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martedì 18 gennaio 2022

Xenia e aggiudus torraus: l’ospitalità come patto sociale, dalla guerra di Troia ai Greci, da Roma a oggi. Articolo di Emanuela Katia Pilloni

Xenia e aggiudus torraus: l’ospitalità come patto sociale, dalla guerra di Troia ai Greci, da Roma a oggi.

Articolo di Emanuela Katia Pilloni

Non nella lingua, unica ma declinata in molteplici varianti. Non nel mare cristallino o nelle impervie altezze dell’interno, nei ginepri piegati dal vento o negli ulivi secolari. E neppure nell’essere Isola rispetto a un continente invadente ma mai davvero raggiungibile.

Se dovessimo stigmatizzare la nota di sardità che ci rende nazione agli occhi del mondo la ritroveremmo, piuttosto, nel nostro saper essere popolo di accoglienza: Xenia la chiamavano i greci da Omero in poi, i romani più familiarmente hospitium, mentre per i sardi le

definizioni si sprecano: da is aggiudus torrraus a is cuncambias.

Dallo xenos alla xenia. «Ma dunque tu sei ospite ereditario e antico per me! Oineo glorioso, una volta, Bellerofonte senza macchia ospitò nel palazzo, lo tenne con sé venti giorni; essi si fecero splendidi doni ospitali: Oineo gli diede una fascia splendente di porpora, Bellerofonte una coppa d’oro a due manici, che io partendo nella mia casa ho lasciato (…) Ed ecco, che un ospite grato ora per te, laggiù nell’Argolide io sono, e tu nella Licia, quand’io giungessi a quel popolo; dunque evitiamo l’asta l’un dell’altro anche in battaglia (…) E scambiamoci l’armi l’un l’altro; anche costoro sappiano che ci vantiamo d’essere ospiti antichi.» Iliade VI, 215 -236.

In questi pochi versi dell’Iliade si concentra l’infinita ricchezza della lingua greca, solo in parte percepibile nella traduzione italiana: ospitò rende, infatti, il greco “ξείνισ᾽” (xeinis) voce di ξενίζω (xeinizo, “ricevo come ospite” ma anche “parlo con accento straniero” ) verbo derivato a sua volta dalla radice ξεν (xen) che propriamente significa forestiero, non del paese. L’atto di ospitalità, dunque, prevede all’origine un mutuo scambio di gentilezze fra persone estranee, che grazie a quell’atto sono tra loro vincolati, in vincula tanto umani che divini. Nasceva, così, tra le stirpi una parentela sacra sotto l’egida di Zeus Xenios, che non conosceva confini di tempo, di luogo o di ruolo. Ed ecco spiegato lo scambio delle armi e l’impossibilità di combattere fra loro di Glauco e Diomede del passo omerico: l’antico gesto di ospitalità nei confronti anche di un solo membro della famiglia ricadeva su tutta la stirpe futura, senza possibilità di revoca a meno di incorrere nell’ira del padre degli dei in persona.

Ospitalità come scambio. Alla base del concetto di xenia nel mondo greco sta dunque uno scambio equo che Omero indica attraverso il verbo ἀμείβω (ameibo)che qui acquista una forte connotazione di reciprocità senza la quale l’azione della xenia sarebbe vano. E alla richiesta di ospitalità non era ammesso un rifiuto né poteva essere infranta dagli eredi se non a prezzo altissimo. Odisseo, naufrago straniero nell’isola dei Feaci, viene accolto con tutti gli onori ancor prima di rivelare la sua identità eroica e riceverà come dono di commiato una nave per poter tornare a casa, nonostante i Feaci fossero devoti a Poseidone nemico giurato di Ulisse: evidentemente l’ira di Zeus, se non fosse stato rispettato l’obbligo di ospitalità, era più temuta di quella di Poseidone.

In quanto elemento legato al sacro, inoltre, la xenia era tenuta al rispetto di un rituale ben definito che si fondava sui tre pilastri dell’accoglienza: rispetto del padrone di casa verso l’ospite; il rispetto dell’ospite verso il padrone di casa; la consegna di un dono all’ospite da parte del padrone di casa. A chiunque domandasse ospitalità, dunque, veniva intanto concesso di entrare nella propria dimora (reggia o umile casa), di lavarsi, indossare abiti puliti, rifocillarsi con cibo e vino abbondante, prima di chiedere il nome e il motivo della visita. L’ospite era quindi invitato a trattenersi quanto desiderava e ad accettare doni ospitali chiamati xenia, che avrebbero rappresentato un contratto materiale tra le reciproche stirpi e che li impegnava ad ospitarsi reciprocamente, aiutarsi in caso di necessità e non farsi guerra. Se il valore materiale poteva variare molto a seconda dello status sociale dell’ospite, il vincolo giuridico sancito dal ricevimento del dono non subiva allentamenti o condoni, rimanendo ereditario e inviolabile.

La guerra di Troia come xenia infranta. Quando Paride si presentò a Sparta, fu accolto da Menelao con tutti i riguardi che la sua condizione di principe troiano richiedeva e, soprattutto, secondo i crismi che le severe regole dell’ospitalità arcaica prevedevano e imponevano. E non solo al padrone di casa. Paride infatti portò con sé ricchi doni da parte di Priamo per suggellare patti commerciali e venne lasciato libero di aggirarsi nella reggia come a casa propria, anche in assenza del re. E così, approfittando dell’ospitalità di Menelao, sedusse e rapì Elena (l’una o l’altra, a seconda dei punti di vista filo-greco o filo-troiano), portandola a Troia per farne sua moglie, sotto gli occhi compiaciuti di Afrodite che doveva saldare il debito di riconoscenza col pastorello del monte Ida per averla eletta la più bella fra le dee. Ma per un olimpo soddisfatto, uno ben più potente fu gravemente insultato e il vincolo di xenia infranto fu pagato con la più grande guerra che il mito ricordi nonché con la distruzione di una potente e ricca città (la guerra di Troia ndr). Ma, soprattutto, secondo il padre della storia Erodoto, l’aver infranto il vincolo sacro dell’ospitalità avrebbe causato odio insanabile fra la stirpe greca e le genti asiatiche, culminato con le guerre persiane che, nella mentalità greca, rappresentavano lo scontro epico fra democrazia e tirannide.

Dalla xenia alla prossenìa. L’’altissimo valore sociale dell’ospitalità sacra si deve probabilmente alla necessità di superamento dell’isolamento cui, durante il cosiddetto medioevo ellenico, si trovarono a coesistere delle piccole comunità locali. La certezza di trovare riparo e cibo dopo viaggi lunghi e disagevoli favorì senz’altro la nascita di relazioni stabili e proficue che, alla lunga, si trasformarono in alleanze economiche prima e politiche poi, che furono matrice comune dell’aristocrazia arcaica fondata su vincoli morali di reciproco aiuto a prescindere dalle origini etniche o dalle posizioni politiche. E quando in Grecia i clan nobiliari persero il loro ruolo centrale nella vita politica, l’arte dell’ospitalità fu istituzionalizzata attraverso la pratica della prossenìa per la quale un influente cittadino chiamato prosseno (letteralmente “al posto dello straniero”) garantiva protezione e tutela, nei confronti delle autorità locali, ad un cittadino straniero per espresso incarico della sua madrepatria. Il prosseno, inoltre, aveva il dovere di fornire ospitalità a coloro che erano inviati nella sua città con un incarico ufficiale, risultando, di fatto, una fra le più antiche attestazioni di consolato con sede stabile in uno stato straniero della storia!

L’ospitalità a Roma. Anche il termine latino hospitium offre una dicotomia etimologica che l’italiano ha poi fatto sua, riferendosi contemporaneamente sia a chi riceve l’ospite sia a chi è ospitato e riportando, ancora una volta il gesto ospitale alla reciprocità dell’atto. Almeno in campo privato, dove secondo Vitruvio proprio a questa pratica si deve l’origine delle nature morte nei dipinti romani. Secondo lo studioso, infatti, a Roma gli ospiti ricevevano i cosiddetti ἀποϕόρητα (apoforeta), intesi da Marziale come regali particolari ma che Vitruvio interpreta etimologicamente come oggetti da portar via, e li lega alla pratica ospitale che prevedeva per gli ospiti che, dopo aver desinato con i padroni di casa, dal secondo giorno di permanenza ricevessero degli alimenti direttamente nelle loro camera affinché non fossero limitati nell’organizzazione del loro tempo. Si trattava per lo più di pullos, ova, holera, poma reliquasque res agrestres (pollame, uova, verdura, frutta e altri prodotti della campagna), che sarebbero in seguito diventati soggetti di dipinti detti, guarda caso, xenia che verosimilmente abbellivano le camere degli ospiti o che forse venivano lasciati in dono agli ospiti alla loro partenza.

Hospitium pubblicum. Nell’antica Roma, una delle forme di relazioni stabilite dai trattati internazionali prevedeva il diritto all’abitazione e al vitto, alla protezione, alla partecipazione al culto romano per l’hospes che poteva inoltre dimorare nel territorio della città, svolgere negozi giuridici di rilevanza economica (commercium) e, in alcuni casi, contrarre legittimo matrimonio con cittadini romani (conubium). Era una forma alta di ospitalità che riguardava soprattutto ambasciatori, senatori, magistrati o consoli che viaggiassero per motivi politici o di affari, ed erano provvisti della cosiddetta tessera hospitalis, una sorta di moderno lasciapassare in cui erano menzionati l’ospite e l’ospitato, i cui ruoli quando era il cittadino romano a divenire ospite in terra straniera risultavano invertiti e vicendevolmente garanti: il romano per lo straniero a Roma e il forestiero per il romano nella propria città.

Ma la tessera hospitalis fu mantenuta anche nella forma più semplice di oggetto simbolico: di materiale più o meno pregiato a seconda dello status sociale, veniva divisa in due parti l’una appartenente all’ospite, l’altra all’ospitante, destinate a ricomporsi a ruoli invertiti in una successiva visita, anche se a distanza di generazioni.

Nel mondo barbarico, però, il termine assunse un significato diverso perdendo la sua originaria connotazione di reciprocità e così l’hospes divenne il proprietario delle terre espropriate dagli invasori ai vinti, mentre l’hospitalitas divenne il rapporto rispetto solo ai beni ottenuti.

Aggiudus torraus. Nella società agro-pastorale sarda i rapporti sociali delle piccole comunità erano regolati dai ritmi delle fatiche dei campi e dagli impegni religiosi. E se ogni festività era occasione particolare di incontro e convivialità su più vasta scala, era la vita di tutti giorni a regalare continui esempi di ospitalità e condivisione reciproca.

E immoi ita ti torru? Questa domanda quasi retorica era una sorta di frase formulare che seguiva l’accettazione di un dono da parte di un conoscente o un vicino, che non solo non poteva essere rifiutato ma che andava prontamente restituito, pena la rottura del rapporto di rispetto che era alla base di quella società arcaica. Un equo scambio di doni poveri quanto graditi – pane, frutta, dolci, vino – che garantiva alla comunità un reciproco e mutuo soccorso.

Ma la rete di solidarietà sociale non riguardava solo lo scambio di merci ma anche – e soprattutto – di servizi, is aggiudus torraus appunto. Nel Campidano di fango e canne dove le abitazioni erano rigorosamente di ladiri gli amici e i vicini partecipavano a una sorta di rito collettivo che permetteva la realizzazione della propria dimora senza spese di personale: a ogni aiutante veniva garantito lo stesso trattamento, in virtù di un contratto non scritto ma sacro quanto e più di un giuramento, che vincolava generazioni di famiglie e veniva siglato con un pranzo finale in cui ciascuno portava qualcosa. E lo stesso avveniva in occasione di banchetti nuziali in cui amici, parenti e vicini si occupavano di allestimento, cucina e preparazioni varie per gli sposi, il cui giorno speciale era pretesto di festa collettiva. Cuncambias di atti e di oggetti che hanno regolato vite e rapporti e umani da millenni.

Portoni aperti. Ma forse l’emblema dell’ospitalità sarda è stigmatizzato dai portoni delle case che venivano aperti la mattina e chiusi solo la notte: su pottabi serrau era, infatti, un gesto di chiusura verso la comunità, inaccettabile se non nei momenti immediatamente successivi alla morte di un congiunto, per dare alla famiglia il tempo di organizzare l’accoglienza delle persone che avrebbero fatto compagnia fino al seppellimento. Così quell’unico diaframma, che separava la casa campidanese dal resto del mondo, era perennemente aperto tanto per i conoscenti come po’ is strangius e sanciva un patto di ospitalità perenne con il prossimo di qualunque estrazione sociale, orientamento politico o provenienza geografica.

E infatti su strangiu che visitava l’isola rimaneva profondamente colpito da questa rete sociale così votata all’ospitalità condivisa, come rimarca nel 1776 il gesuita piemontese Francesco Gemelli, professore di eloquenza latina all’università di Sassari: «Non avendo questo regno al par della Corsica pubblici alberghi od osterie, supplisce a un tal difetto la molta cortesia de’ paesani; conciossiachè sien veramente i Sardi nella ospitalità emulatori delle più colte nazioni, e imitatori della cordialità de’ tempi eroici e de’ patriarcali.» O come ancora ricorderà nel 1792 l’abate Matteo Madao: «Di nuovo ricordiamo la cortese ospitalità, la cordiale beneficenza, la sincera amicizia, e l’officiosa umanità, che gli antichi e moderni scrittori esteri lodarono e ammirarono come propria dei Sardi anche verso le persone straniere, sconosciute, ingrate» e un cinquantennio più tardi Gaspare de Gregory sancirà come sincera «la cordialità colla quale accordano l’ospitalità ai viaggiatori» i sardi.

Ma sarà l’antropologo Mantegazza nel 1869 a indicare proprio nell’ospitalità il punto più caratteristico della comunità sarda: «Molti fra i viaggiatori della Sardegna, più maligni indagatori del male che sapienti osservatori, si guardano bene dall’ammirare la larga, la generosa ospitalità dei Sardi. Io invece che ingenuamente ammiro il bene dovunque lo trovo, io che ho trovato inospiti molti paesi selvaggi, non finisco né finirò mai di ammirare la calda, la franca cortesia di quelli isolani.»

Se, infine, il Touring club italiano del 1918 nel rappresentare la Sardegna ricca di splendidi paesaggi incontaminati, chiosa «l‘ospitalità sarda non è un mito, si manifesta in tutte le classi, in tutti i gradi ed in tutti i modi, in una misura che stupisce il continentale, ed in maniera cordiale, toccante, di cui non ha idea. Bisogna far molta attenzione a non ferire la suscettibilità dell’ospite con profferte di compensi, che pur sembrerebbero dovuti e naturali» è forse perché quest’isola in mezzo al verde mare, che i greci chiamarono Ichnusa per la sua forma che ricorda un’impronta, è uno dei pochi luoghi in cui la lunga tradizione mediterranea che dalla xenia porta all’hospitium, si è saputa mantenere intatta nei millenni, adattandosi a conquiste e conquistatori, cambi di padroni e di lingue che l’hanno ferita ma mai davvero domata.


Fonte: http://emanuelakatiapilloni.altervista.org/xenia-e-aggiudus-torraus-lospitalita-come-patto-sociale/

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