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giovedì 20 agosto 2020

Archeologia della Sardegna. Il Santuario Tofet. Articolo di Piero Bartoloni.

Archeologia della Sardegna.  Il Santuario Tofet.

Articolo di Piero Bartoloni

 

Fonte: LA SARDEGNA FENICIA E PUNICA

Corpora delle antichità della Sardegna, Storia e materiali

A cura di Michele Guirguis

L’ipotetico sacrificio dei fanciulli che, secondo alcuni antichi scrittori e studiosi moderni, veniva perpetrato in Fenicia e in alcuni casi nel regno dell’antica Israele, cioè in questa particolare regione di biblica memoria, è stato desunto da un testo dello storico greco Diodoro Siculo (XX, 14, 4-5) che evocava il terribile rituale del presunto olocausto dei primogeniti che si sarebbe dovuto svolgere nel tofet di Cartagine. Lo storico greco, che scriveva la sua opera attorno al 50 a.C., tra l’altro narrava le vicende della Sicilia antica e, al fine di suscitare lo stupore dei lettori, talvolta inseriva fatti inusitati e memorabili non sempre fondati sulla realtà storica. Inoltre, il nostro autore si dilungava sulle vicende di Cartagine, nello specifico periodo storico dell’incursione in terra africana effettuata da Agatocle, tiranno di Siracusa, nel 310 a.C., con cui pose la stessa Cartagine sotto assedio. Secondo Diodoro Siculo, la popolazione della metropoli punica era sotto assedio, angustiata dalla guerra e dalla pestilenza. I cittadini di Cartagine attribuirono dunque le loro  traversie agli scarsi ossequi tributati nel

passato agli dei protettori della città. Scrive infatti Diodoro Siculo che i Cartaginesi volendo rimediare alle mancanze commesse verso gli dei e, in particolare, verso Cronos «decretarono il sacrificio di duecento fanciulli scelti tra le migliori famiglie. I cittadini, gareggiando nell’offerta, raggiunsero il numero di trecento (…) Si trovava infatti presso (i Cartaginesi) una statua di Cronos in bronzo, che distendeva le mani aperte così inclinate verso il basso che il fanciullo là posto rotolava e precipitava in un baratro di fuoco» (traduzione di P. Bartoloni). Questo è il racconto dello storico che quindi assimila il dio greco Cronos al dio punico Baal Hammon, divinità prescelta, assieme alla sua paredra Tinnit, alla tutela dei fanciulli deposti nell’area sacra del tofet. Come si può ben intuire, con ogni probabilità a Cartagine non è mai esistita una mostruosa statua bronzea come quella descritta da Diodoro. Tuttavia, a consolidare la tesi del sacrificio umano presso il grande pubblico, nel 1862, contribuì non poco lo scrittore Gustave Flaubert con uno dei suoi romanzi più famosi, il ben noto Salammbô. 


Il termine MLK, che compare talvolta sulle stele del tofet di Cartagine e di altri santuari simili e che viene anche menzionato nella Bibbia, è stato erroneamente interpretato come nome di una divinità: il famigerato dio Molok. In realtà, questa divinità non è mai esistita e, invece, si tratta di un termine il cui significato fondamentale era quello di “offerta”. Sulla base di due cippi provenienti dal tofet di Cartagine e databili nel VI secolo a.C.,  appaiono infatti due iscrizioni, considerate tra le più antiche del luogo sacro, i cui testi incisi sono i seguenti: «Stele di un (bambino) offerto (= MLK) a Baal» e «Stele di una (bambina) offerta (= MLKT) a Baal». Se fosse veramente esistito, il dio Molok certamente non sarebbe stato mai citato in una versione femminile. Quindi l’area sacra del tofet era per l’appunto il luogo ove erano deposte tali offerte. Anche nella Bibbia appare menzionato più volte il termine MLK: nel Levitico, 18,21 si può leggere: «Nessuno della tua discendenza lascerai passare a Molok, né profanerai il nome del tuo Dio: sono io il Signore». Ancora nello stesso Levitico, 20,2-5: «Chiunque degli Israeliti, o degli stranieri che dimorano tra quelli, darà alcuno di sua prole a Molok, deve essere ucciso». Il termine MLK viene indicato con l’iniziale maiuscola perché era ritenuto a torto il nome di una divinità, a causa di una non corretta traduzione del testo biblico. Dunque, sembra chiaro, invece, che non si tratta di una divinità bensì di un rituale, poiché la traduzione corretta, invece di passare o dare a Molok, dovrebbe essere semplicemente offrire. Sempre nella Bibbia, accanto al termine MLK compare il toponimo tofet: nel Libro II Re, 23, 10 si legge: «Dissacrò Tofet che è nella valle di Ben-Ennom, affinché nessuno facesse più passare per il fuoco il proprio figlio o la propria figlia in onore di Molok». Inoltre, in Geremia, 7, 31-32 si può leggere: «Costruiscono l’altare di Tofet nella valle di Ben-Ennom per bruciarvi i figli e le figlie loro nel fuoco». Si tratta dunque di un toponimo, cioè di una località ben precisa e non di uno specifico luogo di culto. In ogni caso, come si può ben vedere, in connessione con la parola tofet, la Bibbia non fa mai cenno a uccisioni o a olocausti, ma solo al passaggio per il fuoco o alla combustione. Per avvalorare la tesi del sacrificio umano nel tofet, a questo rituale fu accostata l’offerta a Yahwé delle primizie, figli primogeniti compresi. 


Probabilmente, questa usanza era tradizionalmente in voga nella prima Israele, come illustrato dal tentato sacrificio del figlio Isacco da parte di Abramo, sostituito all’ultimo momento da Dio con un ariete, ma nulla ha a che vedere con il tofet. A rendere ancor più complicato il problema hanno contribuito non poco anche alcune stele rinvenute in alcune necropoli nord-africane di età tardo-punica oppure di piena età romana repubblicana, quale per esempio quella di El Hofra, presso l’antica Cirta, attuale Costantina, città dell’Algeria nord-orientale. Le stele erano i segnacoli, che venivano deposti per grazia ricevuta nei tofet e nelle aree sacre nord-africane derivanti da questi. Infatti, nelle iscrizioni si può leggere come segue: «Al Signore Baal Hammon e alla Signora Tinnit faccia di Baal MLK ’DM». Interpretando il termine MLK non come “offerta” ma come “sacrificio”, per di più associato al termine ’DM, il cui significato è “uomo”, veniva spontaneo ritenere che l’iscrizione facesse riferimento a un sacrificio umano. Il problema era reso ancor più complesso dalla presenza di un’ulteriore formula dedicatoria MLK ’MR, nella quale il termine ’MR ha il significato di “agnello”. Quindi il concetto espresso dalla formula poteva ben essere “sacrificio di agnello”, in contrapposizione con il MLK ’DM “sacrificio di uomo”. Quindi, tale formula era stata interpretata a favore del sacrificio umano, poiché, secondo gli assertori di tale teoria, costituiva la palese sostituzione di un agnello a un uomo, secondo la tradizione biblica relativa al sacrificio di Abramo. Se invece, come è più probabile, il significato del termine MLK è quello di “dono, offerta, dedica”, come è ovvio, il senso della frase muta in modo radicale. Attualmente, con il toponimo tofet, divenuto ormai convenzionalmente un nome comune, si vuole indicare l’area sacra nella quale venivano effettuate le pietose pratiche religiose connesse con il seppellimento dei fanciulli morti. Nel 1921, la scoperta del santuario di Cartagine con le stele e le urne contenenti le ossa bruciate di bambini fece sì che alcuni ambienti scientifici ritenessero che si fosse finalmente scoperto il tofet, cioè il luogo dove venivano sacrificati i bambini, ponendo così fine all’annoso problema. In particolare, il ritrovamento dell’area sacra venne immediatamente accostato a quello, effettuato alla fine del secolo precedente, di una stele raffigurante un personaggio incedente, verosimilmente un sacerdote che reca in braccio un bambino. 


Si susseguirono gli studi, ma nessun ricercatore pose mai in discussione la veridicità del sacrifico umano dei bambini tramandato da Diodoro Siculo e forse suggerito, o lasciato intuire, o male interpretato dalla Bibbia. Inoltre, un’ulteriore teoria, nata anche sulla base del confronto tra il numero non esorbitante delle urne rinvenute nelle aree sacre – circa 10.000 a Cartagine, circa 6000 a Sulky, oltre un  migliaio a Tharros, circa 400 a Monte Sirai – e la durata nel tempo del supposto sacrificio – circa 600 anni per i siti citati, tranne quello di Monte Sirai – portava a ritenere che a tale rito cruento fossero ammessi solo i bambini appartenenti a famiglie della nobiltà fenicia e punica. Sulla base degli studi più attuali, appare chiaro, invece, che queste teorie sono il frutto di un palese fraintendimento di una congerie di elementi biblici, classici e archeologici accostati tra di loro in modo farraginoso, assai discutibile e non del tutto rigoroso, logico e consequenziale. È solo verso la prima metà degli anni ’80 del secolo scorso che sono iniziati a sorgere i primi dubbi sul quadro proposto. È in questo periodo che si è dato inizio alle prime analisi osteologiche dei resti dei bambini rinvenuti a Cartagine e negli altri santuari. Questi incontrovertibili esami, a Cartagine effettuati da Jeffrey Schwartz e a Tharros da Francesco Fedele, hanno portato alla scoperta che in buona parte dei casi si trattava di ossa di feti, dunque di bambini non nati. Inoltre, nella maggioranza dei restanti casi, i resti ossei riguardavano bambini deceduti subito dopo la nascita o comunque entro i due anni di età. A Cartagine, in un solo caso si trattava di un fanciullo di circa otto anni. Quanto al supposto sacrificio cruento dei bambini, innanzi tutto non si comprende bene perché i Fenici, pur con una enorme mortalità infantile con percentuali dell’ordine di 7 bambini su 10 entro il primo anno di vita, avrebbero dovuto sacrificare alle loro divinità i loro figli primogeniti. La reiterazione di una tale pratica avrebbe senza dubbio portato in breve tempo all’estinzione dell’intero popolo dei Fenici. Inoltre, le scoperte archeologiche che, per altro, non hanno mai portato alla individuazione di tali santuari nel territorio della madrepatria e nella Penisola Iberica, non hanno avallato in alcun modo quanto suggerito dalle antiche fonti letterarie che, non dimentichiamo, non sono né fenicie né puniche, ma alloglotte e, per di più, di popoli antagonisti dei Fenici e dei Cartaginesi. Le antiche fonti classiche, in ogni caso, si sono rivelate ampiamente di parte e palesemente anti-puniche. Infine, le analisi chimiche e fisiche effettuate sulle ossa dei bambini, oltre allo loro età, al loro sesso, allo loro dieta e ad alcune specifiche patologie, non sono state in grado di fornire prove né favorevoli né contrarie all’esistenza del rito cruento. Comunque, ancora oggi il mito del sacrificio sanguinario resiste saldamente presso alcuni ambienti scientifici, in alcuni casi per convinzione, in altri per motivi esclusivamente ideologici. Il grande pubblico invece sembra avere ben pochi dubbi al riguardo: il sacrificio umano esisteva ed era praticato solamente dai Fenici e dai Cartaginesi. Ma, in definitiva, che cos’era il tofet e quale rito vi si praticava? Secondo la versione più attendibile, si trattava di un santuario a cielo aperto dedicato al dio Baal Hammon e alla dea Tinnit, sua paredra, racchiuso in un recinto, talvolta in muratura, nel quale erano posti sul rogo e poi sepolti con riti particolari i bambini non nati, nati morti o deceduti prima del compimento dei due anni di età. Dunque, mentre questi bambini, deceduti per cause naturali o per malattia, erano idealmente rinviati alle divinità che li avevano concessi, tutte le pratiche svolte da parte dei loro genitori nell’area del tofet erano tese a ottenere da parte degli dei la concessione di una nuova nascita. Quindi, si raccoglievano i poveri resti e si deponevano all’interno di un recipiente fittile, in genere una pentola da cucina o una brocca nuove e mai usate. Se la richiesta veniva esaudita, se cioè un nuovo bambino giungeva ad allietare la famiglia, i genitori erigevano all’interno del santuario, ma non necessariamente nel luogo ove era stata deposta l’urna, una stele in pietra a ricordo della grazia ricevuta. 


Dunque, con ogni probabilità, il rituale del tofet rappresenta un vero e proprio rito funebre nel quale sono inserite particolari valenze religiose, appunto perché rivolte verso bimbi mai nati o defunti poco dopo la nascita. Non è dunque un feroce e sanguinario rito di olocausto, ma solo una pietosa pratica rivolta verso i più deboli e volta all’incentivazione delle nascite, cioè il vero e proprio contrario di quanto supposto. Quindi, i tofet sono da considerare delle particolari necropoli, con le quali del resto condividevano non poche caratteristiche, nettamente separate da quelle degli adulti e nelle quali la presenza del divino era costante e fondamentale. Le motivazioni di questa separazione sono da attribuire esclusivamente allo status dei piccoli defunti. Questi, infatti, non appartenevano ancora alla comunità, perché erano deceduti prima dell’iniziazione, cioè prima di essere chiamati a partecipare al rito d’ingresso nel consesso degli adulti, equivalente al nostro battesimo o alla circoncisione presso il mondo ebraico e islamico. Tale rito era costituito probabilmente dal “passaggio per il fuoco” di biblica memoria, per esempio ancora oggi praticato in alcuni luoghi della Sardegna nella notte di San Giovanni. Quindi, le fiamme del rogo erano la soglia attraverso cui i fanciulli fenici e punici dovevano passare in ogni caso, sia da vivi che da morti. Le uniche tracce superstiti di tali tofet, poiché come detto le aree sacre di questo tipo sono del tutto assenti in area libanese o iberica, sono situate nel settore del Mediterraneo centrale. I motivi di tale disposizione areale non sono facilmente spiegabili, anche perché si è potuto constatare che non tutte queste aree sacre dedicate ai bambini defunti erano state consacrate all’atto della fondazione delle città delle quali fanno parte. Due tofet sono stati scoperti in Tunisia, a Cartagine e a Sousse, e altrettanti sono venuti in luce in Sicilia, a Mozia e a Selinunte. La maggior parte di queste aree sacre, ben sei, sono state rinvenute in Sardegna e, più precisamente, a Karaly, attuale Cagliari, a Nora e a Bitia, nell’estremo sud-ovest dell’isola, a Sulky, attuale Sant’Antioco, a Monte Sirai, presso Carbonia, e a Tharros, nel territorio di Cabras a ovest di Oristano. Mentre quelli di Cagliari e di Nora, che, sulla base dei materiali conservati, erano stati consacrati non prima della fine del V secolo a.C., sono ormai spariti sotto il peso dei secoli e soprattutto per mano dell’uomo, i tofet di Bitia, di Sulky, di Monte Sirai e di Tharros sono stati esplorati in modo esaustivo e attualmente sono visitabili. Il primo, a Bitia, è particolarmente suggestivo e sorge su una isoletta congiunta alla costa da una lingua di sabbia e in parte divorata dalle cave di arenaria. Quello di Sulky, che senza dubbio è il più antico,  poiché risale alla prima metà dell’VIII secolo a.C., è particolarmente coinvolgente e suggestivo poiché è in posizione isolata e circondato da rocce vulcaniche di colore rosso cupo. L’area sacra di Monte Sirai, più tarda delle altre oggi visibili, poiché risale ai primi decenni del IV secolo a.C., sorge nel sottobosco di lentischio separata dall’area della necropoli e ben distante dall’abitato, mentre quella di Tharros, che si data almeno ai primi anni del VII secolo a.C., domina la radice della penisola ove sorgeva l’antica città. Il santuario è ubicato almeno in parte tra le rovine di un villaggio di età nuragica.  In ottica diacronica, non possono essere considerate alla stregua dei tofet tutte quelle necropoli, quale ad esempio quelle Althiburos, attuale M’deina in Tunisia, o di Cirta, attuale Costantina in Algeria, rinvenute soprattutto nelle aree d’influenza anche indiretta di Cartagine ormai sottoposte al dominio romano e sorte non prima della fine del II secolo a.C., dopo la distruzione della metropoli africana.

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