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giovedì 7 gennaio 2021

Archeologia della Sardegna. Il “Capovolto”dei menhir? Il simbolo cosmico di Hator. Articolo di Gustavo Bernardino

 Archeologia della Sardegna. Il “Capovolto”dei menhir? Il simbolo cosmico di Hator.

Articolo di Gustavo Bernardino


 

Tra i tanti misteri che ancora circondano i reperti archeologici tramandati dai nostri antenati, uno in particolare ha creato una  sorta di record delle interpretazioni che i vari studiosi e appassionati hanno collezionato, tentando di capire il significato del simbolo che appare sulla parte alta di diversi menhir definito empiricamente “Capovolto”. Probabilmente tra le cause che rendono difficile capirne il significato, vi è proprio il fatto che il simbolo non va visto come capovolto ma deve essere interpretato nel suo insieme  e nel verso in cui si trova esposto. Altro possibile motivo di errore di decodificazione può essere stato il rifiuto da parte degli esperti di accettare l'ipotesi che i nostri antenati possano aver costruito e realizzato i manufatti che raccontano la storia più antica della nostra terra con un evidente e razionale collegamento alla astrologia e al grande potere che ne derivava per gli addetti ai

lavori sia in termini sociali che religiosi. Da un punto di vista strettamente cronologico, appare credibile ritenere che la realizzazione e l'uso cerimoniale dei menhir, ascrivibili al periodo compreso tra il neolitico superiore ed eneolitico iniziale, anche alla luce delle recenti scoperte archeologiche di Göbekli Tepe in Turchia e più precisamente nel sito di Karahan,  questo lasso di tempo  possa retrodatarsi.

Presupponendo che la conoscenza e la pratica cultuale dei menhir, provenissero dall' area geografica medio-orientale, dovremmo riconoscere a studiosi come Massimo Pittau, Raffaele Sardella, Salvatore Dedola, che attraverso lo studio della lingua,  certificano la connessione tra la Sardegna e l'antico oriente, la validità delle loro tesi. Coincidenti, peraltro, con presupposti differenti, a quanto sostenuto da Leonardo Melis, nei suoi libri.     

 Approfondendo la lettura dei testi religiosi egizi (Testi delle Piramidi, libro dei morti) veniamo a conoscenza delle pratiche usate dai sacerdoti egiziani nel prendersi cura della sorte dei loro faraoni dopo la loro morte. Questo percorso di conoscenza consente di capire quanto fosse perentorio per i responsabili del ceto religioso, coniugare le pratiche cultuali in chiave astrologica. Sotto questo aspetto è illuminante la lettura di un articolo apparso sulla rivista “Nature” in cui è riportato l'intervento fatto dallo studioso O. Neugebauer  dal titolo “The Egyptian Picture of the Sky” nel novembre del 1939 alla Brown University. Fin da allora quindi, nell'ambiente scientifico internazionale, era accreditata la tesi secondo la quale vi era uno stretto collegamento tra religione e astrologia. Lo stesso tema è stato trattato in una tesi di laurea del 2012 dal titolo “L'Aldilà Celeste dai Testi delle Piramidi” di Letizia Cozzuol dell'Università Ca' Foscari di Venezia. Tesi che ha avuto come correlatore il Prof. Lucio Milano orientalista di grande spessore discepolo dell'insuperabile Mario Liverani. In tale lavoro l'autrice sostiene che “...Alla fine del III millennio a. C. si ha l'introduzione di formule magico-religiose e rituali all'interno delle piramidi, dove infatti troviamo iscrizioni non solo sui muri dei corridoi, ma anche all'interno delle camere. Questi incantesimi costituiscono la raccolta scritta di formule magico-religiose più antica dell'Antico Egitto ed hanno al loro interno molteplici elementi derivanti da diversi periodi: sono infatti presenti anche credenze della fase predinastica derivanti da tradizione orale....” nella tesi si dice anche che “...Le costellazioni della fascia circumpolare furono il principale soggetto di osservazioni da parte dei sacerdoti astronomi, in quanto facevano parte di quegli ammassi di stelle che non tramontavano mai. Quest'area, come si evince dai Testi delle Piramidi, era considerata il luogo nel quale si trovavano le divinità.”. Nella costellazione del bucranio gli egizi individuavano la divinità Hathor come raffigurato nella  tavoletta di Gerzeh (un reperto archeologico del periodo Naqada II).

 


Non si può non rilevare la somiglianza delle due immagini con quella della figura scolpita nel menhir.

Ma chi era Hathor e cosa sappiamo di questa dea?

Le informazioni le acquisiamo da Mario Tosi nel suo “Dizionario delle divinità dell'Antico Egitto” Kemet edizioni 2017:

Nelle pagg. 53, 54 e 55 del volume troviamo la descrizione di Hathor. Qui sono riportati alcuni passaggi  che ritengo significanti “...Divinità universale, cosmica, dall'epoca della IV dinastia essa è raffigurata come una giovane donna che porta sul capo due lunghe corna ed il disco solare. Hathor diventa uno dei personaggi più popolari del pantheon egizio”, …”.signora dei venti del nord”,....”.la risplendente”.. “Venerata in tutto il paese.....conquistò progressivamente il Sinai, alcune regioni della Palestina e la costa fenicia”..”identificata più tardi con Astarte”.” Molti erano gli oggetti simbolici e gli strumenti liturgici sacri alla dea, che le venivano offerti durante le cerimonie più importanti, secondo quanto risulta dalle testimonianze nel tempio di Dendera. Alcuni di questi oggetti, come il sistro sesheshet o la collana menat, personificavano Hathor stessa, essendo il supporto materiale della dea...”A Eracleopoli era detta madre di Ra” ma anche “..Madre delle madri”.

A proposito del sistro sesheshet, in un articolo pubblicato da NURNET di Giorgio Valdes, l'autore ipotizza che dal sistro egizio sia disceso lo sciranchizzi sardo. Io credo che abbia ragione.

Tornando al tema, anche studiosi sardi come il citato Salvatore Dedola e Bartolomeo Porcheddu, hanno trovato e documentato le connessioni tra la Sardegna e l'Egitto. Il primo, che ha approfondito la conoscenza delle origini della lingua parlata dai nostri antenati tramandandola ai posteri con il suo “Nou Faeddarzu dessa Limba Sarda” due tomi di oltre 1.400 pagine editi da Grafica del Parteolla 2018 ed ha composto un' altra opera ciclopica “Enciclopedia della Civiltà Shardana” sempre con lo stesso editore, ha trattato l'argomento relativo alla divinità egizia in esame, nel volume II dell'enciclopedia che esamina i seguenti temi: Religione, Feste, Edifici sacri, Carnevali. Nel capitolo 10.3 che tratta delle “Corna”, Dedola dopo aver parlato della Bibbia di Mosè di Giacobbe di Yahweh del Nuovo Testamento, seguendo un ragionamento lessicale sul vocabolo (Corna) e la sua genesi, arriva alla dea Hathor e ci dice che:”.. il suo nome significa casa di Horus ossia casa del “Dio Sole”. Dea dell'amore e della gioia, generò il Dio Sole e poi ne divenne sposa.” inoltre che “..in Sardegna è nota in vari modi, visto che l'elemento egizio in terra sarda fu notevole e, suppongo numeroso. Un modo per conoscerla è dato pure dalla sopravvivenza del cognome Atzori. Elizer Ben David lo dà <ebr. Hatzor (o Chatsor, Gios 11,1 etc), ch'era un territorio ad est del Giordano dove Giosuè, avanzando verso Canaan, dovette subire e sconfiggere una coalizione di regni. Non è azzardato accettare questo coronimo, che sparì presto dalla geografia antica, essendo insignificante l'entità e il valore di quel territorio; pare comunque verosimile che il toponimo si riferisse proprio alla dea Hathor. Normalmente, salvo eccezioni, gli attuali cognomi sardi sono antichi nomi personali, ripresi a loro volta dai nomi personali più famosi della storia locale. Tenuto conto della quota niente affatto trascurabile di cognomi sardi di origine egizia, Atzori fu un nome muliebre che ripete il nome della dea Hator.” Dedola continua la narrazione affermando che “Le testimonianze egizie in Sardegna sono di rilevanza eccezionale. Basterebbe l'immensa quantità degli scarabei di Tharros . Ma c'è l'altra testimonianza, quella di Tacito, che narra del trasferimento coatto di egizi ed ebrei nel 19 e.v.”. Bartolomeo Porcheddu invece nel suo libro “Roma colonia sarda” aprile 2020 auto pubblicato, sostiene che i “Nove Archi”, storici nemici dei faraoni egizi, nient'altro erano che una lega di popoli sardi ma ecco cosa scrive Porcheddu:” I “Nove  Archi” erano la trasposizione dal cielo alla terra delle nove stelle che componevano la figura di Ori[s]one. Le nove stelle chiamate “l'arciere” disegnavano un perimetro geometrico simile ad una clessidra che riprendeva i contorni della terra sarda. I “Nove Archi” erano perciò le nove stelle dell'arciere sardo Ori[s]one.

Queste stelle che tracciavano la figura di Orione sulla volta celeste diedero vita sulla terra di Sardegna alla “Confederazione dei nove archi”, i nove popoli sardi uniti in una “lega”, quasi come la fusione del rame con lo stagno che produceva il bronzo. Le bandiere erano tante e differenti, ma il  Pan o il Pannu era unico.

Nella stele di Thutmose III (1457 a. C.) a Gebel Barkal è scritto:”Ho legato in fasci i Nove Archi, le isole che sono in mezzo al mare, i popoli stranieri ribelli. Come in cielo governano 9 dei [stelle], così in terra dominano i Nove Popoli. Il mio bastone (tirso) ha colpito i Nove Archi”. Nelle pagine successive Bèrtulu Porcheddu spiega con dovizia di particolari quali sono i nomi che compongono la  “lega” e devo riconoscere che le sue riflessioni sono molto affascinanti.

Se assumiamo come valida la tesi che la figura scolpita nei menhir rappresenta la dea Hathor, allora è possibile osservare l'evoluzione iconografica e sincretistica della divinità che, probabilmente, giunge in terra sarda con coloro che, provenienti da oriente (cacciatori, raccoglitori, cercatori di minerali?), si stabilirono nella parte nord-occidentale dell'isola, dando inizio alla realizzazione di quei fantastici monumenti che ancora arricchiscono quel territorio. Sono probabilmente questi “Signori d'Oriente” padroni dell'arte scultorea, della conoscenza della pietra e della sua lavorazione che danno vita alle  necropoli e inizio all'architettura ipogeica con le spettacolari costruzioni di Mesu 'e Montes, S'Adde 'e Asile, S'Isterridolzu, Noeddale, Su Littu. Solo per citare quelle che ricadono nel territorio di Ossi, in provincia di Sassari, all'interno della quale è presente anche un monumento (la ziqqurat di Monte d'Accoddi) la cui fattispecie ha le caratteristiche tipiche dei monumenti cultuali mesopotamici ed è l'unico esemplare, fuori dal contesto della Mezzaluna fertile, conosciuto in tutta l'area mediterranea; sono loro gli autori delle poderose mura di Monte Baranta? E ancora, sono sempre questi “Signori d'Oriente” che nelle case dei morti rappresentano la dea con le corna taurine e suo figlio Ra il Sole con il disco raggiato? Io credo di si.

Dall' immagine della dea Hathor scolpita nei menhir si passa per sincretismo alla figura del Toro  che caratterizza tutto il periodo del bronzo, per arrivare a Neith il cui santuario e centro cultuale lo si può individuare nella grotta di Su Benatzu a Santadi (vedi articolo in questa rivista del 6/05/2019 dal titolo “Neith di Sais illuminata dall'Accademia”)la dea nilotica diventa la fenicia Tanit che a sua volta assume le sembianze di Astarte (con questa immagine si potrebbe sostenere che il cerchio si chiude in quanto Astarte proviene dalla Mesopotamia in cui era conosciuta come Inanna/Ishtar).

Mi sembra di aver portato sufficienti elementi che consentono di valutare l'attendibilità della tesi esposta. Per cui non resta altro che attendere il giudizio dei lettori.

 

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