Storia dei popoli: seminiamo il seme della cultura nei nostri figli perché il futuro è ancora da costruire.
mercoledì 31 agosto 2011
Omero: l'Iliade
Il favoloso Omero: l’Iliade
di Pierluigi Montalbano
Continuiamo il nostro viaggio nella letteratura antica approdando, con l’Iliade, al mondo classico, cioè quello dell'antica Grecia, la terra che è considerata universalmente la patria della civiltà umana. Anche in altre regioni si erano sviluppate civiltà elevate capaci di produrre grandi opere d'arte, ma avevano avuto scarsi rapporti con l'Occidente. Invece la civiltà greca, la sua scienza, la sua filosofia, il suo ideale dell'armonia, dell'equilibrio, della bellezza, si diffusero in tutti paesi del Mediterraneo.
La Grecia a cui l’Iliade ci riconduce, non è nella gloriosa terra di Atene, non è la Grecia in cui vissero scultori come Fìdia, filosofi come Platone e Aristotele, uomini di Stato come Pericle, poeti come Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma la Grecia primigenia, antica, dove ancora esisteva in ciascuno dei borghi e delle piccole città, una monarchia patriarcale. Quell’epoca per gli storici è avvolta tuttora nel regno dei miti e delle leggende.
Intorno al 1200 a.C. scoppiò fra il re greci e la città di Troia, che fioriva sulle coste dell'Asia, una lunghissima guerra. A noi è giunta una leggenda: la guerra sarebbe divampata per una bellissima donna di nome Elena, che Paride, principe troiano, avrebbe rapita e portata con sè. I greci, riunite le loro forze sotto il comando del re Agamennone, navigarono verso la città nemica, la cinsero d'assedio e la diedero alle fiamme. Poi presero la via del ritorno: molti andarono errando di lido in lido, di isola in isola, sbattuti dalle tempeste, perseguitati dalla vendetta degli dèi avversari, e rimisero piede in patria quando erano ormai vecchi. Ulisse, re di Itaca, tornò alla sua isola vent'anni dopo la partenza. Il Mediterraneo era un mare misterioso, infinito, dove le più incredibili meraviglie apparivano a ogni volger di prora, dove si favoleggiava abitassero esseri mostruosi e terribili. Di racconto in racconto, di bocca in bocca, le cose si trasformano, si ingrandiscono e acquistano sempre più sapore di leggenda. Tali vicende erano narrate da cantori girovaghi, i rapsòdi, che si recavano di città in città, intrecciando casi sempre nuovi, ampliando la materia esistente, inventando, ricreando, arricchendo l'epos con qualcosa di proprio, di personale. La Grecia era perciò risonante di meravigliose leggende quando nacque, 400 anni dopo la guerra di Troia, il più grande di tutti i rapsodi: Omero. Il fatto che la leggenda lo raffiguri come cieco, è significativo: i poeti hanno spesso gli occhi chiusi di fronte alle piccole cose di ogni giorno, ma ne vedono con la loro anima di ben più grandi e meravigliose. L’opera di Omero comprende due grandi poemi: l’Iliade che tratta della guerra di Troia (Ilio) e l'Odissea che narra il ritorno in patria di Ulisse (Odisseo).
Un poeta latino, Orazio, vissuto ai tempi di Cristo, racconta che da bambino dovette leggersi a scuola tutta l'Odissea, verso per verso, e per di più a forza di nerbate, se mostrava di averne poca voglia. I maestri di quel tempo andavano per le spicce. È probabile dunque che già il piccolo Orazio, e i suoi compagni, si siano chiesti che cosa ci fosse di vero nei fatti straordinari che andavano di mano in mano leggendo. Ma i ragazzi di allora avevano meno dubbi di quelli di oggi, erano più facili a credere. Da ogni parte, anche in famiglia, sentivano discorrere con molta serietà di dee e dei, che poi risultavano rissosi, intriganti, tali da odiarsi e sparlare l'uno dell'altro, da scendere in terra e mescolarsi di continuo tra le cose degli uomini. Per quei ragazzi gli dei mangiavano e bevevano ogni giorno, quando addirittura non si buscavano, per avere alzato il gomito. È naturale perciò che essi prendessero per buono e per vero il mondo di Omero, e che credessero a tante cose di fronte alle quali oggi si alzano le spalle.
Passarono i secoli. Gli uomini divennero sempre più presi dal dubbio e si giunse al punto che alcuni studiosi negarono ogni riferimento alle vicende narrate nell’Iliade e nell’Odissea. Favole, dissero, fantasie da ragazzi. E fecero a gara per dimostrare che non c'era nulla di vero, che Troia era esistita soltanto la fervida mente di Omero, come del resto gli eroi, le battaglie e tutte le meraviglie dei due poemi. Come credere ad esempio che Achille avesse in un solo giorno ucciso di sua mano 10.000 nemici? Che ci fossero state le sirene e il minotauro, centauri e ciclopi? Così tutto veniva confinato nel regno della leggenda, dei sogni, ma non per sempre.
Verso il 1870, un appassionato lettore tedesco dei poemi omerici, Enrico Schliemann, convinto che al fondo di quelle opere doveva esserci qualcosa di vero, volle scavare nei luoghi in cui l'antichissimo poeta aveva collocato Troia. Assoldò manovali e operai, dirigendo egli stesso, con la sola guida delle indicazioni che si potevano trarre dall’Iliade, i lavori di scavo. Un giorno vide la terra luccicare sotto un colpo di piccone e va lui stesso a scavare.
L’oro affiorava a ogni colpo, lavorato in diademi, braccialetti, collane, anfore e coppe. Un tesoro che rivelava la ricchezza la civiltà di una città antichissima, per tanto tempo creduta leggendaria. Non ci fu terra in cui non giunse la notizia e in quei luoghi si scoprirono anche i vari strati sovrapposti di Troia, più volte distrutta e riedificata. Tutto vero dunque ciò che Omero racconta? Vere anche le sirene e Polifemo? Si capisce bene che gli studiosi di oggi non arrivano fino a questo punto limitandosi a osservare che al fondo della storia narrata dal poeta c'è del vero ma la fantasia dei popoli ha poi circondato di favole quella vicenda.
È d'obbligo a questo punto far cenno della mitologia classica, ossia delle leggende e dei miti del mondo greco-latino, che hanno offerto tanta materia a scrittori e poeti di ogni tempo. Per i popoli antichi ogni forza, ogni elemento, ogni aspetto della natura possedeva una divinità: Nettuno era Dio del mare, Vulcano del fuoco, Apollo era il sole, Diana era la luna, Venere era la dea della bellezza, Minerva dell'intelligenza, Eolo il signore dei venti. Su tutti regnava Giove, mentre Giunone, sua moglie, aveva il primo posto fra le dee. La sede delle divinità si trovava nel cielo che sovrastava un monte della Tessaglia: l'Olimpo. La differenza essenziale fra dei e uomini consisteva nell'immortalità, propria solo dei Celesti. Il loro potere, perfino quello di Giove, era limitato, essendo tutti sottomessi a un nume più alto e invisibile: il fato. Accanto alle maggiori, si muoveva una folla di divinità minori: le ninfe del mare, delle selve e dei fiumi, i fiumi stessi e le sorgenti, e un certo numero di semidei, perché i Celesti non sdegnavano talvolta le nozze con uomini. Achille, ad esempio, era nato da un mortale (Pelèo) e da Teti, ninfa del mare.
Se l’Iliade non narra gli avvenimenti di tutti i 10 anni in cui durò la guerra di Troia, e si limita a un periodo di 49 giorni che precedette la caduta della città, è comunque ricca di duelli, di battaglie e di azioni eroiche. Il poema ha inizio con la rappresentazione di una pestilenza scoppiata nel campo dei greci e dovuta all'ira di Apollo, di cui il supremo condottiero, Agamennone, aveva offeso un caro sacerdote. Riunitosi il consiglio dei duci, una lite violenta divampa fra Achille e il primo dei re. Il divino guerriero abbandona per protesta il campo, e si ritira coi suoi in solitudine sdegnosa. Il danno degli achei è grave perché senza Achille l'esercito perde la fiducia nella vittoria. I troiani, imbaldanziti, corrono allora all'assalto e fanno una grande strage, sotto la guida di Enea e di Ettore. Quest'ultimo con supremo sforzo giunge fino le navi greche e vi appicca il fuoco. La desolazione degli achei è profonda, e ciascuno sente nel suo cuore che sarà la rovina di tutti se Achille non deporrà la sua ira e non tornerà a combattere. Ma l'eroe è irremovibile e dopo aver accolto un'ambasceria che sollecita il suo aiuto, pone un rifiuto netto e duro. Quando però Patroclo, l'amico carissimo, gli chiede di indossare le sue armi e correre al soccorso dei greci ricacciati fino alle navi, allora il generoso eroe non sa più opporsi, e consente che l'apparire della sua armatura atterrisca i Troiani. Se egli non scenderà in campo, le armi saranno pur sufficienti a rovesciare le sorti della battaglia. Ma Ettore scopre che sotto la fulgida armatura non si nasconde il possente Achille, ma un giovinetto più debole, anche se di gran cuore. Allora lo affronta e lo uccide. Il dolore terribile sofferto per la morte di Patroclo fa dimenticare ad Achille ogni rancore. Il dio vulcano fabbrica per lui nuove armi, e l'eroe scende di nuovo in battaglia compiendo una strage: Ettore stesso è trafitto dalla sua spada, il cadavere legato al cocchio e trascinato sotto le mura di Troia, davanti agli occhi della moglie e dei vecchi genitori. È una scena che muove a pietà e commozione. E commozione forse maggiore ci muove il re Priamo che, tremante di vecchiezza e senza alcuna scorta, si reca al campo dei greci, nella tenda di Achille, per supplicarlo di rendergli il cadavere del figlio. Egli riavrà il cadavere, lo riporterà nella città e vorrà per lui, approfittando di una tregua, solenni e magnifici funerali. A questo punto, e cioè con un atto di umana pietà, si conclude il poema della guerra.
Nell'immagine: un vaso greco con la scena di Achille che uccide Ettore.
martedì 30 agosto 2011
Convegno di Archeologia: Nuragici e Fenici si incontrano.
COMUNE di DOMUS DE MARIA
PRIMA RASSEGNA “NOTE di SETTEMBRE”
APPROFONDIMENTI CULTURALI “STORIA E ARCHEOLOGIA”
Sabato 3 “RAPPORTI TRA FENICI E NURAGICI IN SARDEGNA”
Ore 18:30-21 Piazza Museo – Domus de Maria.
Saluto di benvenuto dell’Assessore alla Cultura Dott. Luigina Tronci.
Mauro Perra: "Guerra e Aristocrazia nella Sardegna Nuragica?
Alfonso Stiglitz: “Fenici e Nuragici in contrappunto”
Marco Rendeli: “ Il mondo di Sant’Imbenia”
Moderatore: Pierluigi Montalbano.
Organizzano: Associazione Ugo Tomasi con Associazione Bithia.
Curatore: Giuseppe Lulliri.
Seguirà serata di musica etnica, in “Piazza Vittorio Emanuele”.
Domenica 4 “GLI SCAVI DELL’ANTICA BITHIA”
Ore 18:30-21 Piazza Museo – Domus de Maria.
Saluto di benvenuto del Sindaco Dott. M. Concetta Spada.
“Ripresa scavi sull’acropoli di Bithia”, a cura del Comune di Domus de Maria e Soprintendenza Archeologica Cagliari e Oristano.
Paolo Bernardini: “Nascita della città in Sardegna ed equilibrio di forze tra indigeni e fenici”
Piero Bartoloni: “Porti e approdi da Nora a Sant’Antioco in epoca fenicia”
Marco Edoardo Minoja: “Gli scavi di Bithia”
Moderatore: Pierluigi Montalbano.
Organizzano: Associazione Ugo Tomasi con Associazione Bithia.
Curatore: Giuseppe Lulliri.
Seguirà serata di musica etnica, in “Piazza Vittorio Emanuele”.
Alle serate dovrebbe partecipare uno staff di fotografi e giornalisti che inseriranno immagini e riassunto delle relazioni nel quotidiano on line di storia e archeologia.
Per le serate è previsto un assaggio di prodotti locali e un buon bicchiere di vino.
lunedì 29 agosto 2011
Letteratura antica: La Bibbia II
Prendiamo in esame i 4 brani scelti nella precedente introduzione.
Il passaggio del Mare di Giunchi.
L’esodo, ossia l'uscita, è la liberazione degli ebrei dalla servitù nella quale erano caduti in terra d'Egitto. Si tratta di una storia che tutti serbiamo nella memoria sin dai primi anni, e che cela un significato profondo. In apparenza è una vicenda di poco conto: la fuga di un gruppo di schiavi con le loro donne, gli animali e i fanciulli. In realtà è una sorta di battesimo (il passaggio attraverso le acque) dopo il quale gli ebrei appaiono come rinati, e fatti degni della promulgazione della legge. La vicenda è raccontata con commozione, con un'assoluta dedizione alla volontà di Dio, il quale ha fatto degli ebrei, senza loro merito, il suo popolo.
L'autore di questo brano non si preoccupa di porre in luce il valore degli ebrei, anzi si esalta proprio quando insiste sulla paura degli ebrei di fronte all'esercito del faraone, e sulla pochezza del popolo eletto, che giunge sino al punto di invocare il ritorno in Egitto, di rimproverare Mosè per ciò che ha osato: “ noi preferiamo servire gli egiziani anziché morire nel deserto. Forse non ci sono cimiteri in Egitto, perché tu ci abbia condotto morire nel deserto?”.
Dopo la descrizione della sconfitta degli inseguitori (“ non ne rimase neppure uno”) si innalza nelle pagine un cantico in onore di Dio, tra più grandi della Bibbia: “ Dio è un guerriero, la sua destra frantuma il nemico. Cavalli e carri ha gettato nel mare. Egli è mia forza e mia fortezza. Egli è stato la mia salvezza, io lo esalto, io lo glorifico”.
La tradizione indica in Mosè l'autore dell’esodo. Le vicende sono poste dagli storici nel XIII a.C., negli anni in cui Ramesse II fu faraone d'Egitto.
Le mura di Gerico.
Giosuè fu il secondo condottiero del popolo d'Israele, colui che lo condusse sino alla terra promessa, e lo guidò durante gli anni della conquista. Il libro a lui intitolato è perciò un libro di guerra e di sterminio, senza remissione, ma dominato da un'alta fede, dalla certezza che nella nuova terra Israele avrebbe innalzato alla città dei giusti, in cui si sarebbe adempiuta la legge di Dio.
Ogni città conquistata era destinata all'anatema di esecrazione, ossia all'annientamento di tutti gli esseri viventi, compresi gli animali. Si doveva realizzare nella terra promessa un nuovo deserto, in cui il popolo eletto potesse svilupparsi immune da ogni contatto con le genti infedeli. Ciò corrispondeva sia alla barbarie dei tempi sia alla certezza, che animava gli ebrei, di essere stati chiamati a instaurare il regno di Dio. Ma uno studio attento del libro di Giosuè permette di concludere che la conquista avvenne in mezzo a mille difficoltà, che spesso gli ebrei raggiunsero un accordo con i popoli che abitavano nella terra promessa, che molte volte accettarono di vivere in comune con gli infedeli.
La ferocia delle guerre descritte non corrisponde sempre alla realtà storica: era accresciuta dallo scrittore stesso, per rinsaldare la fede del popolo, rafforzare la certezza che la giustizia e la forza di Dio erano implacabili. Di continuo ritornano nel libro alcune indicazioni generiche come “in quel tempo”, “allora”. Non si tratta quindi di cronaca, ma di storia sacra. Non è una relazione precisa delle imprese compiute ma una esaltazione di Dio: le pagine da cui derivava agli ebrei la certezza che Dio combatteva per Israele.
Gerico si trovava al centro del paese di Canaan, e perciò era di importanza fondamentale per la sicurezza degli ebrei. Il primo capitolo è tutto di natura umana, poiché descrive l'invio segreto di alcuni esploratori a Gerico, e non presenta alcun aspetto miracoloso. Ma in quello che segue, ossia il capitolo VI, la conquista è tutta trasferita sul piano del miracolo. Per sei giorni, in silenzio, le truppe d'Israele, precedute dall'Arca dell'Alleanza e dalle trombe sacre, compiono il giro delle mura di Gerico. Al settimo giorno sette volte compiono il giro in silenzio, e all'ultimo lanciano altissimo il grido di guerra, e le mura si disperdono, si dissolvono dalle fondamenta.
Il libro di Giosuè presuppone l'esistenza, tra gli ebrei, di antichissime opere, di antichissimi canti tipici, come “il libro delle guerre di Dio”, che andarono perduti. Per molte ragioni non è possibile attribuire al Giosuè stesso la stesura dell'opera, come volevano le tradizioni più antiche.
Sansone e i filistei.
All'età dei patriarchi seguì, nella storia ebraica, quella dei Giudici. La terra promessa era stata divisa tra le varie tribù, l'unità degli ebrei si era frantumata tra i vari gruppi, ognuno impegnato a completare la conquista del proprio territorio, ancora in gran parte occupato dagli abitatori precedenti, e più tardi soggetto l'invasione di un altro popolo, il filisteo. Solo in caso di emergenza, sollecitate dalla necessità di unire le loro forze contro il nemico precedente, o contro l'invasore filisteo, alcune delle tribù si sottoposero alla guida di un unico capo, o come si disse allora “Giudice”, ossia il mandatario di Dio, colui che giudica, e dirimere controversie con i nemici di Israele.
Tra i Giudici la figura più nota è quella di Sansone, che operò durante il periodo in cui il popolo eletto subì maggiormente la prepotenza dei filistei. È la figura tipica dell'eroe popolare, del quale si raccontano e tramandano la nascita miracolosa, le imprese mirabolanti, le vicende d'amore, e infine la morte straordinaria in difesa del proprio popolo.
Tutta la storia di Sansone occupa nel libro dei giudici quattro capitoli, e questo tono affascinante di storia popolare, rievocata con compiacimento dallo scrittore, è tutta avvolta in un alone religioso, sebbene non manchino gli episodi bizzarri e grotteschi, cari a chi racconta, o ascolta, durante una veglia: la mascella d'asino, le volpi legate a due a due per la coda...
Il narratore si rivela nella parte finale un grande artista, perché quando le vicende si avviano alla catastrofe, alla morte di Sansone egli dimentica ogni indugio e procede rapidissimo, con una scrittura di grande efficacia. I fatti si pongono tra XI e X a.C., e la tradizione indica come autore del libro l'ultimo dei Giudici: Samuele.
David e il gigante Golia.
La forza del giovinetto David è tutta nella fede che lo anima, nella sua certezza di avanzare contro Golia in nome di Dio: “ io vengo contro di te nel nome di Dio degli eserciti…Dio che mi ha scampato dalle unghie del leone e dell'orso, mi scamperà tra le mani di questo filisteo… Dio ti ha messo in mio potere senza via di scampo”.
Con questo spirito il giovane pastore uccide lo smisurato Golia, innanzi al quale avevano tremato tutti gli uomini d'Israele. L'episodio si colloca nell'età in cui il popolo di Israele si unificò sotto il potere di un re. Samuele, ultimo dei giudici e sacerdote, consacrò re Saul, ma il signore si allontanò da Saul per i suoi peccati, e Samuele ebbe l'ordine di spargere l'olio della consacrazione su un nuovo sovrano. Il nuovo re prescelto da Dio è un fanciullo che pascola il gregge, il più piccolo dei figli di Jesse. Ma Dio non vede solo ciò che vede l'uomo: “ l'uomo infatti vede gli occhi, Dio vede il cuore”.
I due libri di Samuele sono dominati dalle figure di Saul e di David. La loro attribuzione a Samuele è dovuta al fatto che il sacerdote unse il primo re e il secondo dei re, cioè introdusse nel popolo ebraico la monarchia.
Anche per questi due libri, come per molti altri della Bibbia, si ignora il vero nome del trascrittore.
Il passaggio del Mare di Giunchi.
L’esodo, ossia l'uscita, è la liberazione degli ebrei dalla servitù nella quale erano caduti in terra d'Egitto. Si tratta di una storia che tutti serbiamo nella memoria sin dai primi anni, e che cela un significato profondo. In apparenza è una vicenda di poco conto: la fuga di un gruppo di schiavi con le loro donne, gli animali e i fanciulli. In realtà è una sorta di battesimo (il passaggio attraverso le acque) dopo il quale gli ebrei appaiono come rinati, e fatti degni della promulgazione della legge. La vicenda è raccontata con commozione, con un'assoluta dedizione alla volontà di Dio, il quale ha fatto degli ebrei, senza loro merito, il suo popolo.
L'autore di questo brano non si preoccupa di porre in luce il valore degli ebrei, anzi si esalta proprio quando insiste sulla paura degli ebrei di fronte all'esercito del faraone, e sulla pochezza del popolo eletto, che giunge sino al punto di invocare il ritorno in Egitto, di rimproverare Mosè per ciò che ha osato: “ noi preferiamo servire gli egiziani anziché morire nel deserto. Forse non ci sono cimiteri in Egitto, perché tu ci abbia condotto morire nel deserto?”.
Dopo la descrizione della sconfitta degli inseguitori (“ non ne rimase neppure uno”) si innalza nelle pagine un cantico in onore di Dio, tra più grandi della Bibbia: “ Dio è un guerriero, la sua destra frantuma il nemico. Cavalli e carri ha gettato nel mare. Egli è mia forza e mia fortezza. Egli è stato la mia salvezza, io lo esalto, io lo glorifico”.
La tradizione indica in Mosè l'autore dell’esodo. Le vicende sono poste dagli storici nel XIII a.C., negli anni in cui Ramesse II fu faraone d'Egitto.
Le mura di Gerico.
Giosuè fu il secondo condottiero del popolo d'Israele, colui che lo condusse sino alla terra promessa, e lo guidò durante gli anni della conquista. Il libro a lui intitolato è perciò un libro di guerra e di sterminio, senza remissione, ma dominato da un'alta fede, dalla certezza che nella nuova terra Israele avrebbe innalzato alla città dei giusti, in cui si sarebbe adempiuta la legge di Dio.
Ogni città conquistata era destinata all'anatema di esecrazione, ossia all'annientamento di tutti gli esseri viventi, compresi gli animali. Si doveva realizzare nella terra promessa un nuovo deserto, in cui il popolo eletto potesse svilupparsi immune da ogni contatto con le genti infedeli. Ciò corrispondeva sia alla barbarie dei tempi sia alla certezza, che animava gli ebrei, di essere stati chiamati a instaurare il regno di Dio. Ma uno studio attento del libro di Giosuè permette di concludere che la conquista avvenne in mezzo a mille difficoltà, che spesso gli ebrei raggiunsero un accordo con i popoli che abitavano nella terra promessa, che molte volte accettarono di vivere in comune con gli infedeli.
La ferocia delle guerre descritte non corrisponde sempre alla realtà storica: era accresciuta dallo scrittore stesso, per rinsaldare la fede del popolo, rafforzare la certezza che la giustizia e la forza di Dio erano implacabili. Di continuo ritornano nel libro alcune indicazioni generiche come “in quel tempo”, “allora”. Non si tratta quindi di cronaca, ma di storia sacra. Non è una relazione precisa delle imprese compiute ma una esaltazione di Dio: le pagine da cui derivava agli ebrei la certezza che Dio combatteva per Israele.
Gerico si trovava al centro del paese di Canaan, e perciò era di importanza fondamentale per la sicurezza degli ebrei. Il primo capitolo è tutto di natura umana, poiché descrive l'invio segreto di alcuni esploratori a Gerico, e non presenta alcun aspetto miracoloso. Ma in quello che segue, ossia il capitolo VI, la conquista è tutta trasferita sul piano del miracolo. Per sei giorni, in silenzio, le truppe d'Israele, precedute dall'Arca dell'Alleanza e dalle trombe sacre, compiono il giro delle mura di Gerico. Al settimo giorno sette volte compiono il giro in silenzio, e all'ultimo lanciano altissimo il grido di guerra, e le mura si disperdono, si dissolvono dalle fondamenta.
Il libro di Giosuè presuppone l'esistenza, tra gli ebrei, di antichissime opere, di antichissimi canti tipici, come “il libro delle guerre di Dio”, che andarono perduti. Per molte ragioni non è possibile attribuire al Giosuè stesso la stesura dell'opera, come volevano le tradizioni più antiche.
Sansone e i filistei.
All'età dei patriarchi seguì, nella storia ebraica, quella dei Giudici. La terra promessa era stata divisa tra le varie tribù, l'unità degli ebrei si era frantumata tra i vari gruppi, ognuno impegnato a completare la conquista del proprio territorio, ancora in gran parte occupato dagli abitatori precedenti, e più tardi soggetto l'invasione di un altro popolo, il filisteo. Solo in caso di emergenza, sollecitate dalla necessità di unire le loro forze contro il nemico precedente, o contro l'invasore filisteo, alcune delle tribù si sottoposero alla guida di un unico capo, o come si disse allora “Giudice”, ossia il mandatario di Dio, colui che giudica, e dirimere controversie con i nemici di Israele.
Tra i Giudici la figura più nota è quella di Sansone, che operò durante il periodo in cui il popolo eletto subì maggiormente la prepotenza dei filistei. È la figura tipica dell'eroe popolare, del quale si raccontano e tramandano la nascita miracolosa, le imprese mirabolanti, le vicende d'amore, e infine la morte straordinaria in difesa del proprio popolo.
Tutta la storia di Sansone occupa nel libro dei giudici quattro capitoli, e questo tono affascinante di storia popolare, rievocata con compiacimento dallo scrittore, è tutta avvolta in un alone religioso, sebbene non manchino gli episodi bizzarri e grotteschi, cari a chi racconta, o ascolta, durante una veglia: la mascella d'asino, le volpi legate a due a due per la coda...
Il narratore si rivela nella parte finale un grande artista, perché quando le vicende si avviano alla catastrofe, alla morte di Sansone egli dimentica ogni indugio e procede rapidissimo, con una scrittura di grande efficacia. I fatti si pongono tra XI e X a.C., e la tradizione indica come autore del libro l'ultimo dei Giudici: Samuele.
David e il gigante Golia.
La forza del giovinetto David è tutta nella fede che lo anima, nella sua certezza di avanzare contro Golia in nome di Dio: “ io vengo contro di te nel nome di Dio degli eserciti…Dio che mi ha scampato dalle unghie del leone e dell'orso, mi scamperà tra le mani di questo filisteo… Dio ti ha messo in mio potere senza via di scampo”.
Con questo spirito il giovane pastore uccide lo smisurato Golia, innanzi al quale avevano tremato tutti gli uomini d'Israele. L'episodio si colloca nell'età in cui il popolo di Israele si unificò sotto il potere di un re. Samuele, ultimo dei giudici e sacerdote, consacrò re Saul, ma il signore si allontanò da Saul per i suoi peccati, e Samuele ebbe l'ordine di spargere l'olio della consacrazione su un nuovo sovrano. Il nuovo re prescelto da Dio è un fanciullo che pascola il gregge, il più piccolo dei figli di Jesse. Ma Dio non vede solo ciò che vede l'uomo: “ l'uomo infatti vede gli occhi, Dio vede il cuore”.
I due libri di Samuele sono dominati dalle figure di Saul e di David. La loro attribuzione a Samuele è dovuta al fatto che il sacerdote unse il primo re e il secondo dei re, cioè introdusse nel popolo ebraico la monarchia.
Anche per questi due libri, come per molti altri della Bibbia, si ignora il vero nome del trascrittore.
domenica 28 agosto 2011
Letteratura antica, la Bibbia I
La Bibbia
di Pierluigi Montalbano
Qualcuno si meraviglierà di trovare fra i poemi epici una scelta della Bibbia poiché si tratta di un libro sacro. Eppure anche gli ebrei ebbero le loro guerre, le loro imprese eroiche. Alle sue origini, il popolo eletto era una povera tribù di beduini, errante con le sue greggi. Poi migrarono in Egitto dove vissero per circa 500 anni trasformandosi in un popolo numeroso. Ma quanto più gli ebrei crescevano di numero tanto più le loro condizioni si facevano peggiori, sino a quando furono oppressi dalla dura schiavitù del faraone. Quando questo popolo di schiavi, sotto la guida di Mosè, uscì dall'Egitto, e si liberò dell'oppressione, ci appare come un pigmeo di fronte un gigante, paragonato alla civiltà millenaria e fastosa degli egiziani, che avevano innalzato i più grandi monumenti della storia del mondo, le piramidi. Eppure gli ebrei, quel popolo di schiavi che uscì dall'Egitto con i vecchi, i fanciulli, le donne, riuscirono a sfuggire all'inseguimento degli egiziani, riuscirono a conquistare, dopo la dimora di vari decenni nel deserto, la Terra Promessa, debellando a uno a uno le genti che vi abitavano, e seppero darsi una legge, un complesso severo di tradizioni e diritti: furono l'unico popolo che pervenne al concetto di un Dio solo, puro spirito, senza nulla in comune con gli dèi spesso mostruosi collegati alle passioni terrene delle altre religioni.
Negli altri poemi gli dèi si mescolano di continuo alle vicende degli uomini e parteggiano per l'uno o per l'altro dei combattenti, contribuendo sin dove il fato lo permette alla vittoria o la sconfitta degli eroi. Ma nella Bibbia la presenza dell'unico Dio è un elemento essenziale, determinante per ognuna delle vicende descritte: a lui è materialmente dovuta ogni vittoria, ogni impresa eroica, ogni sterminio dei nemici. Dio fa sì che si aprano le acque del Mare dei Giunchi, che cadano le mura di Gerico, che la fionda di Davide colpisca Golia, che il sole si oscuri sugli eserciti di nemici. Dio procura ogni vittoria sebbene il suo popolo non riveli particolari doti guerriere, anzi più volte non faceva mistero dei suoi timori.
La Bibbia è opera di numerosi autori, remoti tra loro di secoli e secoli, eppure in ogni pagina vi è sempre lo stesso motivo: la guerra è la guerra di Dio, spesso feroce, implacabile, che fa il deserto dove le truppe avanzano, e non risparmia né il re né i fanciulli né gli animali dei nemici. Se Dio permette la sconfitta è solo perché il suo popolo è venuto meno al patto sacro, si è reso colpevole di idolatria. 73 sono le opere raccolte nella Bibbia, e la loro compilazione è collocata dagli studiosi lungo un arco di 14 secoli, dal XIII a.C. al I d.C. Secondo la dottrina della Chiesa la Bibbia è da considerarsi un'opera di ispirazione divina, dettata da Dio, ma gli autori, pur ispirati dall'alto, conservano la mentalità e la cultura propria dell'epoca in cui scrivono, e manifestano un loro stile, una personalità letteraria. L'ispirazione divina non comporta la verità assoluta di tutto ciò che è contenuto nella Bibbia: la Chiesa stessa insegna che la Bibbia, infallibile per quanto si attiene alla dottrina religiosa, si adegua ai sensi e alle conoscenze limitate degli ebrei. Allo stesso modo si attiene ai fenomeni naturali, parla cioè con l'unico linguaggio che poteva essere compreso dal popolo. Gli autori si preoccupano soprattutto del senso morale, dell'ammonimento che deriva dai fatti: perciò riduce o accresce il numero di nemici e delle battaglie per adeguarlo a un numero sacro o simbolico, amplifica i fatti, li ripete, li ordina in modo che appaia più chiaro il disegno generale, ossia l'intervento provvidenziale di Dio. La Bibbia è divisa in due grandi parti, l'antico testamento e il nuovo testamento, il primo dedicato ai fatti che precedettero l'avvento di Gesù, il secondo dedicato ai fatti che ne accompagnarono e seguirono l'avvento. Volendo leggere la Bibbia come un poema epico ci interessa soprattutto la prima parte: l'antico testamento, scritto quasi per intero in ebraico e solo per alcuni libri posteriori in greco.
Fra i brani scelti per il nostro percorso ho selezionato: L'esodo dall'Egitto, il passaggio nel Mare dei Giunchi, le mura di Gerico, Sansone e i filistei, Davide e Golia.
Iniziamo dal primo:
L'esodo dall'Egitto.
La storia dell'uscita degli ebrei dall'Egitto e delle loro peregrinazioni prima di giungere nella terra promessa, è scritta nel libro secondo della Bibbia. Si legge che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, mosso a pietà dalla dura schiavitù del suo popolo nella terra dei faraoni, volle liberarlo e ricondurlo, dopo 400 anni, nella terra dei padri, la Palestina. A questo grande compito provvide Mosè, da Dio predestinato a salvare gli ebrei. Nacque dalla stirpe di Levi e, come tutti i figli maschi del popolo d'Israele, doveva essere gettato nel fiume e ucciso, secondo gli ordini del faraone. Ma il bimbo fu salvato dall'intervento della stessa figlia il faraone che, toccata dalla sua bellezza, lo prese sotto la sua protezione e lo fece allevare come un proprio figlio, imponendogli il nome di Mosè, che significa salvato dalle acque. Diventato uomo, l'angelo del Signore gli apparve in una fiamma e gli ordinò di ricondurre il popolo nella terra promessa. Mosè si presentò al faraone e gli chiese, a nome del Signore Dio d'Israele, di lasciar partire gli ebrei. Ma il faraone oppose un netto rifiuto, anzi rese più dure le condizioni degli ebrei. L'Egitto fu allora colpito da terribili flagelli, le famose 10 piaghe d'Egitto, tra le quali ricordiamo l'acqua mutata in sangue, la moria del bestiame, l'invasione delle locuste, la morte di tutti i primogeniti. A seguito di ciò il faraone si piegò a lasciar partire gli ebrei con le loro donne, i loro figli e i loro bestiame. Ma si pentì poco dopo e si gettò con il suo esercito sulle tracce dei fuggiaschi, deciso a ricondurli con la forza in Egitto. Qui accade l'evento più portentoso della storia: le acque del Mare dei Giunchi si ritirano e i figli d'Israele possono attraversarlo all'asciutto. In seguito le acque ritornano da dove si erano ritirate travolgendo i carri dei cavalieri e del faraone che inseguivano il popolo fuggiasco. In seguito altre dure prove attendono il popolo eletto: la faticosa marcia nel deserto e la sete e la fame che Dio allevia facendo scaturire l'acqua dalla roccia e cadere la manna dal cielo. Il primo giorno del terzo mese dopo l'uscita dall'Egitto gli ebrei giungono nel deserto del Sinai, e si accampano. Proprio sul monte Sinai il Dio d'Israele, in mezzo ai tuoni e le folgori, avrebbe dettato Mosé e i 10 comandamenti imprimendoli sulle tavole della legge.
sabato 27 agosto 2011
Nuraghi, patrimonio dell'umanità.
Nuraghi, schiaffo all'Unesco
Snobbata la proposta di farli diventare tutti patrimonio dell'umanità
Secondo l'Unesco la rete dei nuraghi della Sardegna è il candidato ideale per entrare nell'elenco dei beni patrimonio dell'umanità: i funzionari dell'organizzazione internazionale lo hanno detto in diversi meeting nel 2008 mentre era in corso la procedura per riconoscere la reggia di Barumini. La Regione aveva raccolto l'invito, poi tutto si è fermato.
Come per Tuvixeddu, necropoli fenicio-punica senza eguali nel Mediterraneo, in questi tre anni ignorata dalla Regione che ha scelto di non mandare avanti l'iter per il riconoscimento Unesco. Nel 2008 Manuel Guido, funzionario dell'Unesco, invitò un gruppo di colleghi della Regione Sardegna ad allargare a tutti i nuraghi dell'isola la procedura che avrebbe trasformato l'intera rete in un bene patrimonio dell'umanità.
In quei mesi la Regione e la soprintendenza archeologica di Cagliari e Oristano lavoravano alla relazione che doveva portare al riconoscimento di Su Nuraxi di Barumini quale patrimonio dell'umanità. In un incontro che si era tenuto a Torino, il rappresentante degli uffici Unesco aveva definito «limitante» per la Sardegna il fatto che il prestigioso marchio Unesco esistesse solo sulla pur magnifica reggia di Barumini. L'Unesco aveva suggerito anche un termine di scadenza per concludere la procedura e blasonare l'intera civiltà nuragica del titolo di «patrimonio dell'umanità».
Ebbene da allora nulla è successo, la rete dei nuraghi è rimasta nella mente di quel funzionario dell'Unesco, le rare riunioni non hanno prodotto che poche pagine di relazione, qualche mese fa un dirigente della Regione, pur senza alcuna richiesta da parte della giunta, dell'assessorato alla Cultura, di quello al Turismo e tantomeno dell'Urbanistica, ha inviato una lettera alla soprintendenza per riallacciare il filo e tentare di non disperdere l'opportunità. Un tale spreco è il fratello neppure minore della vicenda di Tuvixeddu, necropoli celebrata nell'intero Mediterraneo per dimensione, stato di conservazione, importanza storica e qualità degli studi ad essa dedicati, ma non per questo diventata patrimonio dell'umanità nonostante la procedura ben avviata nel 2008 sotto la giunta Soru.
Il titolo di patrimonio dell'umanità è un marchio di qualità cercato in tutto il mondo dal turismo scelto perché garanzia di alta serietà nella selezione, un vero lasciapassare per entrare in una comunità internazionale vasta e pronta a spendere per visitare un monumento o per contribuire a sostenerne la conservazione. La Sardegna contemporanea, culla di una civiltà antica fra le più originali, sembra aver deciso di ignorare tutto questo. Solo Barumini al momento è entrato nell'elenco dei siti preziosi per l'umanità: tutti gli altri torrioni e villaggi di cui è disseminata l'isola no. Il disinteresse verso questa opportunità è cresciuto negli ultimi anni: l'assessorato all'Urbanistica e quello ai Beni culturali nel 2008 si erano fatti promotori della procedura a favore di Tuvixeddu e quindi, quasi portata a termine questa, in seguito al suggerimento arrivato dall'Unesco, avevano cominciato a lavorare per costruire la rete dei nuraghi col grande e rinomato punto di partenza di Barumini.
Il codice Urbani, la legge fondamentale dello Stato che riconosce nel paesaggio un bene da conservare e tutelare al pari dei monumenti singoli, incoraggia gli enti ad attivare i siti Unesco perché marchio importante con irrinunciabili aspetti economici, non soltanto di tutela. Condizione per entrare fra i siti Unesco è che ci sia un piano di gestione del bene: l'Unesco ha fatto arrivare denaro in Sardegna, 50mila euro attraverso il ministero dei Beni culturali, perché si potesse elaborare, tra l'altro, il piano di gestione del sito di Barumini. Il tavolo riunito attorno a Su Nuraxi si rivelò subito piuttosto «egoista»: la soprintendenza e i cinque comuni della Marmilla non erano immediatamente favorevoli alla creazione della rete dei nuraghi e quindi all'estensione del piano di gestione. L'architetto Tatiana Kirova, come già aveva fatto per Tuvixeddu, si batté parecchio in quel consesso perché si desse seguito al suggerimento Unesco.
In tre anni gli incontri sono stati rari, l'ultimo con tutti i protagonisti riuniti risale all'inizio del 2010, a luglio la soprintendenza ha di nuovo riaperto il tavolo ma senza risultati. Eppure, nel 2008, l'assessorato all'Urbanistica aveva un piglio propositivo: si era candidato per far da capofila al progetto «rete dei nuraghi», portando anche l'idea di creare un ufficio interamente dedicato a questa operazione. Oggi non c'è un atto ufficiale che decreti il fermo: quasi che della rete dei nuraghi non si debba parlare mai, neppure per farla sparire.
Fonte: La Nuova Sardegna
Nell'immagine il poderoso Nuraghe Arrubiu di Orroli.
venerdì 26 agosto 2011
Letteratura antica, il Ramayana.
Gli antichi poemi
di Pierluigi Montalbano
Oggi inizieremo un’indagine sulle principali opere letterarie del passato. Ogni giorno pubblicherò la traccia di un poema nella speranza che i lettori trovino spunti per approfondire le tematiche e trovare i collegamenti.
Buona lettura.
Molti dei nostri giovani, ai quali non sono certo sconosciuti i nomi dell’Iliade e dell'Odissea, forse penseranno che questi siano i poemi epici più antichi, composti prima di ogni altro dagli autori del passato. In realtà, già molto tempo prima, altre opere, altri poemi c'erano stati lasciati dalle popolazioni dell'Asia, dove la civiltà ebbe la sua culla, le sue origini: ci furono lasciati dai cinesi, dagli assiri, dai babilonesi, dagli indiani. Si tratta di poemi straordinariamente favolosi, dove sono narrate vicende spesso remote delle nostre tradizioni, e a volte così affascinanti da farsi leggere d'un fiato: scimmie che sradicano monti per costruire un ponte immenso sul mare, smisurati giganti che lottano contro gli scimmioni divorandoli a venti, a trenta insieme, uomini capaci di spezzare un arco alto quanto un grattacielo.
Fiorì nell'India antichissima, molti secoli a.C, una civiltà che si espresse mirabilmente attraverso le arti: civiltà in cui fu preponderante l'aspetto religioso, come accade ad ogni altra di quei tempi.
I sacerdoti costituivano una casta di privilegiati, di dominatori, e le arti medesime, l'architettura, la scultura, la poesia, ebbero carattere sacro, furono espressione della riverenza di quel popolo alla moltitudine delle sue divinità. Vennero allora edificati templi maestosamente barocchi, ossia fastosi, adorni di bizzarri elementi decorativi, di animali dall'aspetto sinistro, agghiacciante. Si scolpirono nel marmo mostruose figure di dèi, e i poeti intrecciarono intorno a leggende sacre la tela di sterminati poemi. Uno di questi, forse il più antico, è il Ramayana, scritto in sanscrito, la lingua da cui derivano le attuali parlate indiane, al modo stesso in cui gli attuali idiomi neolatini (francese, spagnolo, italiano…) sono una derivazione della lingua di Roma.
È probabile che al nucleo originario del Ramayana, che la tradizione attribuisce a un poeta leggendario, Valmiki, si sia aggiunta durante i secoli l'opera di altri scrittori più recenti. Ma l'atmosfera favolosa non ha perduto nulla, poiché non si limita alle pagine più antiche, ma si estende a tutti e sette i libri in cui si articola l'immenso poema.
Il Ramayana deriva il nome dal suo protagonista, il principe Rama: il titolo significa infatti “ le gesta di Rama”. Nei tempi favolosi di cui si narra, una vasta regione al Nord del Gange era felicemente governata da un sovrano con quattro figli. Rama, il più forte dei fratelli, era destinato a distruggere una mala razza di giganti che recavano molestie al paese, e perché gli fosse di aiuto nell'impresa, gli dei avevano creato un popolo di scimmie semicivili, capace di strappare le cime dei monti e di squarciare la terra. Ottenuta sui giganti la prima vittoria e liberato un santone dalle loro offese, Rama è stato condotto al palazzo di un gran re, padre della bellissima Sita.
“Chi saprà tendere l'arco che io possiedo”, aveva proclamato il sovrano, “andrà sposo alla principessa”. Rama vuole provare e afferra l'arco con una mano sola, lo tende, lo spezza. Orribile è il fragore che se ne leva, pari a quello di un macigno che precipita nel profondo di una valle. Rama va dunque sposo a Sita, e sarebbe anche successo al padre, se le malvagie trame della sua matrigna non l'avessero privato del trono. Ma egli non si scoraggia, e si ritira a vivere con la sposa in una selva lontana. Là una mostruosa donna, sorella del re dei giganti, cerca di strapparlo alla consorte, ma Rama non si piega né si impaurisce, e mozza alla gigantessa il naso e gli orecchi. Poi, con l'aiuto del fratello Laksmano, che sempre lo accompagna, tiene testa a 14.000 giganti corsi alla vendetta, e li uccide tutti. Ràvana, loro re, ricorre allora all'inganno e rapisce la dolce Sita, portandola prigioniera nella sua isola.
Chi potrà contenere il furore tremendo di Rama?
Ecco giungere in suo aiuto il popolo degli scimmioni, che gettano enormi macigni sul mare e sradicano piante, per congiungere l'isola con le rive dell'India. Perfino gli dei, creatori di quella razza, guardano stupiti l'opera immane. Divampa quindi l'ultima battaglia. Le scimmie combattono al fianco di Rama mentre i giganti tentano invano la difesa. Uno di essi, montagna d'ossa e di polpe, fa strage degli scimmioni e li trangugia a grappoli. I giganti però sono sterminati, Ràvana è trafitto da Rama che riabbraccia la sua sposa e viene infine consacrato re.
Fin qua il riassunto del poema, ma non si coglierebbe l’ispirazione religiosa se non notassimo che Rama non solo è un eroe, un uomo, ma l'incarnazione di Visnu, il dio della forza che muove l'universo, mentre in Sita è incarnata la dea delle messi.
Accanto a queste divinità principali, si muove nell'opera una folla di dèi minori, come Agni che presiede al fuoco, e Hanuman figlio del vento. Lo stesso Brahama, creatore del mondo, appare al poeta per esortarlo a comporre il Ramayana. Quest’opera comprende circa 24.000 strofe e risale al X a.C. In India, quando ricorrono particolari feste religiose, alcune parti si leggono ancora oggi, e molti scrittori si sono ispirati al Ramayana nei secoli seguenti.
giovedì 25 agosto 2011
Puglia, Lecce, cremazioni nell'Età del Rame.
A Salve cremazioni del III millennio a.C.
di Antonella Lippo
Dimostrerebbero l’esistenza di rapporti antichissimi tra il Salento e la costa dalmata. Sono di fronte alla marina di Pescoluse
Nel Salento del III millennio a.C., di fronte alla splendida marina di Pescoluse, si insediarono comunità eneolitiche che costruirono monumenti fatti di terra e pietre, utilizzati come luogo di culto e di sepolture. Una campagna archeologica condotta dal 2005, sotto la direzione scientifica di Elettra Ingravallo, docente di Paletnologia presso l'Università del Salento, ha portato alla luce alcune interessanti scoperte nel territorio di Salve, documentate in una mostra didattica nel palazzo Ramirez del centro del Capo di Leuca.
«L’elemento più significativo -sottolinea la studiosa- è che prima di Salve in tutto il Salento, la consuetudine funeraria più diffusa era quella che prevedeva che i luoghi di sepoltura fossero le grotte, naturali o artificiali, basti pensare a Grotta Cappuccini. Da questi scavi emerge il cambiamento. Coesistono altre consuetudini, che evidentemente non presupponevano una diversa visione dell’aldilà, quanto semmai un diverso modo per arrivarci».
La peculiarità di Salve è l’attestazione del rito incineratorio e, infatti, all'interno di alcuni tumuli erano posti vasi contenenti resti umani bruciati. Prima di questa scoperta si riteneva che l’uso di cremare i defunti si fosse diffuso nel Sud Italia nel II millennio avanzato e, ancora, non si immaginava che la cremazione potesse convivere con l’inumazione. La diffusione di questi tumuli deriverebbe dalla costa dalmata, il che inserisce il Salento in un circuito transadriatico lungo il quale transitano diversi contesti culturali. Nel più grande dei nove tumuli indagati è stata ritrovata una cassa litica con i resti di 38 inumati e tre vasi con gli incinerati. Tra i reperti del corredo sono stati rinvenuti boccali, tazze, scodelle, ornamenti in osso e conchiglia (vaghi di collana, pendagli e una placchetta), un frammento di corallo grigio, strumenti in ossidiana e selce, tra cui una punta di freccia. In altri due tumuli sono stati rinvenuti rispettivamente tre vasi impilati, che rispettano un rituale di non chiara lettura. Accanto sono state scoperte anche alcune brocchette rotte intenzionalmente secondo un rito, che questa volta è ampiamente attestato nelle consuetudini funerarie del III millennio a.C.
In uno dei tumuli i resti umani rinvenuti appartenevano a tre adulti, un giovane e un bimbo; nell’altro sono stati recuperati i resti appartenuti ad una donna e ad un bambino. «Per il prossimo anno - annuncia Ingravallo proseguirà la campagna di ricognizione in tutta l’area. Siamo convinti infatti che potrebbero essere scoperte situazioni analoghe nel territorio adiacente e tutto ciò sarebbe un unicum per il Sud. Ne potrebbe nascere, in prospettiva un parco archeologico, con il coinvolgimento di Comune, Soprintendenza e Università. Intanto nella mostra sono presentati copie dei reperti, un ricco apparato di pannelli didattici e un video.
mercoledì 24 agosto 2011
Sutiles Naves a Solanas (Sinnai).
Si svolgerà venerdì 26 Agosto alle 20.00 nel centro di educazione ambientale di Solanas, la bella località balneare nella costa sud occidentale della Sardegna, il dibattito su "Preistoria e storia nel golfo di Cagliari" con Giuseppe Mura. Il seminario è stato organizzato dall’associazione "Archistoria" nel contesto della mostra "Sutiles naves". Dall’inizio del mese nel Centro ambientale, sono esposti modellini di navicelle nuragiche e di altre utilizzate per la navigazione nell’età del bronzo. La mostra resterà aperta sino a sabato 27 agosto e potrà essere visitata dalle 18 alle 22.
martedì 23 agosto 2011
Ancient boat, bronze age - I relitti di Punta Iria e Ulu Burun -
Relitto di Punta Iria
Nel settembre 2008 si è svolto sull'Isola di Spetses, nel Golfo dell'Argolide, un convegno internazionale per lo studio del tardo Bronzo: “The Point Iria Wreck”, interconnessioni nel Mediterraneo nel 1200 a.C., dedicato al relitto di Punta Iria, una nave cipro-micenea della fine del Xlll a.C.
Ai lavori, diretti dal professor Spyros lakovides, membro dell'Accademia di Atene, hanno partecipato Eugenios Yannakopoulos, Segretario Generale del Ministero della Cultura, Nikos Tsouchlos, Presidente Fondatore dell'Hellenie Institute of Marine Archaeology, e Haralambos Pennas, direttore della seconda Eforia di antichità bizantine nonché degli scavi di Punta Iria.
Gli archeologi dell'Hellenic Institute of Marine Archaeology (HIMA), responsabili della ricerca, hanno fornito i loro resoconti:
. C. Agouridis, sulla scoperta e lo scavo
. Y. Lolos ha presentato le sue analisi stilistiche e storiche sul carico di ceramica
. Y. Vichos ha offerto le sue considerazione sulle rotte e le condizioni nautiche nell'ambiente attorno alla Punta Iria all'epoca del naufragio.
. A. Kyrou ha esaminato l'evidenza di punti d'appoggio e di insediamenti costieri preistorici nel Golfo dell'Argolide.
. V. Karageorghis ha discusso vari aspetti degli scambi commerciali tra Cipro e l'Occidente durante il XIV e il Xlll a.C., sottolineando la crescente importanza di Cipro a scapito del mondo elladico.
. C. Pulak ha concluso i lavori con un resoconto degli ultimi studi sullo scafo del relitto di Uluburun.
I lavori sono stati abbinati all'apertura nel Museo di Spetses di una mostra sui materiali provenienti dal relitto, e all'edizione del relativo catalogo con testi in greco e inglese.
Il relitto di Punta Iria fu avvistato negli anni Sessanta dal subacqueo veterano Nikos Tsouchlos nel Mare Egeo lungo la costa orientale del Golfo dell'Argolide, davanti alla punta da cui ha preso il nome; al ritrovamento seguirono ricognizioni e scavi effettuati dall'Hellenic Institute of Marine Archaeology (HIMA) dal 1991 al 1995. Il tratto di costa in cui la nave è naufragata è ancora oggi pericoloso per la conformazione montuosa e per la presenza dell'isolotto antistante di Psili, che insieme creano una zona di venti potenti e variabili nonché di forti correnti.
La nave giaceva a una profondità dai 12 ai 27 metri, ad una quindicina di metri dalla riva; il sito si presentava come un cumulo di pithoi (grandi giare da trasporto), anfore e vasetti che copriva un'area di circa 100 metri quadrati. Fu questa scoperta che spinse Tsouchlos ad interessarsi dell'archeologia subacquea egea, e che portò infine alla formazione dell'HIMA. Nel 1991 fu effettuata una campagna di ricognizione; dal 1992 al 1994 si organizzarono delle campagne di scavo sulla zona di massima concentrazione dei reperti.
Il materiale rinvenuto venne portato al Museo di Spetses dove furono eseguiti accertamenti, pulizie e processi di conservazione. I rapporti di scavo vennero regolarmente pubblicati nella rivista dell'HIMA, Enalia, in greco e in inglese, e negli atti di vari simposi internazionali.
Il carico della nave comprendeva 25 vasi da trasporto e da utilizzo comune, con tre provenienze: Cipro, Creta e il mondo Elladico. Al Tardo Cipriota IIC/IIIA appartiene un gruppo di otto vasi, tra i quali tre pithoi senza maniglie e parte di un quarto, tutti con decorazione a rilievo attorno alla spalla, oltre a tre brocche di varie dimensioni. I pithoi trovano confronto tutt'attorno al Mediterraneo tra il XIV e il Xlll a.C., come vasi da trasporto per eccellenza sia per l' olio d'oliva che per la frutta.
Un altro gruppo di otto vasi si identifica, in base alla forma, come materiale cretese, specificamente del Tardo Minoico IIIB 2, ed è composto interamente da vasi a staffa alti circa 40 cm. Questo tipo di vasi era di solito usato per il trasporto dell'olio d'oliva, e la loro distribuzione nei siti del XIV e il XIII a.C. si estende dalla costa levantina e da Cipro fino alla Sardegna e alla Sicilia.
Il terzo gruppo di ceramica rappresenta la fase micenea del Tardo Elladico IIIB, e comprende 9 vasi, di cui tre vasi semplici, profondi, senza maniglie di tipo elladico tradizionale, insieme ad un'anfora che porta due simboli incisi sulle maniglie, probabilmente connessi alla scrittura Ciprominoica 1.
Inoltre ci sono alcuni vasi di ceramica fine come il krater profondo a beccuccio e frammenti di due ciotole, una delle quali con decorazione dipinta.
Altre quattro ciotole di ceramica comune farebbero parte del vasellame di bordo. Un tale assemblaggio di vasi da trasporto riflette appunto le interconnessioni commerciali e culturali internazionali esistenti in quest'epoca attraverso il Mediterraneo orientale. Insieme ai dati provenienti dai relitti di Uluburun e di Capo Gelidonya (nave del XII a.C. più piccola impiegata in scambi di piccolo cabotaggio) ci aiutano a delineare l'evoluzione degli scambi economici del Mediterraneo.
Anche per il relitto di Punta Iria si pone la questione della nazionalità della nave, ma ancora una volta il miscuglio di oggetti rinvenuti a bordo, sia del carico che di uso comune, indica che il commercio marittimo era sicuramente gestito da gruppi eterogenei.
Delle attrezzature di bordo si sono recuperate tre ancore, di cui una trapezoidale di piroxenite con un foro, pesante 43 kg. Le altre due dispongono di tre fori e sono una di arenaria (kg 26) e l'altra di una scura roccia vulcanica (kg 34); è possibile che queste fossero troppo piccole come ancore di sostegno, ma che invece facessero parte della zavorra. La mia ipotesi è che potesse trattarsi di pietre multiuso con possibile funzione di unità ponderale, visto che il peso dei lingotti ox-hide in rame è quasi identico.
Comunque, solo una può con sicurezza essere connessa con il carico di questa nave, poiché ritrovata nell'area di concentrazione dei reperti. Altri oggetti trovati nei dintorni della zona di scavo, quali anfore ed ancore di epoche e provenienze diverse, confermano la natura insidiosa di questo tratto di costa.
I resti dello scafo sono limitati a dei piccoli frammenti lignei, uno dei quali reca un foro semicircolare realizzato artificialmente: indizio modesto, ma forse sufficiente, di un sistema di costruzione a mortase e tenoni. In base alla disposizione dei reperti sul fondale e alla loro consistenza, si ipotizza che la nave misurasse circa 10 m di lunghezza, e che, supponendo che il carico al momento del naufragio fosse più grande, portasse un carico di almeno tre tonnellate.
Relitto di Ulu Burun
Nel 1982 il pescatore di spugne Mehemet Cakir scopre a Uluburun, a 8,5 km a Sud Est di Kas nel sud della Turchia, il relitto di una nave dell’età del bronzo.
L'Istituto di Archeologia della nautica (INA) nella campagna di scavo tra il 1984 e il 1994 ha portato alla luce uno dei più ricchi e più grandi assemblaggi di oggetti assemblati del Bronzo Tardo trovati nel Mediterraneo. Il natante giace su un ripido pendio roccioso a una profondità fra 44 e 52 m, con frammenti sparsi fino a 62 m. La datazione dendrocronologia di un piccolo pezzo di legna da ardere o paglioli suggerisce una data del 1306 a.C. per il naufragio della nave.
I primi esiti datarono quindi il relitto al XIV a.C. il periodo di Amenophe IV, Akenaton.
Il carico della nave, uno scafo reale, è costituito principalmente materie prime:
. dieci tonnellate di rame in forma di 354 piastre, sardo e cipriota
. quattro tonnellate di lingotti in rame ox-hide sardi
. una tonnellata di stagno proveniente da Bretagna e Cornovaglia
. 120 lingotti discoidali a "panelle" di provenienza incerta
. una tonnellata di resina di terebinto stivata in 150 vasi cananei
. 175 lingotti di vetro, di forma discoidale in blu cobalto, turchese e un esempio unico di lavanda (elementi commercializzati dalla costa siro-palestinese)
. tronchi di ebano egiziano (Dalbergia melanoxylon)
. tre uova di struzzo (contenitori di liquidi)
. alcune zanne di elefante intere e frammentate
. una dozzina di denti di ippopotamo
. opercula da Murex Seashells (un ingrediente per ottenere l’incenso)
. vari gusci di tartarughe carapaces (sound-box per strumenti musicali a corda)
. nove grandi vasi ciprioti finewares, contenenti tracce di melograni e olio d'oliva
. quattro bicchieri artigianali raffiguranti teste di arieti e, in un caso, una donna
. brocche e calderoni in bronzo e rame, mal conservati
. gioielli cananei, inclusi bracciali e collane d'oro
. rottami di oro e argento in quantità
. sigilli Siriani, Assiri, Cassiti e Sumeri.
. oggetti d'oro egiziano, electrum, argento e pietre preziose varie
. uno scarabeo in oro con il cartiglio della regina egizia Nefertiti
. migliaia di perline di vetro, agata, corniola, quarzo e ambra del Baltico
. due contenitori d’avorio per cosmetici a forma di anatre
. una tromba scolpita da un corno d’ariete
. un dente di ippopotamo
. strumenti in bronzo: trapani, scalpelli, assi e una sega
. frecce, pugnali, spade in bronzo e asce in pietra
. piombo e una linea di aghi per la riparazione di reti
. un arpione e un tridente in bronzo indicativi di una pesca dalla nave
. due tavole in legno di ebano per scrivere (dittici), ciascuna costituita da una coppia di foglie e una cerniera d'avorio. Sono incassate per contenere delle superfici di cera per gli scritti. Queste schede rappresentano il più antico esempio del loro tipo.
. una statuetta del Dio Bes in bronzo rivestita parzialmente in oro (simile a quelle siro-palestinesi), forse utilizzata come simbolo della divinità che proteggeva la nave. Bes, la cui immagine era un potentissimo amuleto, era un Dio benefico e genio familiare dell’Antico Egitto che si diffuse poi nel Mediterraneo. Divinità della gioia, della musica e della danza, allontanava dalla casa i malfattori e i geni malefici; i sardi lo avevano molto caro, come si nota nelle sculture che lo raffigurano, grottesco ma non mostruoso.
Altro culto importato dall’Egitto in Sardegna fu quello di Osiris, Isis, Serapis nei quali i sardi ritrovavano egittizzate le loro divinità; quindi non dobbiamo meravigliarci di trovare molte raffigurazioni nelle tombe delle città sarde e negli oggetti d’ornamento. Evidentemente gli originali di tutti questi manufatti in stile egizio erano stati portati nella nostra isola dai guerrieri Shardana che avevano avuto rapporti con l’Egitto.
La maggior parte dei beni personali e degli oggetti di bordo, come strumenti, ancore e lampade ad olio, indica che parte dell’equipaggio era formato da cananei e ciprioti. Tuttavia si nota anche la presenza di alcuni reperti micenei: un paio di sigilli, tre spade, due pettorali con perline di vetro, coltelli curvi, rasoi, scalpelli, sfere in ambra di tipo miceneo, una trentina di pezzi di ceramica fine, una spilla in bronzo e uno scettro cerimoniale con testa in pietra simile ad uno in bronzo trovato in Romania.
Questi manufatti suggeriscono i collegamenti tra la nave, o almeno con alcune delle persone a bordo, e le terre di tutto il Mediterraneo e dell’Europa. Il grande numero di strumenti musicali trovati a bordo indica che, verosimilmente, venivano eseguite delle danze rituali in onore della Dea. Le numerose armi indicano che l’equipaggio era pronto a qualunque tipo di attacco. Che rotta aveva seguito?
Probabilmente la nave aveva fatto scalo in una delle città sarde, forse Tharros, dopo un viaggio effettuato oltre lo stretto di Gibilterra dove aveva imbarcato la tonnellata di stagno e altri oggetti di provenienza africana. A Tharros imbarcò altre mercanzie. L’ambra trovata nel relitto proveniva dal Baltico via mare, o lungo le rotte fluviali del centro Europa. Le armi (lance e spade) sono identiche a quelle conservate nei musei di Sassari e Cagliari. Così i gusci d’uovo di struzzo forati. Il carico fu completato con lingotti di rame del tipo Ox-hide lavorati in Sardegna (il rame poteva anche essere cipriota, ma lavorato da fabbriche sarde, i marchi e la forma originale lo suggeriscono).
È rilevante l’abbinamento fra percentuali 10:1 di rame-stagno (esattamente la proporzione utilizzata per ottenere il bronzo) e la presenza della resina di terebinto, utilizzabile per il metodo della fusione a cera persa.
La stessa nave aveva a bordo dei passeggeri importanti. Personalmente concordo con gli studiosi americani che definiscono il relitto “Nave reale” e, d’accordo con Melis, ritengo si potesse trattare di ambasciatori dei Popoli del Mare che si recavano in Egitto, alla corte di Amenophe IV e di Nefertiti.
È lecito pensare che l’invito era arrivato grazie ai Shardana della Guardia Reale. La sosta presso Akenaton servì a rafforzare i legami fra le due potenze e forse a convincere Amenophe ad instaurare il culto monoteistico dell’Unico Dio. La nave si diresse poi verso la penisola anatolica, dove avrebbe consegnato il carico di rame e stagno utile alla produzione delle armi per un grande esercito.
Inserisco una nota su Akenaton per l’importanza religiosa che rivestiva.
Akenaton, che si chiamava Amenophe IV ed era figlio di Amenophe III, fu il primo eretico della storia. Abolì il culto di tutti gli dei in favore dell'unico dio Aton, rappresentato dal disco solare con i raggi che terminano con delle manine per dare la vita. Dedicò un tempio ad Aton a Karnak (i sacerdoti di Amon glielo permisero perché pensavano che Aton fosse una forma del dio Amon) ma quando capirono che Aton era un dio diverso, che non era mai rappresentato in forma umana, tramarono contro Akenaton che scappò a Tell-el-Amarna a 260 km a sud del Cairo. L'antica religione fu poi restaurata da Tut ank Aton che divenne Tut ank Amon.
Nell'immagine in alto (link: www.travel.webshots.com) il carico del relitto di Ulu Burun, dove si nota il particolare sistema di stivaggio dei lingotti ox-hide.
L'immagine in basso è di www.worldvisitguide.com
domenica 21 agosto 2011
Video: La civiltà minoica, Il Museo di Thera - Santorini
Ringrazio l'amico Josè Luis Santos Fernandez che ha realizzato questo meraviglioso video che ci fa conoscere la civiltà minoica, un'epoca straordinaria nella quale il mare e i commerci costituivano la base per lo stile di vita delle popolazioni dell'Egeo. Ho deciso di non scrivere un articolo sulle immagini perché ritengo che quando l'arte è di tale levatura ogni commento è superfluo. Colori, linee morbide, fiori, pesci e forme che testimoniano un periodo florido e pacifico che consentì lo sviluppo dell'arte visiva.
sabato 20 agosto 2011
La piccola agorà degli etruschi
Nella necropoli un piazzale coperto per le decisioni della comunità.
Nuove rivelazioni dal «Tumulo della Regina» di Tarquinia.
di Marco Gasperetti
TARQUINIA (Viterbo) - Una piccola agorà univa il mondo dei vivi a quello dei morti. Ci si arrivava, 2700 anni fa, da dodici scaloni scavati nella roccia calcarea. Spesso servivano anche come sedili per assistere a riunioni di decisiva importanza per la città e l'oligarchia etrusca che la guidava. Uomini vivi e potenti che si univano idealmente ai defunti sepolti nelle tre camere a est, nord e sud. La scalinata c'è ancora, oggi, ma è invisibile, sepolta dalla terra. «La potremo vedere molto presto - spiega l'archeologo dell'Università di Torino Alessandro Mandolesi, direttore degli scavi - toglieremo terra e detriti che l'hanno ricoperta per millenni. E chissà, forse ci saranno nuove sorprese».
Tante ne hanno già trovate i ricercatori dell'Università di Torino e dell'Istituto superiore per la conservazione e il restauro del ministero nell'area del «Tumulo della Regina», uno spazio ancora da esplorare dell'enorme necropoli di Tarquinia, paesaggio incantato tra mare e colline, vento di maestrale che non manca mai. Martedì e ieri gli ultimi ritrovamenti: un altro frammento, il più grande, della Sfinge, una statua di due metri collocata sul punto più alto del tumulo, ultimo guardiano per i vivi e per i morti e addirittura un'altra tomba, segretissima, ancora completamente da scavare e da preservare dall'assalto dei saccheggiatori.
Ma oggi la scoperta più suggestiva resta quel misterioso piccolo cortile (appena sei metri per quattro) scavato per tre metri nel calcare con le tre camere sepolcrali che si aprono sui tre lati chiusi e con le pareti affrescate grazie a una tecnica mai vista prima in Etruria e in tutta Italia. «L'intonaco è a base di gesso alabastrino praticamente puro - spiega l'archeologa Daniela De Angelis - una composizione sconosciuta in Italia e probabilmente importata da maestranze arrivate appositamente da Cipro, dall'Egitto o dall'area siro-palestinese, le migliori di quel mondo, per costruire una tomba straordinaria e ricchissima. Ma soprattutto utile anche per i vivi, lucumoni e governanti».
Dall'intonaco stanno affiorando affreschi atipici, probabilmente i più antichi mai scoperti a Tarquinia, risalenti anch'essi al VII secolo avanti Cristo. «La cosa più sorprendente e unica è che pare non rappresentino scene di vita ultraterrena - spiega Mandolesi - piuttosto momenti di vita quotidiana. L'interpretazione non è facile perché le immagini sono labili e le stiamo ricomponendo faticosamente mediante un processo di spettrografia elettronica. Stiamo intravedendo una mano che regge un vaso, volti, unguentari, forse vasi con profumi. Ma, per ora, neppure un riferimento all'Aldilà».
A questo punto si può dire che gli affreschi dovevano forse servire per ragioni diverse, legate alla funzione di quel cortile, una piccola agorà, abbiamo detto, e dunque un luogo di collegamento tra vivi e morti. C'è un altro particolare che rende unico questo posto: era coperto da una tettoia in legno. Gli archeologi ne hanno trovato i resti accanto a quelli di una biga. «Nei momenti più difficili della città - continua Mandolesi - ci si riunisce per cercare aiuto e conforto anche dagli antenati ormai defunti. Il piazzale serviva inoltre a onorare i morti, i più aristocratici tra gli aristocratici, con cerimonie, canti e spettacoli, insomma uno spazio teatriforme».
Gli studiosi ipotizzano che nell'area furono deposti sovrani e principi etruschi. Si hanno testimonianze leggendarie di una sepoltura di un certo Demarato di Corinto, ricco mercante greco. Si trasferì a Tarquinia intorno alla metà del VII secolo avanti Cristo, Demarato, e si sposò una nobildonna locale, la più bella della città. Nacque un figlio, lo chiamarono Tarquinio Prisco e divenne il primo sovrano di Roma.
Se storici e archeologi si interrogano (e si appassionano) sul passato, Wilma Basilissi, dell'Istituto superiore per la conservazione e il restauro, guarda al presente dei tesori ritrovati. E custodisce, gelosamente, i frammenti delle due zampe della Sfinge etrusca appena ritrovati insieme a un'ala. «La statua, alta quasi due metri - spiega - era probabilmente collocata all'apice del tumulo. L'abbiamo trovata nella parte nord. Probabilmente è caduta e si è frantumata. Altri animali mitici la circondavano. E lo spettacolo doveva essere straordinario, 2700 anni fa».
Fonte: Archeorivista
venerdì 19 agosto 2011
Tharros, nuova scoperta archeologica
Tharros, il tesoro delle tombe millenarie
Scoperti gioielli, armi, monete e amuleti
Alcune decine di tombe di diverse tipologie datate tra il VII e il III secolo avanti Cristo e i loro ricchi corredi funebri costituiti dai consueti vasi rituali, da oggetti personali, armi (anche di ferro), gioielli, amuleti, scarabei e monete. E' la scoperta effettuata dalle archeologhe Carla Del Vais, dell'Università di Cagliari, e Anna Chiara Fariselli, dell'Università di Bologna, che hanno presentato, nel corso di una conferenza stampa, i risultati della campagna di scavi appena conclusa nella necropoli settentrionale di Tharros. Diverse tombe erano integre e questo ha permesso di chiarire e documentare, per la prima volta, aspetti importanti della vita e dello sviluppo della città di Tharros in età fenicio punica. I materiali ritrovati, custoditi ora nei magazzini del Museo civico, saranno oggetto di analisi specialistiche che riguarderanno anche i contenuti dei vasi rituali e il DNA dei defunti. La campagna di scavi è stata condotta anche col contributo finanziario del Comune di Cabras.
Fonte: L'Unione Sarda
La foto del sito di Tharros è di Sara Montalbano
giovedì 18 agosto 2011
Ancient Boat - Relitti sommersi
Gli antichi relitti sommersi
di Pierluigi Montalbano
Nel Satyricon di Petronio viene descritto un naufragio: "...la tempesta, fedele esecutrice di ciò che il destino comanda, porta via tutto quel che resta alla nave; non vi sono più alberi, né timoni, né cordami, né remi: massa informe e desolata, il naviglio se ne va in balia delle onde. Subito accorsero dei pescatori su scafi leggeri in cerca di preda. Ma, quando videro che vi erano ancora persone vive e pronte a difendere i propri beni, la loro crudele avidità cedette a offerte di aiuto. Ed ecco udiamo uno strano mugolio, quasi un lamento di belva prigioniera, che usciva dalla cabina del magister. Ci lasciamo guidare da quel suono, e troviamo Eumolpo (figlio di Poseidone), seduto dinanzi a una pergamena immensa su cui andava accumulando versi su versi. Sì, pur con la morte alla gola quel pazzo aveva trovato il tempo di stendere un poema, e che razza di poema, dèi benigni! Addirittura sulla distruzione di Troia. Lo strappiamo di là che urla e protesta, gli gridiamo di non far follie. - No - strepita lui, furioso di essere stato interrotto - lasciatemi terminare la frase: sto facendo l'ultimo sforzo per finire!”
Se vele, sandali (relitto di Comacchio), panieri di vimini (Gelydonia, Ulu Burun, Marsala), mandorle (Kyrenia), grembiuli di cuoio (Comacchio), foglie d'olivo, canapa indiana (Marsala), nocciole [Albenga, Punta Crapazza (Lipari)], ramoscelli (Giens), paglia (Giannutri) ed altri materiali organici assai deperibili provengono da numerosi scavi archeologici sottomarini, non solo il forsennato poeta, ma anche l'epica pergamena stavano correndo il rischio di essere sepolti con lo scafo e magari di avere la possibilità di essere ritrovati dopo millenni.
Sebbene possa apparire un obiettivo assai limitante per la palese incompatibilità tra acqua salmastra, inchiostri e scritture, ritengo non privo d'interesse guardare alle testimonianze di scritti trasportati a bordo delle navi o che quotidianamente venivano redatti a bordo; testi di solito brevi, relativi più al mondo del commercio e del diritto, che, ovviamente, alla letteratura epica.
Tuttavia è certo che anche opere letterarie furono concepite in mare, come nel caso sopra menzionato nel Satyricon. Cicerone in persona ad esempio ci informa che l'opera “Topica” fu iniziata a bordo di una nave in navigazione dopo Velia e che nel percorso marittimo verso la Cilicia dopo Samo, il medesimo, divenuto governatore, modificò il testo dell'editto provinciale, che avrebbe dovuto pubblicare al momento del suo ingresso in provincia.
Le relative testimonianze archeologiche subacquee sono finora rare e tali sembrano essere destinate a restare, sino all'improbabile rinvenimento di una nave carica di libri, simile al relitto degli anni sessanta ubicato intorno ai cinquanta metri di profondità al largo della Tonnara di S. Vito Lo Capo, nei pressi di Palermo. Esso contiene numerose copie del Corano, che nel buio e nel fango della stiva hanno già superato diversi decenni di immersione nell'acqua salmastra.
In attesa di un evento di tal genere attingeremo alle testimonianze delle fonti antiche, che occasionalmente ci parlano di un commercio librario transmarino, come quello sollecitato da Platone che diede incarico di acquistare in Sicilia, per diecimila denari versati da Dione, le opere filosofiche di Filolao, introvabili in Grecia o quello attestato dalla presenza di libri a bordo delle navi che nella seconda metà del primo Millennio a.C. approdavano ad Alessandria.
L'esistenza infatti nella Biblioteca di Alessandria del fondo detto "delle navi" pare risalga a Tolomeo Filadelfo (285-246 a.C.), il quale aveva ordinato che venissero ricopiati da scrivani degli uffici doganali tutti i libri in transito e che gli originali fossero trattenuti per la Biblioteca ed ai viaggiatori venissero restituite soltanto le copie.
Ad esigenze di computo e documentazione si ricollega invece il più antico materiale scrittorio rinvenuto in scavi subacquei (Ulu Burun, in Turchia). Risale al XIV a.C. e dimostra la possibilità della conservazione sul fondo marino di reperti organici assai deperibili. Si tratta di una tavoletta cerata lignea con cerniere in avorio, che costituisce in assoluto una delle più antiche testimonianze dell'utilizzazione di questo tipo di supporto scrittorio. Purtroppo la cera della superficie scrittoria risulta quasi del tutto abrasa, evidenziando le lineole incrociate incise per favorire l'adesione della gomma al legno.
La composizione del carico dello straordinario relitto di Ulu Burun non solo trova riscontro nelle lettere di Tell Amarna, ma anche in raffigurazioni tombali egiziane coeve, che rappresentano l'arrivo di navi levantine in Egitto e dimostrano l'usuale impiego del dittico in questione per registrare i prodotti imbarcati. Oltre che per la trasmissione della corrispondenza, questo dovette essere uno dei più antichi usi della scrittura, soprattutto nel mondo palaziale.
Di grande interesse è valutare il ruolo esercitato dal commercio marittimo nella diffusione della scrittura, ma l'esame dei molteplici aspetti del problema, indurrebbe a superare ampiamente i limiti di tempo in questa sede definiti. Mi limiterò quindi a qualche cenno, maggiormente attinente all'angolazione prescelta: l'archeologia sottomarina.
La sorprendente assenza di volumina nei papiri micenei è stata già notata ed appare pressoché impossibile che segni in lineare B, oltre che su tavolette, non siano stati tracciati su papiro.
La capacità del fango o della sabbia del fondo di conservare reperti organici potrebbe offrire la prova mancante. Ancor più suggestivo è rilevare che la migrazione coloniaria tra il IX e l'VIII a.C. pare abbia richiesto la stesura scritta dei poemi omerici ed il trasporto per mare dei testi, utilizzati dagli esploratori che localizzavano nei siti estremi raggiunti, le imprese che descrivevano.
Una delle più accreditate ipotesi sull'origine della scrittura nel mondo Egeo vede le cretule impresse con simboli o nomi di consegnatari, di generi e quantità di prodotti forniti.
Tali cretule sarebbero state realizzate per render conto di derrate palaziali consegnate o affidate ad esibitori di validi contrassegni o addirittura di modelli miniaturistici, corrispondenti in numero e genere ai prodotti forniti da chi li custodiva per conto dell'autorità, che poteva così trasmettere i suoi simboli senza il continuo ricorso alla parola parlata.
È suggestivo notare che di recente è stata rinvenuta in Sicilia, in un contesto assai antico, una cretula sigillo con segni di "cordami che dovevano legare un contenitore di ignote caratteristiche" nel fossato neolitico di Stretto Partanna (Trapani).
Oggetti miniaturistici o calculi in terracotta per il computo (tokens), che precorrerebbero i segni impressi e i simboli successivamente tracciati sulla tavoletta d'argilla, furono nel mondo orientale talvolta contenuti in bolle sferiche d'argilla (bullae), che venivano spezzate per verifica del contenuto in caso di contestazione in merito ai segni tracciati o impressi sulla superficie esterna.
A queste origini si ricollega con ogni probabilità la forma a cuscinetto della tavoletta d'argilla, che talvolta conteneva un duplicato del tutto nascosto all'interno. Col medesimo principio, nonostante la grande distanza nel tempo e nello spazio, fu ideata la doppia scritturazione sigillata su tavolette lignee dei documenti dell'età greco romana.
Ma come tra percettori di imposte e mercanti per millenni sopravvisse la prassi della doppia scrittura, nonostante caratteri e materiali assai diversi, così da un mondo di analfabeti o semianalfabeti potevano giungere almeno sino all'età arcaica pratiche di computo mediante calculi, tacche e incisioni. Possiamo anche supporre la trasmissione di rudimentali messaggi mediante oggetti miniaturistici.
Reperti di questo tipo possono facilmente sfuggire negli scavi subacquei o essere non correttamente interpretati ed è realmente sorprendente che nessun relitto, nonostante la frequente presenza di pesi e bilance (Yassi Ada, Camarina, Giardini, Palud), abbia finora restituito una tavola per contare o abaco, che pur doveva essere un oggetto di frequente impiego nella pratica del commercio.
Immagine tratta da www.inadiscover.com
martedì 16 agosto 2011
Ancient Boat - antiche imbarcazioni
Navi fenicie e puniche
di Marco Bonino
Sono stati rinvenuti alcuni relitti, che permettono di inquadrare alcuni aspetti tecnici delle imbarcazioni mediterranee orientali e puniche. Gli scafi arcaici, fin dal Bronzo, erano costruiti a partire dal guscio di fasciame, che era realizzato mediante tavole sagomate e piegate, cucite con legature. Solo dopo avere ottenuto la forma del guscio, si inserivano le strutture interne per garantire la forma e la consistenza dello scafo. A partire dal XIV a.C. le legature fatte di funicelle cominciarono ad essere sostituite da linguette di legno fermate da cavicchi: un miglioramento del sistema di fissaggio, che non cambiava la concezione del guscio portante, ma ne migliorava la robustezza. Nel passaggio dalle legature ai fermi, che diverranno comuni nel periodo classico e romano, sta uno degli argomenti maggiormente dibattuti e studiati dall’archeologia navale. Abbiamo citazioni da parte di Omero, che nell’Iliade ricorda le cuciture (II, 139) e nell’Odissea le biette (V, 240): siamo attorno al IX a.C.; la documentazione archeologica conferma che il cambiamento della tecnica fu un processo lento, che si protrasse fino a tutto il V a.C. con soluzioni miste (da Mazarron in Spagna, del VII a.C., ai relitti del V a.C. di Gela, Marsiglia, Magam el Michael in Israele). In questo processo probabilmente i Punici ebbero una parte, come ci dice Catone il Censore (L’agricoltura, XVIII, 9), quando chiama poenicanum coagmentum (assemblaggio punico) la giunzione con il sistema delle biette fermate da cavicchi, o tenoni e mortase. Si deve supporre che le costruzioni navali fenicie avessero seguito questo percorso, ma non abbiamo la possibilità di attribuire una nazionalità precisa ai relitti. La scarsezza delle nostre conoscenze non ci permette perciò di confermare la teoria secondo cui le navi fenicie fossero superiori alle altre (egizie in particolare) perché avevano la chiglia piuttosto che il fondo piatto. Il relitto di Ulu Burun mostra la presenza di chiglia nel XIV a.C. ma nulla possiamo dire sulla sua nazionalità: poteva essere cipriota, dell’Asia Minore, cretese, egea, siriana o fenicia: il carico di pani di rame e di vasellame non dà indicazioni sul luogo di costruzione. Le prime immagini abbastanza leggibili di navi della zona siro-palestinese (e quindi anche fenicia) provengono dall’Egitto del Nuovo Regno e sono affreschi tebani della metà del XV a.C. Sono immagini generiche, ma il loro autore ha voluto annotare alcuni dettagli non egiziani, come i dritti verticali, la coffa sull’albero, una balaustra che pare a graticcio, ma gli altri elementi non si distinguono molto da quelli delle navi egizie: forse non era facile neppure allora distinguere i tipi diversi di navi. Sempre nel Nuovo Regno, le navi dei bassorilievi della tomba della regina Hatscepsut, che narrano le spedizioni nel Punt (Corno d’Africa), e che appaiono “tipicamente” egizie, erano chiamate navi di Biblo. Più tardi il rilievo di Medinet Habu, del tempio funerario di Ramesse III (circa 1180 a.C.), mostra le navi dei Popoli del Mare, che erano diverse da quelle egizie ed a più riprese sono state attribuite a vari popoli mediterranei, tra cui Shardana e Filistei; è proponibile una loro collocazione mediterranea grazie all’analogia con modelli e raffigurazioni micenee, cipriote e sarde. In seguito abbiamo le serie di modelli in terracotta ciprioti e fenici, databili dall’ VIII al V a.C. che illustrano forme diverse di barche e navi a vela ed a remi; tali modelli probabilmente erano offerte votive alle divinità e in alcuni casi confermano le forme rotonde e simmetriche, con i dritti alti e a volte rientranti, che si sono viste negli affreschi egizi. Dall’VIII a.C. provengono le raffigurazioni più note: i bassorilievi del palazzo di Sennacherib a Ninive e di Sargon a Korsabad, ove compaiono navi a due file di remi, con e senza sperone e navi mercantili ad estremità simmetriche, con e senza remi e con la prua ornata da una scultura a forma di testa di cavallo. Ma questi bassorilievi sono stati eseguiti generalmente non per descrivere le navi, ma per ricordare un fatto storico, inoltre in essi mancano la prospettiva e le proporzioni tra le parti e questo rende difficile proporre ipotesi di ricostruzione tecnicamente coerenti. Alcuni dei modelli votivi di terracotta provenienti dall’area mediterranea orientale, da Cipro all’Egitto e databili dal VII al V a.C., ci danno alcune indicazioni per questo periodo, per noi ancora incerto, di passaggio dalla bireme alla trireme (Erodoto, II, 159). Sono fasi simili a quelle percorse dalla marineria greca, ma con risultati diversi, come confermato dalle fonti letterarie e dalle più recenti monete di Arado e di Sidone (V-IV a.C.).
Durante le guerre persiane le navi fenicie a remi erano pontate e più massicce di quelle greche (Erodoto, VII, 184; Plutarco, Temistocle, XIV, 2) e questo ha fatto supporre, tra le altre ipotesi, che in esse fossero impiegati più rematori per ciascun remo: su questo principio si ebbe lo sviluppo delle altre poliremi: le tetreri (quadriremi) e le penteri (quinqueremi), nel IV a.C. Si arriva alle soglie delle guerre puniche attraverso continui aggiornamenti delle navi a remi, dai pentekonteri alle poliremi, che hanno interessato sia il campo cartaginese, sia quello romano, sullo sfondo del grande sviluppo delle navi a remi di ambito ellenistico; i bassorilievi, i graffiti e le monete ci danno alcuni suggerimenti su questi passaggi in modo più realistico dei secoli precedenti, mentre gli scritti degli storici, pur essendo abbastanza dettagliati (Diodoro, Polibio e Livio), danno informazioni tecniche che vorremmo più precise. Le grandi linee di questa evoluzione, tra il V e il III a.C. possono essere riassunte con l’introduzione della pentere e della tetrere da parte dei Siracusani di Dioniso I, presto imitati dai Cartaginesi, i quali svilupparono ulteriormente queste imbarcazioni, tanto che la tetrere fu poi considerata una loro peculiarità. All’inizio della prima guerra punica la flotta cartaginese era composta da triremi, quadriremi e quinqueremi, mentre quella romana solo da triremi. Roma dovette sopperire all’inferiorità dovuta alla mancanza di quinqueremi, e Polibio racconta che i Romani presero a modello una quinquereme catturata ai Cartaginesi. Il racconto lascia molti dubbi, perché al primo scontro tra le due flotte la quinquereme romana era più lenta di quella cartaginese e quindi non poteva essere una sua copia. Certo i Romani non dovevano essere così sprovveduti da sbagliarsi: avevano quindi privilegiato l’esigenza tattica di imbarcare un numero maggiore di armati. Per una decina d’anni (dal 260 al 249 a.C.) non vi furono cambiamenti sostanziali: dopo la battaglia di Trapani e l’assedio di Lilibeo, le prestazioni della quadrireme di Annibale Rodio suggerivano ai Romani il cambiamento delle quinqueremi per ottenerne migliori qualità nautiche: con la nuova versione vinsero la battaglia finale, alle Egadi nel 241 a.C. e tali quinqueremi furono da allora raffigurate sulle monete romane. Quale sia stato il cambiamento è oggetto di ipotesi: probabilmente si passò da due a tre file di remi, per ottenere scafi più stretti e l’appartenenza della quadrireme di Annibale Rodio alla tradizione rodia-ellenistica pare confermarlo. Le navi mercantili non hanno avuto la stessa fortuna letteraria e figurativa, per cui è più difficile delinearne sia le fasi evolutive che la loro natura. Sono stati ricordati, tra i tipi navali mercantili di origine e tradizione fenicia, i gauloi e gli hippoi: il primo termine fu forse generico per qualsiasi nave mercantile di origine fenicia (Erodoto, III, 136, 1; VI, 17; VIII, 97, 1), le cui sole caratteristiche distintive potevano essere la capacità e la rotondità dello scafo. Il secondo termine in origine definiva navi che avevano una testa di cavallo scolpita a prua e, in alcuni casi, a poppa e per questo è stato attribuito giustamente ai tipi scolpiti nel palazzo di Sargon a Korsabad; le fonti letterarie sono più tarde e si riferiscono a tipi presenti nel Mediterraneo occidentale, forse una tradizione punica rimasta nelle vicinanze di Cadice (Strabone, II, 3. 4; Plinio, Storia naturale VII, 57). Ma come fossero state esattamente queste navi non è dato di sapere con precisione: nel V-IV a.C. nel Mediterraneo le navi mercantili subivano il passaggio definitivo dalla tecnica arcaica a quella classica, con un aumento delle dimensioni, documentato, ad esempio, dall’affresco della Tomba della Nave di Tarquinia e da alcune delle raffigurazione del tophet di Cartagine. L’unico elemento certo relativo alle tecniche costruttive puniche è dato dai segni alfabetici dipinti dai costruttori sullo scafo della nave di Marsala: sono segni di riferimento per allineare e montare correttamente le strutture sul guscio portante. La nave, ora esposta al Museo del Baglio Anselmi di Marsala, è stata interpretata come nave a remi, ma non ci sono prove in merito: è molto probabilmente legata ad uno degli eventi bellici delle prima guerra punica, dall’assedio di Lilibeo, alla battaglia di Trapani, a quella delle Egadi, ma la forma e la profondità della carena sono più adatte ad una nave a vela che ad una nave a remi e non sono stati rinvenuti elementi del sistema di voga. Certo la leggerezza delle strutture può suggerire un sistema misto, ma con i documenti a disposizione questo non può essere stabilito. La cosiddetta nave sorella, di cui è ricostruito il dritto di prua al Museo del Baglio Anselmi, poteva essere una nave a remi, certamente diversa dalla precedente e con un tagliamare a prua ma lo stato del relitto non ci permette di ricostruirne il tipo.
Nelle immagini:
sopra: navi in un affresco ad Akrotiri.
Link: http://users.libero.it/haris/Mykonos_Santorini/Thira/pix/Akrotiri/source/fresque-navires2b.htm
sotto: ricostruzione di una stiva al museo di Olbia
sabato 13 agosto 2011
giovedì 11 agosto 2011
Storia dei giganti di Monte Prama
Cronologia sugli studi riguardanti le statue di Monte Prama.
di Alfonso Stiglitz
L’aggressione oscurantista nei confronti dell’archeologia sarda non fa un buon servizio alla storia e all’identità sarda e non è giusta nei confronti di quegli archeologi e studiosi che hanno deciso di rimanere a lavorare qui (noi sardi) o di quelli che hanno deciso tanti anni fa di venire qui per lavorare, nonostante altrove siano possibili carriere e potere più grandi. Poi ci sono i capaci e gli incapaci, gli onesti e i disonesti, come in tutte le professioni, ma è una professione che costa fatica, anche dura, e non molte soddisfazioni, ancor meno economiche. E' più facile prendere scorciatoie e scrivere libri che solleticano.
Analizziamo la cronologia degli eventi più importanti che hanno approfondito la storia delle statue di Monte Prama:
Partiamo dal primo testo, quello di G. Lilliu, "Dal betilo aniconico alla statuaria nuragica", Sassari, Gallizzi 1977.
Pubblica il rendiconto degli scavi sino ad allora eseguiti, le schede di tutti i pezzi rinvenuti e l’analisi. Si tratta di almeno 7 statue diverse individuate attraverso 5 torsi e 2 teste non pertinenti ai torsi, a questi si aggiungono frammenti di braccia e gambe, alcuni dei quali sono pertinenti alle 7 statue mentre per altri non si sa. La documentazione comprende 19 tavole fotografiche, per complessive 66 fotografie, di cui 36 sono relative ai frammenti di statue.
Il testo venne pubblicato come articolo all’interno della rivista "Studi Sardi" (una rivista che con un sapiente meccanismo di scambi è presente in molte biblioteche del mondo), rivista della "Scuola di Specializzazione in Studi Sardi dell’Università di Cagliari". Venne immediatamente edito sotto forma di libro e diffuso nelle librerie a poche migliaia di lire, quindi pienamente disponibile a chiunque volesse vedere le statue e saperne di più. Il libro è ancora visionabile nelle biblioteche . Le statue vennero presentate in molte conferenze nell’isola. Una di queste venne anche trasformata in un testo divulgativo e pubblicata, in sardo, dalla rivista "Sardigna antiga" nel 1983, sempre da Lilliu, con il titolo "Is gherreris nuràgicus de Monti Prama", con 5 foto di statue.
Nel 1979 e nell’1981 Tronchetti dà notizia dei suoi scavi in una prestigiosa rivista nazionale, "Studi Etruschi", portando a conoscenza dei ritrovamenti delle statue anche il mondo scientifico internazionale.
Nel 1980 esce l’articolo di Lilliu, "L’oltretomba e gli dei" all’interno del volume "Nur, La misteriosa civiltà dei Sardi", un volume voluto dalla Cariplo di Milano. Qui è edita la foto della testa più nota, quella con il copricapo con le corna.
Nel 1981 esce il volume sull’archeologia sarda dal titolo "Ichnussa, La Sardegna dalle origini all’età classica", pubblicato da Scheiwiller di Milano, in una prestigiosa collana editoriale. Il libro è consultabile nelle librerie, ma se ne può trovare ancora qualche copia in vendita.
Uno degli articoli è di Lilliu e si intitola "Bronzetti e statuaria nella civiltà nuragica". Si tratta di un ampio studio che finalmente permette un inquadramento di ampio respiro della produzione di bronzetti e statue, a cui vengono aggiunti i modellini di nuraghe e alcune sculture in pietra di teste di animale. Compaiono le prime immagini a colori delle statue, dei frammenti editi nel 1977. Anche qui si mette in pieno rilievo l’originalità della produzione nel panorama del Mediterraneo occidentale e si ribadisce la datazione all’VIII a.C.
Nel 1982 esce il volume, fondamentale, di Lilliu dal titolo "La Civiltà nuragica" che ha in copertina la testa di una delle statue e nel testo l’analisi e lo studio delle statue (il volume è scaricabile gratuitamente dal sito della Regione).
Nel 1985 si svolge a Milano una mostra dal titolo "La Civiltà nuragica, nuraghi a Milano", finalizzata appunto a far conoscere la nostra civiltà fuori dall’isola e nel catalogo edito c’è uno studio a firma di Bernardini e Tronchetti di inquadramento dell’arte nuragica. Tra le varie cose si segnala l’edizione delle foto delle statue e, soprattutto, di una ricostruzione grafica di due esse, il pugilatore e l’arciere, partendo da frammenti esistenti, con descrizione filologica delle parti esistenti e di quelle mancanti e ci si può rendere conto di come erano in origine.
Viene riconosciuta e pubblicata per la prima volta la testa di statua nuragica rinvenuta a Narbolia prima di quelle di Monte Prama, ma non riconosciuta prima per il grave stato di deterioramento. Ci sono anche le foto delle statue e la prima ricostruzione grafica.
Nel 1990 esce il volume "La Civiltà nuragica" che non è altro che la riedizione del catalogo della mostra di Milano.
Nel 1986 esce un libro, il secondo della serie, dedicato all’archeologia sarda, a opera dell’Università del Michigan, curato da Miriam Balmuth che iniziava allora a operare con degli scavi in Sardegna. Nel volume intitolato "Studies in Sardinian Archaeology, Sardinia in the Mediterranean", che portò la conoscenza della nostra archeologia in tutto il mondo, c’è un articolo di Tronchetti con il rendiconto dei suoi scavi a Monti Prama, anche lì con immagini e planimetrie e uno studio di Brunilde Sismondo Ridgway che analizza la posizione delle statue nell’arte mediterranea.
Potrei continuare a lungo, citare gli interventi di Bernardini che propende per una datazione più bassa o quelli di Santoni decisamente rialzista (Bronzo finale), mi limito a richiamare un volume di Lilliu del 1997, dal significativo titolo "La grande statuaria nella Sardegna nuragica", edito dall’Accademia dei Lincei, ancora acquistabile per una decina di euro, dove si può trovare tutta la bibliografia precedente e le recenti riletture di Tronchetti in italiano (Le tombe e gli eroi, considerazioni sulla statuaria di Monte Prama, edito in "Il Mediterraneo di Herakles", Roma, Carocci, 2005, € 23,00) e in inglese (Entangle Objects and Hybrid Practices: Colonial Contacts and Elite Connections at Monte Prama, Sardinia, nel Journal of Mediterranean Arcaeology 18.2, 2005, assieme a Peter van Dommelen).
Nel 2006, poi, si è tenuto a Sant’Antioco un congresso sul rapporto tra Nuragici e Fenici, seguitissimo da un pubblico di non addetti ai lavori (senza che nessun giornale ne desse alcun resoconto). In quella occasione ci fu un confronto tra alcuni studiosi e Tronchetti sulle statue e la loro cronologia.
Negli ultimi 4 anni c'è stata l'esplosione definitiva, con articoli in giornali, convegni, dibattiti e altro e, periodicamente le tv mandano in onda servizi e interviste che riguardano queste statue giganti.
Allora cosa è stato nascosto? Chi ha voluto oscurare la storia sarda? Certo non gli archeologi.