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venerdì 6 aprile 2018

Archeologia: Nuraghi e Dea Madre, ipotesi sulla sacralità nella Sardegna del Neolitico. Relazione di Ulisse Piras


Archeologia: Nuraghi e Dea Madre, ipotesi sulla sacralità nella Sardegna del Neolitico
Relazione di Ulisse Piras

Alcuni anni fa ebbi modo di seguire con molto interesse un gruppo di ballo sportivo. E seguendolo nelle varie competizioni agonistiche osservai come nella fascia di età dai 4 ai 12 anni, ci fosse una discreta partecipazione anche dei maschietti. Quando poi si saliva ai 14/15 anni i maschietti quasi non c'erano più ed i gruppi di ballo sportivo restavano composti quasi esclusivamente di ragazze.
Generalizzando, si può dire che una volta raggiunta l'adolescenza i maschietti cominciano a coltivare altri interessi. Altri sport, magari a componenti agonistiche più marcate, oppure altre attività. C'è chi fa tirocinio a carattere professionale. Altri diventano appassionati di caccia e qualcuno, strada facendo, finisce per arruolarsi nei corpi armati. Questo esempio ci offre l'opportunità per introdurci a due argomenti su cui torneremo più avanti:
→ Primo. Il processo formativo dei bambini. Esso si svolge sotto l'egida degli adulti e poggia su vari livelli o fasi che prevedono un graduale passaggio da esperienze semplici e indistinte per entrambi, maschietti e femminucce, con successivo adeguamento alle regole del gruppo, le quali generalmente prevedono compiti distinti e differenziati in base al genere. Questo processo formativo è  presente in tutte le culture umane. In
tutte le epoche storiche.
→ Secondo. L'evoluzione culturale della nostra società. Nei lunghi millenni che hanno caratterizzato il nostro lontano passato avevano preminenza (o si dava priorità ad) attività quasi interamente femminili. Successivamente, con il progredire delle conoscenze e con la loro diversificazione, acquisirono via via sempre più rilievo attività complesse e specialistiche. Nacquero e diventarono operative le divisioni per categorie professionali e per classi sociali. Come tendenza (non vorrei dire come logica conseguenza) le donne furono quasi del tutto escluse dalla maggior parte delle attività a carattere pubblico, prima fra tutte la religione.
Attività domestiche o artigianali da una parte, attività industriali e militari dall'altra. Un terreno in cui prevale la creatività e la dolcezza femminile contrapposto o complementare ad un altro in cui prevale l'uniformità e la fermezza maschile. Normalmente si è portati a credere che questi passaggi siano naturali e siano stati, nel corso della storia umana, necessari ed inevitabili. Tuttavia gli studi più recenti dicono che forse le cose non andarono in modo così scorrevole e automatico, come si sospettava agli inizi delle scoperte archeologiche. Manca cioè una certa coerenza di fondo nel processo evolutivo. La continuità che ci si attendeva viene da diverso tempo messa in dubbio. Aiutiamoci con qualche riferimento esemplificativo.

ENIGMI DEL NEOLITICO
→ Nel VI millennio a.C., in uno dei primi grandi centri del Neolitico, Çatal Hüyük, nell'attuale Anatolia, si praticava già la fusione dei metalli. Vista questa premessa gli studiosi si aspettavano che nel corso dei periodi successivi i suoi abitanti lasciassero intravvedere dei grossi progressi industriali. Invece niente. Per duemila anni continuarono a ripetere quello che avevano appreso dai loro primi maestri.
→ Nella stessa epoca, VI millennio a.C., in Bretagna, la zona nord-occidentale dell'attuale Francia, altri gruppi appresero l'arte del megalitismo e delle costruzioni in pietra, anche a struttura circolare e falsa volta (come quella dei nuraghi). Di conseguenza anche queste genti avrebbero potuto e dovuto arrivare in poco tempo ad acquisire le capacità tecniche per costruire favolosi templi o persino palazzi monumentali. E invece niente.
→ Sempre attorno al VI millennio a.C., nella  nostra Isola, iniziano ad apparire forme piuttosto elaborate di cultura. Ma anche qui, col passare del tempo, non emerge alcun miglioramento. Questo almeno quello che ci rivela l'archeologia. Una civiltà anonima, uniforme e al tempo stesso enigmatica, che si trascina sempre identica, per i successivi tre-quattromila anni. A quel lungo periodo di tempo non fa seguito l'esplosione di una grande civiltà, bensì il declino. Esattamente attorno al 1.200 a.C. (l'epoca che caratterizza gli imponenti trasferimenti via mare che portano agli stanziamenti nell'Etruria, e alle invasioni del Vicino Oriente da parte dei cosiddetti Popoli del Mare).
A queste osservazioni dobbiamo farne seguire altre due.
→ I primi centri urbani del Neolitico, sorti in un epoca compresa tra il IX e l'VIII millennio  a.C. erano compositi. Mostravano un disegno urbanistico pianificato e articolato, in cui gli abitanti erano dediti ad attività molto specialistiche. Inoltre, i nuclei che li componevano risultavano multietnici, ovverosia costituiti da individui appartenenti a diverse etnie. Questo avrebbe potuto fornire l'alibi agli studiosi per sostenere che c'era un sentimento religioso comune ad unirli, anche nello sforzo di costruire eventuali santuari e templi megalitici.
Ed invece furono proprio gli studiosi a restare ammutoliti, sorpresi e imbarazzati.  Per il semplice fatto che (loro stessi) avevano per anni detto e ripetuto che i popoli, nel corso dei secoli, andavano sparpagliandosi, acquisendo caratteristiche loro proprie, differenziandosi gli uni dagli altri. Questa “ingenuità” o “faciloneria” degli studiosi, di affermare che il sentimento religioso accomuna, tanto per spiegare la costruzione di santuari e templi megalitici, è infatti contraddetta dalle evidenze reali.
Perciò è pensabile ed anche plausibile ritenere che nei primi centri urbani del Neolitico si praticasse qualche culto, ma non in riferimento ad una specifica religione. La religione è un argomento che divide e separa i gruppi, molto più che non l'economia o l'arte o la politica. Infatti nella Sardegna arcaica non si sono mai avuti scontri armati o rivoluzioni cruente, proprio perché nessun credo religioso intervenne a fomentare divisioni o screzi.
→ Tra il 3.500 ed il 2.500 a.C. si viene sviluppando un fenomeno (o processo storico) per cui alla precedente società a “matrice materna”, in cui le donne amministrano e governano la vita sociale dei primi centri urbani, fa seguito una società a “matrice paterna”, molto autoritaria e poco paternalistica, in cui gli uomini creano ed esasperano fino all'inverosimile il concetto di proprietà privata, suddividono la società in ruoli sovraordinati e subordinati, impongono in modo sistematico tributi e regole alquanto rigide e severe. Nascono in questo modo le diseguaglianze sociali e le varie forme di razzismo e discriminazione.
A questo punto è necessario chiedersi se questi due fenomeni hanno riguardato anche la nostra Isola, durante il Neolitico. Ed in caso affermativo occorrerebbe chiedersi in che modo ed in quale misura hanno potuto influenzare la politica, l'economia, ma sopratutto il carattere religioso e liturgico, come anche i culti ed  il concetto di sacro nella cultura dei nostri antenati? Personalmente ritengo che la Sardegna arcaica abbia conosciuto, come i primi centri urbani dell'Anatolia, una società multietnica (come dimostrano le indagini sul patrimonio genetico dei sardi), ed abbia altresì conosciuto (ma in misura molto lieve) l'avvicendamento culturale relativo al passaggio da una civiltà matriarcale ad una patriarcale. Ma vediamo più in dettaglio, ed in breve, cosa c'era di rilevante durante il Neolitico in Sardegna.

QUADRO SINOTTICO DELLE VICENDE STORICO-CULTURALI
Sappiamo che c'erano stanziate delle genti sul finire del IX millennio a.C. e che molto probabilmente si praticava lo scambio o il commercio di ossidiana già a partire dall'VIII millennio a.C. Sono emerse evidenze che attestano come attorno al VI e V millennio a.C. si praticasse nell'Isola una qualche forma di metallurgia. A partire dalla cultura di Bonu-Ighinu (Mara-Pozzomaggiore) 4.700-4.400 a.C., emergono testimonianze che attestano la presenza di statuine raffiguranti la cosiddetta Venere obesa, assimilabile a tutti gli effetti alla dea-Madre. Questa produzione continua nel corso dei secoli e dei millenni. Si passa alla cultura di San Ciriaco (4.400-4.200 a.C.) a quella di Ozieri (4.200-3.500 a.C.), sempre con una massiccia presenza di statuette fittili raffiguranti la divinità femminile, ed anche con un certo grado di miglioramento stilistico nella produzione. Motivo per cui si da per scontato che, parallelamente alla creazione di queste statuine, ci fosse collegato un qualche sentimento di venerazione e di relativo culto.
Abbiamo poi due periodi o fasi distinte (Filigosa 3.200 – 2.700 a.C. e Abealzu  2.900 – 2.400 a.C.) che si sovrappongono e si avvicendano l'una all'altra e dove si nota un vistoso impoverimento nella lavorazione delle pietre a cui fa da contrappeso una maggiore qualità dei manufatti e oggettistica di metallo (soprattutto rame e argento) che dimostrano come la cultura sarda si stava evolvendo verso forme eccellenti. A partire dalla cultura di Monte Claro (2.700-2.200 a.C.) emerge anche un'espansione dei traffici (marittimi e commerciali) da e per la Sardegna. Tuttavia, stranamente, sembra prendere il via anche una divisione interna delle popolazioni più marcata. Quasi che iniziassero a porsi dei confini politico-amministrativi nell'Isola.
Tra il VI ed il III millennio dei nuraghi, in apparenza, neppure l'ombra. Ma apriamo una parentesi, che ce li introduce.
Pare che il caso di Barumini rientri in una regola generale secondo la quale, allorquando il nuraghe è  circondato dagli edifici          di un insediamento, questi ultimi sono sempre più recenti della fortezza... tra il castello            [nuraghe] e il villaggio c'è una separazione di natura topografica che riflette una dicotomia di carattere politico derivante dai diversi ruoli svolti: egemonico del castello, subalterno del villaggio... (Giovanni Ugas)
Questo asserisce l'archeologia. Esiste una regola secondo la quale i villaggi nuragici risultano sempre più recenti dei nuraghi stessi. Invariabilmente. Perciò mi pongo e vi pongo una domanda: siamo sicuri che tra il VI ed il III millennio a.C. in Sardegna non venne costruito alcun nuraghe? Io ne dubito. Questa sequenza, secondo cui i villaggi nuragici seguono la costruzione del nuraghe-torre-castello o che dir si voglia, ci dice chiaramente una cosa. Che non erano gli abitanti di un qualunque villaggio a costruire il nuraghe, ma era il nuraghe a porre in essere le basi per la comparsa del villaggio.

Motivo per cui trovo alquanto dubbia l'ipotesi che i nuraghi, opere monumentali e ciclopiche, siano stati nella maggior parte costruiti tra il 1.800 ed il 1.200 a.C. Dati alla mano ne risulterebbe una media di dieci all'anno per un totale di 8.000 in ottocento anni. Uno sforzo inaudito andato perduto o comunque reso vano dagli eventi, visto che attorno al 1.250-1.200 a.C. la Sardegna si svuota. Subisce un regresso in termini demografici, economici, culturali. In apparenza ciò avviene in modo insolito e inspiegabile.
È chiaro che non può darsi altra spiegazione, a questo fatto, se non le massicce migrazioni dei gruppi presenti in Sardegna verso altri lidi. Ipotesi recentemente confermata dal riscontro effettuato sui terreni che dimostrano come l'Isola abbia perso in due secoli (dal 1.400 al 1.200 a.C.) i ¾  del suo patrimonio boschivo. Si è  ritenuto che i boschi venissero tagliati o bruciati per dare spazio ai terreni coltivabili in agricoltura. Falso. Non esistono prove di incendi, se non dentro i nuraghi o nei villaggi attigui. Ed inoltre c'è un paradosso. Si buttano giù i boschi per seminare ed invece i sardi prendono la via del mare. Quindi, ovvia conclusione, come minimo il legname era servito per altri scopi. Il più plausibile dei quali costruire navi. Navi, navi e poi navi.
Ricapitolando, i nuraghi avrebbero dovuto consentire un processo di unificazione e di consolidamento delle popolazioni ed invece, proprio nel periodo in cui si ritiene abbia avuto luogo la loro diffusione, iniziano a sorgere divisioni amministrative e territoriali. Non solo, si prende una drammatica decisione: quella di svuotare l'Isola. Siamo sicuri che i nuraghi vadano davvero attribuiti al II millennio a.C. e non ai due o tre o persino quattro millenni precedenti?
La maggior parte degli studiosi, forse per paura di smentirsi, ripetono e perpetuano un luogo comune. Attribuiscono ai nuraghi la stessa età dei reperti che vi si rinvengono all'interno. A mio giudizio i nuraghi risalgono all'epoca in cui nasce la metallurgia e si diffonde il culto relativo alla dea-Madre, così come espresso dalle statuine che la rappresentano. Quindi la loro comparsa dovrebbe risalire, come minimo, al V millennio a.C. Anche perché non mancano le prove che possono sostenere questa ipotesi. Infatti, un'altra cosa imbarazzante per gli studiosi, in quanto difficile da collocare, nella cultura neolitica sarda, è la presenza di Monte d'Accoddi. Incendiato e distrutto già nella preistoria e poi ricostruito. In apparenza era un santuario, con un'area rettangolare interna di culto. Il sito era già conosciuto e quindi frequentato attorno al 4.000 a.C. (caspita !) e lo rimase fino al 1.800 a.C. circa.
Fino ad ora si pensava che il termine d'Accoddi fosse mutuato da Accad (la patria di Sargon il Grande, re degli Accadi), mentre invece adesso sappiamo che esso è preesistente agli Accadi, di circa duemila anni. Anzi, risulterebbe più antico persino dei primi ziggurat mesopotamici. Tutto ciò stimola una domanda precisa. Perché un complesso monumentale come lo ziggurat di Monte d'Accoddi dovrebbe risalire alla fine del V millennio a.C., mentre i nuraghi dovrebbero essere edifici più recenti di duemila anni? Com'è possibile o concepibile classificare lo ziggurat di Monte d'Accoddi come santuario e poi affermare che anche gli 8.000 nuraghi presenti nell'Isola svolgevano la stessa funzione se niente, per collocazione geografica e architettura, li poteva accomunare?

L'ISOLA SACRA: MITO O REALTÀ?
La studiosa slava Dimitrina Mitova-Džonova sostiene che “nei pozzi sacri protosardi si trovano statuette in bronzo che non sono in stretto rapporto con una determinata religione. Il che vorrebbe dire che i gruppi (o popoli) presenti nell'Isola vivevano seguendo un piano pacificamente ordinato di sviluppo, dove non esisteva una vera e propria religione, ma dei semplici simboli che funzionavano da mastice. Servivano ad amalgamare le convinzioni e le prospettive dei gruppi. Mi riferisco ai simboli taurini, agli elmi provvisti di corna, alle asce bipenni, alle barche. Simboli trovati in molti luoghi, tra cui l'Egeo, l'Anatolia, i Balcani, la Mesopotamia. Tutte aree geografiche con cui la nostra Isola anticamente era in contatto. Alcuni di questi simboli raffiguravano attributi, le cui prerogative erano di carattere divino.
Per quanto riguarda l'epoca (ufficiale) nuragica (II millennio a.C.) ed i relativi bronzetti, la maggior parte delle navicelle presentano in modo ricorrente il simbolo taurino delle corna e quello della colomba. Animali sacri alla dea Astarte. Ed il culto di Astarte era certamente conosciuto e alimentato nella nostra Isola, come dimostra il ritrovamento di qualche statuina che la rappresenta. E sempre a proposito delle navicelle, sembra ormai assodato che esse tramandano il ricordo di quando la flotta sarda, per almeno tre o quattromila anni, era stata la più florida del Mediterraneo. Di conseguenza viene difficile credere che divinità come Enki oppure Poseidone, ignorassero l'esistenza della Sardegna. E qui apriamo una finestra su verità finora tenute in ombra.
Nessuno studioso finora ha avuto il coraggio di ipotizzare o anche solo prospettare che alcune importanti divinità del Neolitico potessero aver soggiornato nella nostra Isola. Eppure alcuni testi predinastici dell'antico Egitto attestano che i loro antenati provenivano da un'Isola posta a occidente, in mezzo al grande mare. Questi loro antenati, gli Shebtiu, non solo erano popoli legati alla navigazione, come sostiene la studiosa inglese Rosalie David, ma erano discendenti, a loro volta, dagli dèi. Quindi erano anche personaggi eroici. E la nostra Isola tramanda il ricordo di antichi personaggi dai contorni vagamente eroici. Fatto sta che l'isola da cui essi provenivano era definita l'Isola Sacra.
Qui arriva il bello. Da sempre ci hanno abituati a pensare che il più antico nome della Sardegna fosse Sandalion o altrimenti Ichnusa. Eppure il più primitivo e forse più autentico nome della Sardegna era un altro. Cadossene. Termine semitico derivato da (e riferito a) Qodesha/Qadashu (che sta per “sacra/sacro”). Alcuni autori, fra cui Beroso, Solino e Plinio, hanno sostenuto questa concordanza. Ossia che il termine Cadossene, fosse stato attribuito all'isola di Sardegna proprio con l'intento di designarla quale “pavimento divino” o “suolo sacro”.
Difficile credere che i protosardi conoscessero il semitico per potersi attribuire autonomamente questo termine. Ma se conoscevano il semitico, ciò dipendeva dal fatto che qualcuno di stirpe semitica era giunto nell'Isola. Dato atto che in Sardegna non si può arrivare a nuoto, ciò significa che era giunto in nave. Visto che l'arte di solcare i mari all'epoca non era semplice, probabilmente questi primi abitanti conoscevano la navigazione. Non a caso la Bibbia narra che alcuni degli scampati al Diluvio vennero mandati a colonizzare le isole poste a occidente. E siccome il DNA dei sardi presenta una percentuale tra il 40 ed il 60 per cento che risale al Paleolitico, ciò significa che questi primi colonizzatori giunti in Sardegna, all'alba del Neolitico, potevano in buona parte essere realmente quelli scampati al Diluvio, un cataclisma che aveva decimato la popolazione del pianeta attorno al 11.500 a.C. [nel mio libro Sardegna, nursery del Neolitico io traccio un quadro organico e dettagliato di questi avvenimenti e di quant'altro espongo in questa relazione].
Ripercorrendo a ritroso la storia della nostra isola siamo così arrivati a sapere che la Sardegna, anticamente, era considerata “sacra”.  A questo punto ci potremmo tranquillamente chiedere: quale specifica o spicciola sacralità cerchiamo, nella preistoria della nostra Isola, se già tutta intera l'Isola era definita e considerata sacra?

I NURAGHI: SANTUARI SUI GENERIS
Il termine sacro era originariamente usato col significato di distinguere uno spazio o una funzione particolare, che veniva affidata a qualcuno o per il tramite di qualcosa. Ma dal momento che i nuragici non sembra mostrassero delle inclinazioni particolari verso il fenomeno religioso, considerato inoltre che in Sardegna non è mai emersa alcuna evidenza che avvalorasse l'esistenza di un pantheon di divinità, diventerebbe superfluo ripetere quello che altri autori hanno messo in luce o ipotizzato a proposito del ruolo svolto dai nuraghi, come ipotetici santuari o templi. Ottomila nuraghi in un'Isola in cui, proprio all'epoca ufficialmente attribuita ai nuraghi, si andavano creando divisioni interne politico-amministrative e si assisteva ad un declino dei precedenti culti.
Ad ogni modo il più autorevole di tutti, in questo senso, ed in questi anni, è stato Massimo Pittau. Il quale vede già nella planimetria dei nuraghi, “un preciso canone religioso”. Poi, dal numero delle nicchie ne deduce che i nuragici adorassero una triade di divinità. Arrivando alla conclusione che “molti di quei simulacri erano sicuramente di divinità femminili.” Ma tutte queste considerazioni gli sono state suggerite da alcuni studi precedenti. Antonio Taramelli, esplorando i nuraghi all'inizio del XX secolo, pare non ne abbia scavato alcuno, “in cui non avesse trovato evidenti ed importanti reperti di carattere sacrale o religioso.”
Condivido l'idea secondo cui i nuragici non hanno mai avuto o professato una vera e propria religione. La religione è un'invenzione recente. Coincide con l'emergere delle tre grandi religioni monoteiste (islam, ebraismo, cristianesimo). Con l'affermarsi del monoteismo tutto ciò che era venuto prima venne giudicato come attinente al “paganesimo”, quindi rifiutato, ed in seguito relegato nel campo della magia e della superstizione. Ma i vecchi culti ed i vecchi luoghi predisposti per coltivarli non scomparvero del tutto. Non a caso i cristiani hanno provveduto, nel corso dei secoli, a far erigere le chiese preferibilmente proprio nei luoghi su cui sorgevano in precedenza santuari dedicati a divinità “pagane” per lo più locali. Non riuscendo a cancellarne il ricordo furono costretti a riprendere gli schemi ed in alcuni casi anche i simboli (sole, luna, stelle, animali). Ne nacque una specie di sincretismo strisciante e ambiguo. Domanda. Perché tanto astio e tanta veemenza da parte delle più grandi religioni moderne nel condannare la magia e la divinazione, nonché i culti e le liturgie pagane che le facevano da contorno?

LA REGINA DEGLI DÈI
Facciamo un salto indietro, ripercorrendo il filo logico del discorso. Se alla chiesa cristiana stava tanto a cuore sostituire gli antichi luoghi di culto con altrettante basiliche e santuari, appare del tutto sensato affermare che anche le maldicenze nei confronti della magia e della divinazione non erano che una forma di rivincita tesa a sostituire vecchi modelli culturali con i nuovi. Infatti le ricorrenze annuali, i riti di iniziazione, la purezza o verginità degli addetti al culto, i paramenti da indossare, le formule da recitare, il ricorso alle processioni ed ai riti propiziatori, gli esorcismi, gli orientamenti astronomici degli edifici, tutto quanto riguarderà in seguito la religione cristiana, era stato in precedenza parte di una liturgia e di una serie di culti più antichi. Risalenti a molti millenni prima. E siccome abbiamo accennato a quale era la tendenza culturale all'inizio del Neolitico, risulta chiaro che tutta l'antichità era ricolma di cultura collegata alla donna e alle funzioni tipicamente femminili.
Non a caso la divinità più famosa ed anche più potente durante il Neolitico fu Astarte. La Regina degli dèi. La Signora dei Cieli. Con i nomi di Inanna, di Ishtar, di Neith, di Iside fu presente ovunque. Ovunque c'erano riti e culti che riguardavano la donna. Ovunque ci fossero edifici preposti a regolamentare la prostituzione sacra, ovunque ci fosse da assistere le partorienti e le puerpere, ovunque c'era da favorire la fertilità, ebbene lì c'era sicuramente il culto della dea Ishtar/Astarte o per meglio dire della Regina degli dèi o Signora del Cielo e degli Animali.
Questa dea, potente e riverita, laddove non era presente direttamente, si faceva sostituire dalle sue sacerdotesse. Come detto in precedenza, era una dea venerata anche in Sardegna, seppure in forma sobria. Ma la sua relazione con la terra di Sardegna era soprattutto legata alla dea-Madre. Quest'ultimo non era un culto alternativo a quello verso la Signora dei Cieli, ma complementare. Qual'è il motivo per cui ancora oggi si riscontrano in varie parti della nostra isola credenze e istanze di devozione verso la Signora del Carmine, di Gonare, del Carmelo, del Rimedio e via discorrendo?
La Signora originale, autentica, non poteva certo trattarsi della Maria Vergine, madre di Gesù. E no. La Maria rappresentata dal cristianesimo venne diversi millenni dopo l'autentica Signora dei Cieli. Maria era una fanciulla umile, docile e devota. Al punto da essere affidata e assegnata al tempio in tenera età, fino a quando non raggiunse l'età critica di ogni ragazza. E si racconta persino che venisse nutrita da un angelo. La storia di Maria Vergine è senz'altro rimarchevole e intrigante. Per via del fatto che molto verosimilmente fu proprio la Signora dei Cieli e la Regina degli dèi a prendersi cura di lei e in seguito di Gesù. Non a caso tutti gli autori dei Vangeli apocrifi sono concordi nell'attestare che Gesù non era figlio del dio ebraico. Infatti Gesù non piacque mai ai Giudei, come non piacque sua madre, la Vergine Maria. Perché anche i Giudei sapevano benissimo che erano entrambi di natura divina, ma appartenenti ad una divinità che professava tutt'altre cose che non il loro Jahvè. Il quale, se voi ricorderete, era ed è tuttora classificato come un dio dispotico, irascibile, vendicativo e fazioso. E aggiungiamo noi, anche misogino.

LA VERGINITÀ DELLE ORIGINI
Tutti i santuari in origine erano gestiti da giovani vergini. Alcune esercitavano il ruolo di sacerdotesse, altre quello di profetesse o indovine. Altre ancora si occupavano di amministrare o semplicemente custodire il tempio. E di loro pertinenza rimasero per decine di secoli. Accadde poi che, con il cambiare delle “correnti politiche e militari”, mutò anche il “clima culturale”. E le donne, come detto in precedenza, vennero estromesse da tutti i luoghi di culto, e gli venne persino impedito di accedere a qualunque carica pubblica, a meno che non provenissero o dimostrassero discendenza divina o sangue reale. Che poi la nostra Isola non abbia conosciuto mai atteggiamenti di aperta ostilità da parte degli uomini verso la donna lo dice tutta la letteratura antropologica. Per cui la donna risulta essere sempre stata considerata, se non alla pari dell'uomo, senz'altro figura importante e determinante nel sostegno e nella conduzione del clan e della comunità. E come altre popolazioni del passato anche in quella sarda le donne avevano accesso alle conoscenze di carattere esoterico, nonché terapeutico e ginecologico.
Purtroppo, nel corso dei secoli, tutto quel corpo di atti e riti che riguardavano la donna o che la vedevano protagonista, vennero ricondotti e relegati nel campo della magia  e della stregoneria. La donna, da creatura associata alla dea (sua prediletta o sua discepola), diventa la creatura preferita (e schiava) del demonio. Nel corso degli ultimi secoli, una volta superati questi preconcetti si è avuta la premura, da parte delle istituzioni, di ricondurre e relegare i fermenti delle “vergini arcaiche”, al campo della superstizione. Aspetto che rincuora le femministe progressiste attuali, avide di novità tecnologiche, ma che irrita quelle donne che sentono di avere un'indole autenticamente femminile, come le loro antenate del Neolitico. Per molte donne, il modo migliore di sostenere la parità con gli uomini, non è quella di sfidarli nei loro territori, in cui risultano da sempre perdenti, bensì di ritornare ad occuparsi di quegli ambiti cultuali e culturali in cui furono un tempo le invincibili e impareggiabili guide.
Anche se vere e proprie religioni non ne esistevano, durante il Neolitico, esisteva comunque già la distinzione tra gli elementi che costituiranno il nocciolo del concetto stesso di religione. Ossia la distinzione tra sacro e profano. Profano era tutto ciò che dalle divinità veniva concesso in uso agli uomini. E di cui essi potevano abusare. Sacro era invece ciò che non poteva essere usato dagli uomini, senza il ricorso ad un codice di prescrizioni precise e severe, impartite direttamente dalla divinità. Infatti, la parola sacro, stava a significare, nell'antico semitico:  “separato da... e destinato a...”. Non senza motivo giustificato la nostra Isola venne anticamente definita sacra, in quanto “separata” dal resto del continente, tramite il mare, e destinata ad ospitare qualcosa di unico e di irripetibile. Qualcosa in cui furono espressamente le donne a primeggiare. Ecco da dove proviene il loro carattere fiero e la loro  inestinguibile ostinazione.

TRACCE ARCHITETTONICHE E CULTURALI DI DIFFICILE INTERPRETAZIONE
Uno dei motivi per cui gli archeologi non rilevarono alcuna coerenza nei popoli del Neolitico, che apparivano e scomparivano qua e là, senza apparenti spiegazioni, risiede nel fatto che i gruppi umani, nella maggior parte dei casi, venivano guidati da un'élite di eroi e mai venivano lasciati al proprio destino. Anche il popolo ebraico, prima con Abramo e poi, alcuni secoli dopo, con Mosè veniva guidato e istruito. E la nostra Isola fu uno dei luoghi  prescelti (e preferiti) per creare e istruire nuovi gruppi umani e predisporli ad affrontare il mare e colonizzare altre regioni. Molti dei nostri antenati, infatti, divennero condottieri e pionieri. Parte del nostro DNA, come vedremo, è andato ad arricchire i geni di altri popoli, sparsi ovunque. Lo stesso verrà detto e dimostrato a proposito del nostro idioma.
Si dice che in origine alcune divinità “scesero” sulla Terra, dedicandosi a trasmettere agli uomini i primi rudimenti delle arti e delle tecniche, in luoghi consoni e adeguati al tipo di attività che andavano insegnando e certamente anche adeguati al loro rango. Pensiamo a luoghi come Malta (che è costellata di grandi templi), Gerico (che era cinta da mura difensive larghe quattro metri), Çatal Hüyük, in Anatolia (dove esisteva un ambiente destinato a sala-parto), Sias, in Egitto (dove nel tempio dedicato a Neith veniva custodito il primo codice medico in assoluto relativo alla ginecologia), il Sinai, (dove vennero trovate quantità di polvere di scarto di lavorazioni metallurgiche). Questi erano tutti luoghi dove le divinità, direttamente o per tramite di alcuni alfieri ed araldi svolgevano o seguivano o pianificavano le loro attività ed i loro interventi. E la Sardegna era uno di questi luoghi.
Un'isola geologicamente stabile, ricca di flora e di fauna. Un'isola abbastanza vasta da poter essere colonizzata e utilizzata per svolgervi attività anche di un certo rilievo, senza che altri popoli potessero interferire o essere di disturbo. I dati in possesso degli studiosi indicano che la nostra ossidiana fu la prima a viaggiare lontano; che la flotta navale della Sardegna fu per alcuni millenni del Neolitico la più grande e potente del Mediterraneo; che la lavorazione della ceramica era conosciuta e praticata; che metallurgia si era sviluppata in Sardegna, al pari dell'Anatolia, molto prima che nel resto degli altri luoghi abitati, in Europa e nel Mediterraneo, e raggiunse anche un grado di eccellenza considerevole, tanto da essere trasmessa ad altri popoli.
Quello che finora abbiamo detto ci autorizza a sostenere, molto prosaicamente, che le divinità altri non erano se non i precettori dei nostri antenati. Ed erano obbligate o vincolate a indirizzare e correggere la condotta umana. Non solo in termini morali e religiosi, ma sopratutto in termini materiali. Qualcuno, col sorrisino tra le labbra, dice che io credo agli omini verdi. Sorrido anch'io. Perché chi parla di omini verdi è qualcuno che guarda troppa televisione. Anni di ricerche compiute da studiosi di tutto il mondo ormai confermano che gli dèi erano i componenti di una élite in possesso di conoscenze evolute. A proposito di televisione, apro una parentesi e cito un passo di Alberto Angela, il noto commentatore scientifico:
Siamo costretti a dire che sono stati i nostri antenati a realizzare queste grandi opere [della preistoria], altrimenti dovremmo ammettere che ci fu una civiltà più evoluta, prima della nostra.
Questa frase (Rai 3 – dicembre 2012), dimostra chiaramente che anche gli studiosi che fanno televisione professionalmente hanno capito quali conoscenze servissero per costruire alcune fra le più grandi opere megalitiche e monumentali della preistoria ed espressamente del Neolitico. Eppure, nonostante si sia chiaramente capito che ai nostri antenati venne consegnato (di proposito) un corpus di conoscenze tecniche non indifferenti, questo viene tenacemente negato a livello scolastico e accademico.
I nostri antenati non inventarono la religione, non inventarono alcun concetto di sacro e non inventarono neppure alcuna scienza astronomica, né alcun processo di fusione dei metalli. Così come non inventarono l'arte della navigazione o delle geometrie e delle proporzioni artistiche ed architettoniche. Vennero istruiti gradualmente a farlo e gli venne, per certi versi, imposto di fare quelle cose. Quelle e non altre. Ecco perché gli studiosi hanno notato secoli e millenni di vuoti nell'evoluzione. Perché i nostri antenati avevano dei vincoli. Talvolta gli venivano richiesti, tal altra gli venivano imposti.
Solo un popolo istruito all'arte della metallurgia e della navigazione, oltre che dell'architettura megalitica, poteva concepire e realizzare un progetto ambizioso, come quello che ci viene tramandato attraverso i nuraghi. E si trattava di un popolo o di diversi popoli confluiti in una civiltà evoluta, quella nuragica, che fece l'invidia di tanti altri popoli. Gli esperti hanno paura di indagare la vera epoca di costruzione dei nuraghi perché avrebbero l'amara sorpresa di scoprire che già c'erano prima che l'Egitto e la Mesopotamia sviluppassero le loro civiltà. E questo per tanti di loro sarebbe molto imbarazzante.

LA DEA MADRE E L'ENIGMA DEI NURAGHI
Giorgio Baglivi ipotizza che inizialmente, nella prima epoca nuragica, doveva esserci una sacerdotessa, la dea-jana , che officiava un qualche rito. Figura quindi che avrebbe fatto partire tutta la simbologia che dominò successivamente per intero l'epoca nuragica. Se così fosse rimarrebbe da chiedersi da chi vennero ideati i nuraghi ed a chi ne venne commissionata la costruzione? A questa domanda io non do di proposito una risposta, perché certezze in merito non ne abbiamo. Ammetto tuttavia, con una certa dose di coraggio, che tutta la complessa vicenda dei nuraghi, mi sembra che non abbia niente a che fare con alcuna delle ipotesi finora formulate, da un secolo a questa parte.
La maggior parte degli studiosi del XX secolo, forse “annebbiati” o “sedotti” dalla prospettiva culturale maschilista degli ultimi due-tremila anni, hanno a mio giudizio contribuito a perpetuare alcune inesattezze. Come primo  assegnando ai nuraghi una datazione troppo recente (senza riuscire a dimostrare il perché, se appartengono ad un'epoca così recente, nessuno ne tramanda una spiegazione funzionale univoca). Per secondo dimenticando che in epoca arcaica i motivi culturali dominanti erano altri da quelli moderni. Dopo che alcuni influenti studiosi hanno capito di essersi infilati in un vicolo cieco, non sapendo che altro dire, sono giunti alla conclusione  che i nuraghi fossero strutture poli-funzionali (così come sostenuto da Maria Ausilia Fadda, ex sopraintendente ai Beni Culturali di Sassari e Nuoro). Io penso che il solo dare una definizione del nuraghe come di un edificio poli-funzionale, cioè adatto a tutto e a niente, dimostra la faciloneria e la superficialità con cui questi argomenti sono stati trattati  in passato.
Una volta escluso l'utilizzo a scopi militari, per anni si è ritenuto che i nuraghi fossero dei mausolei, dove erano stati sepolti gli eroi. Parallelamente a questa ipotesi, altri studiosi hanno ritenuto più plausibile ipotizzare che i nuraghi fossero veri e propri santuari. Nel mio libro, anche io considero i nuraghi dei santuari. Ma li definisco come “gli unici santuari al mondo che le divinità dedicarono agli uomini e non viceversa”. E stiamo cominciando a capirne il motivo. Intanto, per ora, cerchiamo di capire come è stato definito e interpretato il nuraghe in relazione alla dea-Madre. Così si esprime Giorgio Baglivi:
Il Nuraghe, tempio della Dea, era la trasposizione sul piano simbolico del corpo della madre reale (...) Il dormire presso il             Nuraghe soddisfaceva, in una sorta di salutare surroga simbolica, il desiderio del dormire accanto al corpo della madre reale            (...)  La Tholos, corpo solo simbolico della Grande Dea aniconica, soddisfaceva il desiderio proibito senza far avvertire al       supplice sensazioni di pericolo...
I nuraghi, a parte piccole divergenze o varianti, sono stati costruiti con uno schema ben preciso. Effettivamente, con la loro planimetria e volumetria, ricordano la forma dell'utero materno. Non dovrebbe perciò sorprenderci, come rilevato da molti autori, che i nuraghi siano stati centri di culto in onore della dea-Madre. Ma non vennero originariamente costruiti come centri di culto.
Tuttavia è stimolante l'ipotesi che i nostri antenati potessero sentire il bisogno di chiudersi dentro i nuraghi per provare, come scrive Giorgio Baglivi, la soddisfazione simbolica “del ritorno nel grembo materno.” Ma se questo avveniva sul serio, quale ne era il motivo? Difendersi dalla malinconia o dalla rassegnazione, rinchiudendosi in un luogo se mai ancora più lugubre? Improbabile. Forse per via del fatto che i nuraghi ricordavano la forma dell'utero? Quindi i nostri antenati (o per meglio dire i veri autentici costruttori) si intendevano anche di anatomia? Non sarebbe forse più plausibile pensare che dentro i nuraghi (almeno quelli più complessi) la Venere obesa o pingue, di cui tanto rimane traccia nelle statuine fittili, assolvesse il compito per cui era chiamata a operare?
Ma andiamo avanti. Cerchiamo di azzardare qualcosa di più interessante. Personalmente concordo con l'ipotesi che i nuraghi fossero edifici che, riprendendo la definizione di Giorgio Baglivi, assolvevano la funzione di “sacro bozzolo litico”.
L'intera Isola era ritenuta un grembo, eternamente prolifico e rigenerante, grembo divino dal quale la vita perennemente    risgorgava, ma sotto forma di frammenti sempre mortali della finitudine. Unica immortale era la Dea.
Quindi, detto molto prosaicamente, ma anche in modo fermo e categorico, l'epoca dei nuraghi inizialmente fu intrisa (per non dire interamente impregnata) di elementi relativi alla donna e ai compiti che le sono più naturali e familiari: sessualità-fecondità-procreazione. Portare al mondo... dare alla luce... Quanto di più delicato, di sacro e di affascinante (oltre che misterioso) possa esistere per l'uomo, ed in particolare per la donna. A lei, infatti,  per i compiti che doveva espletare, le vennero messi a disposizione questi edifici ciclopici: robusti, inviolabili e sicuri, che sono i nuraghi.
Solamente dopo, molto tempo dopo, quando gli echi della loro funzione originaria si erano assopiti (ovvero a margine di quello stesso processo), nacque, si estese e si radicò, attorno al nuraghe, un qualche altro culto, minoritario o residuo. Ci riferiamo all'arte della guarigione o della divinazione. Ma erano attività che facevano parte di un quadro professionale a cui avevano accesso solo pochi individui qualificati. Che senso avrebbe avuto erigere 8.000 nuraghi, tutti a scopo metallurgico, o tutti a scopo astronomico, o tutti quanti a scopo difensivo o monumentale? Meno che mai avrebbe avuto senso costruirli per dedicarsi ad un'attività oracolare o medica o sciamanica? Ne sarebbero bastati alcune dozzine in tutta l'Isola. E comunque sarà il caso di ricordare come ciascun tipo attività umana, da che mondo è mondo, prevede un ben determinato ambiente. Non si possono confondere o mescolare. Gli archeologi questo lo sanno bene. La Sardegna con i nuraghi rappresenta un eccezione. Infatti, essendo ripetitivamente identici dovevano per forza assolvere identica funzione.

SESSUALITÀ E SACRALITÀ
Da alcuni secoli a questa parte non ci potrebbero essere due argomenti più antitetici tra loro, se non quelli relativi alla sacralità e alla sessualità. Ma in origine sessualità e sacralità erano argomenti assimilabili. Affondavano le loro radici nello stesso terreno. Erano complementari l'uno all'altro. Questo binomio è durato fino al tardo Medioevo, epoca in cui i Conquistadores vennero a sapere di strani resoconti sulle Vergini del Sole, vale a dire le sacerdotesse che vivevano a Vilcabamba (Machu Picchu) in un luogo impervio e inaccessibile della foresta peruviana. Il loro compito era (o meglio avrebbe dovuto essere) quello di ripopolare il mondo in caso di catastrofi. Ma all'epoca in cui gli Spagnoli ne sentirono parlare la città era già stata abbandonata ed i suoi resti, sepolti, tornarono alla luce solo nel 1911. Ebbene, per quanto il parallelo possa sembrare azzardato, la Sardegna ebbe proprio la stessa funzione. Ospitare delle Vergini con il compito di ripopolare il mondo. Ed i nuraghi furono costruiti per ospitarle. Il luogo, in apparenza angusto e lugubre, dove le sacerdotesse si prendevano cura delle “dee-madri” incaricate di mettere al mondo le nuove generazioni di uomini dopo il Diluvio.
I nuraghi ebbero questo scopo. Altrimenti non sarebbero stati così numerosi, così robusti e così uniformemente simili e se vogliamo, non sarebbero così densamente distribuiti su un territorio così piccolo come la Sardegna. Per di più un'Isola. Se non ci fosse stato alcun diluvio attorno all'11.500 a.C. non ci sarebbe stato bisogno delle Vergini del Sole in Perù e neppure dei nuraghi in Sardegna.
Questo processo storico o preistorico, giustifica e spiega il perché noi sardi, pur vivendo isolati, siamo composti di diversi gruppi, non totalmente assimilabili gli uni agli altri, ed abbiamo stampate in originale nei nostri cromosomi tracce che si riflettono nel patrimonio genetico di altri popoli. Non sono stati questi ultimi a darci l'impronta del DNA, in quanto è inverosimile pensare che popoli non dediti alla navigazione potessero impunemente e facilmente giungere nell'Isola, in così gran numero. Inoltre è stato appurato dagli studi, che il nostro è un corredo genetico più arcaico degli altri popoli europei e mediorientali. E quindi cadono anche le pretestuose ipotesi secondo cui noi sardi siamo un coacervo di tracce genetiche lasciateci in eredità da altri popoli. Come potevano popoli saliti alla ribalta dopo di noi (che probabilmente conoscevano la nostra Isola solo per sentito dire), trasmetterci o consegnarci un patrimonio genetico a “pelle di leopardo”? Le tracce genetiche e culturali dei nostri antenati sardi sono sparse ovunque. Sono inconfutabili e indelebili. Popoli che nacquero nella nostra isola, dove vennero in buona parte istruiti e poi mandati a colonizzare altre regioni. Ne citiamo solo alcune a titolo esemplificativo: le Baleari (Spagna), il Wessex (Inghilterra), l'Epiro (Grecia), Creta (Mare Egeo), gli Apennini (Villanoviani ed Etruschi). E altri che poi vedremo o che potrete vedere scorrendo le pagine del mio libro. Anche Etzi, la mummia risalente a 5.000 anni fa, rinvenuta fra i ghiacci delle Alpi, presentava tracce di DNA sardo.

SULLE ORME DI DIO
Siamo dunque arrivati ad avere un'idea più chiara di chi era realmente la dea-Madre e per quale motivo le statuette fittili, in pietra, a lei dedicate si trovano in così grande numero nell'Isola. In virtù di tutte quante le argomentazioni qui riportate, potremo cominciare a dire che il culto verso talune divinità della preistoria umana non venne imposto, ma si venne affermando in relazione alle facoltà e ai poteri che la divinità stessa esprimeva o mostrava. Le liturgie poste in essere in occasione di particolari giornate festive, non necessariamente erano da considerarsi espressione o atti di venerazione nei confronti della divinità, quanto piuttosto eventi favorevoli a rinforzare il legame che univa la vita ed il corso ciclico delle stagioni. Queste occasioni vennero fatte coincidere con la devozione nei confronti della divinità. Ma apparentemente, solo più tardi. Come avvenne per l'ultima cena di Gesù, tramandata dal cristianesimo nella frase: “Fatte questo in memoria di me”.
Il problema di condensare entro un codice comprensibile i complessi elementi che ruotano attorno ai misteri che le divinità ci hanno lasciato ha creato le basi per concettualizzare e istituzionalizzare il fenomeno religioso. Alla religione non è mai (ne mai sarà) concesso di assurgere al ruolo di scienza, perché sembra esistere un tacito accordo fra le parti. La scienza si occupa di cose tangibili  e la religione di cose immateriali. Eppure, che fosse stata la religione a preservare e tramandare alcune conoscenze sul mondo sovrasensibile (ma intimamente umano) lo si evince dal rango in cui venivano collocati gli appartenenti alla classe sacerdotale.
Per convenzione la religione ha il compito di attuare una mediazione tra gli uomini e le potenze sovrumane. Abbiamo appena tempo e spazio per semplificare il discorso dicendo che alcuni degli elementi più importanti su cui ruota (e su cui fa leva) la religione sono: la ricerca di protezione, la devozione, l'espiazione. Tralascio il discorso sulle immagini e sui simboli perché ne sono inflazionate le pubblicazioni in materia.
→ Una delle cose che ci accomuna ai nostri antenati è proprio l'insicurezza di fondo della vita. Ecco il perché dell'interesse della gente per la salute (e quindi per la medicina) oppure per la fortuna (e quindi per l'astrologia). Persone che continuano a cercare sicurezza e felicità nel benessere, quindi confondono il possesso di beni materiali con la possibilità di sentirsi più in alto, piuttosto che più sicuri dentro. Ma la sicurezza e la felicità non sono in un posto o in un individuo o in un lavoro anziché in un altro. Sono ovunque.  Lo spirito e la curiosità, ad esempio, si possono far ringiovanire mentre si invecchia. Ed era per lo più questo il messaggio che gli dèi trasmettevano ai primi uomini. Ma la gente, in generale, non impara nessuna lezione dalla vita, perché non ha certezze nei suoi confronti. Non almeno quante ne chieda e ne aspetti. E quanto più va alla ricerca di sicurezza tanto più trova delusioni, spesso anche cocenti. I governanti e gli esperti sembrano poter aiutare la gente a stare meglio. Ma come dico nel mio libro: “per quanto i governi si guarniscano di strumenti tecnici e normativi adeguati per garantire lo sviluppo sociale e la sicurezza delle persone, queste ultime nel privato trovano sempre più difficile gestirsi le loro stesse singole esistenze.”
→ La devozione riguarda e coinvolge quelle persone abbastanza aperte, fiduciose, capaci di reciprocità nei confronti del prossimo e dell'ambiente circostante. Si può essere devoti in ogni senso, con qualunque riguardo. In tal senso potremmo assimilare l'idea di devozione a quella di gratitudine. Elemento questo che ricorre spesso nel rapporto verso il soprannaturale. Gli Etruschi, ad esempio, ritenevano che tutta la realtà avesse connotati divini. Dalla più piccola alla più grande delle cose, anche inanimate. Vivevano allegramente e senza inibizioni. Chi intravede più sicurezze nel suo ambiente o ricerca un ventaglio di soluzioni più ampio ai problemi è destinato in  prospettiva anche a trovare sempre soluzioni migliori. Non a caso gli Etruschi lasciarono in eredità ai Romani molti temi culturali, artistici e architettonici di notevole interesse.
→ L'espiazione è un atteggiamento ma anche una prerogativa che riguarda principalmente i profeti ed mistici, ed in generale coloro che risultano capaci di ritagliarsi gli spazi e le esperienze anche in assenza (o senza  l'ausilio) dei propri simili. È l'elemento religioso più ambiguo e sconcertante. Quello da cui tutti vorrebbero rifuggire. Da secoli risulta l'elemento più imbarazzante anche per la Chiesa cattolica. Costretta a farne richiamo pur sapendo che può nuocere alla sua stessa immagine, in quanto ne mette in pericolo la credibilità.
In epoca moderna e contemporanea siamo portati a considerare l'espiazione (sacrifici, penitenze, contrizione) come un mortificante residuo di antichi riti pagani, suggeriti da feroci e perverse credenze. Ebbene, le cose non stanno esattamente in questo modo. La nostra specie non ha il dono della chiaroveggenza. È qualcosa che forse gli era stata anche promessa, come testimoniano le sacre scritture, e poi rifiutata. A questo problema si cercava di ovviare con gli oracoli. Quando le divinità invitavano e consigliavano vivamente gli offerenti, in genere erano i loro stessi alfieri o araldi, non lo facevano per tornaconto proprio, ma per placare l'ira di un destino che si preannunciava nefasto. Questo è uno dei motivi, ma non l'unico, per cui le divinità ebbero premura di insegnare ai nostri antenati l'astrologia e la divinazione. Il dio che si suppone avesse in mano “le tavole del destino” era Enlil, a cui si attribuisce anche l'irresponsabile e insano gesto di aver provocato il Diluvio. Risulterebbe quindi che Jahvè sia la rappresentazione ebraica del citato dio mesopotamico.
Nel Vangelo apocrifo di Filippo si legge:
Dio è un divoratore di uomini. Per questo l'uomo gli è immolato. Prima di immolare l'uomo gli si immolavano gli animali, perché non erano dèi, quelli a cui si facevano sacrifici. (Vangelo di Filippo)
Si può rimanere atterriti o attoniti dal considerare i sacrifici cruenti che venivano compiuti nell'antichità. Ma a ben guardare la tecnologia di oggi provoca molte più vittime di quante non ne abbiano mai provocate i sacrifici cruenti degli ultimi millenni. Nella favola de Le mille e una notte la strategia di Sheherazade funziona. Riesce a sfuggire alla truce voracità del sultano, che ambiva ad avere ogni notte una moglie vergine, dilazionando i suoi racconti in varie tappe narrative che le consentono di beneficiare della clemenza e gratitudine del sultano. Questa favola, al pari di molte altre, contiene le sue metafore, i suoi messaggi criptati. 
Per quanto autorizzati a ritenere poco attendibili gli strani racconti pervenutici dal passato, a proposito di questi fatti ebbene, anche se essi rappresentavano l'eco un po' annebbiato di eventi enigmatici, evanescenti e misteriosi, non per questo essi smisero di influenzare la vita delle persone e dei popoli, nei secoli successivi. E dunque, indirettamente, di catturarne l'attenzione e la curiosità. Utilizzando questa chiave di lettura del problema, diventa necessario procedere anche ad una revisione dei tophet (praticati in Sardegna in epoca fenicio-punica). Erano rituali macabri, rozzi e violenti, che sostituivano precise raccomandazioni a carattere apotropaico o cautelitivo, che erano andate perse nel corso dei secoli. Ma non ovunque. Presso alcune popolazioni semplici che vivono nelle foreste o nelle isole del Pacifico si cerca, ancora oggi, di evitare l'espiazione (per colpe effettive o presunte) attraverso il dono e la reciprocità. Un insieme di offerte simboliche che non ha più come riferimento diretto la divinità, ma il vicino di casa, gli abitanti del villaggio, i gruppi confinanti. Offrire al prossimo in segno di prosperità e di buon auspicio. Esattamente quello che pure  la chiesa consiglia di fare ai suoi fedeli.

SULLE ORME DEL SACRO
I canoni, i moduli e gli schemi relativi alla poesia, alla danza, al canto, alla musica ed ai giochi sportivi che sopravvivono in Sardegna sono pochi. Ma si sono così bene conservati e tramandati, da secoli, forse da millenni, al punto da avvalorare l'ipotesi che in ambito artistico e culturale, oltreché navale, metallurgico e architettonico, noi sardi fummo per davvero dei precursori. L'amore per la musica, per la danza, per la poesia improvvisata, spesso cantata ritmicamente, altre volte come salmodiata. Nella nostra isola sono inclinazioni radicate e diffuse nel carattere della gente. Tanto da confermare le analisi e le ipotesi formulate a suo tempo da Robert Graves e Walter Friederich Otto. Le rime e le strofe, i ritmi e le cadenze, non sono altro che tracce ben conservate di un insegnamento di “origine divina”, che nacque per unire alle caratteristiche estetiche quelle pratiche. Insegnare ai nostri antenati a parlare, esercitando la memoria, in assenza di scrittura (che sarebbe venuta molto dopo).
Gli storici e gli archeologi sono rimasti accecati dalle grandi opere megalitiche e faraoniche del passato. Ma erano in errore. Fondamento culturale della nostra civiltà è tutto questo insieme di nozioni apparentemente banali, rudimentali e frammentarie. Ma che invece rappresentano le basi dei primi idiomi, dei dialetti, delle lingue. Inclusa la vasta gamma di significati simbolici. Motivo per cui formule e preghiere antichissime, essendo contenuti ascrivibili ad una conoscenza elevata, e quindi sacra, vennero conservate, tramandate e utilizzate anche dalle prime religioni.
Che tutto questo processo si sia svolto nei tempi e nei termini poc'anzi citati è la ricerca scientifica seria a dimostrarlo. Per quanto strano a dirsi le lingue corrono ancora oggi parallele al nostro codice genetico. Il che significa che le origini di un gruppo e della relativa lingua spesso coincidono. Rimandano agli stessi luoghi e alla stessa epoca di formazione. Tra geni e idiomi si nota una evidente concordanza. Ad affermarlo per noi sardi sono gli studi di Giuseppe Vona e Maria Elena Ghiani. Ma sono ipotesi confermate da un genetista del calibro di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il quale sostiene l'esistenza di una indiscutibile “correlazione tra lingue e geni”  che si trascina nel tempo in misura estremamente evidente e rilevante, nonostante il rimescolamento dei gruppi umani lungo il corso dei secoli.
I balli, i canti, la poesia, la musica, l'armonia. I temi con cui abbiamo iniziato. Temi che contengono qualcosa di religioso e al tempo stesso di sacro.
 → Contengono qualcosa di religioso in quanto sono un insieme di attività che aiutano a mettere in contatto le persone in modo festoso; ad introdurle al sovrannaturale; ad avvicinarle alla natura e alle altre creature viventi. Tuttora le religioni fanno dei ritmi e dei canti, nonché della musica e delle strofe salmodiate la loro base liturgica. Con una ricchezza di contenuti emotivi ed evocativi molto pronunciata. Noi esseri viventi siamo biologicamente e psicologicamente predisposti per queste attività. Non c'è altra spiegazione. Anche la scienza è costretta ad ammetterlo. Canto, danza e musica sono elementi che hanno a che fare con le frequenze e le pulsazioni della vita. Che contribuiscono a favorire l'armonia e l'energia vitale degli organismi. Chi si dedica ad attività sportive ed agonistiche sa (o dovrebbe sapere) che il ritmo cardiaco, quello respiratorio ed il tono dei muscoli devono venire a trovarsi, di preferenza, in equilibrio e in sintonia. Solo in tali condizioni il corpo può dare il meglio.
→ Contengono qualcosa di sacro in quanto sono elementi che non si possono mescolare o confondere con la quotidianità e con le fatiche più dure della vita. Sono un'alternativa o se vogliamo una pausa in mezzo ai tormenti. Una pausa di piacere, di calore, di rigenerazione. Dunque, nei limiti del possibile, un momento da offrire alle divinità. Le quali evidentemente gradivano. Molte divinità delle epoche arcaiche sono state raffigurate a stretto contatto con gli animali. Agli animali piace la musica. Alcuni di essi si lasciano incantare dalla musica. Questo significa che uno dei linguaggi universali che accomuna, in generale, tutti gli esseri viventi, è la musica. Lo sanno bene i brasiliani, le popolazioni di colore dell'Africa, e lo sappiamo bene anche noi sardi. Scopo della religione sarebbe questo. Aiutare a vivere senza affaticarsi e senza sentirsi oppressi.

Canto, ballo e musica sono forme artistiche che procurano gaiezza ed euforia. Dunque non potevano non essere viste nella loro dimensione sovrumana e sovrannaturale, e quindi facilmente associabili ad una funzione sacra. Di conseguenza non potevano neppure sfuggire alle regole, per cui ebbero (ed hanno tuttora) un loro codice di espressione contraddistinto dalla sobrietà e dalla serietà. Inevitabilmente entrarono a far parte, a pieno titolo e per lungo tempo, anche del patrimonio culturale e dell'immaginario collettivo della civiltà nuragica sarda. Una civiltà alla quale andrebbero riconosciuti i meriti che le competono.
Come detto gli esperti hanno paura di indagare la vera epoca di costruzione dei nuraghi perché avrebbero l'amara sorpresa di scoprire che già c'erano prima che l'Egitto e la Mesopotamia sviluppassero le loro civiltà. E questo per gli studiosi sarebbe molto imbarazzante, perché metterebbe la civiltà sarda qualche gradino più sopra, nella scala evolutiva del Neolitico. Dunque ho l'impressione che fino a quando gli esperti manterranno ferma l'idea e la convinzione che i nuraghi sono stati eretti tra il 1.800 ed il 1.200 a.C. non faremmo nessun passo avanti nel dimostrare la vera natura dei nostri antenati.
In realtà il II millennio a.C. si caratterizza per essere un'epoca durante la quale la religione scade di importanza o comunque si trasforma, per assumere un carattere naturalistico, ossia riferito agli elementi della natura, i quali si riteneva ospitassero e rivelassero lo spirito divino. Ma a partire da quel momento avvenne lo stesso anche presso altri popoli. Ed era se mai un riflusso, un ritorno alle origini. Un indulgere verso quell'estroverso mondo che aveva contrassegnato l'epoca della Grande dea-Madre. Gli Etruschi, gli stessi Greci, gli apostoli gnostici, ed in seguito anche molte figure di santi, intendevano la religione allo stesso identico modo dei sardi. In modo personale, trascendentale, misterioso e anche mistico. Riconoscendo che gli elementi che aiutano l'uomo a confrontarsi e dialogare con Dio non sono esclusivamente quelli definiti o indicati dalle istituzioni, ma dalla natura stessa. Quindi l'acqua che scorre nei torrenti, la legna che arde sul fuoco, le nuvole che passeggiano in cielo, la fauna e la flora che animano i boschi ed i prati, le pietre e le rocce messe in mostra fra i rilievi delle montagne.
La cosa più sacra, oggi come ieri, rimane la vita. Quindi la scansione della vita, oggi come ieri, passa per eventi collegati ad essa: nascita, battesimo o rito iniziatico equiparabile, matrimonio, sessualità... e di nuovo nascita, istruzione, socializzazione... fino a quando il ciclo si completa e ricomincia. La vita va espressa, va sopportata, ma va anche guarnita. Di bellezza e di bontà. Va inoltre mantenuta pura. Tutti temi che anticamente rientravano tra le cose definite sacre dai nostri antenati. La sacralità della vita sta anche nella gioia con cui si trasmette e si riceve. La naturalezza  e la spontaneità sono elementi che caratterizzano positivamente ancora le società semplici che vivono di cose semplici, allo stesso modo in cui hanno sempre saputo fare anche i sardi. In Sardegna, come messo in luce dagli studi della etnologa Clara Gallini, le feste principali permettono alle persone di blandire e addolcire l'astio, le inimicizie e le invidie reciproche, attraverso il consumo di pasti comunitari, abbondanti libagioni, canti e balli protratti fino a notte fonda. Non a caso il titolo della sua ricerca era piuttosto emblematico: Il consumo del sacro. Sacro è tutto ciò che consente all'uomo di accrescere la meraviglia dell'esistenza e per analogia di tutto il creato.

CONCLUSIONI
Nella preistoria umana niente è accaduto per caso, neppure le scoperte più semplici. Ciò che gli dèi trasmisero agli uomini era autenticamente intriso di saggezza. Ed è questo il motivo per cui i miti ed i testi sacri evidenziano come gli uomini venissero di continuo rimproverati, avvertiti e lungamente consigliati di avere riguardo e discernimento. Di come venissero invitati, se mai, a vivere in maniera sobria e naturale. Possibilmente in un ambiente incontaminato ed attraverso uno sviluppo sostenibile. Questo è il segreto che tutelano e al tempo stesso l'invito che ancora oggi rivolgono le grandi religioni del mondo ai popoli. Questa era e rimane la sacralità espressa dai sardi, fin dalle origini. Nel mio libro, esattamente a pagina 94, io scrivo:
In definitiva, la Sardegna mostra di avere più cose in comune con le società semplici ed egualitarie, anziché con quelle sviluppate. Due le possibili interpretazioni: 1) i sardi non sono diversi, dunque si esprimono seguendo i normali schemi delle società elementari; 2) i sardi sono diversi, nella misura in cui vogliono e riescono a mantenersi ostinatamente identici all'impronta voluta dal fondatore.
E dunque, per quanto riguarda la nostra Isola, la tradizione di tramandare gesti e azioni o stili di vita in apparenza futili e antiquati, ci riporta indietro a quando evidentemente qualche divinità ebbe l'umiltà di insegnarci questi segreti. Se le danze ed i canti di cui abbiamo oggi parlato fossero il frutto di una commistione, o di un'evoluzione, durata secoli, questa commistione e questa evoluzione dovrebbero tuttora continuare, in modo caotico e dispersivo. Invece i nostri balli, i nostri canti, le nostre musiche sono quelle e non altre. Invariate e invariabili, da millenni. Lo stesso discorso vale per la nostra lingua, rimasta strana eppure unica ed anche incontaminata per millenni. Come indiscutibilmente originale rimane anche il nostro DNA. Se le radici genetiche della nostra stirpe affondassero in quei contatti casuali con altre genti, di cui ci parlano gli storici, per quale motivo dopo che iniziarono i veri traffici commerciali e gli scambi frequenti tra popoli, la nostra componente genetica e linguistica non è più cambiata ma continua, anzi ancora oggi, a mostrare testimonianze arcaiche che lasciano sorpresi e increduli gli stessi studiosi?

Nell'immagine: Il Nuraghe La Prisgiona di Arzachena


1 commento:

  1. Se si va all’articolo proposto in data 1 dicembre 2012 …
    …. Nello strato del XIV a.C. del nuraghe Arrubiu c’è il vespaio che i nuragici hanno preparato su cui costruire il monumento. Quando si scava un nuraghe vengono ritrovati oggetti della vita quotidiana e oggetti rituali, come nel caso del vaso ritrovato infilato negli strati più antichi. I nuragici hanno fatto un buco nel pavimento del XII a.C. e lo hanno inserito nello strato del XIII a.C. compiendo, probabilmente, un rituale di rifondazione del nuraghe. Forse c’è stato un cambio di società, o forse l’Arrubiu perse la funzione di controllo del territorio e divenne un luogo per la conservazione delle risorse. Proprio negli strati del XII sono stati trovati tanti dolii contenitori di cereali. Nello strato di base, quello del vespaio, si nota anche un altro rito nell’Arrubiu: hanno spaccato un vaso miceneo che, in base alle analisi chimiche delle argille, proviene da Micene o da Argo. Si tratta di un rituale di fondazione.

    Non credo che gli archeologi, di oggi, datino la fondazione del Nuraghe in base a quello che trovano dentro. Da quello che leggo, mi sembra di capire, lo datino in base a quello che c’è sotto.

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