sabato 30 giugno 2012

Il guerriero di Capestrano e quello di Paladino.


Il Guerriero di Capestrano e Il nuovo Guerriero di Paladino: accoppiata vincente
di Romano Maria Levante

Al Museo Archeologico nazionale d’Abruzzo, Villa Frigerj di Chieti.
Il “Guerriero” è la più importante scultura arcaica preclassica europea e di certo la maggiore d’Abruzzo, la sua nuova collocazione è una sorta di installazione di un artista contemporaneo, che per di più vi si è ispirato per la sua scultura Il nuovo Guerriero esposta con altre sculture in un percorso che da Villa Frigerj approda a Palazzo De Mayo. Lo storico palazzo è in fase di avanzata e radicale ristrutturazione per ospitarvi, oltre alle Fondazione bancaria Carichieti, una annessa struttura polivalente con biblioteche e spazi idonei a mostre d’arte e incontri letterari, conferenze e presentazioni, anche manifestazioni musicali: iniziative che animeranno la città a cura della Fondazione.
La presentazione dell’iniziativa è avvenuta nella sede dell’Associazione Civita, organizzatrice di mostre ed eventi culturali, a Roma all’ultimo piano di Palazzetto Venezia, nella sala conferenze contigua con la splendida terrazza che si affaccia sul Vittoriano. Il presidente della Fondazione chietina Mario Di Nisio – sponsor della nuova sala espositiva al Museo oltre che protagonista della mostra nella propria sede – ha parlato dei nuovi spazi del Palazzo De Mayo dove, oltre alla mostra di Mimmo Paladino, a lavori ultimati prima dell’estate potranno svolgersi iniziative per ravvivare stabilmente la vita culturale nel centro storico.
Cinzia Dal Maso, la giornalista che ha moderato l’incontro, ha commentato l’evento, aggiungendo un’interessante considerazione concernente gli accessi ai siti archeologici spesso posti a livello inferiore interrompendo la continuità e rendendoli staccati e avulsi, come a Roma a Torre Argentina per non parlare del Foro Romano: sono dislivelli che andrebbero rimossi per la necessaria continuità tra antico e moderno

L’iniziativa sul Guerriero di Capestrano presentata dal soprintendente Pessina
Andrea Pessina, soprintendente per i beni archeologici dell’Abruzzo e Gabriele Simongini, curatore, hanno illustrato l’evento, anzi i due eventi paralleli e correlati, arte antichissima e contemporanea a braccetto.
Il primo evento è la nuova collocazione del “Guerriero” realizzata mediante l’ingegno di un maestro della scultura contemporanea che ha “disegnato” e realizzato un ambiente in grado di valorizzare le straordinarie qualità dell’opera ponendola “al di là del tempo”. Il significato di queste parole lo si comprende dall’illustrazione del lavoro fatto da un artista per il quale l’opera era divenuta una sorta di “ossessione”. Che lo ha portato a realizzare Il nuovo Guerriero per ricreare il fascino del Guerriero antico, e questo è il secondo evento, la mostra che comprende quest’opera e le sue sculture precedenti. La nuova sala con la preziosa opera del VI a.C. e “Il nuovo Guerriero” del terzo millennio vengono presentati insieme e sono esposto al pubblico in contemporanea, sia pure in due siti diversi, entrambi nel centro storico di Chieti, anche per l’inamovibilità del “Guerriero”: un “gigante dai piedi di argilla” molto delicato.
Ma ascoltiamo il soprintendente Pessina, mentre ricorda la genesi dell’iniziativa: l’idea gli venne quando notò l’intensa passione dello scultore per quell’opera dell’antichità che non meritava di restare confinata tra i reperti archeologici, anche se preziosi, ma abbisognava di un proprio spazio vitale che ne mettesse in luce tutto il significato. Anche perché non si tratta di un’opera isolata ma fa parte di una serie di statue giunte mutile, mentre il “Guerriero” è pervenuto miracolosamente integro ed è stato considerato l’incarnazione delle virtù italiche; al punto da essere esposto come tale nella mostra a Bruxelles nel 1938, quattro anni dopo il ritrovamento, con un guerriero mussoliniano che scaglia la lancia in puro stile littorio.

Faceva parte di una struttura funeraria isolata, e “non raffigurava tanto un personaggio reale quanto un concetto, anche attraverso un sistema di segni con le codifiche di allora”. C’è maggiore attenzione alle armi che alla fisionomia, erano i segni dell’autorità e del prestigio nel comando militare e nella magistratura.
Il precedente allestimento lo vedeva affiancato alle altre sculture mutile, secondo la tecnica espositiva tradizionale. E brillano gli occhi al soprintendente quando racconta l’idea suggeritagli dal modo suggestivo con cui lo scultore Paladino gli parlava della sua “magnifica ossessione” per il ”Guerriero”; e dal modo con cui lo guardava, preso dai suoi pregi estetici persistenti e attuali, non dal fatto che è un prezioso reperto storico. Lo sguardo dell’artista coglieva dei contenuti riposti, che andavano messi in evidenza con un adeguato allestimento espositivo, da qui l’idea di costruire una scenografia adeguata intorno alla statua.
Ma c’è di più: l’“ossessione” di Paladino lo porta a concepire Il nuovo Guerriero che possa dialogare con il primo recependone i motivi salienti in chiave attuale con una tecnica e un messaggio aggiornati al mondo contemporaneo. Di qui l’inedito risultato di far cadere lo steccato tra arte antica e contemporanea con un testimonial d’eccezione dell’arte antica e una sua reincarnazione nel contemporaneo, per ora in un breve percorso tra il Museo e la vicina sede della mostra, ma in prospettiva, accenna il soprintendente, l’idea potrebbe riguardare lo spazio espositivo dei musei e dei siti archeologici facendovi entrare la contemporaneità per superarne l’isolamento e valorizzare la bellezza dell’arte, che non è solo reperto.
Vittorio Sgarbi ricorda spesso, aggiungiamo, che l’arte è sempre contemporanea se è vera arte perché mantiene nel tempo intatti i valori di forma e di contenuto. Perché allora non farla convivere con le espressioni contemporanee che nella forma e nel contenuto abbiano gli stessi valori permanenti? C’è anche un motivo pratico, verrebbero rivitalizzati siti e musei archeologici che, soprattutto nei piccoli centri, soffrono di una sindrome di isolamento ed emarginazione da contrastare con idee innovative.
Tornando al “Guerriero”, Pessina ha sottolineato che Paladino “si è tenuto a distanza dall’opera senza contaminarla ma creando l’atmosfera più adatta per accoglierla”; e ha mostrato l’ombra proiettata sul muro, con il caratteristico copricapo a dargli quasi un’aureola di santità ingrandita dalla prospettiva, in una proiezione particolarmente suggestiva. Ha creato così la “suspence” per la descrizione di cosa si è fatto, e perché viene definito “al di là del tempo”, di certo non soltanto perché risale al VI a.C.
Il curatore Simongini fa vivere in anteprima l’atmosfera intorno al “Guerriero”
Gabriele Simongini - curatore degli eventi presentati, il nuovo spazio espositivo del “Guerriero” e la mostra ad esso collegata – parte dal rapporto tra archeologia ed arte contemporanea perché lo scultore Paladino riconduce tutta la sua scultura a quell’opera antichissima, tanto che in una sua mostra a Firenze avrebbe voluto chiederlo in prestito come testimone muto, ma era una missione impossibile; invece ”il sogno nato dalla sua ossessione si è potuto realizzare perché è spuntata una stella cometa, il nuovo soprintendente che pensò subito a fargli creare uno spazio permanente del tutto inedito intorno al ‘Guerriero’”.
Paladino si è avvicinato “con discrezione e misura” al “Guerriero”, ribadisce Simongini, e fa avvicinare anche il visitatore con la stessa cura, in una progressione che nasce nell’antisala con una rete di legami che portano all’opera in modo graduale; i collegamenti poi si trasmettono al “Nuovo Guerriero” esposto nell’altro spazio a Palazzo De Mayo. Restando nel Museo, le altre sculture mutile dell’epoca e l‘ambiente tutt’intorno lo introducono senza sovrapporsi ad esso creando l’atmosfera “al di là del tempo”.

In che modo? La sala all’associazione Civita pende dalle labbra del curatore come se stesse per decifrare un antico manoscritto, e in parte ci sono elementi del genere. L’innovazione principale è stata nella forma dell’ambiente in cui è collocato, da rettangolare è stata trasformata in ellittica in base al criterio che “il capolavoro archeologico genera lo spazio circostante”. E questo con un’operazione quasi fantascientifica che viene così descritta: “Al centro di quest’opera totale, fatta di spazi architettonici, graffiti ed illuminazione ad hoc, e che forse in futuro potrebbe perfino accogliere la musica, sta sempre e comunque il Guerriero di Capestrano la cui assoluta ed emblematica potenza geometrica è stata ribadita da Paladino con una mirabile intuizione spaziale: applicando la proporzione aurea, il cerchio del copricapo con il suo modulo di 65 cm. genera un’ellissoide (il cui asse principale è 13 volte il modulo,mentre l’altro equivale a circa sette volte e mezzo) che dà forma curva alla sala, spazio fluido, continuo, sospeso, senza angoli”. Cioè “al di là del tempo” che è scandito e misurato da svolte e cesure, laddove qui tutto è invece smussato.
Ma non per questo c’è lo spaesamento atemporale, il “Guerriero” è messo a suo agio, per così dire, con il colore della sua epoca nel pavimento e nelle pareti. Si è cercata la stessa pietra locale calcarea di cui è fatta la statua, la si è macinata per produrre il materiale utilizzato per pavimento e pareti in due tonalità: Il collegamento e la derivazione dell’ambiente, dunque, oltre all’aspetto architettonico riguardano anche quello cromatico: “come per la forma e lo spazio anche per il colore è il ‘Guerriero’ a generare l’ambiente”.
E poi nell’ “anticamera” ci sono i “compagni del Guerriero”, come la “Dama di Capestrano”, rinvenuta con lui. Siamo al culmine dell’arte arcaica che dopo la stele figurativa fatta soprattutto di incisioni e pochi rilievi approda alla statuaria a tutto tondo del “Guerriero”; l’ulteriore sviluppo sarà l’affidare i messaggi non più ai simboli del rango ma alle iscrizioni come nella “stele a erma di Penna Sant’Andrea”. Un percorso artistico non influenzato dall’arte greca ma forse da quella etrusca su una base originaria locale , in proposito vengono ricordate le “stele garganiche” come segno di primigenia e di identità da cui nasce il “Guerriero”.

Il “Guerriero” si trova a casa sua anche per i graffiti che percorrono le pareti: “Non sono perentori come a Napoli dove sono netti e creano spazio, qui sono discreti e illuminati in modo misurato, quindi non interferiscono sull’unico protagonista”. Non potevano essere segni casuali o desunti da preesistenze, si tratta di “una scrittura originaria e insieme immaginaria”, con frecce e utensili, rami e animali, teste e clessidra: si pone in rapporto con iscrizioni paleosabelliche che hanno agito sulla visione di Paladino portandolo a creare una scrittura immaginaria da quella reale, collegata al contesto storico del “Guerriero”.
Qual è, in definitiva, l’immagine che si ricava da una collocazione così studiata e tanto elaborata? E’ stato creato uno “ spazio sacrale, come una cella del tempio antico” al quale si arriva dopo gli spazi introduttivi e preparatori con le statue mutile dell’epoca, i graffiti e quant’altro, quasi un “sancta sanctorum”.
In questo modo si realizza l’idea di Berenson di “educare al gusto del guardare”: e la scultura antica cessa di essere un mero reperto storico di civiltà sepolte e di essere presentata come un documento da archivio che in quanto tale non cattura il visitatore, “non crea l’empatia” dalla quale nasce la suggestione. Si è creata la “dimensione contemplativa sacrale” per recuperarne il valore estetico perenne. Al riguardo al curatore cita Shopenauer secondo cui “si crea l’empatia quando rapito in contemplazione non è l’individuo ma il soggetto puro al di là di tutto, del dolore e anche del tempo”, di qui l’aspetto “sacrale”.Perché questo avvenga occorre che ci sia qualcosa che vale, come lo straordinario “Guerriero”.
Una rapida descrizione del Guerriero di Capestrano
Descriviamolo rapidamente, dopo l’esserci accostati virtualmente e averne colto la proiezione altamente suggestiva dell’ombra sullo schermo sopra al tavolo degli oratori mentre parlava il soprintendente.
Trovato nel 1934 e restaurato frettolosamente anche per la ricordata mostra di Bruxelles, assomma in sé tante qualità come espressione più compiuta dell’arte arcaica preclassica forse europea, comunque un’icona simbolo per l’Abruzzo. Alto più di due metri ed integro, ricavato da un unico blocco di pietra del luogo, a parte il largo caratteristico copricapo incastrato successivamente sulla testa. Varie interpretazioni all’insolita foggia e dimensioni del cappello, considerato anche un elmo o un simbolo del sole, mentre si pensa possa essere il segno del ruolo, forse sacerdotale. La corporatura è forte ma non proprio tipica di un guerriero, e questo confermerebbe l’ipotesi del ruolo rituale anche per la sua collocazione nella necropoli.
D’altra parte, le armi di cui dispone sono tipiche del guerriero, e appaiono definite nei particolari molto di più della figura, cosa che ha un suo significato: due lance sui piastrini ai lati, una spada con elsa a croce sul torace con un coltello, un’ascia a forma di trapezio ad occhio stretta al petto; e poi una corazza a forma di disco sul petto e sulla schiena nei punti vitali, due mitre che pendono dalla cintura a protezione della parte inferiore del corpo. Non solo armi,però, vi sono anche ornamenti e pendenti evidenziati dal colore rosso.
Siamo nell’età del Ferro, si trovava in una necropoli alle sorgenti del Tirino, non si sa se in prossimità di una tomba a tumulo, forse un simbolo di potere militare e aristocratico posto a guardia del luogo funerario, dove peraltro con i corredi vengono di norma esaltati i simboli del rango e del censo nelle singole sepolture
Un’iscrizione verticale in caratteri sudpiceni è stata trascritta così: “ma kupri koram opsùt ani[ni]s rakinel?ìs? pomp? [ùne]i”. E viene interpretata da La Regina come opera dello scultore Aninis, al quale vengono attribuite altre opere arcaiche medio adriatiche, come la statua mutila femminile anch’essa da Capestrano; altra interpretazione è che Aninis sarebbe il committente, il soggetto ritratto il misterioso Pomp della scritta, presunto capo locale ritratto con le insegne del rango. Più che una bottega di scultura, un modello iconografico seguito per una serie di altre opere arcaiche di cui si ha traccia nell’esposizione.
Abbiamo concluso con un enigma concernente il nome dell’autore e del personaggio rappresentato la descrizione del Guerriero di Capestrano. Iniziamo con un enigma quella del “Guerriero”, la reincarnazione in chiave contemporanea della potente figura arcaica realizzata dallo scultore Paladino che ha ideato il nuovo ambiente sacrale per esporre l’opera del VI secolo avanti Cristo. L’enigma sono le tegole che sostituiscono le armi, idea venuta “in progress”perché, dice Simongini, nella realizzazione presso gli specialisti di Faenza, nel bozzetto originario c’era ancora una lancia; intanto vediamo due tegole.
Le tegole sottolineano il valore architettonico e non solo plastico della scultura, nel concetto che l’opera crea architettura, il copricapo è visto come un tetto. E’ un’immagine totemica anch’essa possente, alta metri 2,56. In terracotta perché, dice lo scultore, “questo materiale dalle proprietà elementari e trasformative richiama la forza arcaica della pietra calcarea con cui è stato scolpito il Guerriero di Capestrano”.
“All’ombra della notte dei tempi, un’aureola di futuro” la definisce il curatore riassumendone la genesi. Nasce all’ombra del “Guerriero” proveniente da epoche remote, e conserva il coprIcapo che diventa però un’aureola proiettata in avanti nel tempo. Lo scultore collega così antichità e contemporaneità inquadrando la compenetrazione museale prospettata da Pessina nella propria arte personale, dove c’è l’“ossessione “ di cui abbiamo parlato: “La mia cultura visiva nasce da un’idea di stratificazione, con immagini figurative e non figurative, talvolta anche decorative e minime… Una storia frammentata e ricostruita, una storia di passaggi e di tracce dove un frammento di testa romana si incastra con un blocco di epoca precedente. Poi vengono i longobardi che aggiungono altro ancora e allora tutto diventa un collage di elementi astratti e figurativi, oppure irriconoscibilmente figurativi”. Il collante di tutto questo l’identità del territorio, “nella cultura del meridione, in quelle architetture e in quelle opere fatte di segni necessari e, tuttavia, anonimi”.
Questa sua visione risulta dalle opere esposte nella mostra di cui ”Il nuovo Guerriero” rappresenta il culmine, possiamo dire che svolgano in qualche modo la funzione dei “compagni del Guerriero o comunque dei componenti del “corredo” tipico dell’antichità. Sono tuttavia qualcosa che va ben oltre. Così le 75 piccole sculture in bronzo che incrociano la storia dell’umanità e le vicende epiche di conquiste e difese dei propri territori con il percorso artistico dello scultore, vanno dal 1984 al 2010; e le grandi sculture in bronzo, “Carro”, “Elmo” e “Cavallo”; e come non ricordare il suo monumentale cavallo blu di oltre 4 metri installato nel 2009 all’Anfiteatro del Vittoriale del grande abruzzese Gabriele d’Annunzio?, In più la suggestiva terracotta “Senza Titolo” creata con il celebre Spalletti di cui colpisce la tenerezza della figura.
“Non a caso Paladino, in molte sue sculture – nota Simongini – libera la figura e l’oggetto dalla loro relatività rendendoli ‘eterni’ anche tramite l’accostamento a forme geometriche , cristalline, astratte”. Ancora più direttamente: “Così la singola presenza figurale e oggettuale è isolata dal flusso ininterrotto dei fenomeni e delle apparenze e giace in un’immobile punto di quiete diventando necessaria e inalterabile”. E’ proprio questa la cosmogonia nella scultura e, come si intitola la mostra, “la scultura come cosmogonia”.
Compresenza di figurazione e di astrazione, dunque, come nelle civiltà paleolitiche con l’aspetto naturalistico e razionale insieme a quello astratto e metafisico, uniti in una visione fantasiosa e poetica. Ciò consente di superare il tempo, fissando l’istantanea in un’immagine persistente che si sente perenne. Per questo fino alla realizzazione è esposta ai cambiamenti che nascono dall’imprevisto e dall’intuizione improvvisa sopravvenuta, di qui gli interventi correttivi ”in progress” di cui abbiamo detto; così l’opera compiuta spesso è ben diversa dai molti schizzi preparatori. Del resto stabilità ed evoluzione, forme fisse e mutevoli sono espressioni compresenti alla ricerca di un equilibrio che si realizza nell’opera finita la quale così può collocarsi fuori del tempo pur con echi che vengono sin dal remoto mondo arcaico.
Il curatore lo ha chiamato “novello Giano bifronte con un volto rivolto al passato e l’altro verso il futuro”, che porta “al di là del tempo” e alla “scultura come cosmogonia”. Come mostra “Il nuovo Guerriero”, che ci riporta alle origini ancestrali ma nello stesso tempo ci fa sentire come siano compenetrate nel nostro tempo. Sempre Simongini nota, parafrasando Huberman, che “l’opera di Paladino ‘ha più spesso memoria e avvenire di colui che la guarda’. O, almeno, rappresenta anche una sfida per tutti noi a recuperare parte delle nostre memorie archetipe per immaginare meglio il futuro”. E questo creando “un cortocircuito fra passato, presente e futuro che ricorda il concetto bergoniano di durata”.
Ebbene, Il nuovo Guerriero esprime plasticamente, nella sua maggiore esilità e quindi fragilità rispetto al Guerriero di Capestrano, solido e possente, tutte le incertezze e i timori per un futuro che ci vede inermi e indifesi, disarmati come lo è la sua figura. Ma dà anche la consapevolezza fiduciosa di un futuro che possiamo costruire, fino al tetto, per il quale porta le tegole protettrici, con un’immagine che lo vede anche partecipare alla costruzione del nuovo suggestivo spazio architettonico per il vecchio ”Guerriero”.
Sono due operazioni che si riassumono nel commento finale del curatore Simongini, e ci sembra la conclusione più appropriata a questo tuffo in epoche remote della storia e dell’arte, “al di là del tempo”: “Contemplare il mondo dal punto di vista originario per vivere più profondamente il proprio tempo: di fronte alle sculture di Paladino si ha questa sorprendete rivelazione”.

Fonte: Archeorivista

venerdì 29 giugno 2012

Piri Reis - Cartografia


La mappa di Piri Reis


La strana storia della carta è cominciata nel 1929 a Istanbul, che allora si chiamava Costantinopoli, quando venne ritrovata tracciata su pergamena. Nel 1520 l'ammiraglio turco Muhiddin Piri Reis (1470-1554) compilava l'atlante Bahriyye, destinato ai navigatori. Le carte nautiche di questo atlante, corredate da note esplicative e redatte su pelle di capriolo, furono più tardi scoperte dallo studioso Halil Edhem, direttore dei musei nazionali, il 9 novembre del 1929 nel palazzo di Topkapi, ad Istanbul. Grazie alle sue attente ricerche, Edhem trovò citata l'origine delle carte che componevano l'atlante Bahriyye negli stessi scritti lasciati dall'ammiraglio Piri Reis: ebbene, narra questi che nel 1501, durante una battaglia navale contro gli spagnoli, un ufficiale turco di nome Kemal catturò un prigioniero che disse di aver preso parte ai tre storici viaggi di Cristoforo Colombo, e che possedeva una serie di carte nautiche davvero eccezionali. Sarebbe stato proprio grazie all'aiuto di quelle carte nautiche così precise che il grande navigatore genovese individuò la meta finale del suo viaggio.La carta era datata nel mese di Nuharrem nell'anno 919 dopo il profeta: nel 1513 dell'era cristiana. La carta era firmata da Piri Ibn Haji Memmed, nome completo dell'Ammiraglio Piri Reis. Questa carta attirò l'attenzione di un primo ricercatore americano, Arlington Mallery. Egli dimostrò, per mezzo di calcoli, confermati da successivi controlli, che la carta aveva richiesto conoscenze molto progredite di trigonometria sferica, che risaliva ad un'epoca antichissima, un'epoca in cui il ghiaccio dell'Antartico non ricopriva ancora la zona della Terra Regina Maud (Antartide). Sulla carta in questione si trovano rappresentati in particolare il Rio delle Amazzoni, il Golfo del Venezuela, l'America meridionale, da Baya Blanca al Capo Horn, ed infine, come abbiamo detto l'Antartide, informazioni che nessuno poteva possedere a quei tempi. Il Prof.Charles H.Hapgood del Keene State College, New Hampshire, Stati Uniti assegnò alla carta di Piri Reis ed ad altre carte analoghe il nome di "carte degli antichi re del mare". Nella Vita dell'Ammiraglio Cristoforo Colombo, scritta da suo figlio Ferdinando si legge che "[Colombo] Raccoglieva accuratamente tutte le indicazioni che marinai o altri potevano fornirgli. E le seppe sfruttare così bene, che in lui maturò l'incrollabile convinzione di poter scoprire nuove terre a ovest delle isole Canarie". Inoltre, la distanza tra l'America del Sud e l'Africa vi è indicata con precisione sorprendente. Il bottino rappresentato dalle misteriose carte disegnate da Colombo finì nelle mani di Piri Reis il quale, sulla base delle voci che correvano a quei tempi, racconta nei suoi scritti che "Cristoforo Colombo, nel corso delle sue ricerche, trovò un libro risalente all'epoca di Alessandro Magno e ne rimase così impressionato che, dopo averlo letto, partì alla scoperta delle Antille con le navi ottenute dal governo spagnolo". Qualcuno ha tracciato questa carta in un passato molto remoto, ed a noi sono pervenute delle copie come la Piri Reis o come quella di Oriontio Fineo, del 1531. Su quest'ultima, le dimensioni del continente antartico corrispondono perfettamente a quelle riportate nelle più precise carte moderne. Segnaliamo, infine, che un'altra carta turca del 1559, quella attribuita a Hadjj Ahmed, ci mostra a sua volta una terra sconosciuta che, forma un ponte tra la Siberia e l'Alaska attraverso lo stretto di Bering. Questo passaggio terrestre svelerebbe molti misteri sulle migrazioni del Paleolitico; ma essendo scomparso certamente quasi 30.000 anni fa non si riesce a capire in che modo una civiltà terrestre, conosciuta o ignota, avesse potuto sapere della sua esistenza.

Fonte: http://www.tanogabo.it/images/images11/pirireis.jpg

Cos'è un nuraghe?



Cos'è un Nuraghe?
di Desi Satta


Nei primi secoli del secondo millennio(1), compaiono in Sardegna le torri nuragiche. Si tratta di torri cave (dotate di ambienti interni) e con un ballatoio alla sommità, accessibile da una scala interna (al solito lasciamo le eccezioni e concentriamoci sulla media degli edifici). Gli spazi interni vengono ottenuti con la tecnica della falsa volta, sovrapponendo conci più o meno sbozzati senz’uso di malta (a secco).
Nell’arco di un mezzo millennio (o poco più) vengono edificate circa 8000 strutture, comprendendo nuraghi a corridoio (privi di torri), torri singole, edifici comprendenti più torri (ed altri elementi). Di norma (con qualche eccezione ancora oggetto di dibattito) le strutture complesse derivano dalla sedimentazione di attività costruttive successive (ad esempio Su Nuraxi, Sa Domu ‘e su Re, Losa, per citare i più conosciuti).
Prima di procedere, completiamo l’elenco di alcuni altri dati oggettivi provenienti dalle stratigrafie:
1) La comparsa delle torri corrisponde ad una cesura netta nella successione degli orizzonti stratigrafici (che potrebbe far pensare, ad esempio, ad un arrivo improvviso di importanti apporti culturali esterni)? No: si registra una graduale e certificabile evoluzione degli orizzonti precedenti;
2) L’edificazione avviene in un ristretto arco di tempo? No: statisticamente si assiste ad un fenomeno di “infoltimento” dell’occupazione territoriale con un’attività edilizia distribuita su tutto il BM;
3) Il cessare dell’attività edilizia (avvenuto alla fine del secondo millennio) corrisponde ad una cesura degli orizzonti stratigrafici (ad esempio per l’arrivo di popolazioni straniere)? No: come per l’inizio dell’epoca delle torri, anche la sua conclusione è certificabile come una transizione priva di eventi catastrofici: l’edificazione cessa e le torri (o più in generale le strutture dotate di torri) vengono riconvertite ad altri usi (ad esempio attività cultuali e successivamente altro, fino ai giorni nostri).
Questi sono i dati (certi, a mio avviso) di cui si dispone, assieme ad altri, ad esempio che non vi è alcuna indicazione ragionevole di attività eminentemente cultuali nella fase edificatoria (invece ve ne sono di inoppugnabili per l’occupazione abitativa).
Riassumendo in breve, le torri compaiono come espressione dell’evoluzione di una cultura, radicata da millenni su un territorio, che esprime nuove esigenze.
Domanda: perché i sardi costruirono tutte quelle torri?
Questa l’ho sentita spesso, e la prima risposta è che la domanda è mal posta (tanto per fare un esempio è la stessa cosa che si dovrebbe rispondere quando si sente chiedere: perché gli abitanti di Rapa Nui scolpirono tutte quelle teste?)
Mi sembra si possa condividere la considerazione che nessuno decise mai di costruire 8000 torri: né un gran capo né una tribù né un popolo, così come nessuno decise di costruirne “tante”. È vero invece che l’evoluzione della società sarda produsse ad un certo punto la necessità di realizzare torri, ma ciascuna di esse è l’esito di un’attività edificatoria singola, non di un piano globale riguardante il complesso delle torri (sebbene si possa accettare pacificamente che in un territorio ristretto l’attività edificatoria sia stata consapevole della presenza di “altre torri”, ma comunque in un contesto storico, per cui l’aggiunta di un altro atto edificatorio, non portava alla consapevolezza di una grande variazione nel panorama di cui si aveva la percezione. È il fatto di vederle tutte assieme oggi, con la capacità e la possibilità di contarle e di avere di esse una visione globale, che inganna).
La domanda corretta è dunque: perché a un certo punto in un’area indeterminata (che nella mia suggestione sta dalle parti di Macomer o Borore) ci fu qualcuno che costruì la prima? E di seguito: perché le torri si diffusero?
Se il dato stratigrafico non segnala l’arrivo di costruttori di torri (e del resto è ovvio che sia così, visto che non ci sono altre aree in cui si costruissero torri in precedenza) significa che ci fu un’evoluzione della società che portò ad esigenze soddisfabili con l’edificazione di una torre. La diffusione si spiega allora con la semplice considerazione (anch’essa apparentemente ovvia) che tale esigenza doveva essere sentita in ampie aree dell’isola e la comparsa di una soluzione valida in un’area precisa (la prima torre) suggerì ai vicini la medesima soluzione. Ciò che intendo suggerire, è che il concetto di “necessità di una torre” sia una qualità emergente derivante da un mutamento sociale generalizzato in ampie aree della Sardegna (non in tutta).
Può sembrare un’ovvietà, tuttavia si può discutere sul perché un gruppo umano potrebbe decidere di edificare una torre (non “molte” torri) ad esempio chiedendosi se ci siano altri esempi di società che ne abbiano sentito la necessità.
La risposta disarmante è che tutte le società umane ne hanno realizzato, in tutti i periodi e con qualunque organizzazione sociale (con l’esclusione delle società di cacciatori raccoglitori, sebbene si potrebbe discutere anche su questo). La torre accompagna, di fatto, la storia dell’uomo a partire dall’avvento del neolitico: dalla torre di Gerico ai campanili delle chiese ai minareti alle Twin Towers.
Cosa intendessero realizzare coloro che per primi edificarono una torre nuragica non lo sapremo mai (né l’avremmo saputo con precisione se avessimo potuto conversare con loro, poiché il significato globale di una costruzione, anche la più semplice, è un fatto culturale profondo che include tutta la concettualità sociale dell’individuo, assimilabile solamente con una partecipazione totale alla società stessa). Disponiamo però delle stratigrafie, della storia di altri popoli che edificarono torri, degli studi etnologici di popolazioni presumibilmente non distanti dalla cultura nuragica.
Se spostiamo la nascita delle torri dal problema del “perché nacquero le torri” al “perché costruirono la prima”, la prospettiva del problema cambia.

Note:
(1)non stiamo discutendo di datazioni precise, cosa che esula dal tema del post;

fonte: www.exxworks.wordpress.com

Nell'immagine: Il Nuraghe Iloi


giovedì 28 giugno 2012

Malta, un crocevia delle antiche rotte nel Mediterraneo


Il tempio di Mnajdra a Malta

di Nicola S.




Le isole dell’arcipelago maltese custodiscono, su un territorio relativamente ridotto, una straordinaria concentrazione di monumenti megalitici, dotati di forme architettoniche peculiari che si identificano come un unicum nel panorama della preistoria del Mediterraneo e che non trovano confronti nella vicina Sicilia o negli altri territori più prossimi.
Isolotto di Filfla
Senza volersi addentrare nella complessità del discorso relativo alle origini, alla datazione e allo sviluppo delle forme delle architetture megalitiche maltesi, si presentano qui una breve descrizione e una serie di immagini recenti di uno dei monumenti più rappresentativi ed emblematici, che riassume in sé più o meno tutte le caratteristiche che sono proprie del fenomeno architettonico.



Il complesso archeologico di Mnajdra è, insieme al vicinissimo sito di Haġar Qim, uno degli esempi meglio conservati del suo genere. Il sito archeologico si trova nei pressi del villaggio di Qrendi, a meno di venti chilometri a sud-ovest de La Valletta, e domina dalla sua spettacolare posizione un ampio tratto della rocciosa costa meridionale dell’isola di Malta, di fronte all’inaccessibile isolotto di Filfla.
Inquadrando il fenomeno si può dire che le architetture megalitiche caratteristiche della preistoria maltese sono il risultato di un lungo percorso di gestazione e affinamento delle tecniche costruttive e delle tipologie di pianta, che hanno infine portato ai complessi cultuali sviluppati nelle forme complesse che possiamo vedere oggi, in genere frutto di aggiunte e ampliamenti anche molto distanziati nel tempo ma che mantennero, in linea di massima, le stesse proporzioni e la stessa concezione di sviluppo degli spazi, sia interni che esterni.

Plastico del tempio di Mnajdra

A una prima fase, datata intorno al V millennio, risalgono le prime strutture architettoniche semplici documentate in alcuni siti maltesi (ad esempio il sito archeologico di Skorba a Mġarr); a queste seguono, in una fase successiva, i primi esempi di strutture templari di tipo complesso, che vedranno la massima fioritura e il massimo grado di sviluppo tra il 3600 e il 2500 a. C., datazioni avallate da diversi elementi rilevati durante le fasi di scavo e oggi generalmente accettate dalla maggior parte degli studiosi.
Una datazione tra la metà del IV e la metà del III millennio è stata proposta anche per il complesso di Mnajdra. I due siti di Haġar Qim e Mnajdra, distanti tra loro poco più di cinquecento metri oggi percorribili agevolmente a piedi per mezzo di un moderno percorso lastricato che supera il pendio della scogliera, sono probabilmente meno noti al grande pubblico rispetto ai più “turistici” siti di Ġgantija sull’isola di Gozo e di Tarxien a Malta (da quest’ultimo sito proviene la maggior parte degli splendidi rilievi scolpiti conservati nel Museo Archeologico Nazionale de La Valletta), in quanto più distanti dalle principali località balneari e dalla capitale; nonostante questo il loro eccezionale stato di conservazione e l’isolamento nel paesaggio, rimasto sostanzialmente immutato in questa zona nonostante i recentissimi interventi di valorizzazione, ne fanno uno degli esempi più importanti di architettura megalitica nel bacino del Mediterraneo.

I templi maltesi, negli esempi più semplici, presentano una particolare pianta a trifoglio, costituita da un vano di fondo centrale a cui si addossano altri due ambienti contrapposti lungo l’asse principale dell’edificio, accessibile da un piccolo corridoio che comunica con l’esterno. Tutti gli ambienti mostrano un profilo curvilineo, in genere a ferro di cavallo, che caratterizza lo sviluppo dello spazio interno e che viene riproposto nel perimetro esterno dell’edificio, con una cortina muraria di notevole spessore. 

Il muro di prospetto del tempio è in genere formato da una esedra, al centro della quale si apre l’ingresso agli ambienti interni, sempre costituito da una porta architravata dal profilo rettangolare. 

A volte (ad esempio a Mnajdra) gli ambienti interni erano separati tra loro per mezzo di ortostati di grandi dimensioni, in cui si apriva il varco che permetteva il passaggio. Il vano di fondo centrale spesso si riduce a poco più di una nicchia.

A questo sviluppo di base della pianta vennero via via ad aggiungersi altri ambienti che, seguendo lo stesso sviluppo curvilineo delle pareti, formano edifici più complessi, con più ambienti simmetrici giustapposti, la cui precisa funzione non è chiara ed è ancora oggi oggetto del dibattito storiografico.

La tecnica costruttiva di queste strutture è data da megaliti di dimensioni variabili, spesso accuratamente tagliati e messi in opera con estrema perizia tecnica.
Resta tuttora acceso il dibattito relativo al tipo di copertura che doveva caratterizzare i vani interni dei templi, e le ipotesi sono diverse: per le strutture più semplici e arcaiche si è pensato a una copertura litica a piattabanda, con lastroni orizzontali; per i templi più complessi si è ipotizzata una soluzione di tipo diverso: l’aggetto delle pietre ancora visibile in alcuni vani di Mnajdra e di altri siti, farebbe pensare a una copertura litica realizzata per mezzo del progressivo aggetto dei corsi di pietre, che andavano a chiudersi alla sommità; questa soluzione, verosimile per ambienti di piccole dimensioni, sarebbe stata diversa nei vani maggiori, dove i primi corsi di pietre aggettanti costituirebbero la base d’appoggio di travi a sostegno di una copertura lignea. Le ipotesi restano comunque tali, data anche la difficoltà dell’analisi delle strutture residue in ambienti che hanno subito interventi di restauro e ricostruzioni recenti anche di ampia portata.

Il complesso cultuale di Mnajdra è in realtà costituito non da un solo tempio, ma da tre edifici affiancati e raccolti attorno ad un’ampia area d’ingresso a forma di esedra. A causa del dislivello del terreno, in decisa pendenza verso il mare, le tre parti del complesso hanno i piani di calpestio a livelli differenti. Il più semplice dei tre ambienti, che è anche il più danneggiato e meno leggibile, è formato da una semplicissima pianta a trifoglio secondo lo schema suddetto;

gli altri due vani sono invece caratterizzati da una maggiore complessità: al vano di fondo dalla canonica pianta trifogliata si aggiunge un secondo ambiente, caratterizzato anch’esso da due vani dal profilo a ferro di cavallo contrapposti, collocati in posizione simmetrica davanti al primo ambiente e comunicanti con esso tramite un piccolo corridoio architravato; un altro brevissimo corridoio permette l’accesso dall’esterno. 

Tutti i vani si dispongono accuratamente secondo uno schema comune anche ad altri siti, allineandosi lungo un asse di simmetria che parte dall’ingresso e passa per la nicchia di fondo. L’esedra all’ingresso dei templi mostra, alla base del tempio principale, un ampio bancone litico, funzionale al culto e destinato, probabilmente, ai fedeli. Tutti e tre i templi che formano il complesso sono caratterizzati da un perimetro esterno a ferro di cavallo, che circonda gli ambienti interni con una cortina muraria imponente spessa diversi metri, oggi purtroppo in gran parte crollata.

Il rinvenimento di diversi elementi di arredo, ricollocati in fase di restauro, testimonia la presenza di altari all’interno dei vani del tempio. Alcuni siti (ad esempio Haġar Qim e Tarxien) hanno inoltre restituito numerosi frammenti di statue di culto ed elementi architettonici con decorazioni scolpite a bassorilievo, di eccezionale interesse archeologico e artistico.
Notevole attenzione è stata dedicata, da parte di diversi studiosi e appassionati, all’indagine dei particolari orientamenti astronomici dei templi maltesi, che ha dato risultati molto interessanti. Per quanto concerne il sito di Mnajdra è stato rilevato un orientamento particolare che consente ai raggi del sole, durante gli equinozi, di penetrare all’interno degli ambienti principali del complesso secondo un percorso ben preciso.

I due complessi megalitici di Haġar Qim e Mnajdra iniziarono ad attirare l’attenzione degli studiosi verso la metà dell’Ottocento, cui seguirono i primi interventi di scavo sistematico tra la fine del secolo e i primi decenni del Novecento. Interventi di scavo e restauro si sono susseguiti per tutto il XX secolo, fino al radicale intervento conservativo conclusosi nel 2009, che ha visto la predisposizione di due enormi tensostrutture a protezione dei templi. 

Questo intervento, sebbene invasivo poiché inficia la percezione dei monumenti a distanza e impatta sul paesaggio in modo negativo, è tuttavia giustificata dal processo di estremo degrado a cui gli edifici stavano andando incontro negli ultimi anni, sopra tutto a causa dell’effetto delle piogge, che avevano causato lo smottamento e il crollo di intere parti dei templi.


mercoledì 27 giugno 2012

Uccelli e...navigazione antica


Gli uccelli: strumenti di navigazione nel mondo antico
di Pierluigi Montalbano.


In attesa della serata del 13 Luglio nella quale descriveremo tecniche di navigazione e porti della Sardegna nuragica, ho pensato di pubblicare un articolo riguardante la bussola dei preistorici.

E' probabile, secondo l'opinione degli specialisti dei sistemi occasionali di navigazione nel mondo antico, che i comandanti delle navi minoiche e micenee portassero a bordo, nei lunghi viaggi per mare, qualche volatile che servisse al preciso scopo di fornire un aiuto durante la navigazione. Una reminescenza sicura di questa pratica la possiamo trovare ritrovare nel mito di Giasone. Il viaggio degli Argonauti segnava un itinerario che rendeva percorribile la rotta verso la Colchide e, nel contempo, offriva la possibilità di seguire una via marittima mai tracciata prima di allora.
Tutto il complesso del mito di Giasone conferma l'ipotesi relativa all'uso degli uccelli come elemento indispensabile alla navigazione in assenza di riferimenti costieri. Significativo, a questo proposito, è l'episodio delle rocce Simplegadi. Gli Argonauti avevano superato quell'ostacolo lasciando volare un uccello davanti alla nave. Vogando poi a gran forza riuscirono a passare nello stretto budello fra le rocce indicato dal volatile.

E' difficile pensare che tale stratagemma costituisca soltanto un espediente narrativo. Trattando del tema relativo all'uso degli uccelli come sistema occasionale di navigazione, lo studioso R. W. Hutchinson - ammette che sarebbe interessante sapere se i comandanti dei mercantili minoici si avvalessero di un simile mezzo, poco necessario quando navigavano verso le Cicladi, ma non disprezzabile nel caso di viaggi più lunghi, senza terre in vista, dato che le stelle non erano sempre visibili neppure nelle acque del Mediterraneo. Egli ritiene che nei poemi omerici non se ne trova traccia. Ma le cose sono ben differenti: si possono ritrovare inequivocabili elementi di questa pratica nei testi omerici ed esiste una lunga tradizione che arriva fino alla letteratura cristiana medioevale.
L'uso degli uccelli come aiuto alla navigazione è già in qualche modo accennato nel mito di Utnapishtim (il Noè dei sumeri), contenuto nell'epopea dell'eroe sumerico Gilgamesh. In questo antichissimo racconto troviamo la narrazione dalla quale venne in seguito tratto l'episodio biblico del diluvio universale. La vicenda lascia pochi dubbi sull'uso effettivo che nel mondo antico si faceva della pratica in argomento.
Per approfondimenti sul poema di Gilgamesh: http://www.homolaicus.com/storia/antica/gilgamesh/sintesi.htm
Utnapishitim aveva fatto costruire un'arca, aveva navigato per sette giorni e sette notti, mentre le acque salivano, e al settimo giorno l'arca aveva fatto approdo su una montagna agli estremi limiti della terra. Egli aveva aperto una finestra dell'arca, e ne aveva fatto uscire una colomba per vedere se il livello delle acque fosse sceso ma la colomba era tornata perché non aveva trovato un luogo dove posarsi. Poi aveva fatto uscire un corvo, e il corvo non aveva fatto ritorno. Il particolare del corvo che non ritorna al luogo della sua partenza indica chiaramente che il volatile ricopre la funzione di segnare una direzione, precisamente quella nella quale si sarebbe potuta trovare una terra emersa.

Nel mito di Utnapishtim, così come nell'espediente di Noè nel racconto biblico, l'uso di mandare in volo degli uccelli è la derivazione di una precisa consuetudine: quella di utilizzare dei volatili come "animale guida" con il preciso compito di "aprire nuove e più sicure vie". E' facile supporre che una tale abitudine "marinaresca" non sia stata inventata dai sumeri ma che venisse praticata già da epoche precedenti.

L'immagine in bianco/nero della navicella bronzea è tratta da Lilliu, 1966.
Le immagini a colori delle navicelle nuragiche sono di Montalbano, SRDN, Signori del mare e del metallo.

martedì 26 giugno 2012

La congiura di Palabanda





28 aprile 1794-31 ottobre 1812:da sa Die de sa Sardigna alla congiura di Palabanda. Cronaca di un ventennio rivoluzionario nella Sardegna sabauda.
di Riccardo Laria


Nel bicentenario dei moti rivoluzionari passati alla storia come “Congiura di Palabanda” avvenuti nell’ottobre del 1812, la Biblioteca Universitaria di Cagliari in collaborazione con l’Associazione Riprendiamoci la Sardegna intende commemorarli con una serie di seminari e un convegno. Il convegno ha avuto luogo nella Sala settecentesca della Biblioteca Universitaria di Cagliari e ha approfondito quelle pagine di storia con una rilettura, con la guida della dottoressa Vittoria Delpiano, autrice di importanti pubblicazioni proprio relative a quel periodo storico della Sardegna.

Cagliari, Sala settecentesca della Biblioteca Universitaria di Cagliari
Venerdì 20 Aprile 2012



Il ventennio che intercorre dal 1793 al 1812 è caratterizzato in Sardegna dalle influenze esterne – rappresentate principalmente dagli echi della rivoluzione francese e dei similari fermenti serpeggianti nel continente europeo - che trovano terreno fertile tra gli intellettuali sardi capaci di cogliere il malcontento popolare e di indirizzarlo verso soluzioni già sperimentate con successo altrove. Lo scenario sardo è rappresentato da un popolo stremato, ancora regolato dai codici d'Arborea sopravvissuti al passaggio dalla plurisecolare dominazione Spagnola ai nuovi arrivati governatori della Casa Savoia.Questi nel 1827 imporranno autoritariamente il codice Feliciano ai sudditi isolani del Regno di Sardegna, calpestando con arroganza differenze culturali e di costume consolidate da secoli, nel progettare la "perfetta fusione" del 1847,alimentando ulteriori tensioni e resistenze tra i sardi.Superato l'assedio della flotta Francese al Golfo di Cagliari nel 1793, l'offerta di quella "eroica resistenza" rivendicata come atto di fedeltà ai principi piemontesi fu l'occasione per inoltrare le famose cinque richieste, sdegnosamente respinte dal re Vittorio Amedeo III che a mala pena accettò di ricevere la delegazione degli Stamenti dopo tre mesi di attesa.
La misura era colma per garantire il successo della sollevazione popolare contro il vicere Balbiano, precipitosamente "accompagnato" all'imbarco con tutto il suo seguito nei giorni seguenti il 28 aprile 1794. La scintilla fu rappresentata dall'arresto dell'avvocato Vincenzo Cabras, ritenuto il principale responsabile dell'organizzazione della sommossa con il genero avvocato Efisio Pintor.
Questo momentaneo successo determinò nei mesi seguenti l'accoglimento parziale delle richieste inoltrate dagli Stamenti, il che spianò la strada al ritorno, nel settembre dello stesso anno 1794, del nuovo vicere Filippo Vivalda.Tra i protagonisti delle tormentate vicende di quel periodo, ricco di continui colpi di scena,un ruolo di spicco spetta a Giovanni Maria Angioy, giudice della Reale Udienza, che sarà poi nel 1796 inviato a Sassari come Alternos, ufficialmente per ristabilire l'ordine nel Capo di Sopra, ma in realtà per allontanarlo dalla scena operativa cagliaritana dove esercitava un'indiscussa influenza. Già dal 1795 infatti nella sua casa si riuniva uno dei tre club giacobini sorti in città, gli altri erano quello del Collegio dei Nobili e quello presso il giardino dell'avvocato Salvatore Cadeddu, nell'Orto di Palabanda. Molti dei protagonisti della vittoriosa quanto effimera impresa del 28 aprile 1794 assisteranno da questi club,in semiclandestinità, alle vicissitudini che si succederanno dalla fine del secolo fino al 1812: dall'arrivo dei reali in Sardegna nel 1799 a seguito dell'occupazione di Torino da parte di Napoleone, alla revoca del Regio Diploma che accoglieva parte delle cinque richieste ordita dal canonico Pietro Maria Sisternes de Oblites per conto del partito reazionario, alla successione sul trono dei tre fratelli Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I e, dal 1821, Carlo Felice che nel 1812 sarà in Sardegna come vicere.
Non ci sarà più Giomaria Angioy, morto nel frattempo esule a Parigi nel 1808, ma gli altri, con in testa l'avvocato Salvatore Cadeddu, si ritroveranno ancora a fronteggiare le stesse difficoltà, lo stesso malcontento ancor più diffuso ed accresciuto da una crisi economica culminata nella carestia del 1812, divenuta proverbiale nella memoria dei Sardi come "su famini de s'annu doxi".
In questo clima nei patrioti superstiti matura la convinzione di poter ripetere la sommossa del 1794 contro i piemontesi, magari conseguendo un successo più duraturo.
Gli storici in seguito adombreranno il sospetto che addirittura la via al successo fosse stata spianata da dissapori dinastici tra i fratelli V. Emanuele e Carlo Felice con il coinvolgimento dei rispettivi scudieri locali Giacomo Pes di Villamarina e Stefano Manca di Villahermosa. Ma evidentemente, aldilà dei particolari che fecero abortire il tentativo nella notte tra il 30 ed il 31 ottobre 1812, l'organizzazione doveva aver trascurato non pochi dettagli se non riuscì ad ottenere quella partecipazione popolare che era stata l'arma vincente del vagheggiato precedente. La congiura si afflosciò senza battere un colpo, i congiurati processati sbrigativamente e condannati chi al patibolo, chi all'esilio e chi al carcere a vita; le stesse prove processuali contraffatte e fatte sparire (a tutt'oggi quel poco che è stato rinvenuto è volutamente indecifrabile). Due secoli dopo la storia ci consegna alla commemorazione un manipolo di patrioti martirizzati per un golpe sventato sul nascere, estremo ultimo atto a distanza de sa Die de sa Sardigna.

Immagine di: http://progeturepublica.net/wp-content/uploads/2012/04/Angioy.jpg

domenica 24 giugno 2012

Domus De Janas, I templi del Neolitico in Sardegna. Sa Pala Larga

Sa Pala Larga
di Paola Arosio e Diego Meozzi
Stone Pages


La Sardegna è un'isola italiana nota tra gli archeologi soprattutto per i suoi nuraghes - antiche torri che ricordano in qualche modo i broch scozzesi, ma più numerose ed elaborate. Sull'isola si possono trovare molte altre antiche meraviglie: dalle cosiddette "tombe di giganti" alle "domus de janas" (case delle fate - tombe scavate nella roccia) come ai pozzi sacri preistorici. La Sardegna è quindi una regione veramente incredibile per qualunque appassionato di monumenti antichi. Ma alcuni dei suoi esempi più eccezionali potrebbero rimanere nascosti per secoli dopo essere stati scoperti e scavati [dagli archeologi]. Come vi raccontiamo in questa storia.

All'inizio di aprile abbiamo fatto un giro archeologico in Sardegna e una sera ci siamo trovati a soggiornare nell'agriturismo Sas Abbilas, in una meravigliosa valletta isolata nei pressi di Bonorva (Sassari) e di un sito archeologico importante, Sant'Andrea Priu. Il proprietario, Antonello Porcu, ci ha mostrato delle splendide immagini che ritraggono spirali rosse da 70cm dipinte sulle pareti di una cella laterale di una tomba preistorica che è stata oggetto di scavo un anno e mezzo fa. E ci ha raccontato la storia della cosiddetta "tomba della scacchiera".
I terreni del signor Porcu sono situati a fianco di una zona denominata Tenuta Mariani dove già nel 2002 era stata identificata una necropoli preistorica. Nel 2007 il Comune di Bonorva ottiene un finanziamento per effettuare un censimento dei siti archeologici dell'area e la cooperativa che ha l'appalto si avvale della competenza dell'archeologo Francesco Sartor per la Sovrintendenza archeologica di Nuoro e Sassari. Dopo la prima fase di censimento, l'anno successivo è la volta di una campagna di ricerca e scavo, sempre guidata da Francesco Sartor. Diverse settimane dopo l'inizio dei nuovi lavori, l'archeologo dichiara di non avere trovato ancora nulla, ma il signor Porcu nota che per diversi giorni di seguito gli scavatori scendono dalla collina ricoperti di polvere di roccia. Allora il fratello del signor Porcu si rivolge direttamente in sardo (com’è noto una lingua molto diversa dall'italiano) agli scavatori, chiedendo: "La scrofa ha fatto i maialetti?" Al che loro rispondono (sempre in sardo): "Sì, e dovresti vedere quanti, e che belli!" Questa è la prova che qualcosa di importante era stato trovato sulle colline di Mariani.

Dopo qualche giorno, il signor Porcu e il fratello si recano sul posto e trovano, al di sotto di un telone di protezione sistemato dagli scavatori, un dromos con un prospetto architettonico scavato nella roccia che conduce ad una grande tomba con tre celle laterali. La tomba è decorata con disegni d'ocra rossa brillante, con protomi taurine scolpite nel lato maggiore della camera principale e con un tetto alto circa 1,70m scolpito come se fosse composto da assi in legno, dipinte alternativamente in blu scuro e bianco. Ma l'elmento visuale più eccezionale della tomba è una serie di grandi spirali rosse dipinte in una cella laterale: un totale di sette spirali, molte delle quali interconnesse tra loro. La qualità delle antiche pitture è straordinaria, e su una volta è dipinta anche una figura geometrica rarissima nelle tombe sarde: un motivo a scacchiera bianca e nera - qualcosa probabilmente di unico in un sito apparentemente databile al Neolitico recente e riferibile alla cultura di San Michele di Ozieri (3800 a.C. – 2900 a.C.).
Dopo la sua visita alla tomba, il signor Porcu si reca dal sindaco di Bonorva, informandolo della straordinaria scoperta effettuata sul loro territorio. Il sindaco, stupito, dichiara di non essere stato informato dall'archeologo della scoperta, né di avere ricevuto comunicazioni ufficiali dalla Sovrintendenza.

La fine di questa storia? Dopo circa 4 mesi di scavi la Sovrintendenza decide di sistemare un enorme blocco di pietra di fronte all'unico ingresso della tomba; si fa quindi una colata di cemento e si ricopre l'intera zona con uno spesso strato di terra, sigillando nuovamente il sito, probabilmente per sempre. Ciò viene fatto per "preservare la tomba da eventuali saccheggiatori". E la tomba e il suo prezioso contenuto, così scompaiono. Una sorte condivisa anche da altre tombe dell'area, tra cui quella denominata "Sa Pala Larga" nella quale è stata trovata un'incredibile protome taurina scolpita e una serie di spirali a creare una sorta di "albero della vita".
Il sindaco di Bonorva, Mimmino Deriu, da noi intervistato, ha dichiarato che, nonostante la cronica mancanza di fondi, crede nel grande valore del patrimonio archeologico dell'area e si sta impegnando a valorizzarlo, in particolare con la riapertura del locale Museo archeologico situato in un ex convento e con il recentissimo accordo (del 7 aprile scorso) con l'Ente Forestale per la gestione tecnico-economica di tutela, conservazione e valorizzazione, anche ai fini turistici, proprio della Tenuta Mariani, dove si trova la necropoli sigillata.
Abbiamo anche contattato Luisanna Usai, archeologa della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Sassari e Nuoro e responsabile dell'area di Bonorva, per sapere se c'è un progetto di riapertura della tomba e la possibilità di rendere visitabile la necropoli. L'archeologa ha esposto molto chiaramente il proprio punto di vista sulla questione: "Non voglio che si parli di questa cosa, non mi interessa che si sappia. Noi della Soprintendenza siamo chiamati soprattutto alla tutela dei siti: le pitture sono labili e quindi la tomba rimane chiusa". E ha concluso affermando che "Il canale per far conoscere questo tipo di scoperte lo scegliamo noi della Soprintendenza".
Ora, fermo restando che siamo pienamente d'accordo sull'assoluta necessità di preservare la tomba dalle mani di saccheggiatori e tombaroli, la sua chiusura ci sembra abbia un senso solo in una prospettiva a breve termine. Anche perché testimonianze locali affermano come altre tombe sigillate nella zona - tra cui la già citata Sa Pala Larga - stiano soffrendo di pesanti infiltrazioni d'acqua che ne compromettono le pitture: il rimedio sembra quindi avere un effetto opposto a quanto auspicato.
Confermando il nostro rispetto per la Soprintendenza e i suoi archeologi, a partire da Luisanna Usai, che sappiamo essere un'ottima e capace professionista, non siamo tuttavia d'accordo né con i metodi applicati né con questo atteggiamento di chiusura: se si chiamano 'beni culturali' è evidente che siano un patrimonio nazionale, di tutti. La tutela è una cosa, l'occultamento a tempo indefinito - per quanto motivato da princìpi di preservazione - e' un'altra.
George Nash, archeologo del Dipartimento di Archeologia ed Antropologia dell’Università di Bristol ed esperto mondiale di arte preistorica, da noi contattato ha commentato: "Lo straordinario stato di conservazione di questo esempio di arte preistorica è paragonabile per importanza alle immagini dipinte all’interno della camera dell’Oracolo dell’ipogeo di Hal-Saflieni a Malta. Questa scoperta è di importanza internazionale e dovrebbe essere condivisa tra i ricercatori di arte preistorica. L’aver sigillato il monumento rappresenta un crimine contro la comprensione delle vere origini del Neolitico dell’Europa meridionale".
Ci chiediamo quanti monumenti eccezionali siano stati trovati, scavati e sigillati nuovamente negli anni da parte degli archeologi in Sardegna, senza che nessuno - tranne pochi addetti ai lavori - ne venisse a conoscenza. Per diffondere la consapevolezza dell'esistenza di questo posto veramente speciale, ci auguriamo che lettere e messaggi inviati direttamente al sovrintendente archeologico di Sassari e Nuoro possano convincere la Soprintendenza ad adoperarsi per l'apertura al pubblico della necropoli dell'area Mariani, in modo da condividere la sua straordinaria bellezza con il resto del mondo.

Immagini: http://www.stonepages.com/scacchiera/

sabato 23 giugno 2012

Navigazione antica e...farmaci.


Italia. Il relitto del Pozzino svela i segreti della medicina antica
di Martina Calogero


Al largo della costa toscana, nel 130 a.C., affondò un’elegante imbarcazione greca con un massiccio albero in legno di noce che trasportava cristalleria siriana, ma soprattutto medicinali. Il ritrovamento del suo carico avvenne venti anni fa ma solo oggi gli archeobotanici hanno svelato la composizione dei farmaci usati in Grecia nell’antichità: infatti, le analisi del Dna hanno rivelato che ogni compressa conteneva dieci estratti di piante diverse, dal sedano all’ibisco.

Nel corso del IV International Symposium on Biomolecular Archaeology di Copenaghen, tenutosi a fine 2010, Alain Touwaide, studioso dello Smithsonian Institution’s National Museum of Natural History di Washington, ha raccontato che nel 1989 è stata individuata nell’imbarcazione una scatola quasi intatta contenete farmaci. Così, è stato possibile studiare i frammenti di Dna contenuti nelle due compresse conservate meglio e mettere in confronto i risultati con le sequenze archiviate nel database GenBank dei National Institutes of Health statunitensi. Il sistema ha identificato nel farmaco tracce di ravanelli, cipolla selvatica, carota, sedano, quercia, achillea, erba medica e cavolo. L’analisi ha anche rilevato estratto di ibisco, forse importato dall’Oriente.

La maggior parte di queste piante sono conosciute per il largo utilizzo che ne facevano gli antichi nella cura di diverse malattie. Per esempio, il medico e farmacologo Pedanio Dioscoride, vissuto a Roma nel primo secolo dopo Cristo, descrive la carota come un toccasana per una serie di problemi di salute, quali il morso dei serpenti e l’infertilità. I dati forniti dallo studio hanno anche alimentato alcuni dubbi: infatti, l’analisi delle antiche compresse ha evidenziato la presenza di semi di girasole, una pianta che sinora si pensava non crescesse in Europa prima della scoperta dell’America. Se verrà confermata questa ipotesi, i botanici saranno costretti a rileggere la tradizionale storia del girasole e della sua diffusione, anche se per adesso è impossibile stabilire che non si tratti solamente di una contaminazione moderna.

Fonte: Archeorivista

venerdì 22 giugno 2012

Phoenikes. Attività e manufatti preziosi. 2° e ultima parte.




Fenici: Arte e manufatti metallici
di Pierluigi Montalbano

Un’altra categoria importante nell’artigianato artistico è quella delle coppe metalliche. Hanno due forme: emisferica o a tazza larga (con ombelico centrale in rilievo). Sono realizzate martellando una placca fino a darle una forma arrotondata. La decorazione è realizzata a sbalzo e le figure sono poi rifinite a cesello. Anche questa produzione non è solo da attribuire alla civiltà fenicia orientale (abbiamo anche manufatti nord-siriani e sud-siriani), pertanto lo studio iconografico è obbligatorio anche in questi casi.
I fenici avevano necessità di reperire stagno e rame per ottenere il bronzo, e cercavano anche di procurarsi l’argento, scambiando merci con altri popoli, pertanto anche le coppe sono attestate solo fuori dal Libano, come gli avori. La produzione è divisa in due fasi: una più antica (X a.C.) che attesta coppe in bronzo in Grecia e Oriente, in contesti tombali e santuariali: una più recente (VII a.C.), soprattutto a Cipro e in Etruria, con una produzione in argento e argento-dorato. I luoghi di produzione non sono conosciuti e, anche in questo caso, classifichiamo i manufatti col metodo della lettura iconografica. Le botteghe sono siriane (dalla fine del X a.C. a tutto l’VIII a.C.) e fenicie (dagli inizi del VII alla metà del VI a.C.). Queste due fasi sono differenti per materiali e per iconografia.
Quella più antica è suddivisa in tre sottogruppi principali ed è geograficamente inserita in area orientale. E’ costituita da coppe in bronzo caratterizzate da una rosetta centrale. La decorazione si sviluppa in fasce concentriche disposte attorno al centro e generalmente non è figurata: presenta un motivo floreale o geometrico e attorno si sviluppano le fasce. La scuola è nord-siriana e i temi sono quelli che potevano essere apprezzati nelle corti reali orientali: banchetti, cacce e un gruppo particolare e quello con tori o vacche che allattano, denominato “coppe dei tori”.
L’iconografia non è egizia perché le figure sono poco slanciate, si nota l’impronta siriana.



Un altro sottogruppo è costituito da coppe che hanno al centro una stella, sono definite Star Bowl, e sono riferite a scuola fenicia orientale o sud-siriana. Il motivo si svolge dalla stella al centro, con decorazione figurata organizzata simmetricamente. Si notano scene di danza o di lotta fra l’eroe e il grifone. Fra le scene si possono ammirare spicchi di coppa decorati con divinità fra colonne. Il terzo sottogruppo è di scuola fenicia orientale ed è caratterizzato dalla presenza al centro di una decorazione calligrafica con fasce continue di elementi vegetali come palmette o altro: sono le Marsh Pattern. Si notano tori o sfingi alate o urei (cobra, serpente sacro agli egizi) di tradizione egiziana.
Le coppe del secondo gruppo (700 a.C.), sono molto diverse sia come materiali (argento e argento dorato) sia come collocazione, nel senso che sono state ritrovati in area cipriota e in area occidentale (Etruria). La critica tende a identificare il luogo di produzione a Cipro. Si differenziano per la presenza di un medaglione figurato che presenta un motivo principale di tradizione egiziana o orientale. Si nota un’evoluzione perché nelle fasce concentriche si nota un affastellamento di elementi orientali molto diversi che si susseguono senza ordine. In alcune si nota il genio assiro quadrialato (simbolo benigno) che combatte contro il leone (simbolo della forza e del male). Sopra l’eroe è generalmente presente il falcone Orus (divinità egiziana) che porta protezione al faraone o all’eroe giovane che combattono contro grifoni, animali e mostri vari. Sono rappresentati anche altri elementi: alberi della vita realizzati con palmette, sfingi, grifoni e capridi in posizione araldica. Quindi tutta una serie di simboli orientali commisti con simboli egizi. A volte troviamo rappresentato uno sfondo di papiro con la nutrice Iside che sta allattando il giovinetto Orus. Spesso gli artigiani non conoscevano le interpretazioni e rappresentavano secondo il proprio gusto.
In una fase più tarda scompare l’affastellamento e le coppe sono più ordinate, meglio organizzate.
Assistiamo a esempi narrativi o decorazioni di fasce che continuano in quella successiva. Troviamo palmette, barche sacre egizie, sfondi di papireti, Iside che allatta Orus, tutti elementi ripresi dalla tradizione egiziana. Spesso troviamo decorazioni eseguite dagli artigiani con simboli geroglifici senza significato, a solo scopo decorativo. Una delle iconografie più diffuse presenta il faraone con la mazza in mano che abbatte il nemico mentre questi implora la salvezza. La
rappresentazione del faraone è enfatizzata, grande, mentre il nemico è piccolo, e ridotto a strisciare come un animale.
Nell’ultima fase troviamo coppe come quella di Preneste, in Etruria, nella quale è rappresentata la giornata del cacciatore. La scena narrativa è racchiusa entro un bordo nel quale si nota un serpente. Al centro c’è il faraone che con una lancia sta per uccidere il nemico, raffigurato disteso in terra vicino a un cane, a simboleggiare l’umiliazione. In una fascia più centrale ci sono cavalli ma la fascia più importante è quella esterna: il giovane principe esce dalla città fortificata per
andare a caccia. E’ su un carro insieme a un attendente che regge un ombrellino per riparare dal sole il suo sovrano. La scena al fianco mostra una montagna (rappresentata con le pelte di tipo assiro) con un cervo che viene cacciato dal principe, viene ucciso e appeso a un albero per essere scuoiato. Poi c’è il riposo con un momento di adorazione alla divinità con il sole alato che sovrasta la scena e il fumo che sale dall’altare. Da una grotta della montagna esce un mostro (uno
scimmione) ma il re protetto dal falcone Orus ingaggia una lotta, lo uccide e rientra in città. In quest’arte confluiscono elementi di tradizione egiziana, orientale, greca e assira. Un’altra classe di grande interesse è quella dei bronzetti figurati. Inizia nel Bronzo Medio e continua fino al Ferro. Non possiamo ricostruire la storia dei bronzetti su base stratigrafica perché non abbiamo dati e quindi ci si basa su iconografia e stile. Gli autori hanno grosse difficoltà nell’attribuzione della cronologia. Li si ritrova in ambito templare, come dediche in depositi votivi o
in cappelle secondarie. Abbiamo divinità maschili e femminili, o antenati divinizzati. Nella tradizione siro-palestinese del Bronzo abbiamo due iconografie: divinità maschili che tengono nella mano destra una mazza per percuotere le nubi (Dio Adad e Baal). Vengono denominati Smiting God (Dio battente). Si nota l’influenza egiziana per il corto gonnellino e la figura slanciata, ma la cintura e la
tiara conica sono siriane. Il rivestimento in lamina aurea impreziosiva l’oggetto. I bronzetti possono essere anche seduti sul trono. Anche in Palestina troviamo gli Smiting God e i bronzetti sul trono.
Nel Ferro, in Fenicia troviamo più frequenti le rappresentazioni femminili con veste lunga, corona egiziana e un braccio rivolto verso l’alto che forse brandisce un’arma (ma i frammenti sono andati perduti e non siamo certi). Continua lo Smiting God maschile ma questi ritrovamenti sono più frequenti in Occidente. Uno di questi è stato ritrovato in mare presso Selinunte, e datato intorno al VIII a.C. I bronzetti sono realizzati con il metodo della cera persa e misurano fra i 20 e i 40
centimetri. Un’altra iconografia occidentale è quella dei benedicenti, sia stanti che in trono, sia maschili che femminili, con le mani rivolte verso chi guarda. Alcuni hanno una corona di tipo Athorico (dalla dea vacca Athor) con il disco solare fra le corna. I personaggi maschili hanno a volte una tiara conica, come quello ritrovato ad Alghero e a volte sono incedenti, cioè hanno una gamba avanzata come se stessero camminando, un iconografia di tradizione egizia. Qualcuno di questi ha le braccia distese lungo i fianchi. Un altro gesto è quello di ripiegare un braccio al petto.
Altre iconografie isolate sono quelle della divinità che allatta (a Tharros), della dea nuda con le mani sui seni e del suonatore di lira (a Monte Sirai).
L’economia era dunque fiorente, con commerci di metalli, oggetti lavorati, gioielli e avori con un’irradiazione da oriente verso occidente, a partire da Cipro per poi proseguire nell’Egeo, Creta ed Eubea. I levantini arrivavano nelle terre controllate dai capi locali e svolgevano i loro commerci.
Se avevano il consenso delle comunità indigene, potevano anche fondare dei punti d’appoggio e non si verificavano conflitti. I mercanti erano divisi in piccoli gruppi, e non sarebbero riusciti a imporsi con le armi. Il loro interesse era scambiare proficuamente e mantenere buoni rapporti per mantenere attivi e duraturi i commerci.
Nell’VIII a.C. attraversarono tutto il Mediterraneo e arrivarono in Spagna, a Cadice e nell’Atlantico. Attraversare lo Stretto di Gibilterra non era semplice a causa dei venti e delle correnti marine. Poteva accadere che prima di proseguire il viaggio, si doveva rimanere sotto costa per mesi in attesa del bel tempo estivo. Le navi da trasporto erano soprattutto a vela, quelle da guerra erano a remi per essere più veloci e agili nelle manovre. La navigazione invernale è un’attività più recente, in antichità si viaggiava da Maggio fino all’Autunno, e se ci si trovava a metà strada si doveva attendere l’arrivo della nuova stagione.
Gli assiri dal IX a.C. esigono da tutti i popoli della fascia costiera libanese, siriani compresi, pesanti tributi con la minaccia di un’invasione armata. Nonostante ciò Tiro rimane indipendente fino alla fine dell’VIII a.C. Il motivo di questa autonomia deriva dalla capacità di reperire argento (e altri metalli) da consegnare agli assiri, che non avevano le competenze per varcare il mare. Quando i fenici portano in oriente una quantità tale di argento da provocare un’inflazione rilevante, gli assiri li conquistano perchè non erano più utili alle loro mire di dominio economico. Una concausa che contribuisce allo spostamento dei levantini verso occidente è la nascita di un’attività mercantile di tipo privato. Fino ad allora erano il re, il palazzo o il tempio a decidere i commerci, ma dal IX a.C. sono i mercanti a prendere le redini di questa attività. Le derrate alimentari, i manufatti e i metalli iniziano a viaggiare senza controllo statale.
Anche il clima mutò: dal Bronzo Medio si ha un processo di inaridimento e desertificazione progressivo che porta le steppe dell’interno ad avanzare verso il mare. La popolazione che si dedicava alle attività agrarie fu costretta a spostarsi verso il mare. La pressione demografica sulle coste fu eccessiva e diventò difficile sfamare tutta questa gente con le risorse esistenti.
Aumentò l’esigenza di nuovi sbocchi marittimi e alcuni gruppi di abitanti delle Città Stato si avventurano nel Mediterraneo per smerciare, fra gli altri, gli oggetti di lusso. Le cause dell’irradiazione fenicia sono insite nell’organizzazione economica dell’area, basata su artigianato e produzione di manufatti di lusso in cambio dei quali ricevevano derrate alimentari e materie prime. Dal X a.C. queste erano procurate dal Re Hiram in oriente, a Ophir e Cipro e nel IX a.C. nei grandi giacimenti minerari dell’area settentrionale in Cilicia. La situazione cambia intorno al VIII a.C. in seguito ai cambiamenti politici, quando l’alleanza dei regni della Siria blocca il passaggio a nord. Le carovaniere sono bloccate anche a est dal consolidarsi del regno arameo di Damasco e a sud c’è Israele. Tiro e altre città Stato sono costrette a trovare risorse metalliche altrove, e attraversano
tutto il Mediterraneo fino a giungere a Cadice, nell’area atlantica della Spagna, ricca di argento. Per la datazione dell’irradiazione le fonti archeologiche parlano di Kition come prima tappa commerciale importante, seguìta da Cartagine e Cadice.

Nelle immagini, dall'alto:
Biblo - Pugnale e fodero - Oro e avorio - 1750 a.C
Ugarit - Scena di caccia - 1450 a.C,