state trovate le tracce.(fig 2). Come mai Lucy ha lasciato un segno così evidente a memoria dei posteri? Ma è chiarissimo, no? Perché voleva ossequiare la Dea della Terra e, per farlo, posava le piante dei piedi sulla superficie di separazione tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti! È per questo che gli australopitechi scesero dagli alberi e cominciarono a camminare: per adorare la Dea! Se così non fosse stato, avrebbero continuato a mangiare banane seduti sui rami, al sicuro dai predatori, oppure avrebbero camminato sulle mani per ossequiare il dio del cielo, e noi avremmo trovato le impronte delle mani e non quelle dei piedi! Le impronte trovate a Laetoli da Mary Leakey, sono la prova provata della vostra teoria: il piede è stato (ed è) l’espressione simbolica umana più antica ed importante, ed è il simbolo della Dea Suprema della terra: GEA!
10) A questo punto la vostra teoria è delineata, però, poiché siete scienziati, altro che storie, ed anche eroici, perché stare dentro una pericolosissima biblioteca non è cosa da tutti, dovete raccogliere altre prove della vostra ardita teoria. Ricordatevi che le teorie si difendono a colpi di PROVE, mica bruscolini negli occhi, dunque procedete a sfogliare il libro.
11) Arrestatevi non appena trovate una figura che abbia a che fare con i piedi, ad esempio questa (fig 3). Come sarebbe: “Mi ricorda qualcos’altro?” Ma siamo matti? Questa è una statuina che rappresenta i due sacri alluci appesi all’albero della conoscenza, vecchia di almeno 25.000 anni e precorre la Bibbia. Dovete piantarla di obiettare anche di fronte alle più semplici interpretazioni simboliche, le più ovvie. Se andate avanti così non diventerete mai Studiocomici, e men che meno Fisicomici! Dovete seguire le istruzioni, che diamine, non far finta di usare i neuroni che neppure avete! Procediamo. (**)
12) Qualunque sia il libro che avete trovato, non potrete fare a mano di trovare le fotografie di alcune figurette riconducibili al paleolitico superiore, ad esempio questa (fig 4). Essa simboleggia la Dea. Visto che non ha i piedi? Come mai? Siete così stupidi? Ma perché non ha bisogno dei piedi visto che non deve adorare nessuno, è lei l’oggetto dell’adorazione, quindi l’ignoto sacerdote paleolitico ha scolpito la statuina per poi privarla dei piedi durante una cerimonia sacra, conferendole in questo modo la dignità riservata agli dei! E infatti…
13) …ecco una rappresentazione umana più o meno dello stesso periodo (cinquemila più cinquemila meno, non stiamo a sottilizzare): rappresenta un sacerdote con le corna (chissà che diamine combinava la moglie mentre lui portava a casa la pagnotta facendo il prete) intento ad adorare la dea della terra calpestando il terreno (fig 5). Visto che lui i piedi li ha? Altrimenti come avrebbe fatto ad adorare la dea?
14) Spostatevi al neolitico (poche pagine in avanti su, non esitate, abbiate coraggio: avete i guanti di lattice, accidenti!! Magari ciucciate un altro spicchio d’aglio, forza!): ecco un’altra statuina della Dea (fig 6). Neppure lei ha i piedi (ovviamente) perché è arcaica e il maschilismo neolitico ancora non aveva preso piede (da cosa credete che derivi “Prender Piede”? dal fatto che i neolitici maschi presero i piedi e li privarono della loro sacralità, cancellando il culto della Dea!).
15) Un salto al periodo egizio. Ormai la Dea che aveva regnato per tutto il paleolitico (inferiore e superiore) ed era arrivata alle soglie del neolitico, è definitivamente sparita. Tutte le raffigurazioni delle dee egizie comprendono i piedi. Eppure il culto della Dea (tramandato dalle sacerdotesse in incognito) persiste, e raffigurazioni segrete lo testimoniano,ad esempio questa (fig 7). Vedete il segno del sacro alluce sulla destra in basso? E quello del sacro mignolo al centro del simbolo circondato dal bianco che simboleggia il fecondo liquido amniotico della Dea Terra? Il piede persiste dunque ma in incognito! (Potrebbe essere un buon titolo se mai scriverete un libro: Il Piede Incognito – Alla ricerca del simbolo della Dea Terra lungo il cammino dell’uomo!).
16) L’adorazione della Dea viene sempre più avversata dai maschilisti e, nel periodo greco, ecco che addirittura si rappresentano i sandali, il simbolo evidente dell’iconoclastia Achea (fig 8). Il sandalo impedisce il contatto della pianta del piede con la terra, ed è evidente pertanto l’impossibilità dell’adorazione! Del resto è noto che le scarpe vennero inventate proprio per questo, per far cadere definitivamente nel dimenticatoio il culto della Dea terra impedendo le pratiche di devozione!
17) Il mondo romano, maschilista per eccellenza, reprime senza pietà il culto dei piedi, tanto da costringere al suicidio una delle sacerdotesse più famose, Cleopatra! Il contatto del piede con laterra viene talmente vietato, che si inventano i primi disinfettanti per i piedi. Ecco un mosaico del IV secolo che mostra tre sacerdoti intenti alla disinfezione dei piedi tramite il succo d’uva (fig 9). È noto che fu tale pratica a generare, quasi per caso, la produzione del vino.
18) Nel medioevo, la repressione e l’odio nei confronti della Dea fu così totale da sconfinare nel ridicolo. Ecco un Adepto del movimento iconoclasta anti-Dea che pur di non toccare terra con i piedi siede in bilico su un cavallo senza neppure l’uso delle staffe (fig 10).
19) Ci vorrà il cristianesimo per riabilitare i piedi: ecco infatti il battesimo di Gesù rappresentato a piedi nudi, addirittura sott’acqua, dunque in contatto ancora più intimo col mondo della Dea! (fig 11). Per ribadire il concetto, fu proprio il vangelo a parlare della lavanda dei piedi, rito di purificazione prima del sacro contatto col terreno!
20) Anche in India il culto della Dea riprese vigore (fig 12).
Ecco qua. In soli venti passi avete “svelato”, in modo assolutamente originale l’antica religione della Dea Madre basata sui piedi! Un culto presente ancora oggi ma del tutto segreto e nascosto, praticato dalle sacerdotesse e sconosciuto alle religioni ufficiali, e tutto con l’aiuto del vostro neurone che è riuscito a interpretare i simboli arcaici fin dalla comparsa dell’umanità, anzi ben prima, poiché avete dato senso alle impronte degli Australopitechi!
Non siete terribilmente orgogliosi di voi stessi? E poi: con quale dovizia di particolari, di prove incontrovertibili che nessuno potrà mai contestare! Chi mai sarà in grado di confutare che le scarpe furono inventate per contrastare la Dea? Che il vino scaturì da una pratica di purificazione anti-Dea?
Siete dei genii, poche storie, lanciati sulla strada della fama se solo saprete gestire il vostro immenso sapere, e tutto in un paio d’ore di pericolosa frequentazione di una biblioteca e lettura di un solo libro!
Adesso siete Studiocomici Simbolisti in pectore e, per esserlo veramente, dovrete solamente raccogliere in uno scritto (anche breve, per cominciare) le fregnacc… le profonde verità scoperte dai lunghi anni di studio (così dovrete dire, mi raccomando) per poi pubblicarlo in un blog compiacente, nel quale, possibilmente, non si accettano commenti contrari.
Se poi, per caso, possedete una strascicata laurea in fisica, allora siete sulla buona strada per divenire Fisicomici Simbolisti e, perché ciò accada, sarà sufficiente non aver paura delle figuracce con i colleghi, che si domanderanno se per caso, nel corso dell’ultimo raffreddore, non vi siate soffiati via l’unico malandato neurone che galleggiava come una particella di sodio nell’acqua minerale, all’interno del misterioso fluido contenuto nella vostra pregiatissima scatola cranica. Qualora non siate del tutto analfabeti, potreste anche decidere di raccogliere le vostre stronz… profonde riflessioni in un libro, nel qual caso cliccate qui per sapere come comportarvi.
E non dimenticate che se andate al bar con gli amici saranno loro a pagare il conto: voi sarete troppo occupati a erudirli sulla religione dei piedi: il vostro malandato fegato ne sarà entusiasta.
Non vi piacciono i piedi? Preferite i rettangoli? Gli icosaedri? Gli occhi? I nodi emorroidali (al mondo c’è di tutto, mai escludere le possibilità)?
E allora? Dove sarebbe il problema? Vi pare che non ci siano libri illustrati a sufficienza? Qualunque sia la vostra preferenza, ci sarà sempre un enorme spazio per propugnarla come una verità.
Basta non aver paura dell’enorme ridicolo che susciterete (soprattutto se volete diventare Fisicomici), senza contare coloro che vi diranno che voi con i piedi ci ragionate (il che costituirà un gran bel complimento).
Dunque avanti, gli impediti mentali vi attendono e vi tributeranno tutto il successo che meritate, commentando a lungo le vostre scempiaggini in area protetta.
(*) Tre! Però non lo sa nessuno e nel mondo virtuale della rete si possono spacciare le balle più enormi senza timore di essere smentiti. Dunque, prendendo esempio da sommi vati e scrittori avventizi, diciamo pure trentamila (o trecentomila, che mi piace anche di più).
(**) Tanto per dire che la realtà supera di gran lunga la fantasia, sappiate che nel libro citato questa foto è descritta come “Statuetta Femminile”!
Fonte: http://www.archeoattack.blogspot.it
lunedì 24 dicembre 2012
Buon Natale
Pierluigi Montalbano augura Buon Natale a tutti i 412.000 lettori del Quotidiano on line di Storia e Archeologia.
Bronzetti guerrieri - Civiltà Nuragica
Guerriero con spada e arco n° 11 (classificazione di Lilliu, 1966) e Guerriero con spada e scudo n° 12 (classificazione di Lilliu, 1966).
Ambedue le sculture provengono da Monti Arcosu, Uta, sono alte 24 cm e sono conservate al museo di Cagliari. I due bronzetti sono identici nello stile, nel vestiario, nel supporto strappato e in parte immerso nella piombatura, per il tipo di veste a doppia tunica con frange. Presentano la stessa grande spada fogliata a nervature e lo stesso sistema di difesa con goliera e gambiere. L’elmo a due corna brevi rivolte in avanti ha due creste che armonizzano l’insieme e lo rendono più resistente. Occhi a mandorla, naso triangolare, capelli ben visibili e orecchie pronunciate sembrano eseguiti dalla stessa mano, e questo suggerisce la presenza di una bottega artigianale nella quale i maestri acquisivano le competenze necessarie per svolgere questa artistica mansione.
Fra i due personaggi vi sono anche delle differenze. Anzitutto il primo è un arciere con brassard in cuoio nell’avambraccio sinistro. La difesa è assicurata da una grande piastra rettangolare al petto legata con due striscie che passano sopra le spalle e tengono nel dorso un astuccio conico per le punte di freccia o per il grasso dell’arco. Nelle strisce si trova anche la faretra per le frecce. Il secondo guerriero ha uno scudo rotondo e nella mano che tiene la spada si nota un guanto striato che protegge la pelle nuda. Lo scudo è in cuoio e rinforzato da tre lamine circolari, e presenta l’umbone centrale in bronzo che costituiva un’arma da offesa. Sul retro dello scudo è fissato verticalmente un pugnale ad elsa gammata. Il pettorale presenta striature che Lilliu classifica come “pelle di muflone”, riconducendo alla letteratura antica che descriveva i sardi protetti da un’armatura in cuoio peloso.
Le immagini scultura n° 11 (arciere con spada) e n° 12 (guerriero con spada e scudo), sono tratte da Lilliu, 1966, Sculture della Sardegna Nuragica.
domenica 23 dicembre 2012
Risorse minerarie e scambi nell’Età del Bronzo
Risorse minerarie e scambi nell’Età del Bronzo
di Pierluigi Montalbano
La prima fase, attribuibile al IV millennio a.C., nel quale le culture neolitiche del Vicino Oriente e dell'Europa sud-occidentale adottarono la lavorazione del rame, è anche detta età del Rame, Calcolitico o Eneolitico. Il rame, usato per ornamenti e armi, si rivelò tuttavia troppo malleabile: poteva essere battuto a freddo per ricavarne arnesi rudimentali e perle, oppure fuso e colato in stampi per produrre oggetti più grandi e complessi. In origine era un materiale pregiato, poiché più raro della pietra ed estratto per fusione (cioè scaldato per separarlo dalla roccia) a temperature intorno agli 800°, ottenute nei forni usati per cuocere la ceramica.
In alcuni siti dei Balcani sono stati trovati crogioli e scorie del IV millennio a.C. e si ha notizia di miniere di rame in Europa e nel Vicino Oriente, tra cui le più note sono a Rudna Glava in Serbia, già sfruttate nel 4500 a.C. L'importanza di questo metallo è dimostrata dal fatto che le asce prodotte nei Balcani fossero esportate in Ungheria e Danimarca, dove non c'erano giacimenti.
Lo sviluppo gerarchico delle società dominate da ricche élite è evidente dalle necropoli, dove alcune tombe contengono solo vasellame e selce mentre in altre sono stati rinvenuti oggetti in oro e rame. La più spettacolare è la necropoli di Varna in Bulgaria, databile al IV millennio a.C., in cui una sola tomba conteneva 1 kg e mezzo di oggetti d'oro.
Talvolta nel rame grezzo si trovavano piccole quantità di altri elementi che ne facilitavano la fusione e lo rendevano più resistente da freddo: si scoprì, infatti, che aggiungendo il 10% circa di stagno si otteneva una lega molto più dura – il bronzo – che fondeva facilmente e si prestava a molte forme, conservando un bordo tagliente che poteva essere affilato più volte, mentre gli utensili rotti o logori potevano essere fusi e nuovamente forgiati. Quasi tutti gli oggetti di bronzo – spade, lance, asce, spilloni e fibule – erano prodotti per fusione; altri, come gli scudi, si ottenevano battendo lastre di metallo fino a ottenere la forma desiderata.
La lavorazione del bronzo ebbe origine nell'Asia occidentale nel IV millennio a.C. e si diffuse in tutto il Vecchio Continente nel III millennio. Nel II millennio a.C. molti oggetti di uso quotidiano erano di bronzo, mentre l'uso della pietra e della selce era ormai in declino. Per questo motivo fiorirono numerosi e vasti centri minerari.
Il fabbisogno di stagno e la diffusione del bronzo provocarono notevoli cambiamenti sociali ed economici, quali il sorgere di nuove professioni (cercatori e minatori) e lo sviluppo del commercio di lingotti di metallo su lunghe distanze, il cui controllo conferì potere politico ed economico, nonché prestigio sociale, a determinati gruppi. Lungo le rotte commerciali sorsero centri di produzione e insediamenti fortificati e alcune aree si arricchirono grazie all'intermediazione, come dimostra il caso della cultura del Wessex (Inghilterra meridionale), dominata da capi-guerrieri i cui tumuli sepolcrali hanno rivelato tombe piene di oro, bronzo e ambra.
Moderni esperimenti hanno dimostrato che armi e utensili in bronzo non erano più affilati di quelli in pietra, sicché si ritiene che l'adozione del bronzo fosse un fenomeno strettamente collegato allo status sociale. Più pregiato e lucente, costituiva uno strumento di ostentazione del potere e della ricchezza, che l'aristocrazia preistorica esibiva con gioielli, ornamenti e armi riccamente decorate.
L'entità del commercio nell’età del Bronzo è ancor meglio dimostrata dal relitto (scoperto nel 1982) di una nave affondata al largo del capo di Ulu Burun (Turchia) nel XIV secolo a.C. Probabilmente salpata da Cipro e diretta a Micene, la nave trasportava oltre 250 lingotti di rame estratto nell'isola, stagno e materiali grezzi, tra cui blocchi di vetro blu, usato a Micene per realizzare gioielli. Alcune tavolette scritte in lineare B suggeriscono che dalla resina di terebinto trasportata si sarebbe estratto profumo, mentre l'ebano egiziano e l'avorio sarebbero stati usati per la produzione di mobili. A bordo del relitto sono stati trovati anche resti di ghiande, mandorle, fichi, olive e melograni (ma non è chiaro se fossero provviste o merci di scambio), nonché gioielli in oro e argento e oggetti in bronzo.
Nell'immagine, al Museo Archeologico di Cagliari, matrice in steatite, lingotto ox-hide e panelle in rame.
di Pierluigi Montalbano
La prima fase, attribuibile al IV millennio a.C., nel quale le culture neolitiche del Vicino Oriente e dell'Europa sud-occidentale adottarono la lavorazione del rame, è anche detta età del Rame, Calcolitico o Eneolitico. Il rame, usato per ornamenti e armi, si rivelò tuttavia troppo malleabile: poteva essere battuto a freddo per ricavarne arnesi rudimentali e perle, oppure fuso e colato in stampi per produrre oggetti più grandi e complessi. In origine era un materiale pregiato, poiché più raro della pietra ed estratto per fusione (cioè scaldato per separarlo dalla roccia) a temperature intorno agli 800°, ottenute nei forni usati per cuocere la ceramica.
In alcuni siti dei Balcani sono stati trovati crogioli e scorie del IV millennio a.C. e si ha notizia di miniere di rame in Europa e nel Vicino Oriente, tra cui le più note sono a Rudna Glava in Serbia, già sfruttate nel 4500 a.C. L'importanza di questo metallo è dimostrata dal fatto che le asce prodotte nei Balcani fossero esportate in Ungheria e Danimarca, dove non c'erano giacimenti.
Lo sviluppo gerarchico delle società dominate da ricche élite è evidente dalle necropoli, dove alcune tombe contengono solo vasellame e selce mentre in altre sono stati rinvenuti oggetti in oro e rame. La più spettacolare è la necropoli di Varna in Bulgaria, databile al IV millennio a.C., in cui una sola tomba conteneva 1 kg e mezzo di oggetti d'oro.
Talvolta nel rame grezzo si trovavano piccole quantità di altri elementi che ne facilitavano la fusione e lo rendevano più resistente da freddo: si scoprì, infatti, che aggiungendo il 10% circa di stagno si otteneva una lega molto più dura – il bronzo – che fondeva facilmente e si prestava a molte forme, conservando un bordo tagliente che poteva essere affilato più volte, mentre gli utensili rotti o logori potevano essere fusi e nuovamente forgiati. Quasi tutti gli oggetti di bronzo – spade, lance, asce, spilloni e fibule – erano prodotti per fusione; altri, come gli scudi, si ottenevano battendo lastre di metallo fino a ottenere la forma desiderata.
La lavorazione del bronzo ebbe origine nell'Asia occidentale nel IV millennio a.C. e si diffuse in tutto il Vecchio Continente nel III millennio. Nel II millennio a.C. molti oggetti di uso quotidiano erano di bronzo, mentre l'uso della pietra e della selce era ormai in declino. Per questo motivo fiorirono numerosi e vasti centri minerari.
Il fabbisogno di stagno e la diffusione del bronzo provocarono notevoli cambiamenti sociali ed economici, quali il sorgere di nuove professioni (cercatori e minatori) e lo sviluppo del commercio di lingotti di metallo su lunghe distanze, il cui controllo conferì potere politico ed economico, nonché prestigio sociale, a determinati gruppi. Lungo le rotte commerciali sorsero centri di produzione e insediamenti fortificati e alcune aree si arricchirono grazie all'intermediazione, come dimostra il caso della cultura del Wessex (Inghilterra meridionale), dominata da capi-guerrieri i cui tumuli sepolcrali hanno rivelato tombe piene di oro, bronzo e ambra.
Moderni esperimenti hanno dimostrato che armi e utensili in bronzo non erano più affilati di quelli in pietra, sicché si ritiene che l'adozione del bronzo fosse un fenomeno strettamente collegato allo status sociale. Più pregiato e lucente, costituiva uno strumento di ostentazione del potere e della ricchezza, che l'aristocrazia preistorica esibiva con gioielli, ornamenti e armi riccamente decorate.
L'entità del commercio nell’età del Bronzo è ancor meglio dimostrata dal relitto (scoperto nel 1982) di una nave affondata al largo del capo di Ulu Burun (Turchia) nel XIV secolo a.C. Probabilmente salpata da Cipro e diretta a Micene, la nave trasportava oltre 250 lingotti di rame estratto nell'isola, stagno e materiali grezzi, tra cui blocchi di vetro blu, usato a Micene per realizzare gioielli. Alcune tavolette scritte in lineare B suggeriscono che dalla resina di terebinto trasportata si sarebbe estratto profumo, mentre l'ebano egiziano e l'avorio sarebbero stati usati per la produzione di mobili. A bordo del relitto sono stati trovati anche resti di ghiande, mandorle, fichi, olive e melograni (ma non è chiaro se fossero provviste o merci di scambio), nonché gioielli in oro e argento e oggetti in bronzo.
Nell'immagine, al Museo Archeologico di Cagliari, matrice in steatite, lingotto ox-hide e panelle in rame.
sabato 22 dicembre 2012
Emergono scoperte eclatanti dalla necropoli di Verrucchio
Emergono scoperte eclatanti dalla necropoli di Verrucchio
di Martina Calogero
Nel 2012 Verucchio ha ospitato l’incontro internazionale “Immagini di uomini e donne dalle necropoli villanoviane” per fare il punto sulle clamorose scoperte e sugli studi interdisciplinari nati dai recenti scavi archeologici che hanno indagato le necropoli di Verucchio. Tra ostentazione di ricchezza, orgoglio di casta e culto dell’immagine, gli aristocratici che comandavano Verucchio sapevano bene come farsi identificare. Fossero donne di rango o guerrieri, questi villanoviani risolsero la differenza tra simboli del potere e prestigio sociale, riflettendo negli oggetti posseduti e messi in mostra un codice di dominio condiviso e compreso dai loro pari.
La ricchezza delle tombe, la scelta e la disposizione degli oggetti dei corredi, i complessi rituali funebri tramandavano un messaggio forte e inequivocabile per ricordare chi erano e cosa erano destinati ad essere i signori di Verucchio. Il sito di Verucchio ha offerto molte informazioni sull’età del ferro in Italia e le nuove informazioni emerse dall’ultima campagna di scavo, effettuata con le tecnologie di ricerca più moderne, hanno aperto nuovi scenari e dato vita a stupefacenti ipotesi interpretative.
Questi sono stati i temi sui cui si sono confrontati i più famosi studiosi di protostoria durante l’incontro internazionale a Verucchio, organizzato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna e dal Comune di Verucchio con l’intenzione di rendere note le stupefacenti scoperte emerse negli ultimi cinque anni e valutare con archeologi, antropologi, chimici, botanici e specialisti della metallurgia antica le possibili strade da percorrere nella ricerca.
I corredi funebri dei villanoviani che vissero a Verucchio tra l’ottavo e il settimo secolo a.C. trasmettono tutt’oggi ruoli, identità e funzioni di una classe dominante che si racconta attraverso le proprie cerimonie funerarie. Troni, abiti, armi e gioielli di grandissimo valore, rappresentano spesso pezzi unici, testimonianze straordinarie che tramandano preziose informazioni sia sull’abilità degli artigiani che li realizzarono che sul prestigio dei committenti.
Le ricerche archeologiche – condotte fra il 1969 e il 1972 e riprese organicamente e continuativamente dal 2005 ad oggi – hanno portato alla luce seicento tombe, risalenti a un periodo compreso tra il nono e il settimo a.C., ripartite in quattro sepolcreti. Gli studiosi sono quasi sicuri che l’utilizzo di questi sepolcreti fosse prerogativa delle famiglie aristocratiche: lo testimonia il numero complessivo delle tombe, ridotto in relazione a quello delle generazioni che le hanno usate, e in particolare le caratteristiche delle tombe, ricche di elementi che indicano potere, rango e ricchezza.
Gli scavi archeologici hanno ritrovato migliaia di pregiati oggetti in bronzo, ferro, vimini, legno e ambra. Ancora più significativo del reperto in sé sono i dati che provengono dallo scavo, a prescindere dall’effettiva presenza della testimonianza, come i numerosi troni di legno a grandezza naturale, di cui si è conservata solamente la sagoma visibile nell’argilla, o le tracce dei tessuti che ricoprivano i grandi vasi che contenevano le tombe: testimonianze invisibili che con le tradizionali tecniche di scavo sarebbero stati tralasciati.
Gli antichi consideravano la sepoltura come uno strumento per trasmettere messaggi ai propri contemporanei. Gli uomini e le donne importanti che governavano Verucchio fra il nono e il settimo a.C. rafforzavano il proprio potere e davano una chiara immagine di sé attraverso le cerimonie funebri e i corredi situati nelle sepolture. Gli oggetti non venivano scelti casualmente, ma erano selezionati accuratamente e disposti seguendo regole precise. Esaminando la necropoli, i ricercatori stanno ricostruendo progressivamente queste immagini e decifrando il linguaggio simbolico.
Per esempio, è stato confermato che mentre l’urna cineraria raffigurava simbolicamente il defunto, gli oggetti bruciati nel rogo funebre rappresentavano il suo stato reale al momento del decesso. Il valore simbolico del cinerario spiega perché venisse ricoperto con abiti ingioiellati e ricamati. Nelle tombe maschili, l’urna era arricchita da armi, mentre in quelle femminili da strumenti per la tessitura: questi reperti sono sovente riproduzioni in materiali pregiati o sono inutilizzabili nella quotidianità, come le conocchie in ambra o gli elmi in lamina finissima.
L’analisi del rogo funebre riproduce quello che il defunto rappresentava realmente al momento del suo decesso. Significativo è l’esempio della sepoltura contemporanea di due bambini: la loro immagine è restituita attraverso l’armatura da futuri guerrieri, mentre l’assenza delle armi tra i manufatti posseduti realmente e bruciati significa che sono morti prima di assurgere al ruolo che gli spetta per ragioni ereditarie. Ugualmente, la rappresentazione simbolica riferita alle bambine anticipa il ruolo che sarebbe stato destinato loro da adulte.
Il convegno tratterà anche l’eccellenza della produzione artigianale e artistica. Infatti, Verucchio non costituiva solamente un centro di scambi commerciali: le indagini hanno dimostrato che vi erano botteghe di artigiani capaci di impiegare tecniche complesse e raffinate, come testimoniano le grandi fibule, forse frutto della collaborazione tra esperti del bronzo e dell’ambra. L’innovazione impiegate per risolvere il problema del peso di manufatti di dimensioni così grandi testimonia la loro grande perizia.
Fonte: Archeorivista
venerdì 21 dicembre 2012
Echi di splendori passati, Pergamo, l'Atene dell'Asia
Echi di splendori passati, Pergamo
La sua fondazione venne, in epoca antica, attribuita a Telefo, figlio di Eracle. Pergamo, nel tempo, divenne una roccaforte di un piccolo satrapo al servizio del Gran Re (VI-V secolo a.C.) e poi in una città di conquista per i Diadochi, i generali che ereditarono il mondo conquistato da Alessandro Magno.
Uno di questi Diadochi, Filetero (343-263 a.C.), alleato di Seleuco I Nicatore, si era impossessato di un tesoro di 200 tonnellate d'argento che gli servirono per cominciare a costruire le fondamenta del suo principato. Il successore di Filetero fu Eumene I che staccò Pergamo dai Seleucidi e tenne a bada i Galati. Fu con Euemene che Pergamo cominciò a battere moneta con l'immagine di Filetero.
Il primo dei signori di Pergamo che assunse il titolo di re fu Attalo I (269-197 a.C.) che si alleò con i romani e continuò a combattere i Galati e i Seleucidi. Il suo primogenito, Eumene II (221-159 a.C.), estese il regno di Pergamo dalle coste dei Dardanelli fino al cuore dell'Anatolia e ai confini di Efeso. Fu questo il periodo di massima prosperità per il regno di Pergamo e in questo arco di tempo venne edificato il famosissimo altare di Zeus e Atena e il più grande ginnasio del mondo greco.
Ad Eumene II successe Attalo II (220-138 a.C.), il quale si alleò con i Romani nella conquista della penisola greca. Attalo III, figlio di Eumene II, fu prevalentemente uno studioso poco interessato agli intrighi di corte e ai problemi di politica internazionale. Morendo lasciò Pergamo in eredità ai Romani, i quali annetterono la città alla provincia d'Asia creata nel 129 a.C.
La biblioteca di Pergamo conteneva più di 200.000 volumi, alcuni dei quali contenevano, in termini dettagliatissimi, la storia della città. Era la seconda biblioteca del Mediterraneo dopo quella di Alessandria e, all'ingresso, mostrava una copia in scala ridotta dell'Atena Parthenos di Fidia, posta sull'Acropoli. Dopo l'incendio della biblioteca di Alessandria, nel 47 a.C., durante lotte feroci che insanguinarono l'antica repubblica di Roma, la biblioteca degli Attalidi fu acquistata da Marco Antonio, che la donò a Cleopatra.
All'epoca di Roma, Pergamo era una città di 160.000 abitanti. Possedeva un acropoli, un teatro - costruito su un pendio notevolmente inclinato - un tempio dedicato a Dioniso. Vi si trovava un tempio dedicato a Traiano e, a est della cavea del teatro, il santuario di Atena Nikephoros, circondato da un cortile porticato che conteneva ex voto. Sul lato nord del cortile vi era la sede della grande biblioteca.
Eumene II aveva progettato il grande altare ellenistico di Zeus e Atena Nikephoroi, aperto verso i pendii occidentali dell'acropoli al pari del teatro. Il tempio era a pianta quasi quadrata ed era costituito da un grande podio fiancheggiato da due avancorpi accessibili da una scalinata monumentale dell'ampiezza di una ventina di metri. La costruzione ospitava un fregio colossale che si sviluppava per più di 110 metri. Le lastre di cui era composto il fregio erano alte circa 2,30 metri, su di esse era rappresentata la sconfitta dei Giganti ribellatasi agli dèi dell'Olimpo. L'altare fu quasi del tutto completato tra il 166 e il 156 a.C.. Le sculture portavano le firme di diversi artisti: Dionisiade, Menecrate, Melanippo, Oreste, Teorreto e Taurisco. Sulla parete di fondo si trovava un fregio che stabiliva il legame di discendenza tra Eracle e gli Attalidi.
Sul ciglio orientale dell'acropoli di Pergamo si trovavano le dimore degli Attalidi. La città media si estendeva ai piedi dell'acropoli e si concentrava attorno ad un'agorà costruita su una terrazza nella roccia. Nella città media si trovavano botteghe, magazzini, abitazioni privati e ben tre ginnasi. Vi erano, poi, i santuari di Era e Demetra.
Durante il regno di Adriano (117-138 d.C.) fu edificato un grande tempio dedicato ad Esculapio, raggiungibile attraverso un'imponente via Sacra coperta, che sboccava nei Propilei, un piccolo cortile porticato. Un altro santuario importante, chiamato la "Corte Rossa" per le murature in mattoni, era dedicato ad alcune divinità egizie, tra cui Iside e Serapide.
Pergamo poteva usufruire di acqua corrente di livello in livello, grazie a sistemi idraulici che permettevano di captare l'acqua da sorgenti poste a quasi 2000 metri di altitudine e 80 chilometri di distanza dalla città.
I primi scavi della città furono condotti tra il 1876 e il 1878 dall'archeologo Alexandre Conze e permisero di recuperare alcune lastre dell'altare di Zeus e Atena ed anche la scoperta del tempio di Atena Nikephoros, dei palazzi degli Attalidi, del tempio di Traiano, del teatro e del tempio di Dioniso.
Gli scavi ripresero dopo la fine della prima guerra mondiale e permisero il recupero della "Corte Rossa" e di un Heroon all'inizio della via Sacra coperta che portava al santuario di Asclepio.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
La sua fondazione venne, in epoca antica, attribuita a Telefo, figlio di Eracle. Pergamo, nel tempo, divenne una roccaforte di un piccolo satrapo al servizio del Gran Re (VI-V secolo a.C.) e poi in una città di conquista per i Diadochi, i generali che ereditarono il mondo conquistato da Alessandro Magno.
Uno di questi Diadochi, Filetero (343-263 a.C.), alleato di Seleuco I Nicatore, si era impossessato di un tesoro di 200 tonnellate d'argento che gli servirono per cominciare a costruire le fondamenta del suo principato. Il successore di Filetero fu Eumene I che staccò Pergamo dai Seleucidi e tenne a bada i Galati. Fu con Euemene che Pergamo cominciò a battere moneta con l'immagine di Filetero.
Il primo dei signori di Pergamo che assunse il titolo di re fu Attalo I (269-197 a.C.) che si alleò con i romani e continuò a combattere i Galati e i Seleucidi. Il suo primogenito, Eumene II (221-159 a.C.), estese il regno di Pergamo dalle coste dei Dardanelli fino al cuore dell'Anatolia e ai confini di Efeso. Fu questo il periodo di massima prosperità per il regno di Pergamo e in questo arco di tempo venne edificato il famosissimo altare di Zeus e Atena e il più grande ginnasio del mondo greco.
Ad Eumene II successe Attalo II (220-138 a.C.), il quale si alleò con i Romani nella conquista della penisola greca. Attalo III, figlio di Eumene II, fu prevalentemente uno studioso poco interessato agli intrighi di corte e ai problemi di politica internazionale. Morendo lasciò Pergamo in eredità ai Romani, i quali annetterono la città alla provincia d'Asia creata nel 129 a.C.
La biblioteca di Pergamo conteneva più di 200.000 volumi, alcuni dei quali contenevano, in termini dettagliatissimi, la storia della città. Era la seconda biblioteca del Mediterraneo dopo quella di Alessandria e, all'ingresso, mostrava una copia in scala ridotta dell'Atena Parthenos di Fidia, posta sull'Acropoli. Dopo l'incendio della biblioteca di Alessandria, nel 47 a.C., durante lotte feroci che insanguinarono l'antica repubblica di Roma, la biblioteca degli Attalidi fu acquistata da Marco Antonio, che la donò a Cleopatra.
All'epoca di Roma, Pergamo era una città di 160.000 abitanti. Possedeva un acropoli, un teatro - costruito su un pendio notevolmente inclinato - un tempio dedicato a Dioniso. Vi si trovava un tempio dedicato a Traiano e, a est della cavea del teatro, il santuario di Atena Nikephoros, circondato da un cortile porticato che conteneva ex voto. Sul lato nord del cortile vi era la sede della grande biblioteca.
Eumene II aveva progettato il grande altare ellenistico di Zeus e Atena Nikephoroi, aperto verso i pendii occidentali dell'acropoli al pari del teatro. Il tempio era a pianta quasi quadrata ed era costituito da un grande podio fiancheggiato da due avancorpi accessibili da una scalinata monumentale dell'ampiezza di una ventina di metri. La costruzione ospitava un fregio colossale che si sviluppava per più di 110 metri. Le lastre di cui era composto il fregio erano alte circa 2,30 metri, su di esse era rappresentata la sconfitta dei Giganti ribellatasi agli dèi dell'Olimpo. L'altare fu quasi del tutto completato tra il 166 e il 156 a.C.. Le sculture portavano le firme di diversi artisti: Dionisiade, Menecrate, Melanippo, Oreste, Teorreto e Taurisco. Sulla parete di fondo si trovava un fregio che stabiliva il legame di discendenza tra Eracle e gli Attalidi.
Sul ciglio orientale dell'acropoli di Pergamo si trovavano le dimore degli Attalidi. La città media si estendeva ai piedi dell'acropoli e si concentrava attorno ad un'agorà costruita su una terrazza nella roccia. Nella città media si trovavano botteghe, magazzini, abitazioni privati e ben tre ginnasi. Vi erano, poi, i santuari di Era e Demetra.
Durante il regno di Adriano (117-138 d.C.) fu edificato un grande tempio dedicato ad Esculapio, raggiungibile attraverso un'imponente via Sacra coperta, che sboccava nei Propilei, un piccolo cortile porticato. Un altro santuario importante, chiamato la "Corte Rossa" per le murature in mattoni, era dedicato ad alcune divinità egizie, tra cui Iside e Serapide.
Pergamo poteva usufruire di acqua corrente di livello in livello, grazie a sistemi idraulici che permettevano di captare l'acqua da sorgenti poste a quasi 2000 metri di altitudine e 80 chilometri di distanza dalla città.
I primi scavi della città furono condotti tra il 1876 e il 1878 dall'archeologo Alexandre Conze e permisero di recuperare alcune lastre dell'altare di Zeus e Atena ed anche la scoperta del tempio di Atena Nikephoros, dei palazzi degli Attalidi, del tempio di Traiano, del teatro e del tempio di Dioniso.
Gli scavi ripresero dopo la fine della prima guerra mondiale e permisero il recupero della "Corte Rossa" e di un Heroon all'inizio della via Sacra coperta che portava al santuario di Asclepio.
Fonte: Le Nebbie del Tempo
giovedì 20 dicembre 2012
Tanit nel Castello di Gerione, distrutto da Annibale.
Tanit nel Castello di Gerione, distrutto da Annibale.
Il Castello di Gerione, in provincia di Campobasso, è un piccolo insediamento fortificato a 616 metri di altitudine sulla valle del Cigno. La cittadella ha una forma ovoidale e dimensioni modeste. L'attestazione più antica risale al 1172, quando compare in un atto di donazione. Successivamente Gerione è ricordata in alcuni documenti del 1181 e del 1254 e in un importante documento del 1239-1241, di epoca sveva. Un atto del 1450 ricorda Gerione tra i feudi inabitati.
Dal 2003, anno in cui il comune di Casacalenda ha acquisito l'area, si conducono scavi nell'area per individuare le antiche origini dell'insediamento medioevale. I paesi che circondano Gerione riportano, nelle tradizioni, storie di distruzione ad opera di Annibale.
Il nome Gerione richiama quello di Gereonium, un anticoabitato dei Frentani ricordato da Polibio e da Livio in occasione delle drammatiche vicende della guerra annibalica. Annibale, infatti, conquistò Gereonium nel 217 a.C., ne trucidò gli abitanti e lo trasformò in una sorta di magazzino per il rifornimento delle sue truppe.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato che in epoca sannitica Gerione era fortificato da una possente cinta muraria, un muro con doppia cortina risalente al IV-III secolo a.C. Oltre alle mura, dagli scavi è emersa una stele di Tanit, Dea Madre di Cartagine, che costituisce l'unico documento punico trovato nell'Italia continentale.
I documenti più sicuri risalgono al periodo dell'alto medioevo, con i Longobardi. Nell'VIII-IX secolo il colle dove sorge Gerione è ancora difeso dalle antiche mura sannitiche, per quanto fossero alquanto diroccate. Il luogo subì un'ulteriore distruzione con l'arrivo dei Normanni, nell'XI secolo. In un anfratto nella roccia, utilizzato all'epoca come discarica, un butto medioevale ha conservato ceneri di focolare, frammenti di ceramica di VI-VIII secolo, ossa di animali, tracce di attività siderurgica vicino alla grotta, come grumi di bronzo fuso, crogioli d'argilla e pezzi di mantice.
Gli archeologi hanno anche ritrovato le tracce di un violento incendio verificatosi tra l'XI e il XIII secolo, che deve aver posto fine alla Gerione longobarda. Si tratta, forse, delle tracce dell'arrivo dei Normanni che, comunque, incoraggiarono la ripresa delle normali attività del borgo, controllato da una torre con casale, un donjon fondato dal signore locale per controllare la sua proprietà. La torre, rettangolare, fu costruita prima dell'XI secolo e constava di tre piani per otto metri di altezza.
Tra l'XI e il XII secolo fu costruito il palazzo baronale normanno, su due piani, preceduto da un'ampia corte e con un grande salone a piano terra lastricato nel settore centrale. Il piano superiore raccoglieva, invece, la parte privata del palazzo che non aveva ingressi a livello del suolo, per motivi di sicurezza.
L'edificio più importante di Gerione, dopo il palazzo baronale, era la chiesa di Santa Maria, riconosciuta in un atto di donazione del 1172. L'edificio sacro, eretto nel XII secolo, si presentava privo di abside. L'ingresso principale era preceduto da un portichetto di legno. Sono state ritrovate tracce dell'altare sotto il quale era il reliquiario e tracce del fonte battesimale. Accanto alla chiesa vi era il cimitero, riutilizzato nel corso dei secoli, con deposizioni disposte su due livelli principali. Le sepolture più superficiali sono pertinenti la grande pestilenza e il terremoto del 1349.
Federico II nominò feudatario di Gerione Tommaso de Stipite. Durante questo periodo sono costruite le mura che cingono il colle e le torri. Verso la fine del XIII secolo il territorio in cui si trovava Gerione passò agli Angioini, di cui rimane testimonianza nei reperti di vasi in ceramica rinvenuti nel castello.
Il terremoto che colpì a morte Gerione il 9 settembre 1349 fu tra i più distruttivi che abbiano colpito l'Italia centromeridionale. Gli scavi ne hanno restituita traccia. Il castello di Gerione subì gravi danni che portarono al suo abbandono: crollò parte del palazzo baronale, molti edifici che si affacciavano sulla corte e i pavimenti. Anche la peste nera lasciò il suo segno a Gerione, soprattutto nelle fosse comuni.
Nel cimitero di Gerione sono state scavate 25 deposizioni del XIV secolo e sono stati studiati 12 scheletriche hanno restituito un quadro drammatico delle condizioni di vita nell'abitato. Gli scheletri esaminati presentano forti stress da lavoro pesante, ernie, schiacciamento delle vertebre, artrite, fratture ossee, sofferenza neurologica alle gambe. Tutti gli scheletri esaminati, inoltre, sono risultati affetti da anemie ereditarie, per difetto di ferro e di vitamine. Tartaro, carie, caduta dei denti ed ascessi caratterizzano i poveri resti, a testimonianza della scarsa igiene oltre che delle carenze alimentari.
Fonte: Le nebbie del tempo
Il Castello di Gerione, in provincia di Campobasso, è un piccolo insediamento fortificato a 616 metri di altitudine sulla valle del Cigno. La cittadella ha una forma ovoidale e dimensioni modeste. L'attestazione più antica risale al 1172, quando compare in un atto di donazione. Successivamente Gerione è ricordata in alcuni documenti del 1181 e del 1254 e in un importante documento del 1239-1241, di epoca sveva. Un atto del 1450 ricorda Gerione tra i feudi inabitati.
Dal 2003, anno in cui il comune di Casacalenda ha acquisito l'area, si conducono scavi nell'area per individuare le antiche origini dell'insediamento medioevale. I paesi che circondano Gerione riportano, nelle tradizioni, storie di distruzione ad opera di Annibale.
Il nome Gerione richiama quello di Gereonium, un anticoabitato dei Frentani ricordato da Polibio e da Livio in occasione delle drammatiche vicende della guerra annibalica. Annibale, infatti, conquistò Gereonium nel 217 a.C., ne trucidò gli abitanti e lo trasformò in una sorta di magazzino per il rifornimento delle sue truppe.
Gli scavi archeologici hanno evidenziato che in epoca sannitica Gerione era fortificato da una possente cinta muraria, un muro con doppia cortina risalente al IV-III secolo a.C. Oltre alle mura, dagli scavi è emersa una stele di Tanit, Dea Madre di Cartagine, che costituisce l'unico documento punico trovato nell'Italia continentale.
I documenti più sicuri risalgono al periodo dell'alto medioevo, con i Longobardi. Nell'VIII-IX secolo il colle dove sorge Gerione è ancora difeso dalle antiche mura sannitiche, per quanto fossero alquanto diroccate. Il luogo subì un'ulteriore distruzione con l'arrivo dei Normanni, nell'XI secolo. In un anfratto nella roccia, utilizzato all'epoca come discarica, un butto medioevale ha conservato ceneri di focolare, frammenti di ceramica di VI-VIII secolo, ossa di animali, tracce di attività siderurgica vicino alla grotta, come grumi di bronzo fuso, crogioli d'argilla e pezzi di mantice.
Gli archeologi hanno anche ritrovato le tracce di un violento incendio verificatosi tra l'XI e il XIII secolo, che deve aver posto fine alla Gerione longobarda. Si tratta, forse, delle tracce dell'arrivo dei Normanni che, comunque, incoraggiarono la ripresa delle normali attività del borgo, controllato da una torre con casale, un donjon fondato dal signore locale per controllare la sua proprietà. La torre, rettangolare, fu costruita prima dell'XI secolo e constava di tre piani per otto metri di altezza.
Tra l'XI e il XII secolo fu costruito il palazzo baronale normanno, su due piani, preceduto da un'ampia corte e con un grande salone a piano terra lastricato nel settore centrale. Il piano superiore raccoglieva, invece, la parte privata del palazzo che non aveva ingressi a livello del suolo, per motivi di sicurezza.
L'edificio più importante di Gerione, dopo il palazzo baronale, era la chiesa di Santa Maria, riconosciuta in un atto di donazione del 1172. L'edificio sacro, eretto nel XII secolo, si presentava privo di abside. L'ingresso principale era preceduto da un portichetto di legno. Sono state ritrovate tracce dell'altare sotto il quale era il reliquiario e tracce del fonte battesimale. Accanto alla chiesa vi era il cimitero, riutilizzato nel corso dei secoli, con deposizioni disposte su due livelli principali. Le sepolture più superficiali sono pertinenti la grande pestilenza e il terremoto del 1349.
Federico II nominò feudatario di Gerione Tommaso de Stipite. Durante questo periodo sono costruite le mura che cingono il colle e le torri. Verso la fine del XIII secolo il territorio in cui si trovava Gerione passò agli Angioini, di cui rimane testimonianza nei reperti di vasi in ceramica rinvenuti nel castello.
Il terremoto che colpì a morte Gerione il 9 settembre 1349 fu tra i più distruttivi che abbiano colpito l'Italia centromeridionale. Gli scavi ne hanno restituita traccia. Il castello di Gerione subì gravi danni che portarono al suo abbandono: crollò parte del palazzo baronale, molti edifici che si affacciavano sulla corte e i pavimenti. Anche la peste nera lasciò il suo segno a Gerione, soprattutto nelle fosse comuni.
Nel cimitero di Gerione sono state scavate 25 deposizioni del XIV secolo e sono stati studiati 12 scheletriche hanno restituito un quadro drammatico delle condizioni di vita nell'abitato. Gli scheletri esaminati presentano forti stress da lavoro pesante, ernie, schiacciamento delle vertebre, artrite, fratture ossee, sofferenza neurologica alle gambe. Tutti gli scheletri esaminati, inoltre, sono risultati affetti da anemie ereditarie, per difetto di ferro e di vitamine. Tartaro, carie, caduta dei denti ed ascessi caratterizzano i poveri resti, a testimonianza della scarsa igiene oltre che delle carenze alimentari.
Fonte: Le nebbie del tempo
mercoledì 19 dicembre 2012
Calendario Maya 2° e ultima parte
Calendario Maya 2° e ultima parte.
Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Oltre allo Tzolk’in, descritto ieri in questo quotidiano, i Maya avevano un altro calendario, che era legato al ciclo delle stagioni e del sole: l’Haab. Etimologicamente, il nome deriva da Ha, acqua, quindi un significato plausibile del termine potrebbe essere “ciò che produce o causa acqua”. Si presume che l’Haab fosse stato utilizzato per la prima volta intorno al 550 a.C., quando l’inizio dell’anno coincideva con il solstizio invernale. Se lo Tzolk’in era il calendario delle cerimonie religiose, l’Haab aveva un valore civile e scandiva il tempo dal punto di vista agricolo.
L’Haab era composto da 365 giorni, come il nostro attuale calendario, ma suddivisi in modo diverso: 18 periodi di 20 giorni ciascuno, chiamati Winal (Winalob al plurale) costituivano i mesi, ciascuno dedicato a una divinità; I cinque giorni rimanenti si chiamavano Wayeb ed erano giorni infausti ma importantissimi, perché tesi alla preparazione delle cerimonie di fine e inizio anno.
I venti giorni che componevano un mese erano numerati dallo 0 al 19. Questo perché il giorno 0 di ogni mese era considerato il giorno di insediamento del nuovo mese, mentre l’inizio effettivo del mese si aveva con il giorno 1. Dunque, per esempio, il giorno 0 Pop, il primo dell’anno, era considerato un giorno di transizione, mentre il mese Pop iniziava ufficialmente con il giorno 1 Pop. Si può paragonare questo concetto con la cerimonia dell’intronizzazione di un sovrano. Il giorno 0 è il momento in cui il re viene incoronato, ma il suo regno vero e proprio inizia dal giorno successivo. Allo stesso modo, ogni mese viene “incoronato” nel giorno 0, ma il suo corso inizia solo con il giorno 1.
Come i vari giorni dello Tzolk’in, tutti i mesi dell’Haab erano caratterizzati da una divinità protettrice e da cerimonie peculiari:
1. Pop era il primo mese dell’anno, ed era all’insegna del rinnovamento, Per questo, tutti gli oggetti d’uso quotidiano venivano cambiati: si sostituivano abiti vecchi con abiti nuovi, mentre altri oggetti, come il vasellame o le stuoie, venivano proprio distrutti. Le divinità connesse con questo mese erano due: il dio giaguaro, rappresentato anche nel glifo del mese, che era inteso come il dio della terra (sia della superficie sia delle profondità del sottosuolo) e Mam, la divinità che simboleggiava l’anno e responsabile dei terremoti.
2. Wo, il secondo mese, era caratterizzato da celebrazioni in onore degli dèi patroni dei sacerdoti. Nella mitologia, il nome di questo mese indicava le rane dei Chac, gli dèi della pioggia, che con il loro gracidio annunciavano imminenti precipitazioni. Il patrono del mese, però, era il giaguaro dell’inframondo.
3. Sip, il nome del terzo mese, etimologicamente significa “un tempo di cielo chiaro”. In questo periodo si svolgevano feste in onore di tre categorie di lavoratori: i cacciatori, i pescatori e i medici. Ognuno di questi gruppi svolgeva riti di purificazione che prevedevano che si dipingessero di azzurro degli strumenti tipici del proprio mestiere e che richiedevano sacrifici di sangue, mediante la pratica di fori o di taglietti nei lobi delle orecchie. Il patrono del mese era una divinità dalle sembianze serpentine, simile a Kukulkan.
4. Sotz’, il quarto mese, è rappresentato da un glifo raffigurante un pipistrello. Effettivamente, nel Popol Vuh si parla di un enorme pipistrello, Camatzotz, che è connesso con la morte. Il patrono di Sotz’ era un pesce, chiamato Xoc.
5. Sek, il quinto mese, aveva come dèi protettori i quattro Bacab, specialmente il Bacab rosso, corrispondente all’est, chiamato Hobnil Bacab. Le cerimonie di questo periodo erano dedicate al dio delle api, insetti importantissimi per la produzione del miele, sostanza che i Maya adoperavano per ottenere l’idromiele. Questo importante alcolico era usato sia per i suoi effetti curativi, sia perché era ritenuto magico a causa delle visioni che ispirava.
6. Xul, il nome del sesto mese, significa letteralmente “piantatoio per il mais”, un attrezzo che si usava per seminare i chicchi di mais. Dunque, questo nome è connesso al concetto di fine e di inizio. Xul, infatti, rappresentava la fine di un anno agricolo e l’inizio di quello nuovo, che si celebrava il giorno 16 Xul nella ricorrenza di Chic Kabanche, dedicata a Kukulkan. Il patrono del mese probabilmente era un dio canino appartenente all’inframondo, come quello raffigurato nel glifo corrispondente.
7. Yaxk’in, termine che designava il settimo mese, deriva dall’unione di Yax, “verde”, “azzurro” e K’in, cioè “giorno” o “sole”. Il significato di questo periodo era connesso con il concetto di inizio e di fondazione. Il patrono del mese era il dio del sole, festeggiato forse in concomitanza con Kukulkan e il fuoco nuovo.
8. Mol, appellativo dell’ottavo mese, derivava da una parola yucateca che significa “raccogliere”, “raggruppare”, ed era rappresentato da un glifo con acqua e giada. In questo mese vi era una festa importante, dedicata a tutte le divinità, celebrata in due modi. Il primo prevedeva che venissero dipinti di azzurro gli oggetti d’uso quotidiano, le porte degli edifici, le scritture sacre, le statue, ecc. e che i ragazzi e le ragazze fossero colpiti per nove volte sul palmo delle mani per diventare abili nel mestiere dei propri genitori. Nell’altra cerimonia alcuni scultori fabbricavano dei simulacri degli dèi da offrire alle varie divinità. Raffigurare gli dèi era un compito rischioso, perché se le divinità non fossero state soddisfatte del lavoro degli scultori, si sarebbero vendicate inviando a questi malattie o morte.
9. Ch’en, nome del nono mese, significa “cenote”, termine che indica delle cavità naturali contenenti acqua tipiche dello Yucatan, considerate dei pozzi sacri. Con Ch’en iniziavano i quattro mesi i cui glifi rimandano alla pioggia e alla tormenta (gli altri erano Yax, Sak e Keh). Il patrono di questo periodo era la luna.
10. Yax, il cui significato è “primo”, “tenero”, “verde”, è il decimo mese dell’Haab. È probabile che il patrono di questo mese fosse il dio del pianeta Venere. Proprio in questo periodo si celebrava la festività di Ocná, dedicata al rinnovamento dei templi di Chac, effettuato mediante la sostituzione degli idoli lignei e dei vasi di terracotta.
11. Sak, undicesimo mese, con tutta probabilità aveva come patrono il dio del mese maya, detto Winal, che veniva raffigurato con una testa di un rettile o di una rana. Nel mese di Sak i cacciatori celebravano una solennità tesa a chiedere perdono agli dèi per il sangue degli animali versato durante la caccia. Ciò dimostra il profondo rispetto che i Maya nutrivano per gli animali. Se questo sentimento di rispetto veniva meno, lo spirito tutelare dell’animale cacciato non avrebbe più concesso il successo nella caccia al sacrilego. Inoltre, presso i Maya vi era una cerimonia di espiazione dopo l’uccisione dell’animale, che obbligava il cacciatore a versare il proprio sangue sulle ferite dell’animale.
12. Keh, il dodicesimo mese, era l’ultimo dei quattro mesi che nel glifo possedevano il segno Kawak, associato con la tempesta. Il patrono di Keh era legato al dio del cielo, mentre il suo glifo rappresenta un cervo.
13. Mak, il tredicesimo mese, significa “fine”, “chiudere”, “coprire” e forse è anche per questo che Thompson ritiene che Mak segni la fine del calendario Tzolk’in. Il patrono del mese è il dio del numero 3, probabilmente una rappresentazione del dio del mais. In questo periodo cadeva la solennità Tupp Kak, celebrata in onore di Itzamna e dei quattro Chac per ottenere delle piogge abbondanti.
14. K’ank’in, nome che deriva da Kan, “giallo” e K’in, “sole”, “giorno”, era il quattordicesimo mese dell’Haab e faceva riferimento al periodo di maturazione del mais. Questo mese era patrocinato da una divinità della terra.
15. Muwan, il quindicesimo mese, aveva lo stesso nome di un uccello associato all’acqua, alle piogge e alle nubi, che altri non era che il patrono di Muwan. Questo mese era dedicato a Ek Chuah, divinità protettrice dei mercanti e del cacao (che veniva usato come moneta in tutta la Mesoamerica) e di Hobnil, il Bacab rosso.
16. Pax, il sedicesimo mese, era patrocinato dal giaguaro o dal puma. Nei venti giorni di Pax si svolgeva la cerimonia di Pacum Chac, in onore del dio Cit Chac Coh, il “padre puma rosso”, in cui il Nacom (il capitano di guerra), era portato nel tempio del dio per assistere alla danza dei guerrieri. Successivamente si celebrava un rito propiziatorio alla vittoria in guerra, dove si offrivano i cuori degli animali a Cit Chac Coh, gettandoli nelle fiamme. La cerimonia si concludeva con un banchetto finale in cui tutti, meno il Nacom, si ubriacavano. Dopo il Pacum Chac, i vari villaggi stabilivano la data delle celebrazioni festive degli ultimi tre mesi dell’anno.
17. K’ayab, diciassettesimo mese dell’Haab, era raffigurato in un glifo rappresentante una testa di pappagallo. Nel Popol Vuh compare una sorta di divinità pappagallo, Vucub K’aquix, che fingeva di essere il sole per ricevere i sacrifici da tutte le creature viventi. Costui fu però punito in seguito da Hunahpú e Ixbalanqué, i gemelli prodigiosi. Il mese era dedicato a una dea della luna crescente, patrona della medicina. K’ayab segnava l’inizio delle celebrazioni che si svolgevano negli ultimi quaranta giorni dell’anno, chiamate Sabacil Than. Nonostante conservassero le pratiche della purificazione, delle danze e dei banchetti, tali festività avevano un carattere privato, poiché si celebravano nella casa di chi le organizzava, ed erano quindi più contenute.
18. Kumk’ú era l’ultimo mese di venti giorni, e la sua chiusura coincideva con la fine del Tun, l’anno di 360 giorni. In questo mese proseguivano le feste del Sabacil Than e il patrono celebrato era il coccodrillo o un essere celeste. Inoltre, l’8 Kumk’ú era considerata la data mitica dell’inizio del calendario Haab.
L’ultimo periodo dell’Haab era chiamato Wayeb ed era composto da soli cinque giorni. Si ritiene che una probabile radice di Wayeb sia Way, cioè “minaccia”, “dramma”. Il significato complessivo però si lega a concetti come “letto da cui ci si alza” o “stanza dalla quale si esce”. Questi cinque giorni avevano una particolarità, segnalata anche dal loro appellativo Xma Baba Kin, ovvero “giorni senza nome”. I giorni del Wayeb non avevano un nome perché dovevano cancellare le influenze dei giorni precedenti dall’anno venturo, tanto che anche i giorni dello Tzolk’in che transitavano in questo periodo dell’anno perdevano il proprio carattere. Questa neutralità rendeva impossibile prevedere gli effetti del mondo trascendente sulla natura e sull’uomo e proprio per questo i cinque giorni del Wayeb erano considerati nefasti e pericolosi. Perciò, i Maya li passavano svolgendo meno attività possibili: stavano chiusi in casa, non si lavavano né pettinavano, digiunavano e si astenevano dai rapporti sessuali. Il Wayeb dunque era un abisso che divideva il tempo vecchio da quello nuovo e che segnava una rottura nel flusso ininterrotto del tempo.
Tuttavia, ricalcando un pensiero tipicamente maya, questa sorte di “morte del tempo” era necessaria per la successiva rinascita. Questo è testimoniato dal fatto che già nei giorni del Wayeb si effettuavano sia le cerimonie di purificazione tipiche di questo periodo, sia i riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno. Questi ultimi variavano a seconda del giorno Tzolk’in con cui sarebbe cominciato l’anno nuovo. In ogni caso, però, le celebrazioni consistevano in sacrifici di animali, autosacrifici, banchetti e offerte di cibo agli dèi. Tutto ciò si compiva nella casa prescelta, in cui gli idoli dell’anno vecchio e dell’anno nuovo venivano posti uno di fronte all’altro. Una volta terminati i giorni del Wayeb, l’idolo della divinità protettrice del nuovo anno veniva condotto nel tempio, mentre l’idolo dell’anno vecchio veniva collocato all’ingresso della città. Gli idoli avrebbero conservato la propria posizione per i prossimi 365 giorni.
A questo punto bisogna sottolineare che i giorni Tzolk’in con cui iniziava l’anno potevano essere solo quattro, che all’epoca della conquista spagnola erano: K’an, Muluk, Ix e Kawak. Questi giorni erano contrassegnati da un valore mitologico non indifferente e consentivano di prevedere la qualità dell’anno che stava per iniziare: gli anni K’an erano favorevoli, i Muluk molto favorevoli, mentre gli anni Ix erano negativi, anche se non quanto i Kawak, che erano considerati molto sfavorevoli.
A prescindere dal tipo di anno, però, le degenerazioni erano sempre in agguato. Se in un anno le calamità si facevano particolarmente insistenti, si pregavano delle determinate divinità ausiliarie, affinché accorressero in aiuto della comunità. Naturalmente ogni anno aveva delle specifiche divinità ausiliarie e dei riti relativi, anche cruenti, a seconda del problema che affliggeva gli uomini. I riti di fine anno erano importanti soprattutto per le donne, poiché erano le uniche celebrazioni alle quali potevano assistere e addirittura partecipare con delle danze a loro riservate.
Per la definizione completa di una data i Maya ricorrevano a entrambi i calendari illustrati. Il nome del giorno si componeva dunque del numerale e della denominazione dello Tzolk’in più il numerale e il mese dell’Haab. Diversi studiosi hanno concepito questi due calendari come due ruote di un ingranaggio, di raggio differente, i cui denti si incastrano tra loro per comporre il nome completo di un giorno.
La differenza di lunghezza tra lo Tzolk’in e l’Haab faceva in modo che ogni anno i giorni avessero sempre un nome diverso rispetto all’anno prima. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, le combinazioni tra la denominazione dello Tzolk’in e dell’Haab tornavano a ripetersi. E questo periodo di tempo era dato dal minimo comune multiplo tra il numero dei giorni dei due calendari: lo Tzolk’in durava 260 giorni, ovvero 5 x 52, mentre l’Haab copriva un periodo di 365 giorni, cioè 5 x 73. Il minimo comune multiplo è dunque 5 x 52 x 73, pari a 18.980 giorni o, se vogliamo esprimere il conto secondo un’unità di misura più comoda, 52 anni.
Gli storici chiamano questo periodo Calendar round, calendario rotondo, proprio perché dopo 52 anni (quindi dopo 52 Haab o 73 Tzolk’in) gli accoppiamenti tra le date Haab e Tzolk’in tornavano a ripetersi.
Oltre a questi cicli, però, ve ne era un altro di fondamentale importanza per la profezia che tanto ha scatenato il panico nel corso di quest’anno. Si tratta del conto lungo, un tipico prodotto culturale dei Maya che contava il tempo trascorso a partire dalla data mitica dell’origine del mondo, che corrispondeva a 4 Ajaw 8 Kumk’ú. Da questo giorno, che possiamo considerare una sorta di anno zero, i Maya hanno iniziato a contare gli anni del conto lungo basandosi su cinque cicli principali:
- K’in, l’unità base del computo del tempo, corrispondeva a un giorno, inteso come l’insieme di notte e dì. I Maya, infatti, concepivano il cammino del sole sotto un duplice aspetto: da una parte vi era un viaggio celeste, compiuto dall’astro nella volta del cielo durante le ore di luce, ma dall’altra vi era un viaggio nelle viscere del sottosuolo, che costituivano la partenza e il ritorno del disco solare nel suo percorso quotidiano. Questa duplice concezione del sole, corrispondente alla divisione della giornata, rispecchia anche l’opposizione tra la fase di fecondazione-generazione e quella di nascita. La generazione, che può essere quella quotidiana del seme di mais o quella mitica dell’uomo, avviene al buio (come per esempio la sepoltura del seme), atmosfera simbolo di morte, ma anche di fecondazione. La nascita segna invece il passaggio dalle tenebre alla luce. Dunque, la parte luminosa del giorno si collocava sotto la protezione delle tredici divinità del cielo, dette Oxlahutikú, mentre la parte buia era patrocinata dalle nove divinità del sottosuolo, i Bolontikú. Il glifo K’in può essere un ritratto del dio sole, posto di profilo, oppure un segno che somiglia a un fiore con quattro petali, simboli dei quattro punti cardinali o dei quattro punti di levata e tramonto del sole nei solstizi invernale ed estivo. Il numerale dei K’in si azzera a 20.
- Winal, periodo dato dalla successione di 20 K’in, cioè 20 giorni. Come si è potuto notare, il 20 nella cultura maya era il numero fondamentale, poiché anche i calcoli venivano effettuati su base vigesimale, a differenza dei nostri che sfruttano la base decimale. Il glifo rappresentante lo Winal è una rana, ma questo periodo simboleggiava anche la luna, poiché in alcune varianti del glifo viene raffigurato proprio questo corpo celeste. Nel conto lungo, il ciclo degli Winal finisce a 18.
- Tun, periodo che, come già accennato, si compone di 360 giorni, è un ciclo Haab senza il Wayeb, ovvero senza i cinque giorni infausti. Dal punto di vista del conto lungo, un Tun era composto da 18 Winal. Questo era l’unico ciclo calendariale che si discostava dalla base vigesimale per raccordare l’aritmetica all’anno solare. L’etimologia della parola Tun può avere significati diversi, che andavano da “pietra”, a “monumento” a “nocciolo di un frutto”. Quello più diffuso in Yucatan è il primo, poiché per Tun si intende una pietra preziosa, una giada. Il glifo del Tun, invece, contiene un segno che si associa con l’acqua, elemento che si connette anche alla giada, come si è già visto per il giorno di Muluk e per il mese di Mol. Nel conto lungo, il ciclo dei Tun si azzera una volta superato il 20.
- K’atun, ciclo di 7.200 giorni, prende nome dall’unione di Kal, “venti”, e Tun; il significato corrisponderebbe dunque a “venti pietre”. Il K’atun era quindi composto da 20 Tun, un periodo di poco meno di 20 anni. Quando finiva un K’atun si tenevano delle cerimonie pubbliche in cui il reggente si trapassava la lingua o il pene e raccoglieva il sangue che ne sgorgava su una carta, che veniva bruciata in onore degli dèi. A conclusione del rito, veniva eretta una stele commemorativa. Il ciclo dei K’atun finisce a 20.
- Bak’tun, il periodo di 144.000 giorni, corrisponde a 20 K’atun, quindi a circa 400 anni (per la precisione 394,3 anni). Letteralmente, il nome significa “quattrocento pietre”, ma il termine in lingua originale è sconosciuto. La definizione di Bak’tun è stata ricavata, come per i cicli più lunghi, dallo yucateco contemporaneo. Il numerale dei Bak’tun si azzera una volta superato il 13.
Questi sono i cicli principali utilizzati nel conto lungo dei Maya, ma in realtà esisterebbero dei cicli ancora più lunghi, sempre costituiti seguendo la base vigesimale: il Pictun, composto da 20 Bak’tun, il Calabtun, formato da 20 Pictun, il Kinchiltun, che corrisponde a 20 Calabtun e infine l’Alautun, che vale 20 Kinchiltun.
I numeri che designano un giorno nel conto lungo fanno però riferimento principalmente ai cinque cicli menzionati in precedenza. La data dell’origine del mondo può essere dunque scritta in questo modo: 0.0.0.0.0, 4 Ajaw 8 Kumk’ú, dove il primo zero a partire da sinistra corrisponde ai Bak’tun, il secondo ai K’atun, il terzo ai Tun, il quarto ai Winal e l’ultimo ai K’in.
Le predizioni che vogliono che la fine del mondo avvenga il 21 dicembre 2012 si basano proprio sui cicli del conto lungo. Quel giorno, infatti, terminerà il tredicesimo Bak’tun (data che si può scrivere sia in questo modo 13.0.0.0.0, sia in questo 0.0.0.0.0), il ciclo che determina la fine di un’era.
La nostra mente occidentale ricollega tutto questo a un’apocalisse, alla fine dell’universo che conosciamo. Tuttavia, se veramente vogliamo capire i Maya, non possiamo fermarci a considerare le cose da una prospettiva occidentale, ma dobbiamo imparare a porci da un altro punto di vista. Quella che la nostra mentalità interpreta come la fine del mondo, per i Maya è solo la fine di un’epoca, la fine di un ciclo al quale ne seguirà un altro. Non bisogna dimenticare, infatti, che per i Maya il tempo era ciclico e il suo corso si poteva rappresentare con una spirale; il tempo, in altre parole, non era una pura ripetizione di fatti già accaduti, ma un progresso verso la perfezione che continuava di era in era.
Ne è una dimostrazione il racconto mitologico della creazione dell’uomo contenuto nel Popol Vuh. In questo mito, l’uomo viene creato in cinque fasi, ognuna delle quali dura 13 Bak’tun. Nelle prime fasi, la creazione dell’uomo si rivela una fallimento, che porta con sé altri tentativi di creazione fino alla definitiva riuscita. Ogni ciclo della creazione, dunque, non preannuncia una fine, ma un continuo progresso del tempo. E, se ricordiamo il concetto di fine secondo il pensiero maya, dovremmo ricordare anche che non si tratta di un epilogo definitivo, ma il punto di partenza di un nuovo inizio. Ciò che per noi dunque rappresenta una fine senza appello, per i Maya è un momento di passaggio da una condizione a un’altra.
In conclusione, i Maya non hanno mai pensato che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 2012. Siamo noi gli artefici veri di questa profezia, prodotto dell’incomprensione tra culture diverse.
Fonti:
- THOMPSON, John Eric Sydney, La civiltà Maya, Einaudi Tascabili Saggi, Torino, 1994;
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.
Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Oltre allo Tzolk’in, descritto ieri in questo quotidiano, i Maya avevano un altro calendario, che era legato al ciclo delle stagioni e del sole: l’Haab. Etimologicamente, il nome deriva da Ha, acqua, quindi un significato plausibile del termine potrebbe essere “ciò che produce o causa acqua”. Si presume che l’Haab fosse stato utilizzato per la prima volta intorno al 550 a.C., quando l’inizio dell’anno coincideva con il solstizio invernale. Se lo Tzolk’in era il calendario delle cerimonie religiose, l’Haab aveva un valore civile e scandiva il tempo dal punto di vista agricolo.
L’Haab era composto da 365 giorni, come il nostro attuale calendario, ma suddivisi in modo diverso: 18 periodi di 20 giorni ciascuno, chiamati Winal (Winalob al plurale) costituivano i mesi, ciascuno dedicato a una divinità; I cinque giorni rimanenti si chiamavano Wayeb ed erano giorni infausti ma importantissimi, perché tesi alla preparazione delle cerimonie di fine e inizio anno.
I venti giorni che componevano un mese erano numerati dallo 0 al 19. Questo perché il giorno 0 di ogni mese era considerato il giorno di insediamento del nuovo mese, mentre l’inizio effettivo del mese si aveva con il giorno 1. Dunque, per esempio, il giorno 0 Pop, il primo dell’anno, era considerato un giorno di transizione, mentre il mese Pop iniziava ufficialmente con il giorno 1 Pop. Si può paragonare questo concetto con la cerimonia dell’intronizzazione di un sovrano. Il giorno 0 è il momento in cui il re viene incoronato, ma il suo regno vero e proprio inizia dal giorno successivo. Allo stesso modo, ogni mese viene “incoronato” nel giorno 0, ma il suo corso inizia solo con il giorno 1.
Come i vari giorni dello Tzolk’in, tutti i mesi dell’Haab erano caratterizzati da una divinità protettrice e da cerimonie peculiari:
1. Pop era il primo mese dell’anno, ed era all’insegna del rinnovamento, Per questo, tutti gli oggetti d’uso quotidiano venivano cambiati: si sostituivano abiti vecchi con abiti nuovi, mentre altri oggetti, come il vasellame o le stuoie, venivano proprio distrutti. Le divinità connesse con questo mese erano due: il dio giaguaro, rappresentato anche nel glifo del mese, che era inteso come il dio della terra (sia della superficie sia delle profondità del sottosuolo) e Mam, la divinità che simboleggiava l’anno e responsabile dei terremoti.
2. Wo, il secondo mese, era caratterizzato da celebrazioni in onore degli dèi patroni dei sacerdoti. Nella mitologia, il nome di questo mese indicava le rane dei Chac, gli dèi della pioggia, che con il loro gracidio annunciavano imminenti precipitazioni. Il patrono del mese, però, era il giaguaro dell’inframondo.
3. Sip, il nome del terzo mese, etimologicamente significa “un tempo di cielo chiaro”. In questo periodo si svolgevano feste in onore di tre categorie di lavoratori: i cacciatori, i pescatori e i medici. Ognuno di questi gruppi svolgeva riti di purificazione che prevedevano che si dipingessero di azzurro degli strumenti tipici del proprio mestiere e che richiedevano sacrifici di sangue, mediante la pratica di fori o di taglietti nei lobi delle orecchie. Il patrono del mese era una divinità dalle sembianze serpentine, simile a Kukulkan.
4. Sotz’, il quarto mese, è rappresentato da un glifo raffigurante un pipistrello. Effettivamente, nel Popol Vuh si parla di un enorme pipistrello, Camatzotz, che è connesso con la morte. Il patrono di Sotz’ era un pesce, chiamato Xoc.
5. Sek, il quinto mese, aveva come dèi protettori i quattro Bacab, specialmente il Bacab rosso, corrispondente all’est, chiamato Hobnil Bacab. Le cerimonie di questo periodo erano dedicate al dio delle api, insetti importantissimi per la produzione del miele, sostanza che i Maya adoperavano per ottenere l’idromiele. Questo importante alcolico era usato sia per i suoi effetti curativi, sia perché era ritenuto magico a causa delle visioni che ispirava.
6. Xul, il nome del sesto mese, significa letteralmente “piantatoio per il mais”, un attrezzo che si usava per seminare i chicchi di mais. Dunque, questo nome è connesso al concetto di fine e di inizio. Xul, infatti, rappresentava la fine di un anno agricolo e l’inizio di quello nuovo, che si celebrava il giorno 16 Xul nella ricorrenza di Chic Kabanche, dedicata a Kukulkan. Il patrono del mese probabilmente era un dio canino appartenente all’inframondo, come quello raffigurato nel glifo corrispondente.
7. Yaxk’in, termine che designava il settimo mese, deriva dall’unione di Yax, “verde”, “azzurro” e K’in, cioè “giorno” o “sole”. Il significato di questo periodo era connesso con il concetto di inizio e di fondazione. Il patrono del mese era il dio del sole, festeggiato forse in concomitanza con Kukulkan e il fuoco nuovo.
8. Mol, appellativo dell’ottavo mese, derivava da una parola yucateca che significa “raccogliere”, “raggruppare”, ed era rappresentato da un glifo con acqua e giada. In questo mese vi era una festa importante, dedicata a tutte le divinità, celebrata in due modi. Il primo prevedeva che venissero dipinti di azzurro gli oggetti d’uso quotidiano, le porte degli edifici, le scritture sacre, le statue, ecc. e che i ragazzi e le ragazze fossero colpiti per nove volte sul palmo delle mani per diventare abili nel mestiere dei propri genitori. Nell’altra cerimonia alcuni scultori fabbricavano dei simulacri degli dèi da offrire alle varie divinità. Raffigurare gli dèi era un compito rischioso, perché se le divinità non fossero state soddisfatte del lavoro degli scultori, si sarebbero vendicate inviando a questi malattie o morte.
9. Ch’en, nome del nono mese, significa “cenote”, termine che indica delle cavità naturali contenenti acqua tipiche dello Yucatan, considerate dei pozzi sacri. Con Ch’en iniziavano i quattro mesi i cui glifi rimandano alla pioggia e alla tormenta (gli altri erano Yax, Sak e Keh). Il patrono di questo periodo era la luna.
10. Yax, il cui significato è “primo”, “tenero”, “verde”, è il decimo mese dell’Haab. È probabile che il patrono di questo mese fosse il dio del pianeta Venere. Proprio in questo periodo si celebrava la festività di Ocná, dedicata al rinnovamento dei templi di Chac, effettuato mediante la sostituzione degli idoli lignei e dei vasi di terracotta.
11. Sak, undicesimo mese, con tutta probabilità aveva come patrono il dio del mese maya, detto Winal, che veniva raffigurato con una testa di un rettile o di una rana. Nel mese di Sak i cacciatori celebravano una solennità tesa a chiedere perdono agli dèi per il sangue degli animali versato durante la caccia. Ciò dimostra il profondo rispetto che i Maya nutrivano per gli animali. Se questo sentimento di rispetto veniva meno, lo spirito tutelare dell’animale cacciato non avrebbe più concesso il successo nella caccia al sacrilego. Inoltre, presso i Maya vi era una cerimonia di espiazione dopo l’uccisione dell’animale, che obbligava il cacciatore a versare il proprio sangue sulle ferite dell’animale.
12. Keh, il dodicesimo mese, era l’ultimo dei quattro mesi che nel glifo possedevano il segno Kawak, associato con la tempesta. Il patrono di Keh era legato al dio del cielo, mentre il suo glifo rappresenta un cervo.
13. Mak, il tredicesimo mese, significa “fine”, “chiudere”, “coprire” e forse è anche per questo che Thompson ritiene che Mak segni la fine del calendario Tzolk’in. Il patrono del mese è il dio del numero 3, probabilmente una rappresentazione del dio del mais. In questo periodo cadeva la solennità Tupp Kak, celebrata in onore di Itzamna e dei quattro Chac per ottenere delle piogge abbondanti.
14. K’ank’in, nome che deriva da Kan, “giallo” e K’in, “sole”, “giorno”, era il quattordicesimo mese dell’Haab e faceva riferimento al periodo di maturazione del mais. Questo mese era patrocinato da una divinità della terra.
15. Muwan, il quindicesimo mese, aveva lo stesso nome di un uccello associato all’acqua, alle piogge e alle nubi, che altri non era che il patrono di Muwan. Questo mese era dedicato a Ek Chuah, divinità protettrice dei mercanti e del cacao (che veniva usato come moneta in tutta la Mesoamerica) e di Hobnil, il Bacab rosso.
16. Pax, il sedicesimo mese, era patrocinato dal giaguaro o dal puma. Nei venti giorni di Pax si svolgeva la cerimonia di Pacum Chac, in onore del dio Cit Chac Coh, il “padre puma rosso”, in cui il Nacom (il capitano di guerra), era portato nel tempio del dio per assistere alla danza dei guerrieri. Successivamente si celebrava un rito propiziatorio alla vittoria in guerra, dove si offrivano i cuori degli animali a Cit Chac Coh, gettandoli nelle fiamme. La cerimonia si concludeva con un banchetto finale in cui tutti, meno il Nacom, si ubriacavano. Dopo il Pacum Chac, i vari villaggi stabilivano la data delle celebrazioni festive degli ultimi tre mesi dell’anno.
17. K’ayab, diciassettesimo mese dell’Haab, era raffigurato in un glifo rappresentante una testa di pappagallo. Nel Popol Vuh compare una sorta di divinità pappagallo, Vucub K’aquix, che fingeva di essere il sole per ricevere i sacrifici da tutte le creature viventi. Costui fu però punito in seguito da Hunahpú e Ixbalanqué, i gemelli prodigiosi. Il mese era dedicato a una dea della luna crescente, patrona della medicina. K’ayab segnava l’inizio delle celebrazioni che si svolgevano negli ultimi quaranta giorni dell’anno, chiamate Sabacil Than. Nonostante conservassero le pratiche della purificazione, delle danze e dei banchetti, tali festività avevano un carattere privato, poiché si celebravano nella casa di chi le organizzava, ed erano quindi più contenute.
18. Kumk’ú era l’ultimo mese di venti giorni, e la sua chiusura coincideva con la fine del Tun, l’anno di 360 giorni. In questo mese proseguivano le feste del Sabacil Than e il patrono celebrato era il coccodrillo o un essere celeste. Inoltre, l’8 Kumk’ú era considerata la data mitica dell’inizio del calendario Haab.
L’ultimo periodo dell’Haab era chiamato Wayeb ed era composto da soli cinque giorni. Si ritiene che una probabile radice di Wayeb sia Way, cioè “minaccia”, “dramma”. Il significato complessivo però si lega a concetti come “letto da cui ci si alza” o “stanza dalla quale si esce”. Questi cinque giorni avevano una particolarità, segnalata anche dal loro appellativo Xma Baba Kin, ovvero “giorni senza nome”. I giorni del Wayeb non avevano un nome perché dovevano cancellare le influenze dei giorni precedenti dall’anno venturo, tanto che anche i giorni dello Tzolk’in che transitavano in questo periodo dell’anno perdevano il proprio carattere. Questa neutralità rendeva impossibile prevedere gli effetti del mondo trascendente sulla natura e sull’uomo e proprio per questo i cinque giorni del Wayeb erano considerati nefasti e pericolosi. Perciò, i Maya li passavano svolgendo meno attività possibili: stavano chiusi in casa, non si lavavano né pettinavano, digiunavano e si astenevano dai rapporti sessuali. Il Wayeb dunque era un abisso che divideva il tempo vecchio da quello nuovo e che segnava una rottura nel flusso ininterrotto del tempo.
Tuttavia, ricalcando un pensiero tipicamente maya, questa sorte di “morte del tempo” era necessaria per la successiva rinascita. Questo è testimoniato dal fatto che già nei giorni del Wayeb si effettuavano sia le cerimonie di purificazione tipiche di questo periodo, sia i riti propiziatori per l’inizio del nuovo anno. Questi ultimi variavano a seconda del giorno Tzolk’in con cui sarebbe cominciato l’anno nuovo. In ogni caso, però, le celebrazioni consistevano in sacrifici di animali, autosacrifici, banchetti e offerte di cibo agli dèi. Tutto ciò si compiva nella casa prescelta, in cui gli idoli dell’anno vecchio e dell’anno nuovo venivano posti uno di fronte all’altro. Una volta terminati i giorni del Wayeb, l’idolo della divinità protettrice del nuovo anno veniva condotto nel tempio, mentre l’idolo dell’anno vecchio veniva collocato all’ingresso della città. Gli idoli avrebbero conservato la propria posizione per i prossimi 365 giorni.
A questo punto bisogna sottolineare che i giorni Tzolk’in con cui iniziava l’anno potevano essere solo quattro, che all’epoca della conquista spagnola erano: K’an, Muluk, Ix e Kawak. Questi giorni erano contrassegnati da un valore mitologico non indifferente e consentivano di prevedere la qualità dell’anno che stava per iniziare: gli anni K’an erano favorevoli, i Muluk molto favorevoli, mentre gli anni Ix erano negativi, anche se non quanto i Kawak, che erano considerati molto sfavorevoli.
A prescindere dal tipo di anno, però, le degenerazioni erano sempre in agguato. Se in un anno le calamità si facevano particolarmente insistenti, si pregavano delle determinate divinità ausiliarie, affinché accorressero in aiuto della comunità. Naturalmente ogni anno aveva delle specifiche divinità ausiliarie e dei riti relativi, anche cruenti, a seconda del problema che affliggeva gli uomini. I riti di fine anno erano importanti soprattutto per le donne, poiché erano le uniche celebrazioni alle quali potevano assistere e addirittura partecipare con delle danze a loro riservate.
Per la definizione completa di una data i Maya ricorrevano a entrambi i calendari illustrati. Il nome del giorno si componeva dunque del numerale e della denominazione dello Tzolk’in più il numerale e il mese dell’Haab. Diversi studiosi hanno concepito questi due calendari come due ruote di un ingranaggio, di raggio differente, i cui denti si incastrano tra loro per comporre il nome completo di un giorno.
La differenza di lunghezza tra lo Tzolk’in e l’Haab faceva in modo che ogni anno i giorni avessero sempre un nome diverso rispetto all’anno prima. Tuttavia, dopo un certo periodo di tempo, le combinazioni tra la denominazione dello Tzolk’in e dell’Haab tornavano a ripetersi. E questo periodo di tempo era dato dal minimo comune multiplo tra il numero dei giorni dei due calendari: lo Tzolk’in durava 260 giorni, ovvero 5 x 52, mentre l’Haab copriva un periodo di 365 giorni, cioè 5 x 73. Il minimo comune multiplo è dunque 5 x 52 x 73, pari a 18.980 giorni o, se vogliamo esprimere il conto secondo un’unità di misura più comoda, 52 anni.
Gli storici chiamano questo periodo Calendar round, calendario rotondo, proprio perché dopo 52 anni (quindi dopo 52 Haab o 73 Tzolk’in) gli accoppiamenti tra le date Haab e Tzolk’in tornavano a ripetersi.
Oltre a questi cicli, però, ve ne era un altro di fondamentale importanza per la profezia che tanto ha scatenato il panico nel corso di quest’anno. Si tratta del conto lungo, un tipico prodotto culturale dei Maya che contava il tempo trascorso a partire dalla data mitica dell’origine del mondo, che corrispondeva a 4 Ajaw 8 Kumk’ú. Da questo giorno, che possiamo considerare una sorta di anno zero, i Maya hanno iniziato a contare gli anni del conto lungo basandosi su cinque cicli principali:
- K’in, l’unità base del computo del tempo, corrispondeva a un giorno, inteso come l’insieme di notte e dì. I Maya, infatti, concepivano il cammino del sole sotto un duplice aspetto: da una parte vi era un viaggio celeste, compiuto dall’astro nella volta del cielo durante le ore di luce, ma dall’altra vi era un viaggio nelle viscere del sottosuolo, che costituivano la partenza e il ritorno del disco solare nel suo percorso quotidiano. Questa duplice concezione del sole, corrispondente alla divisione della giornata, rispecchia anche l’opposizione tra la fase di fecondazione-generazione e quella di nascita. La generazione, che può essere quella quotidiana del seme di mais o quella mitica dell’uomo, avviene al buio (come per esempio la sepoltura del seme), atmosfera simbolo di morte, ma anche di fecondazione. La nascita segna invece il passaggio dalle tenebre alla luce. Dunque, la parte luminosa del giorno si collocava sotto la protezione delle tredici divinità del cielo, dette Oxlahutikú, mentre la parte buia era patrocinata dalle nove divinità del sottosuolo, i Bolontikú. Il glifo K’in può essere un ritratto del dio sole, posto di profilo, oppure un segno che somiglia a un fiore con quattro petali, simboli dei quattro punti cardinali o dei quattro punti di levata e tramonto del sole nei solstizi invernale ed estivo. Il numerale dei K’in si azzera a 20.
- Winal, periodo dato dalla successione di 20 K’in, cioè 20 giorni. Come si è potuto notare, il 20 nella cultura maya era il numero fondamentale, poiché anche i calcoli venivano effettuati su base vigesimale, a differenza dei nostri che sfruttano la base decimale. Il glifo rappresentante lo Winal è una rana, ma questo periodo simboleggiava anche la luna, poiché in alcune varianti del glifo viene raffigurato proprio questo corpo celeste. Nel conto lungo, il ciclo degli Winal finisce a 18.
- Tun, periodo che, come già accennato, si compone di 360 giorni, è un ciclo Haab senza il Wayeb, ovvero senza i cinque giorni infausti. Dal punto di vista del conto lungo, un Tun era composto da 18 Winal. Questo era l’unico ciclo calendariale che si discostava dalla base vigesimale per raccordare l’aritmetica all’anno solare. L’etimologia della parola Tun può avere significati diversi, che andavano da “pietra”, a “monumento” a “nocciolo di un frutto”. Quello più diffuso in Yucatan è il primo, poiché per Tun si intende una pietra preziosa, una giada. Il glifo del Tun, invece, contiene un segno che si associa con l’acqua, elemento che si connette anche alla giada, come si è già visto per il giorno di Muluk e per il mese di Mol. Nel conto lungo, il ciclo dei Tun si azzera una volta superato il 20.
- K’atun, ciclo di 7.200 giorni, prende nome dall’unione di Kal, “venti”, e Tun; il significato corrisponderebbe dunque a “venti pietre”. Il K’atun era quindi composto da 20 Tun, un periodo di poco meno di 20 anni. Quando finiva un K’atun si tenevano delle cerimonie pubbliche in cui il reggente si trapassava la lingua o il pene e raccoglieva il sangue che ne sgorgava su una carta, che veniva bruciata in onore degli dèi. A conclusione del rito, veniva eretta una stele commemorativa. Il ciclo dei K’atun finisce a 20.
- Bak’tun, il periodo di 144.000 giorni, corrisponde a 20 K’atun, quindi a circa 400 anni (per la precisione 394,3 anni). Letteralmente, il nome significa “quattrocento pietre”, ma il termine in lingua originale è sconosciuto. La definizione di Bak’tun è stata ricavata, come per i cicli più lunghi, dallo yucateco contemporaneo. Il numerale dei Bak’tun si azzera una volta superato il 13.
Questi sono i cicli principali utilizzati nel conto lungo dei Maya, ma in realtà esisterebbero dei cicli ancora più lunghi, sempre costituiti seguendo la base vigesimale: il Pictun, composto da 20 Bak’tun, il Calabtun, formato da 20 Pictun, il Kinchiltun, che corrisponde a 20 Calabtun e infine l’Alautun, che vale 20 Kinchiltun.
I numeri che designano un giorno nel conto lungo fanno però riferimento principalmente ai cinque cicli menzionati in precedenza. La data dell’origine del mondo può essere dunque scritta in questo modo: 0.0.0.0.0, 4 Ajaw 8 Kumk’ú, dove il primo zero a partire da sinistra corrisponde ai Bak’tun, il secondo ai K’atun, il terzo ai Tun, il quarto ai Winal e l’ultimo ai K’in.
Le predizioni che vogliono che la fine del mondo avvenga il 21 dicembre 2012 si basano proprio sui cicli del conto lungo. Quel giorno, infatti, terminerà il tredicesimo Bak’tun (data che si può scrivere sia in questo modo 13.0.0.0.0, sia in questo 0.0.0.0.0), il ciclo che determina la fine di un’era.
La nostra mente occidentale ricollega tutto questo a un’apocalisse, alla fine dell’universo che conosciamo. Tuttavia, se veramente vogliamo capire i Maya, non possiamo fermarci a considerare le cose da una prospettiva occidentale, ma dobbiamo imparare a porci da un altro punto di vista. Quella che la nostra mentalità interpreta come la fine del mondo, per i Maya è solo la fine di un’epoca, la fine di un ciclo al quale ne seguirà un altro. Non bisogna dimenticare, infatti, che per i Maya il tempo era ciclico e il suo corso si poteva rappresentare con una spirale; il tempo, in altre parole, non era una pura ripetizione di fatti già accaduti, ma un progresso verso la perfezione che continuava di era in era.
Ne è una dimostrazione il racconto mitologico della creazione dell’uomo contenuto nel Popol Vuh. In questo mito, l’uomo viene creato in cinque fasi, ognuna delle quali dura 13 Bak’tun. Nelle prime fasi, la creazione dell’uomo si rivela una fallimento, che porta con sé altri tentativi di creazione fino alla definitiva riuscita. Ogni ciclo della creazione, dunque, non preannuncia una fine, ma un continuo progresso del tempo. E, se ricordiamo il concetto di fine secondo il pensiero maya, dovremmo ricordare anche che non si tratta di un epilogo definitivo, ma il punto di partenza di un nuovo inizio. Ciò che per noi dunque rappresenta una fine senza appello, per i Maya è un momento di passaggio da una condizione a un’altra.
In conclusione, i Maya non hanno mai pensato che il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 2012. Siamo noi gli artefici veri di questa profezia, prodotto dell’incomprensione tra culture diverse.
Fonti:
- THOMPSON, John Eric Sydney, La civiltà Maya, Einaudi Tascabili Saggi, Torino, 1994;
- ZAFFAGNINI, Gianni, I calendari maya - Oltre le paure della fine, Edizioni Sonda, Casale Monferrato (AL), 2011.
martedì 18 dicembre 2012
I Calendari Maya - 1° parte di 2.
I CALENDARI MAYA - 1° parte di 2.
Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Gli antichi Maya possono essere considerati come una civiltà per certi versi paradossale, secondo il nostro punto di vista. Se nelle attività pratiche erano un “disastro”, nelle materie teoriche erano invece dei veri geni: non seppero mai cos’era una ruota, eppure erano in grado di disegnare una carta astronomica; non erano capaci di pesare un sacco di granoturco, ma riuscirono a calcolare il computo di milioni di anni.
Una ragione plausibile per spiegare questa “aberrazione mentale”, come la definisce J. E. S. Thompson, uno dei più grandi studiosi di questa civiltà, si può trovare nell’interesse principale dei Maya: il tempo. Più che interesse si potrebbe chiamare quasi ossessione. I Maya non solo erano affascinati dal continuo trascorrere delle giornate e dall’eternità del tempo, ma arrivarono a fare del computo dei giorni un perno della vita quotidiana. Ogni giornata aveva un significato religioso, tant’è che i membri della comunità regolavano le proprie mansioni a seconda del tipo di giornata. I giorni, infatti, erano concepiti come vere e proprie divinità, che favorivano oppure ostacolavano determinate attività. Ognuno, quindi, doveva conoscere con precisione i giorni favorevoli e i giorni nefasti per avere il favore degli dèi.
A dimostrazione che il computo del tempo era la preoccupazione principale di questo popolo è il fatto che i Maya non avevano un solo calendario, ma due: lo Tzolk’in e l’Haab.
Lo Tzolk’in, il calendario più antico della Mesoamerica (probabilmente di origine olmeca), determinava il ciclo rituale che serviva per le funzioni religiose. Il suo nome deriva da Tzol, “conto”, “ordine dei giorni” e K’in, ossia “giorno”, e quindi significa letteralmente “conto dei giorni”. In tutto, lo Tzolk’in era composto da 260 giorni e si basava su altri due cicli, più brevi: uno composto da cifre da 1 a 13 e un altro composto da 20 giorni. Dunque i nomi dei giorni dello Tzolk’in si componevano premettendo un numero dall’1 al 13 al nome di uno dei 20 giorni. A ognuno dei 20 giorni corrispondeva un glifo, legato alla divinità che patrocinava quella determinata giornata. Questi 20 giorni erano:
1. Imix, il primo giorno del calendario rituale, era dedicato a una divinità femminile, probabilmente una dea madre della fertilità.
2. Ik’, il nome del secondo giorno, significa “vento”. Questa giornata era connessa con la pioggia fertilizzante che permetteva la nascita del mais, ma era legata anche al dio del vento Kukulkan, inteso come soffio vitale, spirito e voce.
3. Ak’bal, il terzo giorno, era associato alla notte e a esseri legati a questo momento della giornata, come il dio giaguaro, che rappresentava il cammino notturno del sole, e il serpente.
4. K’an, il nome del quarto giorno, etimologicamente significa “corda”, ma nel glifo di questo giorno compare un chicco di mais. Questo perché il glifo indicava anche Yum Kax, il giovane dio del mais, simbolo di abbondanza.
5. Chikchan, quinto giorno, rappresentava il serpente piumato e il pianeta Venere, concepito come stella del mattino.
6. Kimi, il sesto giorno, era patrocinato dal dio della morte Yum Cimil ed era associato anche all’uccello Muan e ad altri volatili malauguranti.
7. Manik’, il settimo giorno, simboleggiava il cervo, poiché la divinità che presiedeva a questo giorno, Buluk Chabtan, era il dio protettore della caccia e del sacrificio umano, che si presentava proprio sotto forma di cervo. Nel Popol Vuh, il testo mitologico più importante della tradizione maya, tale divinità corrisponde a Tohil, connesso con la caccia, la concia delle pelli e ai sacrifici di sangue.
8. Lamat, l’ottavo giorno, nel glifo presenta una stella, forse Venere. La sua simbologia era connessa al coniglio e a Venere, ma non si conosce con precisione la divinità a esso associata.
9. Muluk, il nono giorno, significa “giada”, pietra simbolo dell’acqua e connessa con una figura mitologica, Ah Xoc. Ma il patrono di questo giorno è Kinik Ajaw, “faccia di sole”.
10. Ok, il decimo giorno, si collocava alla metà di uno Winal, una ventina, che era un completamento di un ciclo di 20 giorni. Il nome significa “cane”, ed era dedicato a una divinità infera che accompagnava i morti nell’aldilà dei Maya, chiamato Xibalbá.
11. Chuwen, nome dell’undicesimo giorno, significa “scimmia”, animale che rappresentava Ah Chicum Ek, la dea della stella polare che proteggeva gli scribi e gli artisti. Si trattava di una divinità doppia, raffigurata anche come una coppia di gemelli che dipingevano, intagliavano, scrivevano o si dedicavano ad altre attività artigianali.
12. Eb, dodicesimo giorno, era ritratto come un teschio, simbolo della pioggia. Eb era dedicato a una divinità nefasta, probabilmente Ixchel.
13. Ben, il tredicesimo giorno, era collegato al dio del mais che protegge la pianta nella prima fase di crescita.
14. Ix, nome del quattordicesimo giorno, deriva da un termine arcaico che indica il giaguaro.
15. Men, il quindicesimo giorno, era raffigurato come una testa di aquila o di un altro uccello rapace ed era associato alla fase decrescente della luna. Forse era anche collegato alla dea dell’arcobaleno, Ixchel.
16. Kib, sedicesimo giorno, ha un nome che potrebbe significare “gufo”, ma era dedicato al dio delle api, che garantiva una produzione abbondante di miele.
17. Kaban, diciassettesimo giorno del calendario, corrispondeva alla testa di una giovane dea della terra, associata anche alla fase crescente della luna, al coniglio, alla fecondità e al mais.
18. Etz’nab, termine che designava il diciottesimo giorno, significa “coltello di ossidiana”, l’arnese che si usava nei sacrifici umani e negli autosacrifici.
19. Kawak, diciannovesimo giorno del calendario, era rappresentato da nuvole poiché il nome significa “pioggia” o “tempesta”. Probabilmente la divinità che patrocinava questo giorno portava piogge e temporali distruttori, opposti alle piogge fertilizzanti.
20. Ajaw, l’ultimo giorno del calendario rituale, rappresentava il volto del signore del sole. L’etimologia del nome rimanda a “re”, “signore”, titolo che veniva usato anche per rivolgersi ai sovrani, ai sacerdoti e alle divinità. Questo giorno era dedicato a Itzamna e a una divinità solare, Kinik Ajaw, ovvero un’altra forma di Itzamna.
In teoria il computo dei giorni dovrebbe partire da 1 Imix, ma secondo il conteggio mitico il primo giorno dello Tzolk’in, cioè il giorno in cui tutto ebbe inizio, è 4 Ajaw. Da quest’ultima data parte anche il computo delle ere maya, quello che viene chiamato il “conto lungo”. 1 Imix, invece, è il giorno di partenza del calcolo delle ventine, chiamate Winal.
Ogni giorno che passa, entrambi i cicli avanzano di uno: avremo dunque 1 Imix, 2 Ik’, 3 Ak’bal, ecc., fino ad arrivare a 13 Ben. Da questo punto in poi la numerazione riparte da capo, ma non accade lo stesso per il nome dei giorni; si proseguirà dunque con 1 Ix, 2 Men, 3 Kib fino a 7 Ajaw. Dopo, i nomi dei giorni ricominceranno da 8 Imix, mentre la numerazione proseguirà, e così via. In questo modo, ogni giorno assume tutte le volte che si presenta un numero diverso da 1 a 13 secondo una sequenza sempre uguale: 1 – 8 – 2 – 9 – 3 – 10 – 4 – 11 – 5 – 12 – 6 – 13 – 7 – 1 – 8 ecc.
Di conseguenza, il lasso di tempo che passerà tra due giorni che presentano lo stesso numero e lo stesso nome sarà equivalente al minimo comune multiplo tra 13 e 20, cioè 260 giorni, ovvero un intero ciclo Tzolk’in.
Questo calendario era importante anche per registrare le date di nascita delle persone della comunità, annotate proprio secondo lo Tzolk’in. A seconda del giorno in cui un individuo nasceva, si poteva capire quale sarebbe stato il suo destino. Dunque i Maya credevano che le caratteristiche di quel dato giorno e della corrispondente divinità protettrice influissero sulla vita dell’individuo, un po’ come il nostro oroscopo basato sui 12 segni zodiacali.
Oltre allo Tzolk’in, però, i Maya avevano un altro calendario, che era legato al ciclo delle stagioni e del sole: l’Haab. Ne parleremo domani, pubblicherò la seconda parte dello scritto di Greta.
Perché il mondo non finirà il 21 dicembre 2012
di Greta Fogliani
Gli antichi Maya possono essere considerati come una civiltà per certi versi paradossale, secondo il nostro punto di vista. Se nelle attività pratiche erano un “disastro”, nelle materie teoriche erano invece dei veri geni: non seppero mai cos’era una ruota, eppure erano in grado di disegnare una carta astronomica; non erano capaci di pesare un sacco di granoturco, ma riuscirono a calcolare il computo di milioni di anni.
Una ragione plausibile per spiegare questa “aberrazione mentale”, come la definisce J. E. S. Thompson, uno dei più grandi studiosi di questa civiltà, si può trovare nell’interesse principale dei Maya: il tempo. Più che interesse si potrebbe chiamare quasi ossessione. I Maya non solo erano affascinati dal continuo trascorrere delle giornate e dall’eternità del tempo, ma arrivarono a fare del computo dei giorni un perno della vita quotidiana. Ogni giornata aveva un significato religioso, tant’è che i membri della comunità regolavano le proprie mansioni a seconda del tipo di giornata. I giorni, infatti, erano concepiti come vere e proprie divinità, che favorivano oppure ostacolavano determinate attività. Ognuno, quindi, doveva conoscere con precisione i giorni favorevoli e i giorni nefasti per avere il favore degli dèi.
A dimostrazione che il computo del tempo era la preoccupazione principale di questo popolo è il fatto che i Maya non avevano un solo calendario, ma due: lo Tzolk’in e l’Haab.
Lo Tzolk’in, il calendario più antico della Mesoamerica (probabilmente di origine olmeca), determinava il ciclo rituale che serviva per le funzioni religiose. Il suo nome deriva da Tzol, “conto”, “ordine dei giorni” e K’in, ossia “giorno”, e quindi significa letteralmente “conto dei giorni”. In tutto, lo Tzolk’in era composto da 260 giorni e si basava su altri due cicli, più brevi: uno composto da cifre da 1 a 13 e un altro composto da 20 giorni. Dunque i nomi dei giorni dello Tzolk’in si componevano premettendo un numero dall’1 al 13 al nome di uno dei 20 giorni. A ognuno dei 20 giorni corrispondeva un glifo, legato alla divinità che patrocinava quella determinata giornata. Questi 20 giorni erano:
1. Imix, il primo giorno del calendario rituale, era dedicato a una divinità femminile, probabilmente una dea madre della fertilità.
2. Ik’, il nome del secondo giorno, significa “vento”. Questa giornata era connessa con la pioggia fertilizzante che permetteva la nascita del mais, ma era legata anche al dio del vento Kukulkan, inteso come soffio vitale, spirito e voce.
3. Ak’bal, il terzo giorno, era associato alla notte e a esseri legati a questo momento della giornata, come il dio giaguaro, che rappresentava il cammino notturno del sole, e il serpente.
4. K’an, il nome del quarto giorno, etimologicamente significa “corda”, ma nel glifo di questo giorno compare un chicco di mais. Questo perché il glifo indicava anche Yum Kax, il giovane dio del mais, simbolo di abbondanza.
5. Chikchan, quinto giorno, rappresentava il serpente piumato e il pianeta Venere, concepito come stella del mattino.
6. Kimi, il sesto giorno, era patrocinato dal dio della morte Yum Cimil ed era associato anche all’uccello Muan e ad altri volatili malauguranti.
7. Manik’, il settimo giorno, simboleggiava il cervo, poiché la divinità che presiedeva a questo giorno, Buluk Chabtan, era il dio protettore della caccia e del sacrificio umano, che si presentava proprio sotto forma di cervo. Nel Popol Vuh, il testo mitologico più importante della tradizione maya, tale divinità corrisponde a Tohil, connesso con la caccia, la concia delle pelli e ai sacrifici di sangue.
8. Lamat, l’ottavo giorno, nel glifo presenta una stella, forse Venere. La sua simbologia era connessa al coniglio e a Venere, ma non si conosce con precisione la divinità a esso associata.
9. Muluk, il nono giorno, significa “giada”, pietra simbolo dell’acqua e connessa con una figura mitologica, Ah Xoc. Ma il patrono di questo giorno è Kinik Ajaw, “faccia di sole”.
10. Ok, il decimo giorno, si collocava alla metà di uno Winal, una ventina, che era un completamento di un ciclo di 20 giorni. Il nome significa “cane”, ed era dedicato a una divinità infera che accompagnava i morti nell’aldilà dei Maya, chiamato Xibalbá.
11. Chuwen, nome dell’undicesimo giorno, significa “scimmia”, animale che rappresentava Ah Chicum Ek, la dea della stella polare che proteggeva gli scribi e gli artisti. Si trattava di una divinità doppia, raffigurata anche come una coppia di gemelli che dipingevano, intagliavano, scrivevano o si dedicavano ad altre attività artigianali.
12. Eb, dodicesimo giorno, era ritratto come un teschio, simbolo della pioggia. Eb era dedicato a una divinità nefasta, probabilmente Ixchel.
13. Ben, il tredicesimo giorno, era collegato al dio del mais che protegge la pianta nella prima fase di crescita.
14. Ix, nome del quattordicesimo giorno, deriva da un termine arcaico che indica il giaguaro.
15. Men, il quindicesimo giorno, era raffigurato come una testa di aquila o di un altro uccello rapace ed era associato alla fase decrescente della luna. Forse era anche collegato alla dea dell’arcobaleno, Ixchel.
16. Kib, sedicesimo giorno, ha un nome che potrebbe significare “gufo”, ma era dedicato al dio delle api, che garantiva una produzione abbondante di miele.
17. Kaban, diciassettesimo giorno del calendario, corrispondeva alla testa di una giovane dea della terra, associata anche alla fase crescente della luna, al coniglio, alla fecondità e al mais.
18. Etz’nab, termine che designava il diciottesimo giorno, significa “coltello di ossidiana”, l’arnese che si usava nei sacrifici umani e negli autosacrifici.
19. Kawak, diciannovesimo giorno del calendario, era rappresentato da nuvole poiché il nome significa “pioggia” o “tempesta”. Probabilmente la divinità che patrocinava questo giorno portava piogge e temporali distruttori, opposti alle piogge fertilizzanti.
20. Ajaw, l’ultimo giorno del calendario rituale, rappresentava il volto del signore del sole. L’etimologia del nome rimanda a “re”, “signore”, titolo che veniva usato anche per rivolgersi ai sovrani, ai sacerdoti e alle divinità. Questo giorno era dedicato a Itzamna e a una divinità solare, Kinik Ajaw, ovvero un’altra forma di Itzamna.
In teoria il computo dei giorni dovrebbe partire da 1 Imix, ma secondo il conteggio mitico il primo giorno dello Tzolk’in, cioè il giorno in cui tutto ebbe inizio, è 4 Ajaw. Da quest’ultima data parte anche il computo delle ere maya, quello che viene chiamato il “conto lungo”. 1 Imix, invece, è il giorno di partenza del calcolo delle ventine, chiamate Winal.
Ogni giorno che passa, entrambi i cicli avanzano di uno: avremo dunque 1 Imix, 2 Ik’, 3 Ak’bal, ecc., fino ad arrivare a 13 Ben. Da questo punto in poi la numerazione riparte da capo, ma non accade lo stesso per il nome dei giorni; si proseguirà dunque con 1 Ix, 2 Men, 3 Kib fino a 7 Ajaw. Dopo, i nomi dei giorni ricominceranno da 8 Imix, mentre la numerazione proseguirà, e così via. In questo modo, ogni giorno assume tutte le volte che si presenta un numero diverso da 1 a 13 secondo una sequenza sempre uguale: 1 – 8 – 2 – 9 – 3 – 10 – 4 – 11 – 5 – 12 – 6 – 13 – 7 – 1 – 8 ecc.
Di conseguenza, il lasso di tempo che passerà tra due giorni che presentano lo stesso numero e lo stesso nome sarà equivalente al minimo comune multiplo tra 13 e 20, cioè 260 giorni, ovvero un intero ciclo Tzolk’in.
Questo calendario era importante anche per registrare le date di nascita delle persone della comunità, annotate proprio secondo lo Tzolk’in. A seconda del giorno in cui un individuo nasceva, si poteva capire quale sarebbe stato il suo destino. Dunque i Maya credevano che le caratteristiche di quel dato giorno e della corrispondente divinità protettrice influissero sulla vita dell’individuo, un po’ come il nostro oroscopo basato sui 12 segni zodiacali.
Oltre allo Tzolk’in, però, i Maya avevano un altro calendario, che era legato al ciclo delle stagioni e del sole: l’Haab. Ne parleremo domani, pubblicherò la seconda parte dello scritto di Greta.